Shoah - Giorno della Memoria, 10 cose che forse non sai sulla

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La metamorfosi del razzismo
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Lo stupore perché le cose che noi viviamo
sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo
non è filosofico. Non sta all'inizio di nessuna
conoscenza, se non di questa. Che l'idea di storia
da cui deriva non è sostenibile. Walter Benjamin1
0001000020 ‣ 1945: un punto di svolta? . Nonostante la breve durata del regime nazista e quella
ancor più breve dell'ampio e variegato complesso di esperienze del collaborazionismo, la presa di
coscienza del peso e dei caratteri inediti della violenza scatenatasi fra 1933 e 1945 e in particolare
durante la Seconda guerra mondiale costrinse le ideologie e le pratiche razziste a un sostanziale
regresso nell'Europa del dopoguerra. L'Europa, tuttavia, era solo una parte del mondo e la guerra
aveva sancito la fine della sua centralità politica ed economica, consumatasi in una strage senza
precedenti. Visto da una prospettiva mondiale, il regresso del razzismo era senz'altro relativo e la
situazione europea si inseriva in uno scenario globale affatto univoco. L'apartheid sudafricano, la
discriminazione degli afroamericani in un'ampia fascia degli Stati Uniti e, più in generale, il lascito
del dominio coloniale non potevano ridursi a persistenze residuali (per quanto fossero pensate come
tali), ma mostravano il radicamento di tradizioni razziste dalla lunga storia. Nei paesi europei
recentemente sconvolti dalla guerra l'enorme numero delle vittime veniva indissolubilmente
collegato alla memoria dei crimini nazisti, all'immagine del Lager e, ancor più, alla giustificazione
razzista che aveva facilitato la trasmissione degli ordini assassini dal Führer e dagli altri gerarchi
lungo la catena burocratica degli esecutori, nell'indifferenza o complicità degli spettatori2. Questo
nesso rendeva sospette aperte professioni di fede nella virtù della razza come chiave di lettura della
storia e strumento di propaganda, mobilitazione e organizzazione politica: lo spettro inquietante
della Herrenrasse ariana era destinato a ripresentarsi ogniqualvolta la legittimazione delle gerarchie
sociali si tingesse di esplicite connotazioni antropologiche o biologiche.
Questa diffusa diffidenza non avrebbe impedito il ritorno di forme di razzismo: i pregiudizi e gli
stereotipi che avevano giocato un ruolo costitutivo nella formazione delle identità nazionali e della
coscienza europea non potevano certo scomparire d'un tratto alla fine del 1945 e, come avrebbero
mostrato le vicende degli ultimi decenni del XX secolo, anche nel Vecchio Continente più che di
regresso si trattava di slittamenti e trasformazioni. Nondimeno, la loro indubbia persistenza si
coniugava a un drastico ridimensionamento degli spazi di dicibilità pubblica dell'odio razzista e al
crollo della sua funzione politica: se non la sua fine, come da più parti auspicato, la guerra e
Auschwitz segnarono di fatto un punto di svolta nella storia del razzismo3. Apertosi mentre le
ostilità erano ancora in corso, il processo di Norimberga, primo momento di confronto pubblico con
i crimini nazisti e primo tentativo di una loro interpretazione complessiva, contribuì a questi
mutamenti, nel quadro di una continuità con la propaganda alleata del periodo di guerra4. La critica
del razzismo ad opera della comunità scientifica, dopo le complicità dei decenni precedenti, era una
delle spie più eloquenti delle trasformazioni in atto. Sulla scorta dei mutamenti nella considerazione
della razza prodottisi negli ambienti scientifici negli anni fra le due guerre e della denuncia dell'uso
della scienza come legittimazione delle discriminazioni da parte di alcuni studiosi, soprattutto
antropologi, ma anche sociologi e genetisti5, l'Unesco promosse nel 1950-1951 i primi Statements
sulla razza, parte di un più ampio e articolato impegno antirazzista delle nuove istituzioni
internazionali6. Si diffuse così anche il termine stesso di “razzismo”, già recepito prima della guerra
nelle principali lingue europee. Era nato in Francia e Gran Bretagna fra gli anni Venti e Trenta per
designare le ideologie dell'estrema destra e dei regimi fascisti. L'adozione del neologismo indicava
l'avvio di una dissociazione del mito razzista dal suo presunto fondamento scientifico, l'esistenza
oggettiva delle razze umane7.
In questo contesto, tuttavia, la portata universale della rottura di civiltà rappresentata dallo sterminio
di milioni di ebrei europei stentava a trovare la collocazione specifica che le è propria8. Il razzismo
nazista veniva identificato con la violenza bellica e soprattutto con il sistema dei Lager :
l'esperienza della catastrofe ebraica era, nel migliore dei casi, universalizzata, ma più sovente diluita
nel vasto repertorio degli orrori, fino a risultare un momento della Seconda guerra mondiale, a cui
dedicare, al massimo, un semplice paragrafo nei manuali scolastici di storia. La paradossale
coesistenza del rifiuto del razzismo e del mancato riconoscimento della specificità ed esemplarità
del suo esito più tragico era alle origini delle difficoltà di pensare e persino nominare Auschwitz da
parte del mondo della cultura, fatta eccezione per la lucidità di uno sparuto insieme di intellettuali,
da Hannah Arendt ad Adorno e Horkheimer9. Fino agli anni Sessanta, quando i tardivi processi ad
alcuni alti responsabili delle operazioni di sterminio e gli interventi di intellettuali e scrittori
riproposero la questione all'opinione pubblica internazionale, non si aprì un vero e proprio dibattito
sul genocidio degli ebrei. Nonostante fossero uscite da tempo opere pionieristiche, come il
Brèviaire de la haine di Léon Poliakov, anche a livello storiografico questa fase segnò una svolta,
con la prima edizione di The Destruction of European Jews di Raul Hilberg, prima opera d'insieme
basata su larghe frequentazioni archivistiche10. L'avvio di un dibattito fra storici e altri scienziati
sociali fu solo uno dei sintomi dell'apertura di una nuova fase, contraddistinta da una considerazione
più attenta della singolarità storica di Auschwitz: fu a quel tempo che si cominciò a discutere sul
nome con cui evocare lo sterminio degli ebrei europei, “Olocausto”, “Shoah”, “genocidio” o
“distruzione”11.
A partire da quel ripensamento e attraverso un dibattito che si sarebbe straordinariamente
approfondito nel corso dei decenni successivi, in appena un quarto di secolo la situazione si è
venuta rovesciando: l'esperienza di Auschwitz si è collocata in una posizione via via più centrale in
seno alla memoria europea, sia pure con spiccate differenze fra i vari paesi, suscitando interesse e
attenzione per la più complessiva vicenda della diaspora ebraica e dello stato di Israele12. Al punto
che molti si sono interrogati sul “paradosso” per cui la vicenda del nazismo e di Auschwitz acquista
spessore e rilievo man mano che si allontana nel passato e viene consegnata alla storia13.
In un campo ricco di contributi e discussioni, gli studiosi si sono interrogati sulla definizione degli
ebrei, sulla loro esclusione, sulla deportazione e sul concentramento, sulle modalità e la genesi dello
sterminio14. Nel quadro di un'impresa di ricerca di dimensioni ormai considerevoli, alcuni studiosi
hanno cominciato a interrogarsi sui caratteri complessivi del razzismo nazista e, più o meno
sollecitati dall'emergere di memorie di altri gruppi di vittime, a ricostruire pratiche discriminatorie e
di annientamento fino a quel momento trascurate. Alla discussione sul rapporto fra “Olocausto” e
altri “genocidi” si è affiancato un dibattito, altrettanto serrato e dai toni similmente polemici, sul
rapporto fra lo sterminio degli ebrei e i massacri che hanno costellato la storia dell'Occidente: l'una
e l'altro rinfocolavano il confronto sull'“unicità” di Auschwitz e sui problemi epistemologici e
morali aperti dalla “comparazione”15. Attraverso controversie e polemiche si è dipanato un rilancio
degli studi, che ha permesso di affinare le conoscenze sul razzismo nazista.
0001000020 ‣ Nazionalsocialismo, razza, sterminio . Con l'ascesa al potere della NSDAP
[Nationalistsche Deutsche Arbeiterpartei - Partito nazionalsocialista tedesco], la centralità
ideologica della Rasse nel movimento nazista si convertì in una serie di pratiche promosse dalle
istituzioni di un nuovo regime e tese alla trasformazione concreta della popolazione tedesca. Lo
Stato adottava misure di eugenetica “positiva” per rafforzare la razza ariana, come l'incentivo alla
natalità16, e il progetto di costruzione della Herrenrasse come fulcro della ritrovata potenza
nazionale si tradusse in un'ansia di purificazione che coinvolse un ampio novero di vittime. In seno
alla popolazione dell'epoca fu individuata una serie di categorie di estranei alla comunità
[Volksgemeinschaft ]: fossero malati o “asociali”, criminali “recidivi” o semplici non conformisti
(come ad esempio gli omosessuali), questi individui erano pensati come portatori di tare organiche,
ereditarie e irredimibili. Questo slittamento, proprio di ogni razzismo, dall'ordine mutevole delle
relazioni socio-culturali a quello irreversibile della “natura”, portava inevitabilmente a saggiare i
limiti delle teorie razziali. Come gli antropologi del XIX secolo, anche i fautori di una scienza della
razza al servizio del nazionalsocialismo dovettero scoprire la difficoltà di una classificazione e
gerarchizzazione degli esseri umani a partire da un criterio così sfuggente e arbitrario. Tuttavia, nel
quadro di un regime che faceva delle retoriche razziali uno dei propri fondamenti,
l'approssimazione nella definizione non implicò un carattere blando nell'azione persecutoria, ma al
contrario favorì un ampio e discrezionale uso degli strumenti legislativi e repressivi a
disposizione17.
La schedatura di massa, la condanna penale, la reclusione nei campi di concentramento,
l'imposizione di lavori forzati e la sterilizzazione obbligatoria colpirono un vasto novero di vittime:
alle soglie della guerra la persecuzione dei “degenerati” che attentavano alla salute razziale di un
popolo destinato al dominio sfociò nell'assassinio di massa, con l'“eutanasia” di parte dei degenti
negli ospedali psichiatrici tedeschi18. Altri gruppi di cittadini tedeschi, ritenuti estranei alla razza
ariana, subirono una vera e propria persecuzione: agli ebrei, al centro dell'azione nazista sin dal
1933, si affiancarono gli “zingari” (sinti e rom), che in parte ne avrebbero seguito il tragico destino;
ma anche, in forme diverse, i piccoli gruppi di “negri” (come i cosiddetti “bastardi della Renania”) e
altre minoranze etniche (come i casciubi e i sorbi di Lusazia)19. Alla purificazione interna
corrispose un atteggiamento altrettanto deciso nei confronti delle popolazioni che l'Impero tedesco
avrebbe sottomesso nel corso della conquista dello “spazio vitale” a Est, proprio mentre i “tedeschi
etnici” [Volksdeutschen ] dispersi nell'Europa centro-orientale avrebbero fatto ritorno in seno alla
nazione. Le popolazioni slave vennero investite da un progetto di ingegneria demografica che
implicava non solo deportazioni e violenze, ma anche una ristrutturazione sociale in chiave razziale
delle aree sotto controllo nazista. Ritenuti razzialmente inferiori, gli slavi sarebbero andati incontro
a un processo di snazionalizzazione e deculturazione funzionale alla riduzione in schiavitù, una
condizione anticipata dal lavoro forzato nei campi di concentramento e poi nell'intero apparato
produttivo tedesco. La considerazione razzista degli slavi ispirò il carattere complessivo della
guerra sul fronte orientale, tesa all'annientamento del nemico, e quindi il durissimo trattamento
differenziale imposto ai prigionieri di guerra sovietici20. Nel moderno schiavismo dell'universo
concentrazionario nazista, lo sfruttamento del lavoro entrava spesso in contraddizione con la finalità
della morte dei prigionieri21. Nei nuovi campi costruiti in territorio polacco durante la guerra, fra i
quali Auschwitz, il lavoro dei prigionieri era invece totalmente subordinato al progetto di
annientamento, spesso immediato e organizzato secondo i modelli della grande industria e della
burocrazia moderne22. Solo i progressi dell'età contemporanea potevano rendere possibile – e tanto
rapida – l'operazione dello sterminio di massa, ma solo le culture che li avevano accompagnati
potevano rendere pensabile la distruzione di “sottouomini”, persone cui era negato il
riconoscimento di una comune umanità.
Il salto di qualità della violenza nazista ha investito in primo luogo gli ebrei. Ricercati in quasi tutta
Europa, senza possibilità di scampo che non fossero rifugi precari, dall'estate del 1941 gli ebrei
erano votati allo sterminio e solo la sconfitta tedesca avrebbe potuto salvare gli individui ancora
risparmiati dai massacri di massa e dalle fabbriche della morte. Questo tratto essenziale resta la
premessa ineludibile del dibattito sulla cosiddetta “unicità” dello sterminio degli ebrei. Molti autori
hanno insistito sulla distinzione della “Soluzione finale” dal razzismo nazista, ponendo l'accento
sulle sue indubbie peculiarità e talora giungendo a una contrapposizione fra il genocidio degli ebrei
e le altre pratiche di discriminazione e assassinio di massa. A livello ideologico l'antisemitismo
nazista ha senz'altro una dimensione autonoma, in quanto criterio di un'interpretazione razziale della
storia contemporanea basata sullo scontro fra tedeschi ed ebrei. La restituzione della Germania a
una statura di grande potenza richiedeva il ripristino del primato ariano e la sconfitta degli ebrei,
con l'inversione della dinamica dell'età contemporanea, le cui trasformazioni più radicali erano
concepite come conseguenze dell'emancipazione ebraica23. La presa di coscienza di
quell'antagonismo radicale, propugnata dai nazisti sulla scorta dell'elaborazione tardo-ottocentesca
(fra nazionalismo völkisch 24 circolo di Bayreuth e dottrine di Houston S. Chamberlain), avrebbe
rappresentato un indicatore della salute e del destino della nazione. Tuttavia, questa lotta si
collocava sullo sfondo di “leggi” naturalistiche più generali, che, per quanto confuse, nutrivano una
visione razzista del mondo affatto originale, modellata su discorsi a cavallo fra mistica, biologia ed
evoluzionismo elaborati nel corso del lungo Ottocento25. Il medesimo linguaggio della razza serviva
quindi a designare una pluralità di conflitti e di progetti, spesso interconnessi.
Nel cuore della Seconda guerra mondiale la Germania nazista è riuscita, nonostante le difficoltà
belliche e grazie all'aiuto di alleati e collaboratori, a portare in pochi anni il razzismo alle forme
estreme dello schiavismo industriale, del massacro di massa e dello sterminio pianificato. Anche al
di là del piano ideologico e linguistico, l'“unicità” può risaltare solo in quanto “singolarità” e
“specificità” nel corso di un'implicita comparazione con un tessuto razzista più ampio. La vera
novità storica di Auschwitz non attiene al numero enorme delle vittime o alle modalità dello
sterminio, ma alla loro associazione con l'elemento qualitativo del razzismo come politica
scientifica26. In questa prospettiva si fa più stretto il rapporto che lega il destino degli ebrei alle altre
politiche razziste del Terzo Reich. Il processo di sterminio poteva uscire dai suoi confini, estendersi
ad altre “razze inferiori” e generalizzarsi27. Senza entrare nel merito dei dibattiti suscitati dal
confronto fra i due processi di sterminio, il caso degli “zingari” dimostra la possibile estensione
della dinamica genocida al di là della centralità della “questione ebraica”. Più in generale la
peculiarità del nazionalsocialismo risiede nella “sintesi” di tradizioni razziste, nella loro
radicalizzazione biologistica come strumento di costruzione dell'identità nazionale e nella loro
collocazione a fondamento dello Stato e delle politiche pubbliche28.
Si deve assegnare all'ideologia razzista dei gerarchi nazisti, oltre al ruolo di tessuto culturale che
unifica il punto di vista degli assassini, anche quello di matrice centrale nella produzione di esiti
tanto tragici? A partire da questo interrogativo è possibile rileggere il dibattito degli anni Settanta e
Ottanta fra “intenzionalisti” e “funzionalisti”, cioè fra sterminio come “progetto” o come
“processo”, concentrandosi sul ruolo dell'antisemitismo29. La “disputa teologica ”
sull'antisemitismo, chiave dello sterminio o elemento fra gli altri, ha generato a lungo
un'“epistemologia fratturata” negli approcci storiografici alla Shoah, che corrisponde alla pluralità
delle memorie30. Gli approcci più recenti, tuttavia, hanno saputo fondere in ricerche storiche
puntali, come in tentativi di interpretazione complessiva, gli elementi più fondati emersi
dall'insieme del dibattito e restituire una dinamica processuale alla genesi dello sterminio, senza
isolarlo dal contesto contemporaneo, né dalla lunga durata della storia europea, ma riconoscendo il
peso di Hitler nei settori cruciali della politica nazista e il ruolo ineludibile dell'ideologia fra le
condizioni di possibilità dell'evento-Auschwitz31. Non è possibile pensare il genocidio
teleologicamente, come l'esito obbligato della storia della diaspora, dell'odio antiebraico o del
Sonderweg tedesco. Inoltre la ricerca ha messo in discussione l'ipotesi di un piano di sterminio
coltivato da Hitler sin dagli anni viennesi, così come l'idea di un'assoluta centralità
dell'antisemitismo nella politica della NSDAP fino alla presa del potere. Eppure l'antisemitismo
resta centrale nella cultura non solo di Hitler e dell'estrema destra tedesca, ma anche negli ambienti
nazionalisti, e la sua presa sociale è evidente, come mostra il suo uso trasversale nella lotta politica
degli anni di Weimar. Se si abbandona l'idea del “progetto” di sterminio e dell'organicità
dell'ideologia, si può recuperare la concretezza storica dell'antisemitismo come “cumulo di diversi
atteggiamenti negativi”, senza che necessariamente vi sia coerenza fra orizzonte culturale e
comportamenti: “sentimenti antisemiti possono essere accompagnati dalla disapprovazione di azioni
antisemite” e “azioni antisemite non presuppongono necessariamente l'esistenza di convincimenti
antisemiti”. Visto da vicino, nella prospettiva degli esecutori dello sterminio, l'antisemitismo
sembra stemperarsi in altre motivazioni, dall'opportunismo all'avidità. Eppure il punto di vista delle
vittime invita a ricordare che l'antisemitismo è tale anche se non “convinto” e che prescindere dai
moventi rischia di diluire l'intenzionalità delle azioni e la stessa responsabilità32.
In quest'ottica il ruolo del razzismo antiebraico è uno degli elementi essenziali che ha reso
praticabile lo sterminio. Senza imputare ai “comuni tedeschi” una tendenza al genocidio, se ne
possono riconoscere le condizioni di possibilità non solo nel comportamento universale di “uomini
comuni” irregimentati in istituzioni autoritarie e collocati in una situazione estrema, ma nella
concretezza storica di uomini degli anni Quaranta, cresciuti in una società, europea e non solo
tedesca, impregnata di umori razzisti (antiebraici, ma non solo), che combattevano una guerra totale
dalla parte dei regimi fascisti33. Proprio quella concretezza permette, caso per caso, di ravvisare
l'ampiezza, assai variabile, degli orizzonti della “scelta” e impedisce di cadere in semplificazioni
che tendono all'attribuzione di colpe collettive34. Se Auschwitz rappresenta il genocidio
“chimicamente puro”, edificato sulle basi dell'odio razzista, l'esistenza di un antisemitismo diffuso
dev'essere considerata una condizione necessaria dello sterminio, ancorché non sufficiente, da sola,
a spiegarlo35. La portata di queste considerazioni si può estendere dall'antisemitismo all'ampio e
articolato spettro del razzismo nazista, di cui si sono sottolineati gli elementi di interconnessione,
ideologici e pratici, con la “questione ebraica”36.
0001000020 ‣ Una genesi europea . La temporalità della Shoah fu certamente quella dell'“evento”.
Consumatasi in un tempo straordinariamente breve e legata a dinamiche di “breve periodo”, gli anni
della guerra mondiale e del Terzo Reich, la violenza nazista invita prima di tutto a focalizzare
l'attenzione e a non stabilire sbrigative continuità37. Collocare Auschwitz nella storia genera
inevitabili difficoltà, che si è tentati di eludere attraverso alcune ricorrenti semplificazioni. La prima
rimanda al problema dell'interpretazione del nazismo. Il carattere specifico della vicenda del Terzo
Reich non implica che la si possa collocare in una storia esclusivamente tedesca, sia essa quella del
Sonderweg ottocentesco, del nazionalismo völkisch o del fallimento della repubblica di Weimar38.
Dal punto di vista del razzismo, la radicalità e rapidità della messa in pratica non è sufficiente a
isolare gli sviluppi tedeschi dall'impresa collettiva che si trova alle loro spalle: non solo perché
quegli esiti coinvolsero esecutori e collaboratori in buona parte d'Europa, ma anche poiché i
processi che strutturarono storicamente la possibilità che il razzismo assumesse quelle forme furono
condivisi dall'Europa intera. Le altre due semplificazioni sono speculari e attengono a due
configurazioni elementari del rapporto fra Auschwitz e la storia: la continuità lineare e la rottura
netta39. Lo sterminio non fu il prodotto dell'accumulazione di elementi disgiunti, né il risultato
necessario di una vicenda pensabile nel segno del finalismo, ma implicò una processualità che solo
a posteriori è possibile cogliere nella sua struttura. Il contesto generale della storia novecentesca, ma
anche le specifiche contingenze, le brevi durate e le dinamiche stesse degli eventi furono
determinanti nella radicalizzazione del razzismo e nella genesi del genocidio, ma rimandano
costantemente a un'esperienza più lunga, che fondò le stesse condizioni di possibilità di quegli
sviluppi. Anche se “ci appare oggi un avvenimento senza precedenti”, lo sterminio degli ebrei “fu il
risultato di pratiche molto antiche”40. Il razzismo nazista e i suoi esiti genocidiari rappresentarono
una “sintesi” della lunga vicenda del razzismo europeo, una “rottura di civiltà” che non segnò
un'improvvisa discontinuità storica, né una deviazione eccezionale dal percorso virtuoso della
“modernizzazione”, ma l'esito di una possibilità maturata in seno alle contraddizioni e alle crisi
della società europea novecentesca. Sulla base di una serie di premesse di più lunga durata, tre snodi
risultano fondamentali per comprenderne l'emersione: le guerre mondiali e i fascismi41.
Lo snodo decisivo fu la Seconda guerra mondiale, una guerra fra potenze, combattuta da eserciti di
massa su scala globale e con una mobilitazione massiccia delle società coinvolte, ma per la prima
volta nella prospettiva dell'annientamento del nemico in una guerra “totale” senza possiblità di
compromesso42. Anche se non fu limitata alla Germania, come mostra la generalizzazione dei
bombardamenti sulle grandi città e l'utilizzo americano della bomba atomica, questa prospettiva
venne introdotta dalla condotta di guerra nazista e portata al suo grado estremo nell'operazione
“Barbarossa” contro l'Unione Sovietica, elemento decisivo nello scatenamento dello sterminio degli
ebrei. La guerra di annientamento risultava dall'incontro fra una premessa ideologica (entro la quale
giocava un ruolo non secondario lo stesso antisemitismo, come chiave di lettura dell'antagonismo
globale) e le nuove possibilità della tecnica bellica, intesa in senso ampio. Ne derivavano da un lato
la pratica della “guerra ai civili” per l'indistinzione della popolazione nemica dalla sua parte
effettivamente combattente (che produsse fra i 7 e i 10 milioni di vittime in Unione Sovietica e 2,5
milioni in Polonia), dall'altro complessi progetti di ristrutturazione demografico-territoriale, su basi
apertamente razziste. L'espansione “etnica” dei tedeschi-ariani nei territori confinanti con il Reich
costituiva una riedizione europea della guerra e della dominazione coloniale, nella sua variante
logicamente e storicamente più legata al genocidio, quella d'insediamento. Lo “spazio vitale”
[Lebensraum ] rappresentava l'esasperazione delle varianti neocoloniali nel quadro neoprotezionista
dell'ordine economico mondiale prodotto dalla Grande Crisi: ma con la peculiare differenza che,
rispetto all'imperialismo classico, l'ideologia e il razzismo rappresentavano il motore stesso della
politica nazista e non le premesse di fondo di una mentalità o la legittimazione di un disegno di
espansione. Auschwitz è stata possibile nel preciso contesto di una “catastrofe umana” senza
precedenti, segnato da un inaudito numero di vittime, che si dovette al salto di qualità della
violenza, per intensità, forme e caratterizzazione razzista43.
Lo “stato di eccezione” aperto dalla guerra nel 1939 rivelò la “verità” della cultura e della prassi
ordinarie di una famiglia di regimi comparsa in Europa da pochi anni. Il nazismo come espressione
del fascismo europeo è l'altro snodo decisivo che permette di articolare storicamente la genesi del
genocidio. Furono le tendenze al riarmo ed espansioniste di Italia, Germania e Giappone a
prefigurare la guerra come strumento di trasformazione dell'ordine imposto a Versailles, in una
dinamica avviatasi ben prima del 1939. Sul piano della politica interna i fascismi rappresentarono la
risposta radicale alla crisi del liberalismo europeo, incapace di rispondere alla sfida dell'integrazione
delle masse, là dove avevano fallito o non esistevano le basi per i progetti di trasformazione
socialista, l'alternativa democratica e i tradizionali regimi autoritari44. La sistematica violenza
contro gli oppositori e l'ampia mobilitazione di folle irregimentate furono rese possibili dallo
straordinario sviluppo delle funzioni statali e dei saperi scientifici nella regolazione sociale,
un'impresa animata da un progetto “antropologico” di trasformazione di corpi e coscienze. Quel
progetto fu portato alle estreme conseguenze dal nazismo, con il tentativo di rimodellamento della
popolazione attraverso l'edificazione di uno “Stato razziale”. Dal 1933 cominciò il vero Sonderweg
: per la prima volta nella storia europea, un movimento esplicitamente razzista giungeva al potere e,
con un ampio sostegno elettorale e con la fiducia delle classi dirigenti, procedeva alla costruzione di
una forma di dominio di tipo nuovo, che amalgamava la reazione arcaicizzante e anti-illuministica
agli strumenti della modernizzazione tecnico-scientifica45. Lo stesso impasto si ritrova nella
distruzione degli ebrei europei, processo nel quale si combinarono il distacco burocratico delle
deportazioni, dei campi e della morte industriale con la brutalità partecipata delle fucilazioni di
massa, delle marce forzate, dell'annientamento mediante la fame e il lavoro. Non è possibile
stabilire se, senza gli sviluppi della guerra, l'impasto di tecnica e comunità avrebbe condotto ad
Auschwitz: ma senza la ristrutturazione razzista imposta nel giro di pochi anni alla società tedesca
lo sterminio sarebbe stato impossibile.
I regimi fascisti consegnarono il potere a formazioni politiche portatrici di nuove ideologie e nuove
pratiche, forme estreme di quella “brutalizzazione” nata nelle trincee della Prima guerra mondiale e
riversatasi dopo il 1918 nella società e nella vita pubblica europee, con l'assuefazione all'odio per il
nemico, alla violenza politica e alla possibilità di dare e ricevere la morte46. Oltre che incubatrice
dei fascismi, la Grande guerra fu il “laboratorio” in cui trovarono una prima convergenza gli
elementi che il nazismo avrebbe portato a “sintesi” (la morte anonima, il campo di concentramento
e di lavoro, la razzizzazione di un nemico invisibile, il mito della tecnica, la nazionalizzazione delle
masse), ma fu anche il momento scatenante di una serie di processi dell'immediato dopoguerra
destinati a confluire in quella “sintesi”, come gli spostamenti pianificati di popolazione (le origini
della “pulizia etnica”), la produzione di minoranze (in seguito alla costruzione di un ordine
“nazionale” nell'Europa dei vecchi Imperi) e l'incontro di antisemitismo e antibolscevismo47. La
guerra offrì infine l'occasione al primo tentativo di genocidio di Stato, messo in atto, con
sistematicità ma con mezzi ancora tradizionali, dall'Impero ottomano contro la minoranza armena e
che produsse circa un milione di vittime.
La “singolarità storica” dello sterminio degli ebrei rimanda a quella del nazismo come “sintesi”
delle forme della violenza europea, “catalizzate” dall'antisemitismo e dalla sua peculiare fusione
con le altre tradizioni razziste. Se quella “sintesi” si è prodotta nel corso del primo Novecento,
attraverso gli snodi delle guerre e del fascismo, per comprenderne le origini occorre risalire a
esperienze storiche più ampie, innanzi tutto interrogando il XIX secolo, l'età del trionfo della
borghesia e del dominio europeo48.
0001000020 ‣ Una “storia particolare”. Il razzismo e la civiltà occidentale . Al secolo dell'industria,
della razionalizzazione amministrativa e del progresso tecnico si devono le premesse materiali dello
sterminio nazista. Auschwitz era un gigantesco stabilimento industriale, una fabbrica che produceva
contemporaneamente manufatti e morte. Il processo di sterminio riuscì ad annientare quasi tre
milioni di individui in meno di un anno, fra 1942 e 1943, per la combinazione di una tecnologia
della morte di massa con i meccanismi oliati e pianificati dell'amministrazione moderna49. L'idea e
la pratica della morte seriale e del lavoro forzato dei prigionieri trovano le loro origini nella duplice
rivoluzione che fonda l'Occidente moderno: la Rivoluzione francese, che inventò la ghigliottina, e la
rivoluzione industriale inglese, che condusse a un grande internamento nelle workhouses 50.
Al di là degli aspetti tecnici e organizzativi, il lungo Ottocento ha prodotto le trasformazioni
culturali, sociali e politiche che hanno costituito il mondo in cui Auschwitz fu possibile: un mondo
di individui appartenenti a comunità nazionali; di Stati che intervenivano direttamente nella vita
sociale con apposite politiche (ad esempio, economiche o demografiche), il cui controllo era
delegato a quegli stessi tecnici che ne rendevano efficiente la prassi (come medici e avvocati); di
saperi che assumevano una forma scientifica; di forme sociali che tendevano all'integrazione di
massa. Al tessuto di queste trasformazioni materiali e sociali era intrecciato un insieme di discorsi e
di pratiche che rappresentano un altro dei contributi che il XIX secolo ha offerto alla “sintesi”
nazista: il razzismo.
La storia del razzismo è essa stessa una “storia particolare”, tanto da divenire una forma della
memoria storica delle società moderne, un repertorio di forme di dominio e di esclusione51. Si tratta
di una storia articolata e non lineare, che risulta dalla fusione di molte vicende e da una dimensione
relazionale, per cui la definizione delle “razze superiori” non è mai autoreferenziale, ma è
strettamente connessa a quella delle “razze inferiori” e alla natura del rapporto (evolutivo,
gerarchico, conflittuale, etc.) che lega le une alle altre52. Nella prospettiva della “sintesi” nazista è
tuttavia più utile distinguere almeno cinque ampie “tradizioni” razziste: l'antisemitismo, il razzismo
nazionalista, l'eugenismo, il razzismo di classe, il razzismo coloniale. Affatto separate, queste
“tradizioni” sono da intendere come “tipi ideali”, dotati di dispositivi interni simili e di
un'evoluzione largamente comune e intrecciata nella storia europea.
Il razzismo antiebraico, l'antisemitismo, nasce nell'Europa del tardo Ottocento come risposta
all'emancipazione degli ebrei53. Usciti dai ghetti ed equiparati agli altri sudditi o cittadini, gli ebrei
si erano integrati nel tessuto delle città in cui vivevano da secoli o in cui avevano potuto finalmente
trasferirsi. Erano stati associati alle grandi trasformazioni dell'epoca, in particolare da parte delle
forze nostalgiche dell'“antico regime”, come le chiese, l'aristocrazia e i settori conservatori, che
ebbero una presa notevole fino alla Prima guerra mondiale54, ma anche dai nuovi attori della
politica europea, come i movimenti nazionalisti o, in misura molto minore, quelli democratici e
socialisti. La lunga separatezza che era stata imposta agli ebrei non aveva impedito rapporti con gli
ambienti circostanti, ma aveva preservato nelle popolazioni l'idea di un lignaggio distinto. Le nuove
forme apertamente razziste di rappresentazione di questa distinzione si legavano a registri di più
vecchia data, che avevano da tempo consolidato l'idea di una peculiare “natura” degli ebrei55. La
millenaria, ma tutt'altro che statica, tradizione antigiudaica non si contrappose nettamente al nuovo
antisemitismo, che a sua volta ne ereditava molti tratti culturali, e li riformulava in chiave laica e
scientista. Essa tese, invece, come nel caso delle gerarchie cattoliche, a conquistarne l'egemonia,
emarginandone i tratti di apertura alla modernità e di ostilità alle vecchie autorità56. La prospettiva
andava mutando e all'appello alla conversione degli ebrei e al riconoscimento del loro ruolo
subalterno di testimoni si sostituiva la centralità del ritorno a legislazioni speciali discriminatorie.
Queste misure, largamente invocate da vecchi e nuovi fautori dell'antiebraismo, rivelavano ancora
una volta la continuità non solo delle immagini stereotipe dell'Ebreo, ma anche di pratiche e
comportamenti. Come mostrarono drammaticamente i pogrom russi dei primi anni Ottanta
dell'Ottocento, i massacri e le espulsioni (sia pure indirette, in forma di emigrazione di massa)
continuavano anche nell'età del progresso. Persisteva la tentazione dell'esclusione, negli ultimi anni
del secolo ancor presente persino nella patria della Rivoluzione (come rivelò l'affaire Dreyfus) e
rafforzata dai molteplici legami che si instauravano fra istituzioni, agitatori antisemiti e movimenti
sociali, come nel caso dei molti processi che i tribunali tedeschi e austroungarici istituirono contro
gruppi di ebrei, legittimando l'infamante accusa di “omicidio rituale”57. Con il Novecento e la Prima
guerra mondiale, l'asse della cultura antisemita si spostò verso il centro del continente, ove
fiorivano movimenti e politiche antiebraiche. Nel corso degli anni Trenta la legislazione e l'azione
naziste rappresentarono l'esempio più radicale e coerente in un tessuto antisemita ben più ampio58.
La differenza religiosa e culturale della diaspora aveva dato luogo alla più importante esperienza di
costruzione e gestione dell'“alterità” in Occidente: l'Ottocento inserì la rappresentazione degli ebrei
in un più ampio discorso sulle razze, con la sua precisa gerarchia e il suo percorso evolutivo, a sua
volta parte di un discorso sociale che tendeva a “essenzializzare” popoli e culture59. Anche se
presentava varianti rovesciate, in generale l'antisemitismo contrapponeva la riscoperta di comunità
naturali (nazionali, etniche e religiose) alla dissoluzione delle identità tradizionali ad opera di una
modernità capitalistica naturalizzata e personificata nelle figure degli ebrei emancipati60.
Il fondamento rivendicato da queste comunità contrapposte alla modernità, che sotto la forma di un
ritorno al passato celavano la loro sostanziale novità storica, era spesso di carattere “etnico”: la
discendenza, il sangue, la parentela allargata e infine la razza davano alla nazione una consistenza e
un radicamento che permetteva di accompagnare i rapidi mutamenti impressi alle società europee
dalla transizione al capitalismo industriale. Se le trasformazioni dell'antisemitismo mostravano la
problematicità della presa delle religioni tradizionali, ma anche i loro tentativi di contrastare la
secolarizzazione, il culto della patria divenne una nuova forma di religione e di appartenenza.
L'Ottocento è stato il secolo dell'avvio della nazionalizzazione delle coscienze e delle strutture,
dagli stati-nazione con i loro eserciti e scuole di massa alle storie e culture nazionali61. La
costruzione del “popolo”, base e sostanza della nazione, presupponeva l'omogeneizzazione interna e
la distinzione dall'esterno: l'età del nazionalismo fu anche l'età della creazione di “minoranze”
nazionali e della transizione dalla xenofobia locale, fra regioni o province, a quella contro lo
straniero in quanto non-connazionale, nemico al di là delle frontiere, ma anche al di qua, come
immigrato62. Lo stesso “popolo” venne “etnicizzato” come comunità armonica e, con l'incedere
della democratizzazione, formalmente egualitaria, al di sopra delle divisioni e dei conflitti, specie
quelli di classe. La torsione völkisch del nazionalismo grande-tedesco e pan-germanista è esemplare
di questa dinamica di irrigidimento razziale dell'appartenenza nazionale63. Razzismo e nazionalismo
non si implicano necessariamente, ma ben lungi dall'escludersi costituiscono una coppia dialettica
che si è articolata storicamente nella ridefinizione delle appartenenze e delle politiche
nell'Ottocento64. Lo sbocco della “nazionalizzazione delle masse” fu la fioritura di stereotipi
contrapposti del nemico nel corso della Grande guerra, che accompagnò un dispiegamento inaudito
di violenza e di morte65.
Se l'antisemitismo si radicava in una differenza religiosa e il nazionalismo colmava con una nuova
forma di religiosità secolare il vuoto antropologico lasciato dal lento declino delle religioni
cristiane66, il culto della scienza “positiva” si contrappose lungo tutto l'Ottocento alle visioni che
spiegavano il mondo a partire da entità trascendenti. Il terreno cruciale di questo scontro fu proprio
l'uomo, che la scienza volle ricollocare in seno alla natura, alle sue leggi evolutive, con Darwin, o ai
suoi meccanismi elementari di funzionamento fisico-chimico, con la nuova fisiologia. Anche
l'antropologia rifiutava l'idea religiosa e metafisica dell'anima e privilegiava l'esame del corpo,
proseguendo un'attenzione che aveva caratterizzato il disciplinamento moderno. Il nuovo sapere
tese per tutto il secolo a produrre una spiegazione scientifica delle differenze fra gli uomini,
classificandole minuziosamente e cercando di raggrupparle in tipi, le razze, come si era fatto per gli
altri animali. Il discorso sulle razze umane, centrale per l'antropologia, fu patrimonio di molti altri
campi di studio67. Sin dal tardo Settecento la linguistica comparata aveva individuato una coppia di
famiglie di lingue, destinata a essere ben presto razzializzata nella distinzione fra “ariani” e
“semiti”, un'opposizione poi radicalizzata in conflitto costitutivo dall'antisemitismo, dal
nazionalismo e più in generale dal razzismo68. Più tardi, nel corso del XIX secolo le nascenti
scienze sociali, dalla sociologia alla criminologia, avrebbero fatto sovente riferimento alle razze69.
Alla febbre del sapere si affiancò ben presto la tentazione del potere, con l'eugenetica, un campo di
studi e applicazioni pratiche trasversale a schieramenti e discipline, che voleva intervenire sulle
condizioni di vita e sulla riproduzione per apportare miglioramenti alla razza. Descritto, misurato e
matematizzato, il corpo umano era una straordinaria risorsa per la classificazione e la gerarchia
delle razze, ma nelle sue patologie e malformazioni era anche un sintomo del grande pericolo che
minacciava le stirpi superiori: il lento dinamismo dell'evoluzione poteva rovesciarsi nello spettro di
una rapida “degenerazione” delle popolazioni. L'ambientalismo che aveva segnato la riflessione
pre-antropologica, con i suoi determinismi climatici e geografici, veniva trasfigurato in un discorso
che iscriveva le trasformazioni ambientali nei corpi degli individui, mediante i dispositivi
dell'ereditarietà. Forma estrema di politica scientifica della popolazione, l'eugenetica si proponeva
la redenzione delle razze europee dal rischio della degenerazione. Pur risentendo di umori
moralistici ed estetizzanti (la salute come forma e viatico della virtù e della bellezza) ed essendo
animata da un vero fervore utopico, l'eugenetica offriva i suoi servigi a Stati nazionali bisognosi di
soldati, cittadini e produttori forti, sani e virtuosi. Nella loro varietà, le idee dell'eugenetica, che
penetrarono ben presto nelle università europee, erano ritenute rispettabili e moderne ed erano
ampiamente condivise da molti progressisti e persino da settori socialisti, che le arruolavano in una
lotta alle autorità tradizionali condotta nel nome di una società guidata dalla razionalità della
scienza. Tuttavia non si trattò di mere idee: la misurazione del livello di intelligenza innata fu alla
base di importanti trasformazioni nelle istituzioni scolastiche europee, mentre in una vasta area
degli Stati Uniti e in Scandinavia vennero promosse campagne di sterilizzazione forzata70.
Vittime o beneficiari delle politiche eugenetiche erano soprattutto esponenti delle classi subalterne,
più esposti ai sintomi della “degenerazione” e meno istruiti. Sotto questo profilo l'eugenetica si
profilava come politica sociale ispirata a un vero e proprio razzismo di classe, di cui rappresentava
l'estrema formalizzazione scientifica. La rappresentazione negativa dei poveri e delle classi
popolari, soprattutto contadine, aveva disseminato stereotipi secolari, che entrarono in sintonia
prima con l'autorappresentazione dell'aristocrazia come casta ereditaria di privilegiati (il mito del
“sangue” nobiliare, confluito nella trasfigurazione razziale dello scontro interno ai dominanti), poi
con le forme del razzismo e del sessismo moderni71. La crescita della classe operaia in un mondo
sempre più industrializzato e lo spettro dell'Ottantanove, del Terrore e delle rivolte popolari che
avevano abbattuto l'antico regime, radicalizzarono queste rappresentazioni. In una circolazione
continua di tratti e caratteri, l'immagine del proletario moderno si sovrappose non solo, secondo un
modello che risaliva allo schiavo della Politica di Aristotele, a quella di donne e bambini, ma anche
agli stereotipi dei selvaggi, dei barbari e delle razze inferiori, dei criminali e dei folli72.
L'egualitarismo delle rivoluzioni borghesi rivelò ben presto i suoi limiti storici (e geografici): la
persistenza dell'ineguaglianza infranse la fragile unità del Terzo Stato e ribadì l'esclusione dal
potere del Quarto Stato dei lavoratori, legittimata attraverso la giustapposizione delle funzioni, ma
più spesso della corporeità e delle capacità intellettuali e morali, dei lavoratori manuali a quelle
delle classi dirigenti73. Alla nascita del movimento operaio e socialista, che portò all'inasprimento
del conflitto di classe, le élites europee risposero in maniera ambivalente e oscillante, alternando
repressione e spinte alla democratizzazione, integrazione nell'alveo nazionale ed esclusione dai
diritti e dalla mobilità sociale. La grande città era percepita come spazio sottoposto a tensioni tali da
mettere a repentaglio vecchie e nuove forme di potere, sovvertendo secoli di disciplinamento.
Politicizzando esplicitamente questa minaccia, la breve e tragica esperienza della Comune di Parigi
rappresentò per le classi dirigenti e gli intellettuali europei un vero incubo. In quegli stessi anni, alla
classe operaia si attribuiva una funzione di contagio, non solo come metafora della sovversione
politica, ma come realtà fattuale: era ampiamente diffusa la convinzione che la degenerazione, le
malattie veneree, forme innate di criminalità e l'alcoolismo dilagassero al fondo della società e ne
minacciassero le fondamenta. La “psicologia delle folle” era forse la variante più elaborata del
razzismo di classe, che fu anche una premessa implicita delle teorie elitiste novecentesche. La sfida
della Rivoluzione d'Ottobre portò alla radicalizzazione di questa tradizione razzista, con
l'equivalenza fra bolscevismo e spirito asiatico, fra nemico di classe e razze inferiori74.
Il tessuto unificante di queste tradizioni razziste era offerto da una serie di idee, spesso molto vaghe:
la corrispondenza fra caratteri del corpo e facoltà della mente, la trasmissione ereditaria di tratti
psichici e fisici, ma soprattutto la gerarchia, evolutiva o meno, delle popolazioni e delle classi. La
fortuna e la diffusione dei discorsi sulle razze si dovette anche alla capacità di intrecciare questi
tratti condivisi dall'opinione colta e popolare in un progetto di ricerca scientifica, l'antropologia.
Questo sapere formalizzato racchiudeva una visione del mondo facilmente volgarizzabile: il suo
sguardo, dopo tutto, era nato con l'incontro coloniale, uno dai grandi laboratori del razzismo75.
L'espansione europea datava dal tardo Medioevo e dalla crisi delle società feudali. La conquista
americana produsse la scomparsa, nel giro di poche generazioni, di almeno 60-80 milioni di membri
delle popolazioni indigene. Non si trattò di un genocidio programmato e intenzionale e la maggior
parte dei decessi si dovette alle epidemie di nuove malattie esportate dagli europei. Tuttavia lo
sterminio dovuto all'opera dei colonizzatori ebbe dimensioni di massa, sia per i massacri diretti, sia
per la distruzione psicofisica dovuta al lavoro servile nelle miniere, alla fame e alla disarticolazione
delle comunità76. La fine delle società tradizionali innescò la diffusione del modello delle prime
piantagioni schiaviste, la deportazione di almeno 15 milioni di africani e la loro riduzione in
schiavitù in Brasile, nelle Antille e nel Nord America, legittimata da nuovi discorsi razzisti77.
Nonostante le resistenze indigene, il processo avviatosi nel primo Cinquecento si sarebbe protratto
fino all'età contemporanea. L'incubo della rivolta trovò un'incarnazione esemplare nella prima
rivoluzione anticoloniale, che trasferì le idee giacobine ad Haiti78. Eppure la conquista proseguì nel
secolo successivo, fino alle “guerre indigene” sudamericane e all'estensione delle “frontiera”
statunitense attraverso il Far West a scapito dei “pellerossa”. La schiavitù venne abolita solo nel
corso dell'Ottocento, al prezzo di numerosi conflitti, il più noto dei quali è la Guerra civile
americana (1861-1866). L'eredità dell'espansione europea resta incalcolabile, anche perché
nell'Ottocento alla conquista americana, alla tratta degli africani e alla schiavitù si sarebbe aggiunto
il rilancio su scala globale del colonialismo. Nuove potenze, Francia e Gran Bretagna, si erano
affiancate alle corone di Spagna e Portogallo nella gara commerciale e coloniale: dai loro nuovi
imperi, insieme ad altre nazioni (Belgio, Olanda, Italia e Germania), si lanciarono nel XIX secolo in
un progetto di dominio diretto, che coinvolse anche Africa, Asia e Oceania. Al mito della
civilizzazione e dell'esportazione del progresso e della libertà fece riscontro una pratica di dominio
e violenza, che legittimava in nome di una presunta differenza qualitativa dei bianchi europei la
brutalità dello sfruttamento delle popolazioni e dell'appropriazione delle risorse79. Dinanzi alle crisi
di sussistenza che esplosero a più riprese nei paesi tropicali, i cui effetti devastanti non trovavano
riscontri nella storia precedente e si dovettero alla distruzione dei meccanismi di tutela delle società
tradizionali ad opera dell'espansione europea, le autorità coloniali invocarono la malignità del clima
e la disaffezione al lavoro dei nuovi sudditi80. Il tracollo demografico, cui gli europei, dopo aver
contribuito a innescarlo, assistettero passivamente, fu decisivo nell'approfondire il divario sociale ed
economico fra Occidente e resto del mondo, ma fu affiancato da altri processi. Le resistenze locali
impegnarono le potenze imperiali in guerre coloniali caratterizzate dalla condotta criminale degli
eserciti europei, resa ancor più efficiente dall'immenso divario tenico81. I progetti di insediamento di
comunità “bianche” produssero l'espulsione, l'indebolimento demografico o l'annientamento degli
indigeni. Si trattasse di carestie, di guerre o di sostituzione di popolazioni, la retorica scientista ed
evoluzionista della lotta per l'esistenza e della selezione dei tipi migliori perché più adatti trasferì
l'apologia della concorrenza dal mercato alle razze: la morte degli indigeni sanciva la superiorità
biologica e culturale degli europei82. La violenza esorcizzata nelle relazioni fra Stati europei nel
corso dell'Ottocento, un secolo piuttosto pacifico rispetto ai precedenti, si scatenava su scala
planetaria nei loro immensi imperi, ove si fissava in forme istituzionali.
0001000020 ‣ Logiche e spazi del razzismo . Le cinque tradizioni razziste che si cristallizzano nel
XIX secolo convergono, attraverso gli snodi storici cruciali del Novecento, nella peculiare sintesi
nazista, culminata nello sterminio. Le metamorfosi ottocentesche del razzismo hanno contribuito
alla “continuità storica che fa dell'Europa liberale un laboratorio delle violenze del Novecento e di
Auschwitz un prodotto autentico della civilizzazione occidentale”83. Le difficoltà a riconoscere
questa continuità sono largamente dipendenti dal modo in cui si è pensato il razzismo e se ne è
narrata la storia.
La grande varietà di “storie” che sostanzia la “storia particolare” del razzismo ha portato sovente gli
studiosi ad articolare il fenomeno in una serie di “razzismi”, la cui classificazione è strettamente
dipendente dal taglio disciplinare dell'analisi e da altri condizionamenti più o meno impliciti. Dal
punto di vista delle vittime del razzismo, esistono tanti razzismi quanti sono i gruppi che lo
subiscono, in un processo di suddivisione che risponde a reali peculiarità, ma che riproduce le
definizioni del gruppo create o utilizzate dai razzisti stessi. Raggruppare questi razzismi nei grandi
insiemi dell'“interno” o dell'“esterno” di una società risente invece della logica della nazione, per
cui le società sono divise da frontiere nazionali, o di quella della colonie, per cui la “madrepatria” è
separata dal suo “oltremare”: sono logiche che presentano punti ciechi proprio su aspetti nevralgici
per la storia del razzismo, come ad esempio il ruolo degli immigrati, delle minoranze e dei
cosiddetti “meticci”. Dal punto di vista dei caratteri del razzismo si presentano invece dicotomie
tassonomiche, che ricalcano i profili culturali (razzismo elaborato teoricamente o pregiudizio
spontaneo), la distinzione fra Stato e società (razzismo istituzionale o movimento sociale), il grado
di autonomia (ideologia in qualche modo secondaria a interessi e progetti o movimento politico con
una propria visione del mondo), i meccanismi interni di funzionamento (razzismo dell'inclusione,
che tende allo sfruttamento in una logica dell'ineguaglianza e della gerarchia, o dell'esclusione, che
tende all'espulsione, ma anche allo sterminio, in una logica della differenza e della purificazione)84.
Anche se risentono della recente tendenza a scomporre infinitamente gli oggetti, tendenza che non
esenta la pluralità delle articolazioni (i “razzismi”) dalle medesime ipostatizzazioni delle grandi
categorie (il “razzismo”) cui viene contrapposta, tutte queste distinzioni hanno un'indubbia utilità e
permettono di articolare socialmente il fenomeno.
Sul piano storico, in reazione alle proposte di continuità di lunghissimo periodo, che portano a
cercare le origini del razzismo nel Medioevo o nell'Antichità, se non a iscriverlo negli universali
della natura umana, si è spesso caduti nella tentazione opposta, quella di isolare il Novecento come
secolo criminale. Si è persa così non solo la processualità che lega il XX al XIX secolo, ma anche la
più lunga vicenda del razzismo, che getta le proprie radici nell'età moderna e non solo nelle
indubbie premesse settecentesche. Il razzismo non può nascere se non in contrapposizione alla
rivendicazione dell'unità del genere umano, dell'eguaglianza e dell'emancipazione85. L'insistenza
sulle trasformazioni del XVIII secolo ha portato ad insistere sul ruolo della scienza e dei discorsi
razziali, a privilegiare le dinamiche interne all'Europa e l'atteggiamento verso la minoranza
ebraica86. In questo modo si è sottolineato il peso dell'antisemitismo, rendendo invisibile l'altro
grande catalizzatore delle tradizioni razziste, il razzismo globale, e con esso il peso dell'esperienza
coloniale e, più in generale, dell'età dell'imperialismo nella genesi del fascismo e dello sterminio87.
Insistere sull'importanza del razzismo coloniale significa collocare l'esperienza europea nel tessuto
delle relazioni internazionali, considerare una periodizzazione più lunga delle origini del razzismo
(e riconsiderare anche le relazioni fra le diverse forme di antiebraismo), valutare le scienze della
razza in un contesto più ampio di saperi e discorsi88. La difficoltà a considerare in una prospettiva
unitaria i percorsi storici delle varie tradizioni razziste, in particolare il razzismo “bianco” e quello
antiebraico, rimanda anche a difficoltà teoriche, legate a definizioni ristrette di “razzismo” o alla
scomposizione dell'oggetto in una pluralità di “razzismi” distinti. La definizione ristretta più diffusa
ritiene che il razzismo dipenda necessariamente da una teoria o da un mito della razza e porta a
privilegiare una storia centrata sull'età contemporanea. L'idea dei “razzismi” nega l'identità di fondo
del fenomeno storico su cui si articolano le indubbie peculiarità e si spinge talora a ritenere
impossibile la comparabilità delle vicende e a non riconoscere i molti intrecci fra le diverse
esperienze.
L'esame delle retoriche razziste porta in realtà a individuare elementi comuni alla varie tradizioni,
su tutti l'invenzione della razza mediante processi di “razzizzazione” che trascrivono in linguaggio
naturalistico i caratteri attribuiti collettivamente a un gruppo, al fine di legittimare gerarchie ed
esclusioni in seno a determinate società89. Si tratta di affinità facilmente riscontrabili sul terreno
della storia delle ideologie e degli intellettuali, uno dei terreni su cui è nato lo studio del razzismo.
L'antropologia del primo Ottocento elabora il discorso sulle razze a cavallo fra scienza, storia ed
estetica: ad esempio nei suoi sviluppi prossimi alla fisiognomica o alla frenologia, ove l'idea di
bellezza si declina in termini antropometrici; oppure nella sua interazione con le categorie elaborate
dai filologi e con le ricerche sulla Preistoria, nel dibattito sulle origini e i caratteri degli “arii”,
“indoeuropei” o “indogermani”. Se poco dopo le rivoluzioni del 1848 è lo stesso Gobineau a
segnalare come le razze si sovrappongano alle classi sociali e a condannare la civiltà alla decadenza
a causa della mescolanza, a fine secolo Vacher de Lapouge teorizza la via d'uscita in un socialismo
eugenetico e ariano, mixofobico e antisemita, mentre nel 1899 Chamberlain offre una sintesi teorica
del pensiero razziale, celebrando le radici “teutoniche” dell'Occidente e della modernità, in un
intreccio di argomenti storici e leggi darwiniane. Negli stessi anni Gustave Le Bon proietta sulla
“folla” le caratteristiche negative comuni alle classi e alle razze inferiori, mentre l'impresa di
Lombroso tenta di definire l'“uomo delinquente” come una sorta di primitivo in seno alla società
moderna, una tipologia umana dai caratteri organici ben precisi90. L'individuazione delle dinamiche
di “razzizzazione”, evidenti a livello di sintesi dottrinarie, ma rintracciabili anche in una dimensione
sociale allargata, rende possibile una definizione di razzismo che non si fondi ingenuamente
sull'esistenza oggettiva di “razze”, “etnie” o “differenze”, ma che non diluisca il fenomeno fino a
farlo coincidere con la xenofobia, l'etnocentrismo o la discriminazione.
Se la storia delle retoriche razziste, intesa in senso socialmente ampio come storia della diffusione e
condivisione di narrazioni e visioni del mondo, aiuta a mostrare l'unità discorsiva del campo del
razzismo attorno ai dispositivi di razzizzazione che connettono dominazione e stereotipi, le scienze
storico-sociali precisano il razzismo come “rapporto sociale” e come dinamica di creazione di una
“comunità” razzista, ovvero come “fenomeno sociale totale”91. Il razzismo si apre uno “spazio”
nelle società moderne quando il conflitto e le identità sono irrigiditi in forme antropologiche e
naturalistiche e abbandonano il linguaggio più fluido delle categorie sociali92. A ognuno dei livelli
in cui si articola la “razzizzazione” è possibile comparare i diversi razzismi e i loro usi93. Alla base
vi è la continua circolazione e riproduzione di pregiudizi e stereotipi, che assume forme codificate
nelle opere letterarie o nelle dottrine, ma che si esprime soprattutto in forma di “voce”, luogo
comune, chiacchiera quotidiana94. La “razzizzazione” si politicizza ad opera di movimenti e
soggetti che veicolano o propagandano apertamente il razzismo come ideologia, pratica della
violenza e programma operativo di distinzione fra “noi” e “loro”. Un salto di qualità si ha quando il
razzismo giunge a definire i confini e le regole di una “società razzializzata”, che si riconosce in
quanto comunità etnica che gerarchizza (ed esclude) attraverso la fissazione di identità razziali.
L'intervento dello Stato e la sanzione legale della discriminazione, della segregazione e della
mixofobia hanno dato vita a “regimi apertamente razzisti”, i cui esempi storici sono gli Stati
statunitensi del Sud dopo la guerra civile, la Germania nazista e il Sudafrica del secondo
Novecento95.
0001000020 ‣ Il razzismo dopo Auschwitz . Anche se i primi tentativi di interpretazione del
razzismo risalgono agli anni fra le due guerre, solo dopo la svolta del 1945 le scienze storico-sociali
hanno moltiplicato le prospettive di ricerca costruendo tradizioni disciplinari di analisi. Mentre nel
dopoguerra la sociologia e la psicologia hanno approfondito lo studio delle race relations o di
pregiudizi e stereotipi, molto più tardi la storiografia ha assunto il razzismo come oggetto di
studio96. Il dialogo fra i diversi approcci ha permesso un confronto ampio e lo scambio di strumenti
analitici, ma è maturato solo in anni relativamente recenti, in seguito a importanti trasformazioni del
razzismo stesso. La segregazione degli afroamericani venne definitivamente smantellata solo negli
anni Sessanta, ma le sue eredità attraversano tuttora la società statunitense, così come quelle
dell'apartheid, abbattutto quasi trent'anni dopo, segnano il nuovo Sudafrica. Se fenomeni di
razzismo ai danni dei lavoratori migranti che si spostavano dal sud al nord dell'Europa o dalle
periferie ai centri dei vecchi imperi si segnalarono sin dagli anni Cinquanta, gli anni Settanta, con la
fine dell'“età dell'oro” del capitalismo e la crisi del movimento operaio, hanno riaperto spazi al
razzismo, contro nuove categorie di lavoratori immigrati. Questi scenari hanno accompagnato una
riformulazione culturalista del razzismo, smentendo la necessaria associazione alle teorie
scientifiche della razza che l'esempio nazista e l'incubo di Auschwitz avevano imposto alle
coscienze e agli studi. Nell'economia simbolica del “neorazzismo” ampiamente diffuso in
Occidente, il ruolo della razza può essere assunto dalla cultura, essenzializzata fino a funzionare da
seconda natura97. Proprio quella rigidità ha permesso la riformulazione e riemersione delle categorie
razziali tradizionali, sia nel discorso popolare, sia in quello politico o scientifico. Questa apertura
del dispositivo razzista, che può associarsi alla scienza come alla religione, alla stigmatizzazione dei
migranti come agli antagonismi internazionali, invita a non sottovalutare la possibilità di ulteriori
metamorfosi e di nuovi, inquietanti ritorni. Note al saggio
1 - Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a c. di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti,
Einaudi, Torino 2000, p. 33.2 - Per questa tripartizione cfr. Raul Hilberg, Carnefici, vittime,
spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Mondadori, Milano 1994 [tit. orig. Perpetrators,
Victims, Bystanders: the Jewish Catastrophe, 1933-1945, Aaron Asher Books, New York 1992].3 George M. Fredrickson, Breve storia del razzismo, Roma, Donzelli 2002, p. 138 [tit. orig. Racism:
a Short History, Princeton University Press, Princeton NJ 2002]; Neil MacMaster, Racism in
Europe, 1870-2000, Palgrave, London 2001, pp. 169-70.4 - Per una sintesi dei problemi sollevati
dal processo cfr. Giovanni Gozzini, La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni dello
sterminio nazista, Milano, Mondadori 1996, pp. 25-33.5 - Su queste trasformazioni cfr. Elazar
Barkan, The Retreat of Scientific Racism. Changing Concepts of Race in Britain and US between
the World Wars, Cambridge University Press, Cambridge 1992. Sulle difficoltà di questa “ritirata”
cfr. anche Claudio Pogliano, Introduzione a Julian S. Huxley, Alfred C. Haddon, Noi Europei.
Un'indagine sul problema ``raziale'' con un contributo di Alexander M. Carr-Saunders, Edizioni di
Comunità, Milano 2002 [tit. orig. We Europeans. A Survey of ``Racial'' Problems, Jonathan Cape,
London 1935].6 - Sulla scia delle proposte degli anni Trenta il testo patrocinava il rifiuto del
termine stesso di “razza” e la sua sostituzione con “gruppo etnico”: Id., L'ossessione della razza.
Antropologia e genetica nel XX secolo, Edizioni della Normale, Pisa 2005, pp. 145-210.7 - Per il
caso francese si veda Pierre-André Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e
sull'antirazzismo, il Mulino, Bologna 1994, pp. 122-38 [tit. orig. La force du préjugé: essai sur le
racisme et ses doubles, La Découverte, Paris 1987].8 - Sulla dialettica fra “genocidio” e “civiltà” si
vedano: Dan Diner, Beyond the Conceivable. Studies on Germany, Nazism, and the Holocaust,
University of California Press, Berkeley CA 2000; Omer Bartov, Murder in our Midst. The
Holocaust, Industrial Killing and Representation, Oxford University Press, New York 1995; Enzo
Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002. Per le prime
concettualizzazioni di quella dialettica cfr. Id., Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura
del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2004, pp. 227-40.9 - Sul “privilegio epistemologico” offerto
dall'esilio cfr. ivi, pp. 31-40.10 - Léon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi,
Torino 1955 [tit. orig. Bréviaire de la haine: le III Reich et les Juifs, Calmann-Levy, Paris 1951];
Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1995 [tit. orig. The Destruction
of the European Jews, Quadrangle Books, Chicago IL 1961].11 - Anna Vera Sullam Calimani, I
nomi dello sterminio, Einaudi, Torino 2001.12 - Peter Novick, The Holocaust in American Life,
Houghton Mifflin, Boston 1999; Peter Reichel, Memorie nazionali della Shoah, in
“Contemporanea”, n. 3, il Mulino, Bologna 2002; Esther Benbassa e Jean-Christophe Attias, Les
Juifs ont-ils un avenir? [2001], Hachette, Paris 2002.13 - Cfr. Diner, Beyond cit. e Saul Friedländer,
L'Allemagne nazie et les Juifs, vol. I, Les années de persécution, 1933-1939, Seuil, Paris 1997, pp.
13-14. Per il rapporto fra storia e memoria si veda Traverso, Auschwitz e gli intellettuali cit., pp.
227-40. Sui rischi della sacralizzazione della memoria è ancora utile il dibattito fra Arno J. Mayer
(Memory and History: On the Poverty of Remembering and Forgetting the Judeocide, in “Radical
History Review”, n. 56, Duke University Press, Durham NC 1993), Charles S. Maier (Un eccesso di
memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione [1993], in “Parolechiave”, n. 9,
Donzelli, Roma 1995) e Omer Bartov (Intellectuals on Auschwitz: Memory, History and Truth
[1993], in Id., Murder cit.).14 - Riprendo qui i quattro momenti del “processo di distruzione”
individuati da Hilberg, La distruzione cit., pp. 51-61 e 1080. Per un riepilogo storiografico cfr. Ian
Kershaw, Che cos'è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, Bollati Boringhieri,
Torino 1996 [tit. orig. The Nazi Dictatorihip: Problems and Perspectives of Interpretation, Edward
Arnold, London 1985] e Michael Marrus, L'Olocausto nella storia, il Mulino, Bologna 1994 [tit.
orig. The Holocaust in History, Tauber Institute for the Study of European Jewry, Hanover-London
1987]. In sintesi: Enzo Traverso, Gli Ebrei e la Germania. Auschwitz e la “simbiosi ebraicotedesca” [1992], il Mulino, Bologna 1994, pp. 175-219 (Auschwitz, la storia e gli storici) e Bartov,
Murder cit., pp. 53-70.15 - Charles S. Maier, A Holocaust like the Others? Problems of
Comparative History, in Id., The Unmasterable Past. History, Holocaust, and German National
Identity, Harvard University Press, Cambridge-London 1988. Per il confronto con i campi sovietici:
Giovanni Gozzini, Le peculiarità dell'universo concentrazionario sovietico [1999], in “Novecento”,
n. 6-7, Istituto Storico di Modena 2002. Stimolanti riflessioni sul concetto di “genocidio” in JeanLoup Amselle, Connessioni. Antropologia dell'universalità delle culture, Bollati Boringhieri,
Torino 2001 [tit. orig. Branchements. Anthropologie de l'universalité des cultures, Flammarion,
Paris 2001].16 - Sulle cui contraddizioni cfr. Gisela Bock, Antinatalism, Maternity and Paternity in
National Socialist Racism [1992], in Maternity and Gender Policies. Women and the Rise of the
European Welfare States, 1880-1950s, a c. di Gisela Bock e Pat Thane, Routledge, London-New
York, 1994.17 - Per un quadro d'insieme: Üdouard Conte, Cornelia Essner, La quête de la race.
Une anthropologie du nazisme, Hachette, Paris 1995 (trad. it. parz. Culti di sangue. Antropologia
del nazismo, Carocci, Roma 2000); Michael Burleigh, Third Reich. A New History, Hill and Wang,
New York 2000, pp. 345-404 e, più ampiamente, Id., Wolfgang Wippermann, Lo Stato razziale.
Germania 1933-1945, Rizzoli, Milano 1992 [tit. orig. The Racial State: Germany, 1933-1945,
Cambridge University Press, New York 1991]. Importanti rilievi metodologici in Alberto Burgio,
La lingua dei Signori della Terra. Il razzismo nazista fra biologia e culturalismo in “L'impegno”,
Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea, Borgosesia 1994, e [1994], in
Id., L'invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, manifestolibri, Roma 1998 e,
sul razzismo come “politica sociale”, in Detlev Peukert, Storia sociale del Terzo Reich, Sansoni,
Firenze 1989, pp. 214-44 [tit. orig. Volksgenassen und Geneinschaftefrende, Bund, Ko«ln 1982].18
- Il processo di morte elaborato per l'occasione (le camere a gas), così come parte del personale
coinvolto, venne poi utilizzato nel corso della guerra: prima di contribuire alla “Soluzione finale”
della “questione ebraica” fu applicato anche ai prigionieri dei campi di concentramento giudicati
inabili al lavoro (Aktion 14f13). Cfr. Michael Burleigh, Death and Deliverance. ``Euthanasia'' in
Germany, 1900-1945, Cambridge University Press, Cambridge 1994 e Henry Friedländer, Le
origini del genocidio nazista. Dall'eutanasia alla soluzione finale, Editori Riuniti, Roma 1997 [tit.
orig. The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution, University of North
Carolina Press, Chapel Hill NC 1995].19 - Robert Kesting, The Black Experience during the
Holocaust, in The Holocaust and History. The Known. The Unknown, the Disputed, and the
Reexamined, a c. di Michael Berenbaum e Abraham J. Peck, United States Holocaust Memorial
Museum, Washington DC – Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1998; Guenter
Lewy, La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2002 [tit. orig. The Nazi Persecution
of the Gypsies, Oxford University Press, New York 2000] e Otto Rosenberg, La lente focale. Gli
zingari nell'Olocausto, Marsilio, Venezia 2000 [tit. orig. Das Brennglas, Eichborn, Berlin 1998].20
- Enzo Collotti, L'Europa nazista. Il progetto di un nuovo ordine europeo (1939-1945), Giunti,
Firenze 2002; Omer Bartov, Fronte orientale. Le truppe tedesche e l'imbarbarimento della guerra
(1941-1945), il Mulino, Bologna 2003 [tit. orig. The Eastern Front, 1941-45: German troops and
the Barbarisation of Warfare, Palgrave, New York 2001]; Barbara Stelzl-Marx, Prigionieri di
guerra sovietici nel Terzo Reich, in Olocausto/Olocausti. Lo sterminio e la memoria, a c. di
Francesco Soverina, Odradek, Roma 2003, e Gerhard Schreiber, Prigionieri di guerra e sterminio,
in Totalitarismo, lager e modernità. Identità e storia dell'universo concentrazionario, B.
Mondadori, Milano 2002.21 - Ulrich Herbert, Labour and extermination: economic interest and the
primacy of Weltanschauung in National Socialism [1987], in “Past and Present”, n. 138, Oxford
University Press, Ozford 1993 e, più ampiamente, Id., Hitler's Foreign Workers. Enforced Foreign
Labor in Germany under the Third Reich, Cambridge University Press, New York 1997 [tit. orig.
Fremdarbeiter. Politik und Praxis des Auslander-Einsatzes in der Kciegswistschaft des Dritten
Reiches, Bonn-Berlin 1985]. Cfr. anche gli studi di Dan Diner, Beyond the Conceivable. The
Judenrat as Borderline Experience [1990] e Historical Understanding and Counterrationality. The
Judenrat as Epistemological Vantage [1992], in Id., Beyond cit. e, fra i lavori di Christopher R.
Browning, Procedure finali. Politica nazista, lavoratori ebrei, assassini tedeschi, Einaudi, Torino
2001 [tit. orig. Nazi Policy, Jewish Workers, German Killers, Cambridge University Press, New
York 2000].22 - Sul carattere “moderno” dello sterminio, segnalato già da Hannah Arendt, cfr.
Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992 [tit. orig. Modernity and the
Holocaust, Cornell University Press, Ithaca NY 1989].23 - Philippe Burrin, Ressentiment et
apocalypse. Essai sur l'antisémitisme nazi, Seuil, Paris 2004 e, per un profilo del particolare
“antisemitismo redentore”, Friedländer, L'Allemagne nazie cit., pp. 83-119. Più in generale cfr.
Massimo Ferrari Zumbini, Le radici del male. L'antisemitismo in Germania: da Bismarck a Hitler,
il Mulino, Bologna 2001.24 - Termine introdotto in Germania a fine Ottocento e indicante
un'ideologia a carattere nazional-popolare con tratti razzisti e antisemiti.25 - Per l'esempio della
cultura di Hitler cfr. Burrin, Hitler et les Juifs cit., pp. 19-36 e, per le origini, fra Vienna e
l'esperienza di guerra, Ian Kershaw, Hitler 1889-1936 [1998], Bompiani, Milano 1999, pp. 82-91 e
passim.26 - Traverso, Gli ebrei cit., pp. 178-83.27 - Hilberg, La distruzione cit., pp. 1008-13 e
1076-83.28 - Per l'idea della “sintesi” cfr. Traverso, La violenza cit.29 - La distinzione, qui
schematizzata all'estremo e originariamente applicata alla ricostruzione del dibattito sul nazismo, si
deve a Timothy W. Mason, Intention and Explanation. A Current Controversy about the
Interpretation of National Socialism, in Der Führerstaat: Mythos und Realität, a c. di von Gerhard
Hirschfeld e Lothar Kettenacker, Klein-Cotta, Stuttgart 1981.30 - Dan Diner, Discorsi sulla colpa e
altre narrative. Osservazioni sull'epistemologia dell'Olocausto [1997], in “Novecento”, n. 3,
Istituto Storico di Modena 2000, in particolare p. 34.31 - In questo senso sono esemplari gli studi di
Christopher R. Browning (funzionalista “moderato”: Fateful Months. Essays on the Emergence of
the Final Solution, Holmes & Meier, New York 1985), di Philippe Burrin (fautore di un
intenzionalismo “condizionato”: Hitler et les juifs. Genèse d'un génocide, Seuil, Paris 1989; trad. it.
Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio, Marietti, Genova 1994) e i già citati lavori di Enzo
Traverso.32 - Diner, Discorsi cit., pp. 35-36. Resta tuttavia la reciprocità del condizionamento fra
convinzioni e comportamento, dato che possono essere le condotte a ispirare la ricerca di
giustificazioni a posteriori (Christopher R. Browning, Natura umana, cultura e Olocausto [1996],
in Id., Verso il genocidio [1992], il Saggiatore, Milano 1998; tit. orig. The Path to Genocide. Essays
on Launching the Final Solution, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1992).33 Id., Uomini comuni. Polizia tedesca e ``soluzione finale'' in Polonia, Einaudi, Torino 1999 [tit. orig.
Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, HarperCollins, New
York 1992] e Id. Uomini comuni o comuni tedeschi? Il dibattito sulla natura degli esecutori
dell'Olocausto [1998], in Verso il genocidio cit., in polemica con Daniel J. Goldhagen, l'autore de I
volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'Olocausto, Mondadori, Milano 1997 [tit. orig.
Hitler's Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Knopf, New York, 1996]. Cfr.
anche Michael Mann, Were the Perpetrators of Genocide ``Ordinary Men'' or ``Real Nazis''?
Results from Fifteen Hundred Biographies, in “Holocaust and Genocide Studies”, n. 3, Oxford
University Press, Oxford 2000.34 - Sul problema del consenso e della partecipazione cfr. David
Bankier, The Uses of Antisemitism in Nazi Wartime Propaganda, in The Holocaust and History cit.
e, più in generale, Id., The Germans and the Final Solution, Blackwell, Oxford 1992. Sui gradi di
consapevolezza della popolazione verte la distinzione fra “indifferenza” (Ian Kershaw, German
popular opinion during the ``Final Solution'': information, comprehension, reactions, in
Comprehending the Holocaust, Lang, Frankfurt am Main 1989) e “complicità passiva” (Otto D.
Kulka, Aron Rodrigue, The German population and the Jews in Third Reich, in “Yad Vashem
Studies”, n. 16, Jerusalem 1984).35 - Enzo Traverso, Pour une critique de la barbarie moderne.
Ëcrits sur l'histoire des Juifs et de l'antisémitisme, Page deux, Lausanne 1996, p. 10; Marrus,
L'Olocausto cit., p. 36.36 - Per più ampie considerazioni sul ruolo di razzismo e antisemitismo cfr.
la rassegna di Ulrich Herbert, Extermination Policy: New Answers and Questions about the History
of the ``Holocaust'' in German Historiography, in National Socialist Extermination Policies.
Contemporary German Perspectives and Controversies [1998], a c. di Ulrich Herbert, Berghahn
Books, New York-Oxford 2000, pp. 1-52.37 - Diner, An Economicistic Explanation of the Final
Solution [1992], in Id., Beyond cit., in particolare pp. 155-156.38 - George Steinmetz,
Eccezionalismo tedesco e origini del nazismo: fortuna di un concetto, in Stalinismo e nazismo:
dittature a confronto [1997], a c. di Ian Kershaw e Moshe Lewin, Editori Riuniti, Roma 2002 [tit.
orig. Stalinism and Nazism: dictatorship in comparison, Cambridge University Press, CambridgeNewYork 1997].39 - Si confrontino George L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini
all'Olocausto, Mondadori, Milano 1992 [tit. orig. Toward the Final Solution: a History of European
Racism, H. Fertig, New York 1978] e Bauman, Modernità e Olocausto cit.40 - Hilberg, La
distruzione cit., pp. 6, 3.41 - Seguiamo qui Friedländer, L'Allemagne nazie cit., Bartov, Murder cit.
e Traverso, La violenza cit. (che riprende la lezione genealogica di Hannah Arendt, Le origini del
totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1989; tit. orig. The Origins of Totalitarianism,
Harcourt, New York 1951).42 - Il ruolo decisivo della guerra a Est per il passaggio dalla politica
antiebraica nazista allo sterminio è riconosciuto, con prospettive assai diverse, da Arno J. Mayer,
Soluzione finale. Lo sterminio degli Ebrei nella storia europea, Mondadori, Milano 1990 [tit. orig.
Why Did the Heavens not Darken? The “Final Solution” in History, Pantheon Books, New York
1988], da Burrin, Hitler et les Juifs cit. e da Browning, Verso il genocidio cit.43 - Traverso, La
violenza cit., pp. 82-88, 183; Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, pp. 50-52,
58-59 [tit. orig. The Age of Extremes: a History of the World, 1914-1991, Pantheon Books, New
York 1994].44 - Enzo Collotti, Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze 1989.45 - Jeffrey Herf, Il
modernismo reazionario. Cultura, tecnologia e politica nella Germania di Weimar e nel Terzo
Reich, il Mulino, Bologna 1988 [tit. orig. Reactionary Modernism: Technology, Culture and
Politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press, Cambridge-New York
1984].46 - George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, RomaBari 1990 [tit. orig. Fallen Soldiers Reshaping the Memory of the World Wars, Oxford University
Press, New York 1990]. Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, La violenza, la crociata, il
lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002 [tit. orig. 14-18, retrouver
la Guerre, Gallimard, Paris 2000].47 - Riprendo la definizione da Traverso, La violenza cit., pp. 2526 (ma cfr. anche pp. 117-118). Per la guerra come cesura periodizzante cfr. Mariuccia Salvati, Il
Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001.48 - Traverso, La violenza cit., pp.
180-81.49 - Ivi, pp. 44-57.50 - Per l'idea della duplice rivoluzione cfr. Eric J. Hobsbawm, Le
rivoluzioni borghesi, il Saggiatore, Milano 1963 [tit. orig. The Age of Revolution: Europe 17891848, Praeger Publishers, New York 1962]. L'accento su ghigliottina e workhouses si deve a
Traverso, La violenza cit., pp. 31-41. Sulle prigioni ottocentesche cfr. Michel Foucault, Sorvegliare
e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976 [tit. orig. Surveiller et punir: naissance de la
prison, Gallimard, Paris 1975] e Michelle Perrot, Les ombres de l'histoire. Crime et châtiment au
XIXe siècle, Flammarion, Paris 2001.51 - Etienne Balibar, Razzismo e nazionalismo [1987], in
Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Edizioni
Associate, Roma 1991, pp. 52, 56 [tit. orig. Race, nation, classe: les identités ambiguës, La
Découverte, Paris 1988].52 - Per diverse interpretazioni della natura relazionale delle identità
sociali si confrontino le considerazioni dell'antropologa Clara Gallini, Giochi pericolosi. Frammenti
di un immaginario alquanto razzista, manifestolibri, Roma 1996, pp. 74 e 134-136 (sulla scorta di
Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif?, Maspero, Paris 1981) con quelle dello psicologo
sociale Michael Billig, Banal Nationalism, Sage, London 1995.53 - Jacob Katz, From Prejudice to
Destruction. Anti-Semitism, 1700-1933, Harvard University Press, Cambridge 1980.54 - È la nota
tesi di Arno J. Mayer, Il potere dell'Ancien Régime fino alla Prima guerra mondiale, Laterza,
Roma-Bari 1994 [tit. orig. The Persistance of the Old Regime: Europe to the Great War, Pantheon
Books, New York 1981].55 - Piero Stefani, L'antigiudaismo. Storia di un'idea, Laterza, Roma-Bari
2004; Robert Chazan, Medieval Stereotypes and Modern Antisemitism, University of California
Press, Berkeley-Los Angeles 1997; Giacomo Todeschini, Stereotipi antisemiti: il serbatoio e il
ghiacciaio. A proposito di un seminario italo-francese di studi, in “Zakhor”, II, La Giuntina,
Firenze 1998 e la risposta di Giovanni Miccoli, Antisemitismo e ricerca storica, in “Studi storici”,
n. 3, Fondazione Feltrinelli, Milano 2000.56 - Id., Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra
Otto e Novecento, in Gli ebrei in Italia, a c. di Corrado Vivanti, Storia d'Italia - Annali 11, t. 2,
Einaudi, Torino 1997, pp. 1375-79. Per la continuità di questa mentalità cfr. Id., I dilemmi e i silenzi
di Pio XII, Rizzoli, Milano 2000. Cfr. anche Les racines chrétiennes de l'antisémitisme politique
(fin XIXe-XXe siècle), a c. di Catherine Brice e Giovanni Miccoli, Ücole française de Rome, Rome
2003.57 - Pogroms. Anti-Jewish Violence in Modern Russian History, a c. di John D. Klier e
Shlomo Lambroza, Cambridge University Press, Cambridge 1992; La France de l'affaire Dreyfus, a
c. di Pierre Birnbaum, Gallimard, Paris 1994; Ruggero Taradel, L'accusa del sangue. Storia politica
di un mito antisemita, Editori Riuniti, Roma 2002.58 - William I. Brustein, Roots of Hate. AntiSemitism in Europe before the Holocaust, Cambridge University Press, Cambridge 2003;
Antisemitismo in Europa negli anni Trenta. Legislazioni a confronto, a c. di Anna Capelli e Renata
Broggini, Angeli, Milano 2001; Asher Cohen, La politique antijuive en Europe (Allemagne exclue)
de 1938 à 1941, in “Guerres mondiales et conflits contemporains”, n. 150, PUF, Ëvry 1988.59 Marc Angenot, Ce que l'on dit des Juifs en 1889. Antisémitisme et discours social, Presses
Universitaires de Vincennes, Saint-Denis 1989.60 - Moishe Postone, Anti-Semitism and National
Socialism: Notes on German Reaction to ``Holocaust'', in “New German Critique”, n. 19, Cornell
University, New York 1980.61 - Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma,
mito, realtà, Einaudi, Torino 1991 [tit. orig. Nations and Nationalism since 1780: Programme,
Myth, Reality, Cambridge University Press, New York 1990]; Miroslav Hroch, In the National
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Comparative Perspective [1996], Charles University - Faculty of Arts, Prague 2000; Anne-Marie
Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, il Mulino, Bologna 2001 [tit. orig. La
création des identités nationales: Europe, XVIIIe-XXe siècle, Seuil, Paris 1999].62 - Panikos Panay,
Outsiders. A History of European Minorities, Hambledon, London 1999; Laurent Dornel, La
France hostile. Socio-histoire de la xénophobie (1870-1914), Hachette, Paris 2004.63 - George
Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore 1984 [tit. orig. The Crisis of
German Ideology; Intellectual Origins of the Third Reich, Grosset & Dunlap, New York 1964]. Per
un confronto con il caso francese cfr. Pierre Birnbaum, ``La France aux français''. Histoire des
haines nationalistes, Seuil, Paris 1993.64 - Balibar, Razzismo e nazionalismo cit. e Id., La forma
nazione: storia e ideologia [1988], in Balibar, Wallerstein, Razza, nazione, classe cit.; Robert
Miles, Le racisme européen dans son contexte historique. Réflexions sur l'articulation du racisme et
du nationalisme, in “Genèses”, n. 8, Iresco, Paris 1992; Alberto Burgio, La razza come metafora.
Ipotesi storiche sul razzismo europeo [1993], in Id., L'invenzione cit.65 - Per il caso franco-tedesco
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Imperialism in the Nineteenth Century, Oxford University Press, New York 1981]; Victor G.
Kiernan, Eserciti e imperi. La dimensione militare dell'imperialismo europeo 1815-1960, il Mulino,
Bologna 1985 [tit. orig. European Empires from Conquest to Collapse, 1815-1960, Leicester
University Press, Leicester 1982].82 - Imperial Monkey Businnes. Racial Supremacy in Social
Darwinist Theory and Colonial Practice, a c. di Jan Breman VU University Press, Amsterdam
1990.83 - Traverso, La violenza cit., p. 183.84 - Per la critica dell'irrigidimento classificatorio cfr.
Balibar, Razzismo e nazionalismo cit., pp. 50-52, ma anche, per un caso specifico, Miccoli, Santa
Sede cit., pp. 1375-79.85 - Alberto Burgio, Razzismo e Lumi: un ``paradosso'' storico? [1993], in
Id., L'invenzione cit.; Silvia Sebastiani, Razza, donne e progresso nell'illuminismo scozzese, in
“Meccanica pratica”, n. 50, Tecniche nuove, Milano 2000; Anthony Pagden, Razzismo e
colonialismo europeo: una indagine storica, in Il razzismo e le sue storie cit.86 - Esemplare in
questo senso la sintesi tuttora più nota di Mosse, Il razzismo cit., ma anche l'altrettanto celebre
studio di Zeev Sternhell, La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano 1997 [tit. orig. La droite
révolutionnaire. 1885-1914: les origines françaises du fascisme, Seuil, Paris 1978].87 - Per le due
tradizioni si vedano Fredrickson, Breve storia cit. e MacMaster, Racism cit., ma anche le
considerazioni di Nicola Labanca, Sul razzismo coloniale italiano, in Nel nome della razza. Il
razzismo nella storia d'Italia 1870-1945, a c. di Alberto Burgio, il Mulino, Bologna 1999.88 Edward W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1999 [tit. orig. Orientalism, Pantheon Books,
New York 1978]; Id., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell'Occidente, Gamberetti, Roma 1998 [tit. orig. Culture and Imperialism, Chatto & Windus,
London 1993]; Audrey Smedley, Race in North America. Origin and Evolution of a Worldview,
Westview Press, Boulder co 1993.89 - Colette Guillaumin L'idéologie raciste. Genèse et langage
actuel, Mouton, Paris-La Haye 1972; Burgio, L'invenzione cit.; Fredrickson, Breve storia cit.90 - La
migliore sintesi di storia delle idee e ideologie razziste resta quella di Mosse, Il razzismo cit. a cui è
da accostare Ivan Hannaford, Race. The History of an Idea in the West, Woodrow Wilson Center
Press, Washington DC 1996.91 - Balibar, Razzismo e nazionalismo cit., p. 53 e Id., Esiste un
“neorazzismo”? [1988], in Immanuel Wallerstein, Razza, nazione, classe cit., pp. 29-30.92 Wieviorka, Lo spazio cit.93 - Per le “forme elementari” del razzismo cfr. ivi, pp. 75-133.94 - Teun
A. Van Dijk, Il discorso razzista. La riproduzione del razzismo nei discorsi quotidiani, Rubettino,
Soveria Mannelli (CZ), 1994 [tit. orig. Discourse and the reproduction of racism, CRES, University
of Amsterdam 1987]; Viktor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo,
La Giuntina, Firenze 1998 [tit. orig. LTI. Notizbuch eines Philologen, Aufban, Berlin 1949].95 - Per
la distinzione fra “società” e “regimi” e per la comparazione cfr. Fredrickson, Breve storia cit.96 Per la storia degli studi sul razzismo cfr. Fredrickson, Breve storia cit., pp. 167-187 e Alfredo
Alietti, Dario Padovan, Sociologia del razzismo, Carocci, Roma 2000. Per gli sviluppi più recenti si
vedano le riviste “Ethnic and racial studies”, Routledge, New York, “Patterns of prejudice” Sage
Riblications, London e “Race and class” Sage Riblications, London.97 - Balibar, Esiste un
“neorazzismo”? cit.; Taguieff, La forza cit.; Pierre Bourdieu, Le racisme de l'intelligence [1978], in
Id., Questions de sociologie, Editions de Minuit, Paris 1984.
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