I sonnambuli dell`Europa - Repubblica.it

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I sonnambuli dell'Europa - Repubblica.it
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http://www.repubblica.it/politica/2013/12/31/news/i_sonnambuli_dell_...
di BARBARA SPINELLI
31 dicembre 2013
«VERRÀ il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914»: lo
ha detto Angela Merkel, nell’ultimo vertice europeo, citando un libro dello storico
Christopher Clark sull’inizio della Grande Guerra, tradotto in Italia da Laterza.
I sonnambuli descritti da Clark sono i governi che scivolarono nella guerra presentendo il
cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla. Da allora sono passati
quasi cent’anni, e molte cose sono cambiate. L’Europa ha istituzioni comuni, l’imperialismo
territoriale è svanito (resta solo l’Ungheria di Orbàn, residuo perturbante del mondo di ieri,
a proclamare compatrioti a tutti gli effetti gli ungheresi di Slovacchia, Romania, Serbia,
Austria, Ucraina). Non si combatte più per spostare confini ma l’Unione non è in pace
come si dice, e la crisi che traversa la sta squarciando come già nel 1913-14.
È simile lo stato d’animo dei governi: allo stesso tempo deboli e pieni di sé. Impotenti
sempre, anche quando mostrano arroganza o risentimento. Gli anniversari sono un
omaggio che si rende al passato per accantonarlo. Meglio sarebbe celebrarli con
parsimonia. Ma sul significato di questa ricorrenza vale la pena soffermarsi, e chiedersi
come mai Berlino evochi il 1914 per dire che l’euro può sfracellarsi, che se non faremo
qualcosa saremo di nuovo sorpresi dal colpo di fucile che distrusse il continente. Come
mai torni questo nome — i Sonnambuli — che Hermann Broch scelse come titolo per una
trilogia che narra la pigrizia dei sentimenti, l’indolenza vegetativa, che pervasero il primo
anteguerra.
Quel che il Cancelliere non dice, ma che Clark mette in risalto, è l’inanità di simili moniti
catastrofisti, l’enorme discordanza fra l’eloquio sinistro dei governanti e il loro agire ignavo,
incapace di trarre le conseguenze da quel che apparentemente presagiscono.
Si comportarono da sbandati gli Stati europei, quando il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip
tirò i suoi due colpi di pistola a Sarajevo: quasi camminassero dormendo. A parole
sembrava sapessero quel che stava per succedere, e però erano come incoscienti. Il dire
era completamente sconnesso dai fatti, dal fare. Allo stesso modo gli Stati odierni davanti
alla crisi, quando recitano la giaculatoria sul baratro che perennemente sta aprendosi, e
non fanno il necessario per allontanare l’Unione da quell’orlo ma anzi l’inchiodano sul
bordo, sbrindellata e tremante com’è, senza governo né comune scopo, come se questa
fosse l’ideale terapia per tenere vigili gli Stati, per dilatare le angosce dei cittadini, per non
provocare la rilassatezza (il «rischio morale», lo chiamano i custodi dell’Austerità) che
affligge chi, troppo rassicurato, smette il rigore dei conti.
Proprio come fa la Merkel, quando vaticina l’"esplosione dell’euro" e incrimina l’indolenza
dell’Europa dormiente. L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto
un trucco di governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure dei
popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della crisi». Lo dice l’ultimo
rapporto del Censis: non è «con continue chiamate all’affanno», né con la «coazione alla
stabilità», che si ricostruirà una classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio
destino se gli Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in
Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori».
Terribilmente simili all’oggi che viviamo furono i prodromi della Grande Guerra. Verso la
fine del luglio ‘14, poco dopo Sarajevo, il premier inglese Asquith preannuncia
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l’»Armageddon»: il luogo dell’Apocalisse dove tre spiriti immondi radunano i re della terra.
Gli fa eco Edward Grey, ministro degli Esteri: «La luce si sta spegnendo su tutta Europa:
non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». In realtà gli inglesi avevano
altri tormenti in quelle ore — non l’Europa ma l’autonomia dell’Irlanda — e poco si
curavano del disastro continentale che profetizzavano.
Anche Churchill utilizzerà più tardi la metafora millenaristica del buio che irrompe: «Una
strana luce cominciò a cadere sulla carta d’Europa». Quanto ai generali russi e francesi, le
parole ricorrenti quell’estate erano «guerra di sterminio», «estinzione della civiltà».
Sapevano dunque — conclude Clark — ma la sapienza scandalosamente girava a vuoto:
«Questa la cultura politica comune a tutti i protagonisti». Il ‘14-18 non è un giallo di Agatha
Christie, col colpevole scovato nell’ultimo capitolo: la primaria colpa tedesca, fissata
nell’articolo 231 del Trattato di Versailles, è invenzione dei vincitori. Il ‘14-18 fu una
tragedia «multipolare e autenticamente interattiva ».
All’origine di questo voluto e fatale divaricarsi tra parole e presa di coscienza: l’ignoranza
che ogni Stato mostrava per i patemi storici dell’altro. Ignoranza inglese dell’ossessione
russa, ostile con i serbi all’impero austroungarico e ottomano. Ignoranza della Germania in
ascesa. E accanto all’ignoranza: la flemma, l’abissale disinteresse per quello che la Serbia
significava agli occhi d’un impero asburgico dato anzitempo per morto. Infine il fatalismo:
la guerra era forse invisa, ma ritenuta inevitabile. Così l’Europa sbandò verso l’inutile
strage denunciata da Benedetto XV.
Ricordando la leggerezza disinvolta narrata da Clark, la Merkel commette gli stessi errori,
quasi credesse e non credesse in quel che dice. Anche nel ‘14 mancò l’immaginazione:
quella vera, non parolaia. Gli europei erano immersi in una prima globalizzazione. Come
poteva sgorgare sangue dal dolce commercio?
Poteva invece, perché il mito delle sovranità assolute scatenò i nazionalismi e produsse
non uno ma due conflitti: una lunga guerra di trent’anni. Solo dopo il ‘45 capirono, creando
la Comunità europea.
Ora siamo di nuovo in piena discrepanza tra parole e azioni, e tutti partecipano alla
regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a disfarsi di un’Europa che non è
all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a sovranità comunque inesistenti, e il
sonnambulismo riappare con il suo corteo di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi
chiamati difensivi. Come allora, a trascinarci in basso sono i governi ma anche una cultura
politica comune.
Ecco la modernità brutale del 1914, scrive Clark. Anche i popoli — spogliati di diritti,
disinformati — barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economiamondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono
un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per
finta. Dice ancora Broch: «Solo chi ha uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo
scopo».
Da anni siamo abituati a dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre
tra europei. Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia
risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come ammoniva già nel
1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione. L’internazionalizzazione dell’economia
rendeva «futili le guerre territoriali», questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo.
Oggi la Grande Illusione è pensare che il ritorno dell’equilibrio fra potenze assicuri
nell’Unione il dominio del più forte, più stabile. Ma Darwin è inservibile in politica, e
mortifera per tutti è la lotta europea per la sopravvivenza. Nel rapporto tra Usa e Israele, o
tra Cina e Nord Corea, sono decisivi i piccoli, i più dipendenti: esattamente come cent’anni
fa fu decisiva la Serbia panslavista, rovinosamente sostenuta dalla Russia. La forza fisica
che Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che s’illude di fare
da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è stata ancora imparata.
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