STUDIO SULLA FILOSOFIA DI DANTE DI EMILE BEAUSSIRE PROFESSORE ALLA FACOLTÀ DI LETTERE DI POITIERS PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ DEGLI ANTIQUARI DELL'OVEST nella traduzione italiana di Angelo Gemmi I l più grande poeta d'Italia, l'ha anche resa illustre come filosofo: Theologus Dantes, nullius dogmatis expers quod foveat claro philosophia sinu dice l'epitaffio scritto da Giovanni del Virgilio. Si era guadagnato una tale gloria in tutti i generi di studi, dice uno dei suoi più antichi biografi, Benvenuto da Imola, che gli uni lo chiamavano poeta, gli altri filosofo e gli altri ancora teologo. Così si esprime egualmente, il primo traduttore francese della Divina Commedia, Grangier, nella dedica della sua traduzione a Enrico IV: in questo poema egli si scopre un poeta eccellente, un filosofo profondo, e un teologo giudizioso. Il solo filosofo deve qui interessarci nella vita e nelle opere di Dante. Egli stesso ci fa sapere, nel suo banchetto Convivio), il punto di partenza dei suoi studi filosofici. Era all'apice della giovinezza (venticinque anni) quando perse la nobile dama (Beatrice) che gli aveva ispirato i suoi primi canti e che, ritrovata più tardi in una meravigliosa visione, doveva ispirargli gli ultimi. Dopo qualche tempo trascorso in preda alla più nera disperazione, cercò consolazione in un altro amore. Ora, l'oggetto di questo nuovo amore era, dic'egli, la bella e illustrissima figlia dell'imperatore dell'universo, alla quale Pitagora ha dato il nome di filosofia1. Aveva letto, per allontanarsi dal suo dolore, la consolazione di Boezio e il trattato sull'amicizia di Cicerone. Prese gusto alla filosofia e d'allora frequentò assiduamente i luoghi in cui la si insegnava, sarebbe a dire, le scuole religiose e dei filosofi. Secondo Benvenuto da Imola, Dante studiò la filosofia naturale e morale a Firenze, Bologna e Padova e la filosofia sacra 1 «Dico e affermo che la donna di cui io m'innamorai appresso lo primo amore, fu la bellissima e onestissima figlia dell'imperatore dell'universo, alla quale Pittagora pose nome Filosofia» (Convito, II) 5 a Parigi, dove non andò se non nell'età matura, dopo il suo esilio (1302). Questo viaggio a Parigi ha dato luogo a molte controversie. La maggior parte dei biografi ne fa menzione, ma con dettagli discordanti e ponendolo in altrettante diverse epoche. Boccaccio, come Benvenuto, fa venire Dante a Parigi durante il suo esilio e aggiunge che vi sostenne, senza mai fare una pausa, per tutto un giorno, contro quattordici avversari, una di queste discussioni de quolibet, così frequenti nelle scuole del medioevo. Filelfo gli attribuisce un'ambasciata presso il re di Francia, per conto della repubblica fiorentina e, per conseguenza, prima delle sue disgrazie politiche. Infine, secondo Jacopo da Serravalle, vescovo di Fermo, che commentava la Divina Commedia all'inizio del XV secolo, il suo soggiorno a Parigi avrebbe avuto luogo prima del suo ingresso nella vita pubblica e si sarebbe prolungato abbastanza a lungo perché conseguisse, all'università, il grado di baccelliere in teologia; la mancanza di denaro soltanto, gli avrebbe impedito di prendere quello di dottore. Quest'ultima testimonianza, ha ricevuto ai giorni nostri, un'autorità nuova per via di un'ingegnosa congettura di M. Victor Le Clerc2. Dante nomina, tra i dottori che gli sono mostrati nel Paradiso, un professore di vico degli strami (rue de la fouarre), Sigieri, il cui insegnamento ha lasciato così poche tracce che i più antichi commentatori non potevano spiegare il passaggio in cui è citato e c'è voluto bisogno delle pazienti ricerche dell'erudizione moderna per restituirgli il suo posto nella storia della scolastica. La menzione di questo nome oscuro, in mezzo a a quelli dei filosofi e dei teorici di logica più illustri, sembra attestare un ricordo personale. Ora, Dante non ha potuto ascoltare Sigieri dopo l'anno 1300, poiché è nello stesso anno che lo si ritrova nel Paradiso. Ma perché venendo a Parigi qualche anno dopo la morte di Sigieri, l'autore non avrebbe potuto trovare, 2 6 Notice sur Sigier de Brabant. (Histoire littéraire de France, t. XXI) nelle scuole di rue de la fouarre, il ricordo ancora presente di questo maestro ardito, i cui sillogismi, secondo la sua testimonianza, avevano suscitato vive polemiche? (sillogizzò invidïosi veri) Nulla impedisce d'altronde, di supporre che avesse sentito parlare di Sigieri in Italia stessa, o da qualche studente fiorentino tornato dall'università di Parigi, o dal suo vecchio amico Brunetto Latini che fece, come si sa, un lungo soggiorno in Francia. Egli non si fa mai scappare l'occasione di mettersi in scena; se avesse conosciuto personalmente Sigieri, non avrebbe mancato di ricordarlo. Non c'è quindi modo di contraddire, sulla base di asserzioni, poco concordanti esse stesse di due scrittori del XV secolo, il racconto formale dei biografi del XIV. Si potrebbero, è vero, ammettere due viaggi di Dante a Parigi, ma il vescovo di Fermo stesso, afferma che non ve ne fu se non uno solo. La filosofia propriamente detta non fu che un momento di crisi nella vita di Dante? È l'opinione di un sapiente tedesco, Karl Witte, a cui la letteratura dantesca è debitrice di preziosi lavori. Dante si rimprovera, nella Vita Nuova, l'amore che prese il posto, nel suo animo, di quello di Beatrice, e, nella Divina Commedia, Beatrice stessa gli fa dei rimproveri simili. Ora, se è difficile contestare la realtà dell'esistenza di Beatrice e della passione ch'ella gli ha ispirato, non si saprebbe negare che ella sia presa, in tutto il suo poema, per la personificazione della fede religiosa. Tutto ciò che la ragione può vedere, io posso spiegartela, gli dice Virgilio, ma per ciò che è opera di fede, attendi le rivelazioni di Beatrice. «.........................quanto ragion qui vede dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta pure a Beatrice, ch'è opra di fede» 7 Quest'altra passione di cui si accusa e che, secondo le sue proprie dichiarazioni, aveva per oggetto la filosofia, è quindi l'oblio della fede per la ragione e il dominio che Beatrice riprende di nuovo nel suo animo, non può significare che un ritorno alla fede, il passaggio dalla filosofia alla teologia. Questa interpretazione è speciosa, ma viene contraddetta dalle testimonianze stesse sulle quali si appoggia. Prove intrinseche fissano la scrittura del Convivio di Dante, verso il 1306, dopo la sua pretesa conversione e i primi canti del poema che ne sarebbe stata la manifestazione simbolica. Ora, la filosofia non vi appariva come una scienza inferiore e in tutto profana. Essa è distinta ma non separata dalla teologia. È l'oggetto dell'insegnamento dei religiosi come dei filosofi. Essa va a braccetto con la fisica, la metafisica, e la morale, si eleva alla conoscenza e alla dimostrazione dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. I rimproveri che si indirizza o che si fa indirizzare da Beatrice, non potrebbero evidentemente riferirsi a questa nobile figlia del cielo. L'amore di cui si accusa nella Vita Nuova, è dipinto come fondato sull'appetito solo e combattuto dalla ragione, non potrebbe quindi esprimere l'abbandono della fede per la ragione. I motivi di risentimento di Beatrice, nella Divina Commedia, sono incentrati sull'interesse troppo vivo che avrebbe preso, morta lei, per i piaceri mondani e le pargolette. Quand'anche si volessero intendere queste pargolette in senso allegorico, queste non potrebbero designare la filosofia del Convivio. La filosofia conserva, d'altronde, i suoi diritti accanto alla teologia nella Divina Commedia come nel Convivio e non si potrebbe trovare alcuna differenza nel punto di vista filosofico delle due opere. Beatrice stessa, invia a Dante, per guidarlo fino a lei, Virgilio, il rappresentante della scienza umana di tutto ciò che la ragione può vedere quaggiù e, quando ella, in prima persona s'incarica a sua volta di guidarlo, non lo illumina soltanto sulla teologia, gli espone anche teorie filosofiche. 8 Le dottrine politiche del Convivio, della Divina Commedia e del trattato De Monarchia, attestano ancora l'attaccamento costante del poeta per la filosofia; poiché queste dottrine si basano principalmente sulla distinzione radicale tra filosofia e teologia, distinzione considerata da Dante come il principio dell'indipendenza dell'impero nei riguardi della chiesa. Jura monarchiae, superos, Phlegetonta lacusque lustrando cecini... dic'egli nell'epitaffio che si era scritto da sé . Assegnava così, come scopo, al suo poema, la difesa dei diritti dell'impero e, per conseguenza, dei diritti della filosofia. Lo vediamo infine, un anno prima della sua morte, sostenere a Venezia una tesi filosofica: la quaestio de aqua et terra. Perlomeno, questa tesi, stampata a Venezia nel 1508, è presentata nell'ultima pagina come sostenuta dal poeta Dante il 20 gennaio 1320, e non vi è alcun motivo di sospettarne l'autenticità. Niente autorizza quindi a dividere in due parti la vita di Dante, una in cui la filosofia avrebbe rimpiazzato la fede ingenua della sua adolescenza, l'altra che sarebbe stata segnata da una sorta di conversione religiosa sotto l'influenza preponderante della teologia. Una crisi più certa, nella vita di Dante, è quella della sua fede politica. Egli stesso avverte che le sue idee sono cambiate sui diritti dell'impero romano3. Questo mutamento è stato causato forse dal progresso naturale e logico delle sue riflessioni, o bisogna attribuirlo piuttosto ai suoi risentimenti d'uomo di partito ed esiliato? La questione sarebbe risolta nel primo caso se si ammettesse, con il Witte, che il trattato del De Monarchia sia un'opera della giovinezza, scritta prima del suo esilio, quando non aveva ancora alcun motivo di risentimento personale contro i Guelfi, di cui combatte, in quest'opera, tutti i principi. 3 De Monarchia 9 Il Witte nota che è il solo dei suoi scritti in cui non faccia alcuna allusione ad avvenimenti contemporanei e alla parte ch'egli stesso vi prese. Ma questo carattere impersonale si spiega sufficientemente con il tono puramente dogmatico e didattico del libro. La discussione è appassionata, ma si mantiene sempre nelle teorie generali. Se questo manifesto fosse stato redatto nella giovinezza di Dante, come mai non se ne troverebbe traccia nelle lotte politiche e religiose che hanno avvelenato la sua età matura? Come mai non sarebbe apparso che dopo la sua morte, come strumento belle mani di un partito e come oggetto di vendette postume di un altro? Non si può supporre che, avesse timore di pubblicarlo in vita, o che non l'avesse pensato: l'arditezza con la quale, in tutti gli altri scritti, sostiene gli stessi principi, smentisce queste due ipotesi e, se l'ultima d'altronde fosse fondata, non ci sarebbe altra spiegazione al silenzio che osserva su se stesso. Boccaccio fa risalire la scrittura del De Monarchia, alla spedizione di Enrico VII in Italia (1310-1313): tutte le verosimiglianze concorrono a confermare la sua testimonianza. Ma quale che sia la data del trattato sulla monarchia, niente prova che il cambiamento delle idee politiche di Dante sia posteriore al suo esilio, né soprattutto che ne sia l'effetto. La sua teoria dell'impero si ricollega strettamente a tutto l'insieme delle sue dottrine filosofiche. Dante non apparteneva al partito Guelfo che per tradizione di famiglia, se ne è separato senza apostasia, quando ha cominciato a farsi delle convinzioni personali e se le sue nuove opinioni l'hanno fatto avvicinare ai Ghibellini, se i suoi interessi e i suoi rancori l'hanno portato più tardi a combattere nei loro ranghi, ha sempre onorato la sua volontà di di elevare il suo pensiero al di sopra delle lotte di partito e di essere, come amava dire, partito a sé solo «................................A te fia bello 10 Averti fatta parte per te stesso» (Paradiso, XVII, vv, 68 e seguenti) La filosofia non è estranea a nessuna delle opere di Dante. Le sue stesse poesie liriche, contengono spesso, sia direttamente, sia sotto la forma dell'allegoria, delle tesi filosofiche. Il trattato della lingua volgare (De Vulgari Eloquentia), inizia con una tesi filosofica sul linguaggio, considerato come una facoltà esclusivamente propria dell'uomo e di cui Dio, creandolo, gli ha rivelato l'uso. Quello sulla monarchia è lo sviluppo di tutta una filosofia politica. La Vita Nuova è come la prefazione del Convivio e della Divina Commedia e, in quest'ultime opere, tutte le parti della filosofia, vi sono rappresentate. Il Convivio è il primo libro di metafisica scritto in lingua volgare. Occupa, sotto quest'aspetto, nella storia della filosofia, italiana, un posto analogo a quelle del discorso sul metodo, posteriore di tre secoli, nella storia della filosofia francese. Come Cartesio, Dante invita a profittare delle sue meditazioni o, come egli dice, a sedere alla sua tavola filosofica, quelli che non hanno avuto la fortuna di incontrarsi nel suo stesso cammino e, per distribuire il pane della verità con una mano più liberale, preferisce alla lingua dei sapienti, quella delle genti del mondo e delle donne. Ma se rinuncia al linguaggio dei dotti, non dimentica i loro procedimenti. Il Convivio è tutto scolastico, non solo per l'abuso delle divisioni, delle distinzioni, dei sillogismi, ma per l'impiego di due forme care ai dottori del medioevo: il commentario e l'allegoria. È un commentario filosofico, non su un libro di Aristotele, ma su tre canzoni di Dante stesso ed è per quello soprattutto che si giustifica di aver scritto in italiano; perché il commento segue necessariamente la lingua dell'opera commentata. Queste tre canzoni sono poesie d'amore (Dante asserisce nella Vita Nuova che il nascente italiano non poteva ancora 11 esprimere altri soggetti); ma l'amore vi è concepito, per mezzo dell'allegoria, nel suo senso più largo e anche quando tutto sembra rapportarsi alle bellezze sensibili, il commento gli dà arditamente un significato filosofico. Dante usa, nell'interpretazione del suo proprio pensiero, tutte le raffinatezze del simbolismo. Non vi distingue meno di quattro sensi: il letterale, l'allegorico, il morale e l'anagogico o induttivo4. Una semplice invocazione alle intelligenze che muovono il terzo cielo, nel primo verso di una delle poesie che commenta, dà luogo a tutta una teoria del cielo secondo il sistema di Tolomeo, ad una esposizione della natura e della gerarchia degli angeli e ad una classificazione delle scienze che riproduce, allegoricamente, l'ordine delle sfere celesti; ai cieli planetari, corrispondono le sette arti liberali, ai due poli del cielo stellato, la fisica e la metafisica, al primo mobile, la morale e all'empireo, la teologia. Questi sottili accostamenti tra l'ordine morale e l'ordine fisico, si ritrovano dappertutto nella scienza come nell'arte del medioevo. Si fondano su di un'armonia reale in cui si manifesta l'unità della creazione ma, impiegate con cieca fiducia, come procedimento della ragione, senza tener conto dell'imperfezione delle conoscenze acquisite e delle differenze di natura o gradi che separano i diversi ordini di verità, sono stati il principale ostacolo al progresso delle scienze. Tutte le scienze, fondandosi, in qualche modo, le une sulle altre, divengono solidali e non si possono cambiare le idee stabilite in fisica senza rivoltare nel tempo stesso la metafisica, la morale e la teologia stessa. Le teorie filosofiche del Convivio sono riprese, con nuovi sviluppi, nella Divina Commedia, dove esse si rivestono d'im4 12 I due versi seguenti, nei manuali di dialettica, davano la spiegazione di questi quattro sensi: littera gesta docet; quid credas, allegoria, moralis, quid agas; quid speras, anagogia magini vive e familiari senza perder nulla della loro precisione né del loro rigore. Dante stesso rapporta il suo poema alla filosofia morale e gli assegna per oggetto il destino umano, determinato dal merito e dal demerito5. Ma non separa la morale dalle altre scienze di cui essa è il principio ordinatore, come il primo mobile, al quale essa corrisponde, sostiene tutto l'ordine del cielo. Così, una vera summa di filosofia e di teologia, trova posto in tutta una serie di dissertazioni cui frammischia continuamente i suoi quadri dell'altra vita, sia che parli a nome suo, sia che faccia parlare le sue due guide, Virgilio e Beatrice o i diversi personaggi che mette in scena .Dante non ha propriamente una dottrina filosofica. l'aristotelismo scolastico, sotto la forma che gli aveva dato San Tommaso, costituisce il fondamento di tutte le sue teorie. Chiama Aristotele il maestro di color che sanno «Vidi il maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno e s'inchina sempre davanti all'autorità del buon fratello Tommaso Aquino6. Sul rapporto dei sensi con la ragione e della ragione con la fede, sulla formazione, l'unità e l'immortalità dell'anima, sulla creazione e la gerarchia degli esseri, sul libero arbitrio e l'origine del male, sulla divisione delle virtù, egli professa il puro tomismo. Se si allontana dall'angelo della scuola nella classificazione dei peccati, è per risalire ad Aristotele7 o per ispirarsi a un al5 Epistola dedicatoria del Paradiso a Cangrande della Scala «Questo contra gli erranti è tutt'una parte ed è nome d'esta canzone, tolto per esempio del buono fra' Tommaso d'Aquino, che a un suo libro che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra fede, pose nome contra gentili» (Convivio, IV) 7 Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole, 6 13 tro scolastico, San Bonaventura. Conosce gli arabi Algazel, Avicenna e colui che fece il gran commento8, Averroè del quale rifiuta con gli argomenti di San Tommaso, la teoria dell'intelletto impersonale9. Di Platone non sembrerebbe aver letto che il Timeo che non cita se non per combatterlo10, ma si riconosce, nello spirito stesso della sua filosofia, una sorta di platonismo incosciente che attinge in Cicerone, Boezio, Riccardo di San Vittore, Bonaventura e in San Tommaso stesso. Come quasi tutti gli scolastici, è attratto, senza ben conoscerlo, dall'idealismo platonico e contenuto dal realismo peripatetico, meglio conosciuto e più conforme alle esigenze di un insegnamento dogmatico. Tra i principi della metafisica di Aristotele, fa sua soprattutto questa idea di finalità che vede il motore supremo, il centro comune verso il quale tendono tutti gli esseri si compiace di mostrare un'immensa corrente d'amore che circola dappertutto per lo gran mar dell'essere (Paradiso, I, 113). il movimento fisico, la vita vegetativa, la vita animale , la vita intellettuale, formano la scala ascendente dell'amore universale. Infallibile, nei suoi gradi inferiori, l'amore diviene suscettibile di bene e di male quando è illuminato dalla ragione. Il vizio come la virtù, derivano da lui, a seconda che si arresti sui beni imperfetti o che tenda con un ardore perseverante verso il bene supremo. incontenenza, malizia e la matta bestialitade?... ( Inferno, XI, 27-31) 8 Averrois, che il gran commento feo... ( Inferno, IV, 144) 9 non vedi tu ancor: quest'è tal punto, che più savio di te fé già errante, sì che per sua dottrina fé disgiunto da l'anima il possibile intelletto, perché da lui non vide organo assunto. ( Purgatorio, XXV, 62-66) 10 Convivio, IV – Paradiso, IV, 24 14 Anche quando la volontà diviene cattiva, quando essa persegue il male altrui con la violenza o con la frode, non obbedisce che ad un amore sregolato da se stesso. Ci sono dei gradi nel vizio, a seconda che l'amore si allontani più o meno dal suo fine e, dall'altro lato, gli sforzi che fa per raggiungerlo, sono la misura naturale dei gradi della virtù. Le virtù della vita contemplativa, sono superiori a quelle della vita pratica, in quanto manifestanti più amore, ma per ciascuna di queste due vie, c'è un limite che l'amore umano non può oltrepassare, neppure nel senso della beatitudine celeste. Gli angeli vanno al di là; ma essi stessi non realizzano ancora la perfezione dell'amore. Dio solo la possiede alla sommità dell'essere e ne spande i raggi su tutte le creature, nella misura della loro perfezione relativa. L'Inferno stesso è un'opera d'amore quanto di giustizia11. Questi cerchi sovrapposti in cui i castighi sono proporzionali al demerito, sono inegualmente distanti da Dio; l'amore divino rischiara ancora di un pallido lucore il limbo dove quelli a cui la fede soltanto mancò, sono almeno esenti dalla sofferenza e non si spegne che al fondo di questo pozzo ghiacciato dove si erge, in mezzo ai traditori, il corpo immenso di Lucifero. La politica di Dante, la parte più originale della sua filosofia12, s'ispira agli stessi principi. L'unità di un fine comune, per tutto il genere umano, lo conduce a proclamare la necessità di un impero unico, che riunisca sotto le sue leggi tutti i popoli della terra. Ma, siccome per raggiungere il loro fine, gli uomini seguono una doppia luce, la ragione e la fede, il governo universale si presenta sotto due forme, l'impero e la chiesa: il primo destinato ad assicurare la beatitudine terrestre, la seconda con la missione di guidarli verso una beatitudine celeste. 11 Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore. (Inferno, III, vv. 4-6) 12 La presenta egli stesso come nuova (De Monarchia, I 15 Irriducibili tra loro, i due poteri sono mutualmente indipendenti; non devono render conto che alla potenza divina di cui sono l'uno e l'altro, emanazioni immediate. L'imperatore è inferiore al papa come la filosofia è inferiore alla teologia, la beatitudine terrestre alla beatitudine celeste ma non c'è dall'uno all'altro, che una subordinazione di deferenza. Queste idee politiche sono in opposizione con quelle di San Tommaso e della maggior parte dei dottori; ma non per questo estranee allo spirito del medioevo. Se questo si perde per l'eccesso della suddivisione, non si smarrisce meno nell'inseguimento dell'unità universale. La chiesa la pretende in campo temporale, i Cesari di Germania, eredi del titolo di Cesare di Roma, aspirano a realizzarla nell'ordine temporale, così non si concepiscono che tre teorie politiche: la prima assorbe l'impero nella chiesa, la seconda assoggetta la chiesa all'impero, la terza, infine, investe i due poteri, ciascuno nella sua sfera, di una sovranità egualmente universale e pienamente indipendente. L'unità dell'impero, nella teoria di Dante, non è autorizzata solo dalle tradizioni sempre vive dell'impero romano, essa appare come il coronamento dell'edificio feudale, non è destinata, in effetti, a sostituirsi in tutto alla diversità degli stati, non fa che relegarli fra di loro sotto la sovranità dell'imperatore, come i feudi di uno stesso reame sono riuniti sotto la sovranità del re. Infine, la politica di Dante appartiene ancora al medioevo per l'apparato scolastico sotto cui si presenta, sia nelle dimostrazioni in forma di trattato sulla monarchia, sia nelle digressioni oratorie o poetiche del Convivio e della Divina Commedia. Discutendo di questioni sulle quali si sono avute, nel corso di più secoli, tante battaglie di penna e spada, Dante non può dispensarsi dall'usare le stesse armi dei suoi avversari. Quando l'opinione che combatte vede nella subordinazione della luna 16 al sole una prova convincente di quella del potere temporale a quello spirituale, bisogna meravigliarsi se dispiega contro un tale argomento tutte le risorse della sillogistica e tutte le sottigliezze dell'interpretazione simbolica? Non rifiuta neanche, nell'ardore della discussione, l'impiego delle armi dell'intolleranza: risponder si vorrebbe dice rifiutando una certa teoria sulla nobiltà d'origine, non colle parole, ma col coltello a tanta bestialità13. La vera origine della filosofia di Dante, è la forma popolare di cui l'ha rivestita. Tutte le questioni che si dibattono all'ombra delle scuole, si producono in una lingua sapiente e naturale che sa piegarsi alle più formidabili astrazioni e a spandervi la luce e la vita, e nel momento stesso in cui fanno appello a tutte le intelligenze, s'impadroniscono di tutte le immaginazioni con questo insieme di finzioni affascinanti o terribili in cui esse trovano posto. Provocano anche una curiosità insaziabile, stimolata piuttosto che placata dalle oscurità di cui il poeta-filosofo non ha voluto spogliarle. Egli stesso ha dato l'esempio di un commento filosofico delle sue poesie nella lingua del popolo. Innumerevoli interpreti, la cui catena risale ai primi anni dopo la sua morte, seguono a gara questo esempio per la Divina Commedia. Non ci sono mai abbastanza commenti scritti, cattedre addirittura sono state create nella maggior parte delle città d'Italia, per la spiegazione del poema sacro. Si sa che quella di Firenze fu inaugurata da Boccaccio. I dettagli ingenui in cui i primi commentatori si credevano obbligati ad entrare, attestano insieme l'ignoranza del pubblico al quale si indirizzavano e l'universale avidità di sapere che l'opera di Dante aveva suscitato. È il trionfo della scolastica, è, nello stesso tempo, il punto d'avvio della sua decadenza. Il circolo ristretto in cui si era cacciato il pensiero del grande poeta, non bastò più, ben presto, allo spirito umano emancipato da se stesso. Malgrado i 13 Convivio, IV 17 suoi avvertimenti, in cui vuole andare per più di un sentiero filosofando, si vuole soprattutto abbeverarsi più largamente a questa antichità profana di cui i poeti e i filosofi svolgono, nel suo poema, un ruolo secondario e subordinato,ma già pieno di splendore. Così si può dire che la Divina Commedia sia stata, in Italia almeno, il canto del cigno della scolastica14. Petrarca, più giovane di Dante di soli trentanove anni, è già un filosofo del rinascimento. Ma la popolarità di Dante non ebbe a soffrire da questo movimento nuovo: egli stesso vi aveva contribuito senza volerlo, non solo portando la filosofia fuori dal recinto delle scuole e piazzandola sotto l'invocazione dei ricordi classici, ma operando una scelta in questo insegnamento scolastico al quale pretendeva di restare fedele. Lascia nell'ombra le teorie proprie del medioevo sul principio d'individuazione, sugli universali, sulla distinzione dei due intelletti. Sotto queste forme pedantesche, di cui si pena a liberarsi, sa ritrovare questa philosophia perennis di cui parla Leibniz che sussiste attraverso tutti i sistemi antichi e moderni. Si fa, per usare le sue parole, cittadino di quella Atene celestiale dove gli stoici e peripatetici ed epicurei, per l'arte della verità eterna, in un volere concordevolmente concorrono (Convivio, III). Prese in se stesse, la maggior parte delle sue teorie filosofiche, possono, senza un anacronismo troppo marcato, essere messe nella bocca di Virgilio, sua guida nel campo della scienza umana e, salvo le questioni di fisica, dove non potrebbe star davanti alle scoperte moderne, esse han potuto conservare il loro posto nell'insegnamento e nelle discussioni tra i filosofi. Anche dopo la caduta della scolastica, la Divina Commedia p ancora commentata con entusiasmo da puri platonici come Landino e dai sapienti più rinomati dello spirito del medioevo, come Galileo. 14 18 Franz Wegele, Dante's leben und werke. La decadenza intellettuale d'Italia nel XVII secolo soltanto, interruppe gli studi danteschi. Si sa quale favore hanno esse riconquistato ai nostri giorni, non solo l'era dei commentatori si è riaperta, ma le citazioni della Divina Commedia e delle opere minori sono divenute l'illustrazione obbligata di tutti i libri di filosofia. Fuor d'Italia, Dante è stato meno di frequente citato, perché perde molto nella traduzione ma, dal punto di vista storico soprattutto, è l'oggetto di studi non meno pazienti e non meno simpatici. La sua gloria ha tratto profitto dalla reazione che si è prodotta ai nostri giorni, in favore del medioevo ed ha contribuito a sua volta a dare il la alle ricerche sulla storia e la filosofia di quell'epoca. I più oscuri rappresentanti della scolastica, sono tratti dall'oblio per chiarire un passaggio del poeta che ha riassunto nei suoi versi immortali, tutta la scienza del suo tempo. La Germania conserva la superiorità in questi lavori per la pazienza delle sue investigazioni, e per quest'arte, ch'essa possiede in un grado così eminente, di assimilare le idee straniere trasformandole, è vero, nel suo proprio genio. La Francia le ha approcciate con una mano più sobria, ma quasi sempre più sicura. Il libro di Ozanam15, benché sorpassato su più punti, resta uno dei migliori che abbiano scritto in Europa sulla filosofia di Dante. Nella filosofia di Dante un interesse particolare si ricollega alla sua politica. Come la sua metafisica, essa deriva dal medioevo ma va ben oltre. Senza parlare di analogie, spesso forzate, che si è preteso di trovare con le dottrine che prevalgono oggigiorno in tutta Italia, essa manifesta, sotto la teoria chimerica dell'impero universale, il presentimento già molto netto di tutte le grandi questioni che la politica moderna aspira a risolvere: la federazione degli stati, si non sotto un capo unico, almeno sotto certe leggi comuni; la conciliazione delle 15 Dante e la filosofia cattolica del XIII secolo 19 libertà provinciali o municipali con la sovranità del governo centrale; l'indipendenza reciproca del potere spirituale e di quello temporale. Dante stesso non è estraneo a questi sogni di riforme sociali che pretendono di assicurare il libero sviluppo di tutte le vocazioni naturali16, resta, in una parola, da tutti i punti di vista, il più vivo non solo dei poeti, ma dei filosofi del medioevo. 16 20 Vedi il discorso di Carlo Martello nell'ottavo canto del Paradiso – la nota è di Daniel Stern, nei suoi eloquenti dialoghi su Dante e Goethe 0E JMPSWSJME WGSPEWXMGE RIP TIRWMIVS I RIPPI 3TIVI HM (ERXI %PMKLMIVM (MZMRE GSQQIHME (I QSREVGLME 'SRZMZMS :MXE RYSZE 5YEIWXMS HI EUYE IX XIVVE (I ZYPKEVM IPSUYIRXME RIP WEKKMS FVIZI HM )QMPI &IEYWWMVI TYFFPMGEXS RIP I UYM XVEHSXXS MR MXEPMERS