L’ANARCHISMO EPISTEMOLOGICO DI P.K. FEYERABEND Lo sviluppo più radicale ed estremo di certe posizioni è presente nei saggi del filosofo viennese (ma trapiantato già intorno al 1950 in Inghilterra, poi anche negli Stati Uniti) Paul K. Feyerabend, nato nel 1924 a Vienna e deceduto nel 1994 in Svizzera. Allievo dapprima di Wittgenstein e poi più a lungo di Popper, legato in più modi a studiosi come Kuhn e Lakatos, Feyerabend ha sottoposto l'epistemologia neopositivistica a una critica impietosa che ha presto coinvolto l'intera tradizione razionalistica, non escluso il "razionalismo critico" popperiano. Dopo essersi fatto conoscere nella comunità filosofico-scientifica con una ricca serie di saggi poi raccolti in vari volumi (in particolare Il realismo scientifico e l'autorità della scienza , 1978, e I problemi dell'empirismo , 1980), Feyerabend ha conquistato una più ampia risonanza con un libro irriverente e provocatorio, intitolato emblematicamente Contro il metodo (1975). Negli anni seguenti egli ha approfondito non solo e non tanto i motivi più strettamente epistemologici della sua riflessione, quanto un'analisi della scienza dal punto di vista pratico-politico. Il sapere scientifico, di cui già prima lo studioso aveva sottolineato i contenuti pragmatici e 'impuri', viene ora essenzialmente esaminato come impresa tutta celata entro il tessuto sociale della realtà. Esso va valutato non tanto per i suoi presunti valori di conoscenza e verità 'oggettiva' quanto per i contributi che offre e, in misura non minore, per gli ostacoli che pone al progresso umano: un progresso interpretato non già, positivisticamente, come accumulo di certezze o, popperianamente, come approssimazione al vero, bensì come emancipazione sociale ed eticopolitica dell'umanità. I documenti più significativi di questo 'ultimo' Feyerabend sono gli scritti raccolti in La scienza in una società libera (1978), in Scienza come arte (1984) e in Addio alla ragione (1987). Nel corso della sua battagli contro l'epistemologia neopositivistica e razionalistico-popperiana Feyerabend ha toccato una cospicua serie di questioni teoriche. Quelle di carattere più generale e, insieme, di maggior rilievo sono forse le seguenti: a) l'effettiva natura e fisionomia dell'impresa scientifica; b) la necessità e i modi di un'interpretazione 'liberalizzata' delle procedure della scienza; c) il primato della teoria e la determinazione dei criteri di valutazione del sapere scientifico. Circa il primo punto, la polemica feyerabendiana contro la tradizione neopositivistica (e in parte popperiana) è particolarmente radicale. Per tale tradizione, afferma Feyerabend, la scienza è una costruzione esclusivamente teorico-cognitiva 'pura' caratterizzata dall'osservanza di principi procedurali ben precisi e invarianti (il cosiddetto 'metodo'), e da giudicare secondo criteri essi stessi teorici-'puri' e universali. La concezione epismetologica alternativa delineata dallo studioso austriaco è profondamente diversa. Per Feyerabend la scienza è anzitutto un'impresa per più versi 'impura', nel senso che è generata, nutrita e orientata da forti componenti storico-culturali, pratico-sociali e perfino ideologiche. Sono, insomma, interessi e fini reali molto più che astratti dettami teorico-epistemologici a guidare e sviluppare il cammino del sapere. In secondo luogo, tale sapere è in 'cammino' in senso pregnante. Mentre la tradizione razionalistico-popperiana ha disegnato un'immagine fondamentalmente univoca ed in-temporale della scienza vera, Feyerabend pone l'accento sulla dimensione temporale, dinamica e irriducibilmente plurale del sapere scientifico. E' da questo punto di vista che, contrapponendosi di nuovo in modo frontale a un ben preciso indirizzo epistemologico, il filosofo austriaco sottolinea la costitutiva storicità e la conseguente mutevolezza dei princìpi, dei metodi e degli obiettivi della scienza. Reciprocamente, un approccio storico a quest'ultima attesta in modo eloquente la complessità degli 'ingredienti' dell'impresa scientifica e l'impossibilità di valutarne le procedure e i risultati secondo l'ottica di princìpi generali-astratti. In tale prospettiva particolarmente interessanti appaiono certe considerazioni sul 'caso Galileo ' contenute in Contro il metodo . Non soltanto, afferma Feyerabend, è essenzialmente una lettura non filosofico-epistemologica ma storica a consentire l'individuazione delle componenti e delle sollecitazioni che hanno portato Galileo a determinate scoperte; ma è da aggiungere che lo scienziato pisano avrebbe, per così dire, meritato la bocciatura se fosse stato esaminato secondo i paradigmi strettamente razionalistici privilegiati da neopositivisti vecchi e nuovi: e invero, quante indebite generalizzazioni, quante disinvolture teoriche proibite dal 'giusto' metodo sono rintracciabili nell'opera galileiana…E allora, delle due l'una: o le acquisizioni cognitive della fisica di Galileo sono false, o le regole del metodo possono, e talora debbono, essere trasgredite! E' sulla base di quanto precede che Feyerabend ha proposto una radicale 'liberalizzazione' dell'epistemologia razionalistico-'metodologica' tradizionale . Essa consiste, almeno in prima istanza, nell'individuazione e nella valorizzazione dei metodi (al plurale), delle procedure (talora inattese e sorprendenti) che la scienza segue effettivamente, e grazie ai quali essa acquista sempre maggior forza ed efficacia. Sotto questo profilo, di particolare rilievo appare la teorizzazione, nei Problemi dell'empirismo , del principio della tenacia e del principio della proliferazione. Il primo (ripreso da Kuhn, che però lo riferiva solo ai periodi di "scienza normale") si contrappose alla tesi, particolarmente cara a Popper, secondo cui una teoria falsificata dai fatti deve essere abbandonata immediatamente. Al contrario, il principio della tenacia suggerisce di mantenere una teoria anche se ci sono dei dati con essa incompatibili. Abbandonare una teoria alla prima difficoltà significa perdere la possibilità di sfruttare le sue potenzialità nascoste, ossia la possibilità che questa teoria si riveli feconda in un nuovo contesto e in rapporto a nuovi obiettivi. Secondo Feyerabend, non esiste del resto una teoria che sia in accordo con tutti i fatti compresi nel suo campo di applicazione: seguendo alla lettera il principio di falsificazione di Popper si dovrebbero quindi abbandonare tutte le teorie scientifiche. Quanto al principio di proliferazione (già presente in Popper), esso afferma, contro ogni forma di monismo teorico, che la scienza non solo non può identificarsi con un'unica teoria ed un unico metodo, ma progredisce proprio attraverso la discussione critica fra teorie alternative. E' bene, pertanto, che si sviluppino concezioni diverse rispetto a quella più accreditata, per quanto giustificata e autorevole possa apparire, affinché tale discussione sia possibile. In vari altri saggi, e da ultimo in Contro il metodo, Feyerabend ha ulteriormente radicalizzato le sue posizioni. La tesi difesa ora è che la scienza non solo non può seguire meccanicamente i principi dettati dal metodo, ma anzi ricava un beneficio a trasgredirli. La stessa esperienza storica attesta che il sapere scientifico assai spesso progredisce mettendo tra parentesi le regole, violando norme e dettami teorici, creando con astuta disinvoltura quelle che l'epistemologia tradizionale ha chiamato polemicamente le "ipotesi ad hoc": " Ci sono delle circostanze " - leggiamo a questo proposito nel saggio feyerabendiano - " nelle quali è consigliato introdurre, elaborare e difendere ipotesi ad hoc, o ipotesi il cui contenuto sia minore rispetto a quello delle ipotesi alternative esistenti e adeguate empiricamente, oppure ancora ipotesi autocontradditorie, ecc. " E' sulla base di tutto ciò che Feyerabend arriva infine ad affermare la sua concezione teorica più celebre e discussa: il cosiddetto " anarchismo epistemologico ". Esso consiste in due princìpi strettamente congiunti tra loro: la risoluta negazione (non priva di elementi estremistici e provocatori) della necessità, validità e ineludibilità del metodo nella scienza, e la tesi (non meno paradossale) che, nella scienza, " qualsiasi cosa va bene " ,“anything goes” nel senso che l'impresa scientifica è così fatta da potersi avvalere, per i propri scopi, delle pratiche d'indagine e delle " astuzie della ragione " più diverse, imprevedibili e trasgressive. Naturalmente, riconosce Feyerabend, tutto ciò potrà sconcertare molto da un punto di vista strettamente razionalistico: d'altra parte non solo la riflessione teorica ma anche l'esperienza storica attesta che le cose stanno proprio così. " L'idea di un metodo che contenga princìpi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida dell'attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c'è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell'epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o disattenzioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progetto scientifico. In effetti, uno dei caratteri che più colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della scienza è la presa di coscienza del fatto che eventi e sviluppi come l'invenzione dell'atomismo nell'antichità, la rivelazione copernicana, l'avvento della teoria atomica moderna […], il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificano solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche 'ovvie', o perché involontariamente le violarono. " Il terzo 'nodo' cruciale del pensiero feyerabendiano riguarda il rapporto fra teoria e fatti (o fra enunciati teorici ed enunciati osservativi-fattuali) nella conoscenza scientifica. Riprendendo una tesi non nuova, e sviluppata in anni recenti con particolare vigore da Norman R. Hanson ( I modelli della scoperta scientifica , 1958), Feyerabend respinge sia l'assunto dell'esistenza in sede cognitiva di dati fattuali indipendenti dal pensiero e assumibili come criteri oggettivi di verifica dei giudizi sul mondo, sia il principio della distinzione tra asserzioni teoriche e asserzioni osservative. In particolare tale distinzione (di importanza cruciale all'interno dell'epistemologia neopositivistica) crolla non appena si scopre che queste ultime asserzioni dipendono in più modi dalle prime: noi comprendiamo gli enunciati osservativi anche più apparentemente oggettivi ed auto-evidenti solo all'interno di una determinata teoria. Anzi, più in generale, per Feyerabend vale il principio che qualsiasi termine cognitivo è definito solo dal contesto teorico nel quale è incorporato: esso è, per usare un'espressione assai cara ad un ben preciso orientamento epistemologico, "carico di teoria". Una conseguenza di ciò è che neanche i dati/concetti più 'elementari' e 'neutrali' della scienza possono essere assunti in modo universale-oggettivo: i loro significati sono inestricabilmente intrecciati ai diversi quadri teorici entro i quali vengono enunciati e usati. Così ad esempio, spiega Feyerabend, il termine 'massa' ben lungi dall'avere almeno in sé e per sé un'accezione univoca, assume un certo senso nell'universo linguistico-concettuale di Newton e un altro senso nell'universo linguistico-concettuale di Einstein: " la massa classica e la massa relativistica non denotano l'identico concetto, e gli assunti sulla costanza delle masse classiche e relativistiche hanno significati diversi ". Questa tesi, detta della " varianza del significato ", impone limiti assai severi a certe ambizioni riduzionistico-unificazionistiche dell'epistemologia neopositivistica. In effetti, se i significati dei termini (anche formalmente identici tra loro) che compaiono in diverse concezioni sono sempre teoricamente connotati e differenziati, allora diventa estremamente arduo ridurre una concezione all'altra: le loro peculiarità linguistico-concettuali possono essere tali da rendere difficile (se non, spesso, impossibile) la loro reciproca traduzione e perfino la loro reciproca comprensione. Per questa strada Feyerabend arriva a sostenere il principio dell'incommensurabilità delle teorie in modo assai prossimo a quello del Kuhn più radicale. Non meno radicale appare la posizione del filosofo austriaco a proposito del confronto e della valutazione delle teorie scientifiche. Qui il referente polemico è l'assunto neopositivistico (e in parte popperiano) che una teoria (T2) è migliore di un'altra teoria (T1) se e solo se riesce a contenere quest'ultima come suo caso particolare. Tale assunto implica a ben guardare tre condizioni: a) che T2 riesca a spiegare gli stessi fatti di T1, ossia i suoi "successi"; b) che risolva gli eventuali problemi o anomalie di T1, ossia i suoi "insuccessi"; c) che spieghi in aggiunta fatti nuovi, ossia che abbia un maggior contenuto empirico. Senonché, osserva Feyerabend, come si possono fare queste valutazioni dal momento che le teorie non hanno necessariamente gli stessi fini, non parlano necessariamente degli stessi fatti (anche quando usano gli stessi termini/concetti), e questi ultimi, che pure dovrebbero costituire la base del confronto tra le teorie, sono essi stessi prodotto di teoria e dunque niente e affatto oggettivi? Inoltre, secondo Feyerabend, il punto c) si ottiene a spese del punto a): molto spesso, infatti, una nuova teoria allarga certamente l'orizzonte delle conoscenze empiriche, ma a prezzo di lasciar cadere alcuni fatti spiegati dalla vecchia teoria. In altre parole, nel passaggio da una teoria T1, ad una teoria T2, raramente si conserva tutto il significato esplicativo della teoria rimpiazzata. Una delle principali conseguenze di ciò è che, non essendo possibile determinare se due teorie hanno a che fare esattamente con lo stesso ambito di fatti ed essendo ogni trasformazione o evoluzione di teorie accompagnata da possibili perdite parziali, la concezione neopositivistica (ma anche popperiana) della scienza come accumulazione progressiva di conoscenze o come approssimazione graduale alla verità risulta irrimediabilmente compromessa: Feyerabend fa cadere così un altro caposaldo di un ben preciso orientamento epistemologico. Alla luce di quanto precede, non sorprende che l'epistemologia feyerabendiana arrivi ad esiti radicalmente pragmatici e relativistici. Per un verso la valutazione e la stessa interpretazione della teoria poggia su criteri in larga misura extra-logici e non necessariamente cognitivi: la scelta di una teoria, la preferenza di una concezione fra più concezioni rivali, ben lungi dal possedere un qualche fondamento razionale-oggettivo, risponde a criteri di tipo pratico - la rilevanza, l'efficacia, il successo, ecc. Per un altro verso, l'agire della scienza e dello scienziato, privo com'è di riferimenti (teorico o fattuali) di carattere universale, non può non ispirarsi a princìpi e obiettivi di carattere particolare, che valgono solo in rapporto ad ambiti e criteri locali, contestuali, assai difficilmente generalizzabili. n.f. 1996