IL COMPOSITORE CHE SALVÒ PUCCINI 21 gennaio 2011 — pagina 13 sezione: PALERMO - l'articolo pubblicato venerdì 21 gennaio su Repubblica regionale. «Servire l'arte con umiltà», ammoniva il grande direttore d'orchestra Tullio Serafin, vergando così, inconsapevolmente, un perfetto epigramma per Antonino Palminteri, il musicista siciliano, nato a Menfi il 3 ottobre del 1846, che torna oggi alla ribalta grazie alla monografia dedicatagli da Angela Balistreri. Antonino Palminteri, un artista gentiluomo nel panorama operistico dell'800è il titolo del volume edito da Edivideo che fa luce non solo sulla vicenda artistica ma anche sulla "storia interiore" del compositore che avrebbe salvato Puccini da un fiasco sicuro. Se tutte le ricostruzioni storico-biografiche hanno bisogno di un piglio da detective per recuperare carte, lettere, intercettare testimonianze, quella su Palminteri era gravata anche dalla difficoltà di descrivere l'indole di un uomo schivo e umile che al suo ideale di bellezza piegò la propria ispirazione, abbandonando prestoi fasti dell'operismo per dedicarsi alla direzione d'orchestra e al piccolo, delizioso mondo delle melodie da camera. «Fronte vasta, occhi profondi e pensosi, viso pieno di serietà e contrazioni» sono gli elementi di una descrizione fisica che dice molto anche sul carattere di Palminteri. Figlio di Baldassarre, "medico fisico" - così si diceva allora - , e di Paola Ragusa che insegnò al figlio a «sdegnare ogni bassezza che degrada», come rivela la prima biografia di Palminteri, pubblicata da Cesare Matragna presso la Tipografia Pontificia di Palermo nel 1916, lasciata Menfi, studiò al Conservatorio di Palermo sotto la guida del catanese Pietro Platania. Subito però, come spesso avveniva ai giovani talenti, si spostò a Milano, Mecca della musica. Molto dotato, in breve tempo, si fece apprezzare anche da Amilcare Ponchielli che al suo attivo, all'epoca, aveva già la prima scaligera de La Gioconda. In un Ottocento ancora da scoprire, costellato da un enorme numero di personalità inghiottite, a torto o a ragione, dalla mitizzazione verdiana, nonostante le capacità, Palminteri, come molti altri, fu presto lanciato nel mondo del grande operismo e altrettanto in fretta dimenticato. Dopo un primo tentativo giovanile con L'Imene dei Rizzari (andata perduta), il 12 ottobre del 1878, debuttava al Teatro Sociale di Monza il suo Arrigo II. Il successo fu immediato. Ma non ci volle molto perché Palminteri scoprisse a proprie spese che il rigore del mestiere non sarebbe bastato per garantirgli un posto in un firmamento di stelle le cui regole somigliavano pericolosamente a quelle che oggi determinano la fama delle grandi star mediatiche. Così, dopo aver legato le sue speranze alla storia della principessa messicana Amazilla e dopo un numero imprecisato di lettere inviate a Menfi per spiegare le difficoltà di inserimento delle sue opere nei cartelloni dei grandi teatri, il Nostro finì per dedicarsi quasi esclusivamente alla direzione d'orchestra. La storia gli stava negando il palcoscenico, condannandolo ad una sorta di silenzio forzato, ma gli offriva nello stesso tempo la possibilità di esibirsi sul podio di molti teatri. E con un importante viatico. Quell'anonimo studente del Conservatorio di Milano che nell'anno scolastico 1881-82 gli sottoponeva un suo compito era in realtà il giovane Giacomo Puccini che presto avrebbe affidato a Palminteri la sua Manon Lescaut. Era il 1894 e, a un anno dal debutto torinese dell'opera, Puccini fremeva per un allestimento sanremese. L'orchestra era carente, insufficiente nell'organico, l'organizzazione indecorosaea Puccini non restava altro da fare che confidare nel direttore. La messinscena fu un successo. «Carissimo amico, non può credere come sia stato contento del successo di costì! Temevo molto anche per il cattivo trattamento fatto a priori a Manon! Devo a Lei, eg. Maestro; devo alla sua valentia e alla sua fraterna cooperazione se l'opera è andata bene grazie infinite e si abbia la riconoscenza del suo aff. mo G. Puccini». Così scriveva un entusiasta Puccini, dopo le tante preoccupazioni, al direttore che aveva salvato quell'allestimento. "Missionario" della musica, Antonino Palminteri portò il melodramma italiano anche nei teatri di provincia, garantendo, alle partiture dei grandi, esecuzioni sempre di alto livello, come testimoniano le recensioni dell'epoca. Milano, Monza, Ferrara, Bergamo, Ravenna, Verona, Torino, Parma, Lugo, Chieti ma anche Madrid, Valencia e Pietroburgo furono alcune delle tappe direttoriali del menfitano. Altre soddisfazioni però vennero dal mondo delle composizioni da salotto. Tornata oggi alla luce grazie alle ricerche della Balistreri, la produzione cameristica di Palminteri riserva nuove sorprese. Forse anche l'amore. Lui che per dedicarsi integralmente alla musica aveva deciso di non costruirsi una famiglia, durante le serate teatrali menfitane e negli incontri che organizzava nella sua casa di villeggiatura di contrada Sant'Antonino - «il mio romitaggio» la chiamava - ospitò e accompagnò spesso al piano un'allieva, Rosina Voenna, un valente soprano che aveva debuttato nella Ione di Petrella. E se tutti in famiglia sapevano che tra lo "zio maestro" - così ancora oggi lo chiamano i nipoti - e la cantante c'era assai più d'un normale legame tra insegnante e allieva, la prova sembra venire dalla dedica dell'Amazilla: «A Rosina Voenna». Silenziosi, una bellissima immagine, li ritrae insieme: Nino, così come lo chiamavano gli amici, al piano guarda serio l'obiettivo e Rosina, in piedi, sorride dolcemente al maestro. La sua arte, dissero i cronisti del tempo, irradiava bellezza e la sua modestia lo portò ad un discreto silenzio. Quel silenzio degli umili che, come scriveva Serafin, fa di un musicista un vero «sacerdote dell'arte». - EMANUELA E. ABBADESSA