Corso di Diritto Commerciale (A-L)
Prof.ssa F. Vessia
Anno Accademico 2012/2013
Lezione del 13 maggio 2013
IL FALLIMENTO: DICHIARAZIONE, ORGANI ED EFFETTI
LA DICHIARAZIONE
 Il termine per la dichiarazione: il fallimento può essere dichiarato entro 1 anno dalla morte
dell’imprenditore (art. 11) o dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si
è manifestata anteriormente o entro l’anno successivo (art. 10 l.fall.). Per le imprese
individuali e le società di persone è consentito ai creditori di dimostrare un diverso momento
di cessazione effettiva dell’attività da cui decorre il termine di un anno (art. 10). Questa
stessa disposizione si applica anche, per effetto del richiamo operato dall’art. 147, al
fallimento di società con soci illimitatamente responsabili quando abbiano cessato di far
parte della società (per morte, recesso o esclusione) ovvero abbiano perduto la responsabilità
illimitata passando al regime di responsabilità limitata per effetto di operazioni straordinarie
quali trasformazione, fusione o scissione. Il dies a quo per il calcolo del termine di 1 anno
coinciderà o con l’iscrizione nel R.I. dell’evento estintivo del rapporto sociale (morte,
recesso o esclusione) o modificativo del regime di responsabilità (trasformazione, fusione o
scissione) se la società in questione è regolare; ovvero con il momento di attuazione della
pubblicità con “mezzi idonei” se la società in oggetto è irregolare.
 L’iniziativa della dichiarazione: il fallimento può essere dichiarato su ricorso di uno o più
creditori, su richiesta del debitore (si tratta di una facoltà che però diventa un obbligo
penalmente sanzionato quando l’inerzia provoca l’aggravamento del dissesto), o dei suoi
eredi (se defunto), e su istanza del P.M. (che ha il potere-dovere di chiederlo quando
l’insolvenza risulta da fatti che configurano reati fallimentari e al fine di promuovere
l’azione penale, nonché quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione di un giudice che
l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile, ex art. 7). La riforma del 2006 ha
soppresso il potere del Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, sostituendola con il
potere di segnalazione al P.M.
 La competenza alla dichiarazione di fallimento è del tribunale del luogo dove ha la sede
principale l’impresa. Il trasferimento della sede avvenuto nell’anno precedente alla
dichiarazione di fallimento, però, non rileva ai fini della competenza. In caso di
dichiarazione proveniente da un giudice incompetente per territorio si verifica la c.d.
translatio iudicii: la procedura è immediatamente trasferita d’ufficio al tribunale competente
e tutti gli atti precedentemente compiuti restano validi (art. 9-bis).
Il fallimento è dichiarato con sentenza, che contiene inoltre i provvedimenti necessari allo
svolgimento della procedura, quali:
1. la nomina del giudice delegato e del curatore;
2. l’ordine, rivolto al fallito, di depositare il bilancio, le scritture contabili civili e fiscali
obbligatorie nonché l’elenco del creditori entro 3 giorni;
3. la fissazione dei termini relativi all’accertamento dello stato passivo, ossia la data
dell’udienza di verifica dello stato passivo e il termine per il deposito delle domande di
insinuazione al passivo;
4. la conferma o la revoca dei provvedimenti cautelari o conservativi emessi nel corso
dell’istruttoria prefallimentare ai sensi dell’art. 15, comma 8.
La sentenza viene notificata d’ufficio al debitore e comunicata per estratto al P.M., al curatore e al
creditore richiedente, nonché resa pubblica mediante annotazione nel Registro delle Imprese.
La sentenza è immediatamente esecutiva fra le parti del processo dalla data del deposito in
cancelleria, mentre verso i terzi è efficace solo dalla data dell’iscrizione nel R.I.
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GLI ORGANI DEL FALLIMENTO
Organi del fallimento sono:
1. Il Tribunale
2. Il giudice delegato
3. Il curatore
4. Il comitato dei creditori
Il Tribunale che dichiara il fallimento “è investito dell’intera procedura” (art. 23 l.fall.)
sovrintendendo alla stessa. In particolare il tribunale dispone con decreto:
1. la nomina del giudice delegato e del curatore, la loro sostituzione e la vigilanza sul loro
operato;
2. la sostituzione dei componenti del comitato dei creditori su richiesta dei creditori stessi;
3. la decisione delle controversie relative alla procedura che non siano di competenza del
giudice delegato e la decisione dei reclami avverso gli atti del g.d.;
4. la dichiarazione di chiusura della procedura fallimentare ex art. 118 l. fall., la decisione
sull’omologazione del concordato fallimentare e sulla concessione dell’esdebitazione
all’imprenditore individuale.
Inoltre può in ogni momento chiedere informazioni e chiarimenti al curatore, al fallito e al comitato
dei creditori.
Avverso i decreti del Tribunale è possibile proporre reclamo in Corte d’Appello, a differenza del
passato in cui non era previsto alcuno strumento d’impugnativa, e la Corte Costituzionale aveva
finito per riconoscere quanto meno la possibilità di esperire ricorso per Cassazione ex art. 111, 7°
comma, Cost.
Inoltre, il tribunale fallimentare attrae a sé la competenza decisionale su tutte le controversie che
derivano dal fallimento (c.d. vis actractiva), comprese le azioni reali immobiliari. La condizione di
derivazione dal fallimento viene interpretata dalla giurisprudenza in modo molto ampio, includendo
“non solo le azioni che trovano origine nello stato di dissesto, ma anche quelle che incidono sul
patrimonio del fallito o che, per la sopravvenienza del fallimento, sono soggette ad una disciplina
speciale”; si pensi a tutte le controversie pendenti relative all’accertamento di crediti anteriori alla
dichiarazione di fallimento che dovranno essere interrotte e riassunte dinanzi al giudice del
fallimento competente per territorio.
Il giudice delegato (g.d.) vigila sulle singole operazioni del fallimento e controlla la regolarità della
procedura; ha perso invece le precedenti funzioni di direzione delle operazioni fallimentari (oggi di
competenza del curatore).
Sono di competenza del giudice delegato:
1. la nomina del comitato dei creditori e nei casi di urgenza, impossibilità, o inerzia, assume le
decisioni in sostituzione del comitato;
2. la formazione dello stato passivo che rende esecutivo con proprio decreto;
3. l’autorizzazione al curatore per stare in giudizio;
4. la decisione sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori;
5. l’emissione, o la provocazione dell’emanazione da parte delle autorità competenti, dei
provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio.
Il curatore amministra il patrimonio del fallito e compie tutte le operazioni a lui affidate in qualità
di pubblico ufficiale. Viene scelto di regola tra avvocati, dottori o ragionieri commercialisti, ma
possono essere nominati non solo singoli professionisti ma anche studi associati e società tra
professionisti.
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Pur essendo nominato dal Tribunale, il curatore può essere sostituito su richiesta e indicazione dei
creditori, sulla base di un nominativo scelto dagli stessi (sempre che sussistano fondate ragioni per
la sostituzione). Può essere revocato dal Tribunale in ogni momento, su richiesta del g.d., del
comitato dei creditori o d’ufficio. Per la sua attività ha diritto ad un compenso consistente in una
percentuale dell’attivo realizzato ed è liquidato con decreto del tribunale dopo l’approvazione del
rendiconto (a chiusura della procedura).
Le numerose competenze e compiti del curatore si possono riassumere nella funzione di
conservazione, gestione e realizzazione del patrimonio del fallito sotto la vigilanza del g.d. e del
comitato dei creditori. In particolare l’autorizzazione del comitato dei creditori è necessaria per il
compimento degli atti di straordinaria amministrazione, e l’autorizzazione del g.d. è necessaria per
stare in giudizio sia come attore che come convenuto.
Il curatore è tenuto ad eseguire personalmente il proprio incarico e risponde personalmente per
l’adempimento negligente (risarcimento danni); ma è consentita la delega di alcune operazioni
(previa autorizzazione del comitato dei creditori) come anche la nomina di coadiutori dotati di
particolari competenze tecniche.
Il comitato dei creditori è composto da 3 o 5 membri scelti fra i creditori in modo da rappresentare
la quantità e qualità dei crediti concorsuali. E’ nominato dal tribunale entro 30 gg. dalla
dichiarazione di fallimento, ma successivamente il g.d. ne può modificare la composizione.
Il comitato decide a maggioranza dei votanti (per teste) e non possono votare coloro che si trovino
in conflitto d’interessi rispetto ad una determinata deliberazione. Nella prima riunione il comitato
elegge al suo interno un presidente.
Le funzioni del comitato sono molteplici e si possono distinguere in:
1. Pareri
2. Autorizzazioni
3. Poteri ispettivi e informativi
1. I pareri, per lo più non vincolanti, lo sono tuttavia per alcune decisioni particolarmente importanti
quali la restituzione dei beni mobili di terzi, la continuazione temporanea o esercizio provvisorio
dell’impresa, l’affitto d’azienda e la proposta di concordato fallimentare.
2. Le autorizzazioni riguardano alcuni atti del curatore (che in passato venivano autorizzati dal g.d.)
quali gli atti di straordinaria amministrazione, la prosecuzione con subentro nei rapporti giuridici
pendenti, la nomina dei coadiutori del curatore. Il comitato, inoltre, approva il piano di liquidazione
predisposto dal curatore.
3. Per quanto concerne i poteri, il comitato ha il potere di chiedere informazioni e chiarimenti al
curatore ed al fallito in ogni momento, di ispezionare le scritture contabili e i documenti del fallito
nonché di visionare ogni documento del fascicolo della procedura tenuto presso la cancelleria del
tribunale.
Ha facoltà di presentare istanza di revoca del curatore e di esercitare l’azione di responsabilità nei
confronti del curatore revocato.
Il comitato dei creditori è soggetto a responsabilità, nell’esercizio delle proprie funzioni,
analogamente a quanto disposto per i sindaci dalle disposizioni dettate nelle s.p.a., eccezion fatta
per la responsabilità solidale per culpa in vigilando (contenuta nell’art. 2407, 2° comma, c.c.). Il
richiamo a tale forma di responsabilità è stato soppresso dal d.lgs. 169/2007 in quanto ritenuta una
responsabilità estremamente gravosa e generica, che avrebbe finito per disincentivare i creditori
dalla partecipazione alla funzione in parola.
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Ai componenti del comitato dei creditori spetta il rimborso delle spese e può essere riconosciuto un
compenso non superiore al 10% di quello liquidato al curatore purché vi sia il consenso della
maggioranza dei creditori.
GLI EFFETTI DEL FALLIMENTO
Il fallimento produce effetti per il fallito, per i creditori e per i terzi, in relazione agli atti
pregiudizievoli ed ai rapporti giuridici pendenti.
Gli effetti del fallimento per il fallito si distinguono in:
1. Effetti patrimoniali
2. Effetti personali
3. Effetti penali
1. EFFETTI PATRIMONIALI
Il principale tra gli effetti patrimoniali è lo spossessamento, ossia la perdita dell’amministrazione e
della disponibilità dei propri beni da parte del fallito, che ne rimane proprietario fino alla vendita.
Dal momento della dichiarazione di fallimento i beni passano nella disponibilità del curatore che,
dopo l’apposizione dei sigilli e la redazione dell’inventario, li gestisce e li amministra.
Lo spossessamento non tocca, però, quei beni sottratti all’esecuzione fallimentare elencati nell’art.
46, ossia i beni strettamente personali, gli assegni a carattere alimentare, le cose impignorabili per
legge e i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli nonché i beni vincolati in un fondo
patrimoniale ed i loro frutti.
Con riguardo alla casa di proprietà il fallito conserva il diritto di abitazione fino alla vendita
fallimentare.
Lo spossessamento si estende ai beni sopravvenuti dopo la dichiarazione di fallimento nel corso
della procedura, sia a titolo oneroso che gratuito, ma vanno pagate in prededuzione le spese di
acquisto e conservazione degli stessi. Per questa ragione il curatore, ove lo ritenga non conveniente
per la massa, può decidere di non acquistare i beni sopravvenuti.
Un effetto ulteriore dello spossessamento è l’inefficacia relativa, rispetto alla massa dei creditori
concorsuali, degli atti di disposizione sui beni e i diritti ricompresi nello spossessamento posti in
essere dopo la dichiarazione di fallimento direttamente dal debitore. Parimenti inefficaci sono i
pagamenti fatti e ricevuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento.
Tali atti sono, tuttavia, validi e vincolano il fallito, in quanto lo stesso non perde né la proprietà dei
suoi beni né la capacità di agire; ma potranno produrre effetto solo dopo la chiusura del fallimento.
Un altro effetto dello spossessamento è la perdita della capacità processuale del fallito, il quale non
potrà stare in giudizio né come attore né come convenuto nelle cause relative a rapporti patrimoniali
compresi nel fallimento. Ogni processo pendente, al momento della dichiarazione di fallimento, si
interrompe e dovrà essere riassunto con atto di citazione da parte del curatore, che è l’unico
legittimato a stare in giudizio in nome e per conto del fallito.
2. EFFETTI PERSONALI
Il fallito subisce, per la durata del fallimento, alcune restrizioni del diritto al segreto epistolare,
dovendo consegnare al curatore la corrispondenza riguardante i rapporti compresi nel fallimento se
persona fisica, e se persona giuridica perdendo il diritto a ricevere la corrispondenza. Subisce
restrizioni della libertà di movimento, anche se meno severe rispetto al passato, poiché deve
comunicare al curatore ogni variazione del proprio domicilio e della propria residenza e si deve
presentare agli organi della procedura ogni qualvolta venga chiamato per fornire informazioni. Non
è più tenuto, però, a chiedere il permesso del curatore per allontanarsi dalla propria residenza come
in passato.
Il fallito incorre, inoltre, in alcune incapacità civili: non può assumere incarichi come
amministratore, sindaco, revisore o liquidatore di società, non può essere iscritto all’albo degli
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avvocati o dei dottori commercialisti, né svolgere le funzioni di tutore, arbitro o notaio. In passato
tali incapacità permanevano anche dopo la chiusura del fallimento e cessavano a seguito della
cancellazione dal registro dei falliti dopo l’avvenuta riabilitazione. La riforma fallimentare del 2006
ha abolito il registro dei falliti e l’istituto della riabilitazione. Perciò le incapacità civili cessano
automaticamente con la chiusura del fallimento. Sono state inoltre soppresse le incapacità politiche
previste dalla legge fallimentare del ’42, ossia la perdita dell’elettorato attivo e passivo e
l’interdizione dai pubblici uffici ed è stato abolito l’istituto della riabilitazione cui era subordinata
la cancellazione dal registro dei falliti e la cessazione degli effetti personali del fallimento, sostituito
dal procedimento di esdebitazione.
3. EFFETTI PENALI
La dichiarazione di fallimento espone il fallito a sanzioni penali per condotte, poste in essere prima
o dopo il fallimento, che la legge qualifica come reati in quanto pregiudizievoli per i creditori.
Queste sono:
1. la bancarotta fraudolenta, per fatti commessi con dolo dall’imprenditore, che integrano le
condotte elencate nell’art. 216 l.fall.;
2. la bancarotta semplice, per fatti commessi con colpa dall’imprenditore ed elencati nell’art.
217 l.fall.;
3. il ricorso abusivo al credito, art. 218 l.fall., consistente nel comportamento dell’imprenditore
volto a dissimulare il proprio dissesto per ottenere credito alla sua impresa.
EFFETTI DEL FALLIMENTO PER I CREDITORI
I creditori dell’imprenditore, che risultano tali al momento della dichiarazione di fallimento, hanno
diritto ad essere soddisfatti secondo il principio della par condicio creditorum o parità di
trattamento, cioè possono soddisfarsi solo attraverso la procedura concorsuale (creditori
concorsuali) nelle forme dell’esecuzione collettiva fallimentare.
Tale procedura di soddisfacimento dei creditori è imperniata su due cardini:
 la necessità di accertamento giudiziale dei crediti nelle forme fissate per la formazione dello
stato passivo, salvo che si tratti di crediti prededucibili non contestati;
 il divieto di intraprendere o di proseguire azioni esecutive individuali sui beni compresi nel
fallimento.
Tuttavia il principio della parità di trattamento tra creditori subisce eccezioni in relazione al fatto
che i creditori non sono tutti sullo stesso piano, perciò sono trattati in modo uguale solo i creditori
che vantano una ragione di credito omogenea rispetto agli altri. Si possono distinguere tre categorie
di creditori:
1. I creditori privilegiati, che hanno diritto ad essere soddisfatti integralmente e con prelazione
sui beni oggetto della propria garanzia o privilegio e per la parte non soddisfatta hanno
diritto ad insinuarsi al passivo.
2. I creditori chirografari partecipano solo alla ripartizione dell’attivo non gravato da vincoli,
in proporzione del loro credito quindi in misura percentuale subiscono la c.d. falcidia
fallimentare.
3. I creditori della massa, titolari di crediti prededucibili, non soggiacciono al principio della
par condicio e vengono soddisfatti per intero e prima sia dei creditori concorsuali che di
quelli privilegiati, e se i loro crediti non sono contestati vengono esonerati anche dalla
procedura di accertamento del passivo.
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EFFETTI DEL FALLIMENTO SUI TERZI: GLI ATTI PREGIUDIZIEVOLI
Normalmente accade che l’imprenditore in stato di crisi, prima che venga dichiarato il suo
fallimento, compia una serie di atti di disposizione che alterano l’integrità del proprio patrimonio a
danno dei creditori. Per rimediare all’effetto depauperativo del patrimonio che tali atti provocano, il
curatore può esercitare le azioni revocatorie (ordinaria e fallimentare), volte a far dichiarare
l’inefficacia nei confronti del fallimento degli atti di disposizione suddetti.
L’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.) ha come presupposti l’eventus damni, cioè
l’impossibilità di soddisfarsi sul residuo patrimonio del debitore, e il consilium fraudis, ossia la
consapevolezza del debitore di pregiudicare le ragioni dei suoi creditori e, se l’atto è a titolo
oneroso, tale stato soggettivo è richiesto anche in capo al terzo. Queste condizioni devono essere
provate dal soggetto agente (in specie il curatore).
L’azione revocatoria fallimentare, invece, presenta requisiti parzialmente diversi poiché tutti gli atti
posti in essere dall’imprenditore in stato d’insolvenza si presumono pregiudizievoli per i creditori in
quanto idonei ad alterare la par condicio creditorum. Il curatore è dispensato dalla prova
dell’eventus damni e del consilium fraudis.
I presupposti dell’azione revocatoria fallimentare sono:
1. lo stato d’insolvenza dell’imprenditore (presupposto oggettivo).
2. la conoscenza dello stato d’insolvenza da parte del terzo (presupposto soggettivo).
Questi presupposti, in alcuni casi, non dovranno essere provati dal curatore agente in revocatoria
poiché questi gode di due agevolazioni processuali sul piano probatorio:
- lo stato d’insolvenza si presume (iuris tantum) per gli atti compiuti entro un arco di tempo
(6 mesi o 1 anno) precedente la dichiarazione di fallimento; sicché spetterà al terzo dover
provare in questi casi che l’imprenditore non era già insolvente al momento in cui ha
stipulato con lui l’atto revocando.
- Per alcuni atti particolarmente sintomatici dello stato d’insolvenza è posta dalla legge la
presunzione relativa (iuris tantum) di conoscenza dello stato d’insolvenza da parte del terzo,
con inversione dell’onere della prova in capo al terzo della sua ignoranza in merito allo stato
d’insolvenza. Ossia graverà sul terzo che sia chiamato in revocatoria la prova della sua
ignoranza anziché sul curatore agente la prova della conoscenza dello stato d’insolvenza.
Un’ulteriore agevolazione per il curatore risiede nelle ipotesi di revocatoria di diritto, ossia casi in
cui la legge fallimentare stabilisce che certi atti sono di diritto privi di effetti nei confronti dei
creditori, senza la necessità di dover esperire un’azione revocatoria giudiziale: si tratta degli atti a
titolo gratuito compiuti nei due anni precedenti la dichiarazione di fallimento e dei pagamenti di
debiti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o in un momento successivo,
anch’essi se compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.
Si distinguono le azioni revocatorie fallimentari, di cui all’art. 67 l. fall., in due categorie:
 Il 1° comma elenca gli atti per i quali la conoscenza dello stato d’insolvenza si presume e
spetterà al terzo dimostrare la sua ignoranza; si tratta degli atti c.d. anormali di gestione
dell’impresa, compiuti nell’anno o 6 mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento (atti a
titolo oneroso con notevole sproporzione tra prestazione e controprestazione, pagamenti con
mezzi anormali, costituzione di garanzie per debiti preesistenti non scaduti ecc.).
 Il 2° comma elenca gli atti per i quali la prova della conoscenza dello stato d’insolvenza
deve essere data dal curatore; si tratta di atti normali che sono revocabili se compiuti nei 6
mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento (pagamenti con mezzi normali, costituzione di
garanzia contestuale al debito e ogni altro atto a titolo oneroso).
Invece non sono revocabili:
1. I pagamenti effettuati nei termini d’uso
2. I pagamenti per le prestazioni di lavoro rese all’imprenditore
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3. Le vendite a giusto prezzo d’immobili ad uso abitativo
4. I pagamenti e le garanzie concesse in esecuzione di concordato preventivo, accordi di
ristrutturazione dei debiti e piani di risanamento dell’impresa
5. Alcune operazioni di finanziamento, bancario e non, e di autofinanziamento dell’impresa da
parte dei soci, che siano finalizzate alla presentazione o alla esecuzione di un concordato
preventivo, nonché i pagamenti di crediti anteriori alla presentazione di un accordo di
ristrutturazione dei debiti ed autorizzati dal Tribunale ai sensi dell’art. 182-quinquies,
commi 1,2,3 e 5.
EFFETTI DEL FALLIMENTO SUI TERZI: I RAPPORTI GIURIDICI PENDENTI
Tutti i contratti stipulati dal debitore prima della dichiarazione di fallimento e non ancora
eseguiti, in tutto o in parte, da entrambe le parti, se risultano opponibili al fallimento, vengono
considerati pendenti ed assoggettati ad una particolare disciplina.
La legge fallimentare stabilisce che alcuni di questi contratti pendenti si sciolgano
automaticamente ex lege al verificarsi della dichiarazione di fallimento in ragione della loro
intrinseca incompatibilità con le istanze fallimentari o dell’elevata aleatorietà (x es. i contratti di
borsa a termine, l’associazione in partecipazione, il contratto di appalto e il contratto di conto
corrente bancario).
Altri contratti, invece, proseguono automaticamente anche dopo il fallimento, con il
subingresso del curatore nella posizione giuridica precedentemente assunta dal fallito. Si tratta di
contratti evidentemente utili e vantaggiosi per la massa dei creditori come x es. la locazione di
immobili, l’affitto d’azienda, l’assicurazione contro i danni, il contratto di edizione ecc. Le
obbligazioni che vengano assunte in conseguenza del subingresso del curatore nel contratto,
daranno luogo a crediti prededucibili, che dovranno essere soddisfatti per intero e anticipatamente
rispetto ai crediti concorsuali.
Infine, per un terzo gruppo di contratti il legislatore ha stabilito la regola della sospensione: il
fallimento sospende gli effetti del contratto per consentire al curatore, con l’autorizzazione del
comitato dei creditori, se sia più conveniente recedere dal contratto sciogliendosi dalle relative
obbligazioni o continuare lo stesso subentrando nella posizione del debitore fallito. In quest’ultimo
caso il curatore assumerà gli oneri derivanti dal contratto come crediti della massa, cioè in regime di
prededuzione.
Questa stessa regola è stata assunta, nella novella fallimentare del 2006, come regola generale
di carattere residuale, applicabile a tutti quei contratti pendenti non espressamente disciplinati dalla
legge (art. 72, co. 1, l.fall.).
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