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Convegni
Cronaca del X° Cenacolo rosminiano, sui temi “Metafisica
e Democrazia” e “Quaestio
“Quaestio Dei
Dei.. Per un rinnovamento della
Metafisica”
Centro Congressi Villa Cagnola, Gazzada (VA) – 14-15
novembre 2015
Sabato 14 e domenica 15 novembre 2015 si è svolta nella splendida sala panoramica del Centro Congressi Villa Cagnola di Gazzada la X edizione del Cenacolo
Rosminiano, che per celebrare il decimo anniversario si è articolato in ben due
filoni di ricerca.
La prima sezione si è dedicata al tema “Metafisica e Democrazia”, concentrando
la propria indagine sull’analisi di questi due concetti, che solo apparentemente
sono distanti, afferendo il primo ad un orizzonte speculativo alto, di carattere teologico, mentre il secondo è attinente all’ambito sociale, etico e politico. Tuttavia,
nel convegno è stato appunto approfondito tale binomio concettuale, svelando
significative ed interessanti connessioni reciproche, che coinvolgono il rapporto
tra religioni e Stato, tra morale personale ed etica pubblica, tra diritto, politica, ed
i loro principi fondativi. La sezione ha visto i significativi interventi dei professori
Markus Krienke, Biagio Muscherà, Fernando Bellelli, Gian Luca Sanna, Stefania
Zanardi e Vincenzo Parisi.
La seconda sezione, invece, si è occupata specificamente di questioni metafisiche, discutendo sull’attualità e sulla necessità di un rilencio dei cosiddetti argomenti ontologici dopo le critiche alle quali sono stati sottoposti, soprattutto a
partire da Kant. Tale sezione ha dunque avuto come tema portante una sorta di
“rinnovamento della metafisica”; ed inoltre, con essa è stato inaugurato l’inizio
di una serie di studi rivolti proprio verso queste tematiche, con l’apertura della
sezione del progetto editoriale “Quaestio Dei. Theoretical Observatory on the Ontological Arguments”, che offre anche la possibilità di una fruizione online al sito
www.cattedrarosmini.org.
Tale seconda sezione si è aperta con la relazione del Prof. Alessandro Ghisalberti, dal titolo “Luce inaccessibile: evidenza, apofatismo, trascendenza di Dio in
alcuni autori medioevali”. Ghisalberti ha presentato un’interessante analisi della
via anagogica (a Dio) focalizzandosi specificamente nell’ambito cosiddetto mistico, o “sapienziale” in senso forte. La domanda che ha fatto da filo conduttore alla
sua trattazione si chiedeva se l’aspirazione a conoscere Dio o pregare Dio siano
considerabili un modo efficace e valido per indicare una modalità che porta alla
venuta di Dio nella mente dell’uomo, a un suo manifestarsi e prendere possesso
dell’intelletto (o anima). Nello snodarsi della sua relazione, Ghisalberti ha toccato una pluralità di autori, tra i quali in particolare Sant’Anselmo d’Aosta, Mosè
Maimonide (nel finale della Guida dei perplessi), Meister Eckhart, ed infine, fra
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i contemporanei, Eberhard Jüngel. In merito a Maimonide, è stata illustrata la
poco nota tesi secondo la quale la conoscenza (ciascuno secondo le proprie capacità intellettuali) dell’aspetto dell’agire provvidenziale di Dio (articolato nelle tre
coordinate di “Grazia, Giudizio e Giustizia”, con cui Dio governa il mondo) è già
considerabile un assimilarsi a Dio, oltre ogni livello sapienziale inerente la sfera
etica e dianoetica, aprendo già le porte ad una dimensione anagogica. Riprendendo le parole del profeta Geremia: “Non si vanti il sapiente per la sua sapienza,
non si vanti il forte per la sua forza, non si vanti il ricco per la sua ricchezza. Chi
si vanta, può vantarsi solo di questo: comprendermi e conoscermi”, Maimonide
infatti commenta: “Nulla è veramente sapienza per la Bibbia, se non la percezione
di Dio”, con una percezione che, pur partendo da una prospettiva esperienziale
umana e a-posteriori, viene illuminata a-priori dall’occhio del filosofo predisposto
da Dio alla ricerca di sé. Invece, a proposito poi di Jüngel, è stato ripreso il tema
della conoscenza naturale, a posteriori, del divino, che nella posizione jungeliana
si articola in una triplice conoscenza: in primo luogo, Dio come causa di tutto, sta
alle creature nel rapporto del Causare; in secondo luogo, Dio come Causa assoluta
è infinitamente diverso rispetto a tutto ciò che è creato; in terzo luogo, che unifica
il primo al secondo, il predicato dell’essere creaturale dev’essere tenuto separato
da Dio, non per colpa di una mancanza, ma per la perfezione divina che supera
tutto ciò che è divino: ossia, la conoscenza di Dio ci fa conoscere più che altro il
Suo essere sconosciuto (evidenza e apofatismo).
Il secondo intervento è stato tenuto dal Prof. Matteo Zoppi, docente di Storia della filosofia medievale nella Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università
di Genova, che ha trattato il tema de “L’unum argumentum e il quaerere Deum
anselmiani”, intrecciando la complessità del cammino di ricerca del divino con la
brillante dimostrazione del Proslogion. Con la sua relazione, Zoppi ha presentato
e ricostruito la genesi dell’argomento del Proslogion nella sua continuità rispetto ai
contenuti del Monologion e al più ampio progetto di ricerca monastica anselmiano. La ricostruzione si è basata su di un accurato e dettagliato esame delle diverse
fonti, classiche e cristiane, assieme al costante riferimento ad altri testi di Anselmo,
precedenti e successivi al Proslogion, che ha permesso, in tal senso, una maggiore comprensione di quest’ultima opera, del suo obiettivo fondamentale, gettando
inoltre una particolare luce sul significato che Anselmo attribuisce all’espressione “fides quaerens intellectum”. In particolare, sono stati fatti emergere i punti
di differenza tra Anselmo e il suo maestro, Lanfranco di Pavia, sottolineando in
particolare la distanza che separa la posizione di Anselmo in merito al tema della
dialettica, che per quest’ultimo non può mai essere slegata da un’orizzonte di fede,
evocando il concetto di intellectus fidei, che si pone in un punto di equilibrio tra la
sola dialettica e la pura visione per fede. In quest’ottica, è stato ravvisato nell’unum
argumentum un contenuto metafisico tanto filosofico quanto teologico. Inoltre, si
è mostrato come tale argomento, in forza della sua intrinseca evidenza, frutto di
un’intuizione opportunamente giustificata, permetta di superare lo scarto comunemente esistente tra lo specchio della mente e la realtà, consentendo al credente
di inabissarsi nelle profondità del mistero della luce di Dio.
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Il terzo relatore è stato il Prof. Alessandro Rossi, ricercatore presso l’Università
di Cambridge, che ha esposto un confronto tra Leibniz e Gödel, dal titolo: “Se Possibile, Allora Necessario. Leibniz e Gödel sull’Argomento Ontologico”. Con la sua
interessante relazione, Rossi ha provato a far emergere alcune assunzioni implicite
che sottenderebbero le prove ontologiche di Leibniz e Gödel. Difatti, sebbene sia
ormai usuale riferirsi alla prova di Gödel come ad una variante modale della prova
di Leibniz, Rossi ha invece sostenuto la tesi secondo cui l’accettazione dell’una non
implica necessariamente l’accettazione dell’altra. In primis, per ciò che concerne
la prova di Leibniz, ha dimostrato come sia possibile sfuggire alla nota obiezione
di Kant, secondo cui l’esistenza non denoterebbe una proprietà reale. Per farlo,
ha analizzato due scritti giovanili di Leibniz – Quod Ens Perfectissimum Existit
(1676) e la “Lettera a H. Huthmann” (1678) – proponendo anche alcune considerazioni sull’algebra dei quantificatori. Nel corso di questa sua analisi si è peraltro
addentrato in un’interessante disamina tecnica della struttura logica della prova
leibniziana del ‘76, nel quale si pone l’accento sulla distinzione tra l’esistenza intesa
come esistenza empirica e l’esistenza intesa come necessaria, impegnandosi poi
nello sviluppo di una doppia trattazione del predicato di esistenza. Le considerazioni sulla prova di Gödel, invece, hanno riguardato principalmente la nozione
fondamentale di proprietà positiva. Ha così sostenuto che, almeno sotto una specifica interpretazione semantica della positività, la prova risulta circolare, in quanto
introduce due assiomi tanto indispensabili quanto coincidenti con ciò che essa
spera di dimostrare. Come ha infine mostrato, la radice del problema risiede nel
fatto che la nozione di proprietà positiva è introdotta per via puramente assiomatica, senza che il minimo criterio extralogico, ancorché informale, venga esplicitato.
La sessione della giornata successiva ha visto come primo relatore il Prof. Luca
Ferrara, con un contributo dal titolo “Per una fondazione ontologica del non essere:
percorsi speculativi nella teologia kantiana”. Quale premessa iniziale, Ferrara ha
sottolineato il fatto che, all’interno della speculazione occidentale, il contributo del
criticismo kantiano si è rivelato più volte fondamentale nel chiarire e nell’avanzare
soluzioni nel campo di ricerca della metafisica. A tal proposito, il relatore ha dunque fatto notare che, se è vero che la maggiore parte degli studiosi ha individuato
nell’opera matura del pensatore di Königsberg un punto di vista privilegiato da cui
analizzare il criticismo, è altresì vero che negli ultimi anni l’ermeneutica kantiana,
rivolgendo una maggiore attenzione alla fase precritica del pensiero del filosofo
tedesco, ha messo in luce l’originalità teoretica che emerge da un’attenta disamina
delle opere giovanili. Pertanto, muovendo proprio dalle analisi emerse negli studi
più recenti, Ferrara ha brillantemente analizzare il concetto di Dio e la prova della
sua esistenza così come viene presentata da Kant nello scritto del 1762 intitolato
L’unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio. In questo scritto, Kant,
muovendo dalla distinzione leibniziana-wolffiana tra possibile, compossibile e reale, perviene a una ridefinizione della nozione di esistenza. Tale concetto, non venendo più inteso come la traduzione logica di una certa quantità di essere presente
nella compossibilità delle note che formano la nozione di un determinato soggetto,
viene interpretato dal filosofo tedesco come posizione assoluta, in quanto è sciolta
dal viluppo dalle relazioni logiche. È stato dunque constatato che, sebbene il con-
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cetto di esistenza sia esprimibile tramite rapporti logici, presenti nell’articolazione
di un concetto, essa non può essere considerata più un predicato, in quanto viene
a porsi indipendentemente e primariamente rispetto ai concetti tramite cui viene
studiata. A partire da questa nuova definizione di esistenza, Ferrara ha rilevato
come il pensatore tedesco, nel passaggio dal suo periodo pre-critico a quello critico, abbia modificato significativamente la prova ontologica dell’esistenza di Dio.
Infatti, nel suo scritto giovanile, l’esistenza dell’essere supremo non viene dedotta facendo leva sulla sua essenza perfettissima, ricavando poi da essa la necessità
dell’esistenza, ma viene provata come condizione ontologica dei possibili e delle
loro possibili combinazioni: tuttavia, i possibili, potendo essere combinati in diversi modi possono dare luogo anche ad una relazione contraddittoria, la quale,
sebbene non sia suscettibile di realtà ontologica, si offre al pensiero come una
manifestazione del nulla.
Infine, i lavori di questa sezione metafisica si sono conclusi con una relazione
intitolata “La critica ontoteologica kantiana. Kant e le contraddizioni non-analitiche”, tenuta dal Dott. Luca Vettorello, che ha presentato una nuova prospettiva
di lettura dei principali e celebri brani della Critica della Ragion Pura dedicati alla
critica rivolta contro la prova ontologica. In particolare, il contributo si è focalizzato sul concetto di contraddizioni non-analitiche, fuggevolmente accennato da
Kant in un passo del suo testo. La tesi sostenuta da Vettorello è che una possibile
risposta alle celebri obiezioni kantiane possa essere rinvenuta nientemeno che nelle pagine dello stesso Kant: ovvero, l’analisi di alcuni passaggi della KrV possono
far emergere alcuni insospettabili aspetti della celebre critica kantiana alla prova
ontologica, i quali potrebbero curiosamente offrire lo spunto per una risposta alle
obiezioni ivi sollevate del pensatore di Königsberg; quasi come se egli, da brillante
filosofo qual era, avesse in fondo intravisto, tra le righe del suo discorso critico, i
semi di un possibile superamento di tale sua critica. A tal proposito, è stato mostrato come il concetto di contraddizione non-analitica – enucleato da Kant ma da
lui sottovalutato – abbia un ruolo nodale nel colmare definitivamente la rispettiva
aporeticità – denunciata da Kant – delle argomentazioni a posteriori e di quelle
ontologiche, rivelando invece una profonda e feconda interconnessione tra i due
approcci alla questione della dimostrazione dell’esistenza di Dio.
Oltre alla partecipazione in loco, questa sessione di carattere metafisico ha previsto anche la possibilità di presentare alcune relazioni in un secondo momento,
attraverso la loro video-registrazione in studio.
Una di queste è la relazione del Prof. Marco Damonte, intitolata “Argomenti
(onto)logici tra tradizione analitica e filosofi italiani”, nel quale è stata condotta
un’indagine particolarmente approfondita e completa della storia della ricezione
della discussione analitica sul tema dell’argomento ontologico da parte dei filosofi
italiani. Difatti, ogni qualvolta i filosofi italiani hanno tematizzato il contributo della tradizione analitica all’ambito religioso, ne hanno favorito un’adeguata e necessaria contestualizzazione storica, studiandone la genesi e tematizzandone le articolazioni interne. La panoramica offerta da Damonte è ampia e accurata, toccando
una vasta pluralità di voci dei principali autori italiani che hanno interagito con la
filosofia analitica in merito agli ontological arguments; tra gli autori trattati trovia-
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mo: Riverso, Fabro, Paolinelli, Micheletti, Floridi, Galvan, Orilia, Zappa, Timossi,
Pizzo, e Staglianò. Oltre a constatare la fruttuosità dell’incontro tra filosofia analitica ed approccio continentale italiano, Damonte ha anche, infine, indicato una
possibile via di sviluppo degli studi: ovvero, l’uso della logica, l’interpretazione di
Wittgenstein, e il ruolo religioso che esso ricopre. Quest’ultimo approccio potrebbe preparare il terreno a quella che con ogni probabilità diventerà una questione
rilevante nell’immediato futuro, ovvero l’uso dell’argomento ontologico in ambito
interreligioso.
Un altro contributo esterno proviene dal Dott. Cristian Vecchiet, con il titolo
““Dio ama senza essere”. Istanze e questioni aperte della prospettiva post-metafisica e fenomenologica di J.-L. Marion”. Partendo dalla constatazione della fine
della metafisica e da premesse di ordine fenomenologico, J.-L. Marion propone
una prospettiva teoretica volta a salvaguardare la radicale trascendenza di Dio.
Pertanto, Vecchiet propone in forma problematizzata una rilettura del pensiero
marioniano sulla impossibile possibilità di Dio, attraverso l’analisi delle istanze e
delle figure teoretiche più caratterizzanti il suo pensiero (in primis idolo ed icona,
ma anche il fenomeno saturo e l’adonato).
Luca Vettorello
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
[email protected]
Rights and Social Cohesion
Università degli Studi di Genova, Genova – 5-6 ottobre
2015
Nelle giornate del 5 e 6 ottobre 2015 si è svolto a Genova un incontro presso la
Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università, dopo la Conferenza Internazionale
del 2004 su La genesi e lo sviluppo delle prospettive dei diritti umani e nell’area
Mediterraneo, la Conferenza sui diritti di coesione sociale di Genova si propone di
analizzare la relazione tra le richieste di diritti e la necessità di una coesione sociale
in ambito multiculturale, in particolare le giornate di studio hanno mirato a scoprire quali fattori rendano possibile la coesione sociale alla luce dei conflitti sulle
richieste che emergono tra differenti gruppi sociali.
In questa sede non è nostro obiettivo riassumere gli interventi proposti perché
i contenuti verranno redatti negli atti del convegno di prossima pubblicazione e,
inoltre, perché la nostra attenzione sceglie di focalizzarsi sulle tematiche affrontate
cercando di fornire una visione globale, poiché globali sono le necessità trattate.
Proprio per rispettare questo requisito i relatori hanno rappresentato un gruppo
composito in modo da poter raggiungere, con i loro contributi, la platea in modo
trasversale ed essendo in grado di fornire uno sguardo ad ampio spettro sulla tematica affrontata. Coloro che hanno preso parte alla discussione non erano, infatti,
unicamente filosofi e non erano tutti italiani, seppur appartenenti alla Unione Europea, e allora questa pluralità di prospettive ha permesso di affrontare la questione dei flussi migratori così come dovrebbe essere sempre affrontata, ovvero come
una priorità che riguarda tutti in egual maniera.
In seguito a quello che si può definire un vero e proprio bombardamento mediatico a cui, volenti o nolenti, siamo sottoposti a causa della gravità del fenomeno dei
rifugiati e dei migranti che tutti i giorni, soprattutto nel bacino del Mediterraneo,
affrontano un viaggio che, senza paura di essere smentite, possiamo definire “della
speranza” poiché questa scelta diventa l’unica possibile, traiamo spesso conclusioni erronee: queste immagini lasciano un messaggio morale sbagliato, ovvero che
queste persone necessitino solo ed esclusivamente di vedere soddisfatti bisogni
primari, ossia quelli relativi alla mera sopravvivenza: un letto e un pasto caldi. Eppure sono le persone l’oggetto della discussione e quindi, in quanto soggetti umani,
portatori di piani di vita, intendendo con questa formula il fulcro argomentativo su
cui si basano i teorici dello stato liberale. Questi piani di vita necessitano di essere
soddisfatti, infatti è proprio per la loro mancata possibilità di realizzazione che coloro che si imbarcano decidono di farlo rischiando anche la morte. Uno Stato liberale non concede i diritti naturali, si limita a riconoscere questi come propri della
natura stessa degli esseri umani. In nome di una legge ontologicamente inscritta
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uno stato democratico deve permettere ad un soggetto di realizzarsi in pienezza, di
compiere una fioritura di vita, citando l’economista Amartya Sen, che non è realizzabile se questi diritti non sono garantiti anche materialmente dallo Stato.
Secondo Gilbert Vincent, dell’Università di Strasburgo, l’idea di ospitalità si
inserisce in questo dibattito. Essa rischia di essere considerata obsoleta, poiché
pare mirare alla semplice sopravvivenza e non alla realizzazione piena dell’individuo; questo termine può essere mantenuto a patto di ritrovarne il significato vero e
proprio e inserirlo in una conversazione che ci permetta di comprendere a pieno le
necessità degli altri e di non appiattirle sulla nostra idea di soccorso immediato. Se
questa sfida sarà vinta, ci sarà la possibilità di realizzare una vera e propria coesione sociale anche tra gruppi apparentemente eterogenei a partire da fattori morali,
come sostenuto da Maria Silvia Vaccarezza dell’Università di Genova.
Claudia Navarini, dell’European University di Roma, porta avanti la convinzione che l’unico principio che permette di costruire una civiltà degna di questo nome
è quello per cui, nella persona propria come in quelle altrui, si accetta di rispettare
il fondamentale diritto alla vita come inalienabile e il fondamentale dovere di tutelare la vita umana, sempre. Il relativismo, in questo senso, non equivale ad uno
spirito di libertà e di tolleranza verso le differenze individuali, ma ad un grande
coacervo di opinioni che, per non impegnarsi con concetti come verità, oggettività,
universalità, ha annegato ogni possibile certezza, conoscenza, e naturalmente ogni
evidenza. Ma così facendo, si esclude anche ogni base ragionevole per la difesa dei
diritti umani fondamentali, che restano in balia di volontà particolari e finite.
Ci troviamo davanti ad una novità storica, come affermato da Massimo Meccarelli dell’Università di Macerata, che causa una crisi giuridica in questo momento di transizione; si è sempre stati abituati a pensare ai diritti come spazi di
protezione giuridica individuati in astratto: i diritti, così intesi, esistono prima
che si manifesti la concreta esigenza di tutela. Tuttavia, sono le trasformazioni recentemente in atto – al contempo giuridiche e istituzionali, che hanno proiettato
questioni per problemi, sociali, politici ed economici, su una dimensione superstatale e con una nuova tipologia dei soggetti coinvolti – a rappresentare un vero
e proprio punto di svolta: esse sembrano aver introdotto vere e proprie dinamiche
reali d’inversione del rapporto tra realtà e diritto e quindi tra istanze di tutela e
diritti. Al giorno d’oggi si assiste, in altre parole, alla proliferazione dei diritti a
partire da una realtà concreta: sono le necessità quotidiane a mettere in crisi la
giurisprudenza europea.
Eppure è proprio l’Europa con la sua storia a dover essere fautrice e ambasciatrice di tali diritti, in accordo con la disamina critica offerta da Antonio Maria
Baggio docente al Sophia Institute di Loppiano, portando avanti quegli ideali di
Fraternitè, Egalitè e Libertè della Rivoluzione francese come trittico, senza avvantaggiare uno per sacrificarne un altro perché ciò, come ci insegna la storia del Novecento, non può che condurre ad esiti catastrofici; ma affermandoli unitariamente
perché la fraternità riguarda l’umanità e quindi l’aiuto reciproco, e l’umanità è una
comunità di comunità che garantisce libertà ed uguaglianza. Riferendoci agli esiti
catastrofici sopra citati, non possiamo che ricordare l’atteggiamento pavido delle
democrazie nei confronti dell’avvento dei regimi totalitari novecenteschi e l’inevi-
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tabile critica che può essere mossa a questi regimi democratici come spiegato da
Mirella Pasini dall’Università di Genova.
Sulla questione della libertà si innesta l’intervento della professoressa Simona
Langella anche lei dell’Università di Genova, che ha trattato di libertà responsabile di diritti umani nella riflessione di Jeanne Hersch: filosofa svizzera di origine
polacca proveniente da famiglia ebrea, allieva e assistente di Karl Jaspers. La sua
filosofia è incentrata sulla questione della libertà a cui dà un risvolto morale e teoretico, sostenendo che l’essenza trascendente della libertà lega indissolubilmente
la natura etica dell’uomo alla sua dinamica esistenziale. La filosofa sostiene che
la condizione umana si presenta come paradossale, perché duale nella sua stessa
natura; l’uomo è infatti soggetto alla causalità della natura del mondo e, insieme,
soggetto di libertà ovvero, potremmo dire in termini jasperiani, aperto alla trascendenza, a ciò che è altro da sé. Nella condizione umana vi è qualcosa di irriducibile,
a opinione della Hersch, qualcosa, cioè, che non può essere ridotto a meri dati e
leggi empiriche della natura, della società, dell’economia, della politica e della storia. Il tratto che si presenta come irriducibile è appunto la libertà, termine inteso
in senso “esistenziale” riferendoci alla riflessione di Agostino: se pensarci liberi è
la condizione per pensarci davvero responsabili questa responsabilità pesa sulle
spalle dell’uomo e ne condiziona le scelte che esso deve fare per la propria vita, è a
questo punto che esistere vuol dire in altri termini essere liberi. È questa la libertà
che deve essere garantita a chiunque riconosciamo come essere umano, perché
riconoscere la libertà equivale a riconoscere il diritto di esistere.
Proprio di tolleranza e riconoscimento ha trattato Hans Marius Hansteen
dell’Università di Bergen, sottolineando come questi due comportamenti si pongano all’opposto; se tollerare implica un atteggiamento negativo verso la persona
o il gruppo in questione, riconoscimento sembra indicare un atteggiamento positivo. I concetti, tuttavia, non rappresentano alternative reciprocamente esclusive,
la tolleranza è spesso associata a liberalismo universale che si concentra sui diritti
individuali, mentre il riconoscimento connota prospettive comunitarie che si concentrano sulle relazioni e sulle identità della comunità stessa. Hansteen sostiene
che la tolleranza sia fondata a priori sul riconoscimento e che questo implichi necessariamente la tolleranza. Nel delineare una comprensione del rapporto tra i due
si mira ad evitare la dicotomia tra universalismo e particolarismo o, per dirla in
termini filosofici, tra liberalismo e comunitarismo.
Paola De Cuzzani, anche lei dell’Università di Bergen, denuncia uno stato di
fatto, ossia che l’Europa è una realtà composita che non affronta l’interculturalità
con una politica comune, ma con degli interventi sparsi e poco coerenti, anche
derivanti dai riscontri diversi che hanno i flussi migratori nelle varie parti del Continente; come risolvere la controversia? Un tentativo di risposta è quello sostenuto
da Jacques Maritain, filosofo cristiano e politico nonché una delle voci culturali
più autorevoli del Novecento: è proprio il ruolo dei cristiani nella società ad essere
considerato come chiave per rispettare il pluralismo che la contemporaneità ha
conosciuto anche in maniera traumatica. Il riconoscere gli ideali della democrazia
come evangelici, porta i cristiani ad essere lievito e fermento nella comunità e con
il loro contributo ha permesso un’integrazione sulla base non di opinioni comuni,
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ma di valori condivisi, un’amicizia civica di sapore aristotelico enucleata da Letterio Mauro dell’Università di Genova. Si arriverà quindi ad avere un’unità politica
rispettosa della pluralità culturale, cambiando il paradigma che vede il conflitto tra
queste due istanze come insanabile, portandolo a diventare una relazione dialettica
fruttuosa, questo è quanto affermato da Bernard Bourdin dell’Institut Catholique
di Parigi.
Sulla base, quindi, dell’importanza attribuita ai valori morali per la coesione,
ciò che bisogna assolutamente evitare, in particolar modo all’interno del contesto
europeo, è il conflitto religioso, intendendo con ciò non una mera opposizione
tra fedi differenti ma un’opposizione identitaria che fa dell’appartenenza ad un
Chiesa un pretesto per non intavolare un dialogo. Il vecchio paradigma religioso
dell’Europa cristiana viene sempre più messo in crisi; anche se gran parte della popolazione si identifica in una religione o in una Chiesa e gran parte di essa
considera la religione importante, non si può non ammettere che vi sia un’ampia
secolarizzazione dei comportamenti: il modo di agire è sempre meno ispirato da
un credo soprattutto in campo politico e morale, altrimenti detto: chi tende ad impegnarsi per fini puramente umanitari o per battaglie liberali come quelle pacifiste
si domanda perché attuare queste battaglie in istituzioni religiose poco militanti
quando ci sono organizzazioni laiche ben più attive ed efficienti che innalzano
la bandiera del pacifismo. La statistica ci fornisce dati a sostegno dell’adesione ai
valori spirituali ma non a riconoscimento di tali valori all’interno di un credo stabilito. Si postula, allora, un a – topos fuori dal tempo e dallo spazio alla ricerca di
un credo minimo che si identifica con la legge naturale, essa dovrebbe permettere
una coesione e favorire il riconoscimento e l’appartenenza ad una comunità che si
possa dire a questo punto mondiale, ciò è quanto evidenziato da Daniele Rolando
dell’Università di Genova.
Angelo Campodonico, anche lui dell’Università di Genova, si è concentrato sui
presupposti antropologici del legame sociale tra generazioni; dai tempi della polis greca, all’interno della speculazione platonico – socratica e aristotelica, la vera
chiave di volta per la costruzione di un corpo politico adeguatamente formato era
la paideia, intesa come formazione globale dell’individuo. Questa operazione si impernia sulla relazionabilità propria della persona, perché si parte dal presupposto
che il singolo, visto come monade solipsistica, non possa essere felice in quanto
impossibilitato a vedere attuate le proprie potenzialità. Per definizione l’uomo è un
essere di natura psico – corporea strutturalmente con altri, il che significa cresciuto, educato ed istruito per poter raggiungere il proprio compimento e sviluppare le
sue capacità peculiari (razionalità, libertà, moralità, capacità di amare) all’interno
di una comunità. L’uomo ha bisogno di un lungo tempo e della collaborazione
degli altri suoi simili per raggiungere tale maturità. Ma la comunità evolve a pari
passo dell’uomo: si tratta di un superamento fattuale della polis greca in direzione
di una società che si presenta di fatto come multiculturale e che deve trarre da
questa multiculturalità la possibilità di una formazione sempre più fruttuosa: la
paideia dell’uomo non avrà mai fine.
In conclusione di queste giornate di studi è stata presentata la raccolta di saggi
curata da Mirella Pasini Trust and Risk. L’etica di un mondo insicuro, si tratta di
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un lavoro a più mani che sviluppa attraverso una complessa analisi filosofica la
relazione tra i termini fiducia e rischio usati (e talvolta abusati?) all’interno dell’epoca contemporanea per mostrare come spesso essi vengano utilizzati per trattare
tematiche affini pur riferendosi a campi d’indagine differenti.
Giulia Banacchioni e Giovanna Santiccioli
[email protected][email protected]
Come si conosce Dio? L’esperienza religiosa al vaglio
dell’indagine filosofica
Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona – 23-24 ottobre 2015
Il Centro Studi del Fenomeno Religioso della Fondazione Campostrini propone
da anni dei percorsi di ricerca in Filosofia della Religione, che sono ormai divenuti
un punto di riferimento per chi si occupa di questa disciplina in Italia. Forti di
tale esperienza, i giovani ricercatori del 2015 – Sergio Fabio Berardini, Fabrizio
Renzi e Sofia Vescovelli, – hanno deciso di concludere i loro rispettivi percorsi con
un convegno internazionale di Filosofia che si è tenuto nei giorni 23 e 24 ottobre
2015 presso i locali della Fondazione a Verona, dal titolo “Come si conosce Dio?
L’esperienza religiosa al vaglio dell’indagine filosofica”.
Il convegno si è aperto venerdì 23 ottobre, alle ore 9.30, con l’intervento del
prof. Yujin Nagasawa, professore di Filosofia e Codirettore del John Hick Centre
for Philosophy of Religion presso l’Università di Birmingham (UK). Nagasawa ha
lavorato a lungo sul problema del male e sulla questione dell’esistenza di Dio, e la
sua relazione si è concentrata sul problema del male nell’ateismo: nello specifico, il
prof. Nagasawa ha evidenziato le criticità nell’accettare e rendere ragione della sofferenza inutile da una prospettiva non religiosa. Ne è seguito un acceso dibattito
introdotto dagli interventi critici della dott.ssa Sofia Vescovelli e del dott. Daniele
Bertini.
Prima della pausa pranzo, si è tenuta una breve presentazione delle ultime uscite
della collana di Filosofia della Religione della casa editrice Centro Studi Campostrini: “La credenza progressiva. Una proposta teorica” (di Giuseppe di Salvatore),
“Del sacramento che viene all’idea. Storia filosofica di un concetto teologico” (a
cura di Francesco Valerio Tommasi), “Fine del mondo o fine dell’uomo? Saggio su
Ecologia e Religione” (di Damiano Bondi)
Nel pomeriggio di venerdì, dalle 15.00 alle 18.30, si è svolta la tavola rotonda
sul tema “La filosofia della religione: tra teologia, antropologia e fenomenologia”,
organizzata per il secondo anno consecutivo in collaborazione con l’AIFR (Associazione Italiana di Filosofia della Religione). Si è trattato di un appuntamento
importante per riflettere su una disciplina che fatica a trovare un suo statuto condiviso, data la ricchezza degli approcci possibili al tema della religione. Alla tavola
rotonda, moderata da Sergio Sorrentino, hanno preso parte alcuni tra i maggiori
studiosi italiani e stranieri della filosofia della religione: Gerardo Cunico (Università di Genova), Francesco Ghia (Università degli Studi di Trento), Anna Marmodoro (Università di Oxford), Francesco Valerio Tommasi (Università di Roma La
Sapienza)
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Sabato 24 ottobre, dalle ore 9.00, i lavori sono ripresi con la relazione del prof.
Massimo Donà, professore ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Saluta San Raffaele di Milano. L’itinerario speculativo
di Donà attraversa il campo dell’estetica sino a giungere ad alcuni importanti nodi
teoretici, tra cui il problema della “negazione” e del “fondamento”. L’intervento
di Donà ha avuto un taglio decisamente ontologico-teoretico, in dialettica costante
con il pensiero di Severino, per concludersi con una apertura sul fenomeno del sacro, a partire dal quale si sono sviluppati gli interventi critici del dott. Sergio Fabio
Berardini e del dott. Stefano Santasilia.
Il convegno si è concluso alle ore 11.00 con la relazione del prof. Rev. Javier
María Prades López, rettore dell’Università San Dámaso di Madrid e membro della Commissione Teologica Internazionale. López si è concentrato sulla categoria
della “testimonianza”, essenziale non soltanto per la diffusione storica della fede
cristiana, ma più in generale per ogni convivere civile: tale categoria, entrata oggi
in crisi, mina dunque uno dei fondamenti della società, prima che incidere sulla
religione. Su questa tesi sono intervenuti il dott. Fabrizio Renzi e la dott.ssa Elisa
Grimi, che hanno animato il dibattito.
Con questo convegno la Fondazione Campostrini si dimostra essere una delle
più attive e dinamiche istituzioni italiane per quanto riguarda la ricerca filosoficoreligiosa, nonché un luogo dove eminenti studiosi possono confrontarsi direttamente con giovani e promettenti ricercatori, così da creare un circolo virtuoso tra
circolazione delle idee e collaborazioni future.
Damiano Bondi
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale
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