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Pietro Mascagni:"Isabeau"
Prima rappresentazione: Buenos Aires, Teatro Coliseo, 2 giugno 1911.
Dopo Amica passarono ben sei anni prima che un’altra opera di Mascagni calcasse le
scene. Numerosi impegni direttoriali e gli strascichi legali dovuti al contenzioso con il Liceo
Musicale di Pesaro che, in base a una sentenza della Corte d’Appello di Ancona, si risolse a
favore del compositore, avevano rallentato l’attività compositiva di Mascagni che, nel frattempo,
il 20 novembre 1905 ottenne un nuovo grande successo con una ripresa, al Teatro Adriano di
Roma, delle Maschere, presentate in una versione ridotta senza il Prologo recitato e la
Parabasi. Sembra comunque che il progetto per una nuova opera non riuscisse a decollare
prima del 1909, quando Mascagni assunse la carica di direttore artistico del Costanzi di Roma;
lo stesso compositore ricordò così quel periodo di lavoro intenso e febbrile: “Non è vero che il
melodramma sia finito in Italia. La questione è che manca l’entusiasmo. Nessuno certo farebbe
oggi quel che io feci al Costanzi di Roma anni fa: impresario, direttore e compositore unico.
Ebbi il coraggio di dirigere tutte le opere della stagione, e la mia contabilità fu molto semplice, la
cassa poi semplicissima. Rinunciai ad andare a Napoli dove mi aspettava Illica con un libretto e
volli esaurire tutto il programma senza cambiare un’opera né saltare un concerto” (Mascagni
parla, cit., p. 155).
Il libretto, con il quale Illica lo attendeva, era quello di Isabeau, il cui soggetto medievale,
tratto dalla leggenda di Lady Godiva ripresa in una sua lirica dal poeta inglese Alfred Tennyson,
aveva affascinato Mascagni al punto che aveva parlato di qualità magnifiche del lavoro nel
quale intravedeva la possibilità di dare vita ad un nuovo teatro musicale. Il suo entusiasmo per il
soggetto fu, tuttavia, raffreddato non solo dalla stagione estremamente ricca e impegnativa del
Costanzi di Roma durante la quale diresse personalmente Tristano e Isotta, Bohème,
Mefistofele, I Maja, Don Carlos, Lohengrin, Norma, Iris, La festa del grano, Il barbiere di Siviglia,
Mese Mariano e Cavalleria rusticana, ma anche dalla collaborazione con Illica che all’inizio non
fu semplice, come lo stesso compositore ricordò sempre nei colloqui intercorsi con De Carlo:
“Con Illica eravamo molto amici; fu il migliore dei miei librettisti, ma litigavamo spesso perché io
non ero mai contento. Da giovane ero veramente un po’ prepotente e nervoso anch’io,
specialmente quando i versi non mi davano ispirazione. Beh! Un bel giorno Illica sbottò e bel
bello mi mandò a farmi benedire. Cercai un altro poeta. Ma poi lo calmai. Per Isabeau ero ospite
di Illica. Nel 1911 alla vigilia della sua festa, io mi trovavo con lui. Lavoravamo insieme come
due fratelli, per meglio fondere le nostre idee. Illica mi fece molti elogi per il duetto dell’Isabeau,
dicendomi che ne era rimasto instupidito. «Sei veramente molto gentile, gli dissi, ma i tuoi versi
sono brutti». Non rispose neanche una parola. La mattina dopo quando scesi in sala, trovai sul
leggio del pianoforte un pacchetto di carta: era il nuovo duetto di Isabeau. Gentile atto di
amicizia che dipingeva a meraviglia il cuore di quell’uomo! Era veramente buono Illica e
quando lavoravo mi stava sempre vicino. Dunque mi misi al pianoforte e musicai il nuovo
duetto. A tavola trovai un piccolo corno di corallo nel bicchiere. «Vedi, mi disse, tu non mi hai
fatto il regalo, ma io ho voluto farlo a te, ti ho fatto un corno». Quello era il giorno della sua festa
e non avevo pensato a fargli un regalo! Ci rimasi male perché amici e conoscenti gli avevano
mandato molte testimonianze di affetto. Risposi commosso: «Anch’io ti ho fatto un regalo, ed
eccolo: ho musicato il nuovo duetto, te lo fo’ sentire, l’ho scritto stamane». Ma il duetto
d’amore in quanto a scena, così com’è oggi, è nato sul palcoscenico, come veramente
nascono tutti i duetti” (ivi, pp. 155-156). Dopo un intenso lavoro, che si svolse a stretto
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contatto con il librettista e con lo scenografo Rovescalli e che, secondo quanto riferito dal
biografo Edoardo Pompei, sarebbe durato per tre mesi, Isabeau nel 1911 era pronta per il
suo battesimo teatrale che avvenne in terra sudamericana al Teatro Coliseo di Buenos
Aires, il 2 giugno, sotto la direzione dello stesso compositore con Maria Farneti (Isabeau),
Amelia Colombo (Ermyngarde) e Olga Simzis (Ermyntrude), Maria Pozzi (Giglietta), Antonio
Saludas (Folco), Carlo Galeffi (re Raimondo), Rizzardo De Ferrara (Faidit) e F.Biancofiore
(araldo), Giuseppe La Puma (Cornelius) e Teofilo Dentale (vegliardo/cavaliere Ethel).
Mascagni aveva stipulato un contratto con l’impresa Teatral per una serie di concerti in
Sudamerica e per la prima rappresentazione di questa sua nuova opera, le cui prove erano
state fatte, prima della partenza, al Carlo Felice di Genova. Questa tournée riservò a Mascagni
un notevole successo sia in qualità di direttore d’orchestra che di compositore con Isabeau che,
alla prima rappresentazione, fu salutata dal pubblico con numerose chiamate e fu ripresa 9
volte in diciassette giorni.
L’opera - Atto primo
L’azione, che si svolge nell’arco di una giornata i cui tre momenti, Il mattino, Il meriggio e La
sera, corrispondono ai tre atti, inizia nella sala del trono di una reggia duecentesca di un luogo
non ben precisato. Il re Raimondo è seduto sul suo trono, mentre un Araldo, accompagnato da
solenni trombe e timpani, proclama a gran voce il bando reale, in base al quale il vincitore di
una tenzone d’amore avrebbe ottenuto la mano della principessa Isabeau, ritrosa al matrimonio
e all’amore. Una musica leggera, cameristica da raffinata corte medievale e caratterizzata dalla
voce di un violino solista, introduce la scena successiva nella quale si apprende da un coro
femminile che Isabeau ha appena fatto ritorno da un pellegrinaggio, mentre con un sottile
contrasto vocale il re Raimondo e Messer Cornelius, suo ministro, rispettivamente basso e
baritono, espongono il loro progetto consistente nel dare un marito ad Isabeau in modo da
assicurare la discendenza. Giunge Isabeau, nei confronti della quale il re, dietro suggerimento
del perfido Cornelius, sveste i panni del padre per assumere quelli del monarca sin dalle prime
battute del duetto che, però, si preannuncia puro e quasi celestiale nelle tenere sonorità dei
legni che accompagnano le parole della fanciulla, la quale alla fine, di fronte al padre, si
genuflette anche vocalmente con un salto di decima discendente di impervia intonazione.
L’uomo, in una scrittura solenne (Già per terra e castella), rivela alla figlia il suo progetto della
tenzone d’amore all’interno della quale la fanciulla, che deve presentarsi con un vestito più
aperto e non con il bianco manto da suora che era solita portare, deve scegliere il suo sposo.
La ragazza afferma, con accenti drammatici, la sua volontà di non voler rinunciare al suo bianco
manto, simbolo della sua purezza, al quale Isabeau intona un vero e proprio inno (Questo mio
bianco manto) di acceso e candido lirismo. Accompagnato da sua nonna Giglietta, giunge Folco
il quale sembra di conoscere quei luoghi che avrebbe visto in sogno. Già nel lessico usato
dall’uomo, tutto giocato su lemmi che appartengono al campo semantico della vista, si riflette il
destino crudele che colpirà Folco il quale, per adesso, intona un romantico inno, tutto intriso di
cromatismi al sogno (Sogno se poso), nel quale si afferma il concetto della doppia vista, quella
del corpo e quella dell’anima. Cornelius, sopraggiunto, vorrebbe cacciare i due, trattenuti, però,
da Isabeau, che chiama se stessa con l’appellativo Reginotta. Giglietta espone le ragioni della
sua visita motivata non solo dal desiderio di voler offrire ad Isabeau delle colombelle, ma anche
dalla volontà di accompagnare il nipote Folco, affascinato dalla fanciulla che avrebbe visto
durante una cavalcata nel bosco. Questi trova in Isabeau un’immediata corrispondenza
d’amorosi sensi in quanto la sua anima, come quella della ragazza, sembra elevarsi verso vette
celestiali rappresentate da accordi acuti. Una breve pagina strumentale introduce l’ingresso
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della folla che accorre per la tenzone cortese, intonando un coro maestoso (Onde di polve) alla
cui conclusione Cornelius recita la battuta indietro la canaglia! Dopo un virtuosistico passo dei
violini, le trombe annunciano la contesa con i vari pretendenti che, per bocca dell’araldo,
offrono i loro doni ad Isabeau la quale li rifiuta tutti suscitando il dolore del re che, prima, si adira
con il popolo, reo di inneggiare alla figlia, e poi con la sua stessa figlia condannandola a
cavalcare nuda a mezzogiorno per la città nel drammatico finale, nel quale, tuttavia, la purezza
di Isabeau non sembra intaccata grazie alla ripresa del celestiale tema che aveva caratterizzato
il suo ingresso in scena nel primo atto.
Atto secondo
Un tema agitato introduce immediatamente il popolo che manifesta, con un tono a tratti ieratico
e perentorio, il suo desiderio di sprangare porte e finestre affinché la cavalcata di Isabeau per la
città non venga vista. Il re accoglie di buon grado il desiderio del popolo, mentre la voce di un
vegliardo, in modo ieratico, afferma che sarebbe stato ucciso chi avrebbe trasgredito a questo
“editto” popolare guardando Isabeau. Nel frattempo anche le donne inneggiano alla purezza di
Isabeau la quale, accompagnata dalle due ancelle Ermyntrude ed Ermyngarde, inizia la sua
cavalcata che, annunciata dal suono delle campane, si traduce in una pagina sinfonica, per
nulla descrittiva ma di carattere evocativo nella scrittura di intenso lirismo alla quale non sono
estranei elementi politonali. Un tema, che si fa sempre più agitato, introduce Folco irritato
dall’ipocrisia del popolo che, in questo modo, non avrebbe omaggiato la fanciulla. L’uomo
decide di guardare Isabeau con occhi puri, ma rischia un linciaggio popolare evitato da Faidit,
dal Siniscalco, dal Connestabile e dal prevosto che lo strappano dalle grinfie della folla. L’atto
si conclude con una dolce asserzione di Folco che, anticipando la sua imminente sorte, afferma
per morire, come se ormai fosse totalmente immerso in un destino di amore e morte.
Atto terzo
Il suono di un clavicordo conduce all’interno di un Oratorio dove le due ancelle di Isabeau
stanno pregando. La fanciulla, che appare nel vano della porta dell’Oratorio, è ancora
sconvolta e in un lungo “monologo”, una pagina di vibrante declamato, mostra il suo rimorso
per aver corrisposto allo sguardo di Folco decretandone così la morte. Introdotta da un
cromatico tema agitato appare Giglietta che implora, ancora una volta, Isabeau affinché questa
possa salvare la vita al nipote. La fanciulla si reca da Faidit al quale chiede di fargli incontrare
Folco, mentre una campana annuncia il coprifuoco. Subito dopo inizia il “duetto” d’amore tra
Isabeau e Folco, al quale aveva fatto cenno Mascagni nel citato colloquio con De Carlo. Folco
viene destato da un suo sogno, durante il quale la morte e i tormenti, lungi dal fargli paura,
vengono sublimati dall’amore per la fanciulla. Questo duetto è una pagina in cui momenti di
vibrante declamato si alternano ad atti di intenso lirismo soprattutto quando i due protagonisti si
riconoscono innamorati e inneggiano a questo sentimento. I due amanti non possono godere,
però, del loro sogno d’amore, in quanto Cornelius, che, di nascosto, aveva assistito alla scena,
apre le porte ad una folla inferocita desiderosa di mettere in atto la pena prevista per Folco.
L’opera precipita così verso il tragico finale nel quale i due giovani amanti muoiono uccisi, ma
felici, inneggiando all’amore. Il dramma di amore e morte si è così consumato in un’opera dalla
forte struttura sinfonica, nella quale la musica scorre fluidamente senza soluzione di continuità e
senza la presenza di veri e propri pezzi chiusi.
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