Materiali corso 2014-15 B1+B2 - Università degli studi di Bergamo

Introduzione al corso
PROGRAMMA FREQUENTANTI
Prerequisiti
Gli studenti devono avere una sicura conoscenza dei periodi, dei movimenti e degli autori principali
della Letteratura italiana dall’Unità d’Italia alla Prima guerra mondiale.
Obiettivi formativi
Il corso si propone di approfondire le conoscenze richieste nei Prerequisiti attraverso un percorso che
affronterà lo sviluppo di un tema letterario specifico. Questo consentirà agli studenti non solo di
fissare i momenti salienti e di ripercorrere le biografie e le opere dei maggiori autori del periodo preso
in considerazione, ma, soprattutto, di applicarsi alla lettura e di esercitarsi nell’esegesi dei testi
proposti. Con ciò gli studenti acquisiranno quegli strumenti di contestualizzazione e di analisi critica
imprescindibili nello studio della letteratura in generale.
Contenuto del corso
Gli scrittori italiani e la Grande guerra. Dopo un excursus introduttivo sugli autori e sugli orientamenti
della letteratura italiana dall’Unità d'Italia al 1915, il corso si concentrerà sul rapporto tra scrittura
letteraria e guerra e sull’analisi di alcuni testi letterari italiani specificatamente dedicati a questo tema.
Modalità di verifica dell’apprendimento
Esame orale diviso in due parti. La prima verificherà brevemente la conoscenza della storia della
Letteratura italiana del periodo considerato. La secondo entrerà nello specifico del tema trattato nel
corso monografico e accerterà in modo particolare la capacità degli studenti di leggere, parafrasare e
analizzare criticamente i testi proposti durante il corso.
Testi di riferimento
Bibliografia studenti frequentanti.
1) EMILIO LUSSU, Un anno sull’Altipiano, introd. di Mario Rigoni Stern, Torino, Einaudi, 2014 (215
pp.)
2) ALDO PALAZZESCHI, Due imperi... mancati, a cura di Marino Biondi, Milano, Mondadori, 2000
(199 pp.)
3) RENATO SERRA, esame di coscienza di un letterato, a cura di Vincenzo Gueglio, Palermo, Sellerio,
1994 (96 pp.)
4) CARLO EMILIO GADDA, Giornale di guerra e di prigionia, Milano, Garzanti, 2002 (390 pp.)
5) GIANI STUPARICH, Ritorneranno, a cura e introduzione di Bruno Maier, Milano, Garzanti, 1991
(400 pp.)
Testi di riferimento consigliati:
- per la storia letteraria italiana tra Otto e Novecento:
GIULIO FERRONI, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi Scuola, 2001, vol. II,
Epoca 9, pp. 742-867.
- per il rapporto tra i letterati e la Grande guerra:
MARIO ISNENGHI, Il mito della grande guerra, 7. ed., Bologna, Il Mulino, 2014
Altre informazioni
Il corso è riservato agli studenti di LLSM, indirizzi di Turismo culturale e Processi interculturali. Gli
studenti, frequentanti o non frequentanti, dovranno presentarsi all'esame con tutti i testi indicati in
bibliografia e disponibili alla Civica Biblioteca A. Mai (P.zza Vecchia 15) o alla Biblioteca della
Facoltà di Lingue (P.zza S. Agostino). Gli appunti del corso sono parte integrante del programma.
L’esame verterà quindi sia sugli argomenti e sui testi trattati durante le lezioni sia sui titoli indicati
nella bibliografia per il corso.
Testi per la parte istituzionale
EMILIO PRAGA
Da Penombre (1864)
Preludio
Noi siamo i figli dei padri ammalati:
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.
Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già all’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;
s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario...
Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!
O nemico lettor, canto la Noia,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo,
e il tuo loto!
Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango...
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango :
giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!
Vendetta postuma
Quando sarai nel freddo monumento
immobile e stecchita,
se ti resta nel cranio un sentimento
di questa vita,
ripenserai l'alcova e il letticciuolo
dei nostri lunghi amori,
quand'io portava al tuo dolce lenzuolo
carezze e fiori.
Ripenserai la fiammella turchina
che ci brillava accanto,
e quella fiala che alla tua bocchina
piaceva tanto!
Ripenserai la tua foga omicida
e gli immensi abbandoni;
ripenserai le forsennate grida
e le canzoni;
ripenserai le lagrime delire,
e i giuramenti a Dio,
o bugiarda, di vivere e morire
pel genio mio!
E allora sentirai l'onda dei vermi
salir nel tenebrore,
e colla gioia di affamati infermi
morderti il cuore.
GIOSUE CARDUCCI
Da Rime nuove (1887)
Traversando la Maremma toscana
Dolce paese, onde portai conforme
l’abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,
pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,
e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
erranti dietro il giovenile incanto.
Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò. Ma di lontano
pace dicono al cuor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente ne le pioggie mattutine.
San Martino
La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.
Il comune rustico
O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero
che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
- Ecco, io parto fra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà. -
Un fremito d’orgoglio empieva i petti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
- Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia. A man levata il popol dicea, Sí.
E le rosse giovenche di su ’l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.
Dalle Odi barbare (1893)
Nevicata
Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita piú non salgono da la città,
non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzone ilare e di gioventù.
Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.
Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
In breve, o cari, in breve — tu càlmati, indomito cuore —
giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.
Sole d’Inverno
Nel solitario verno de l’anima
spunta la dolce imagine,
e tócche frangonsi tosto le nuvole
de la tristezza e sfumano.
Già di cerulea gioia rinnovasi
ogni pensiero: fremere
sentomi d’intima vita gli spiriti:
il gelo inerte fendesi.
Già de’ fantasimi dal mobil vertice
spiccian gli affetti memori,
scendon con rivoli freschi di lacrime
giú per l’ombra del tedio.
Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
echi d’amor superstiti
e con letizia d’acque che a’ margini
sonni di fiori svegliano.
Scendono, e in limpido fiume dilagano,
ove le rive e gli alberi
e i colli e il tremulo riso de l’aere
specchiasi vasto e placido.
Tu su la nubila cima de l’essere,
tu sali, o dolce imagine;
e sotto il candido raggio devolvere
miri il fiume de l’anima.
Alla stazione in una mattina d’autunno
Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
GIOVANNI VERGA
Novella Libertà (dalle Novelle rusticane, 1882)
GABRIELE D’ANNUNZIO
Da Maia (1903)
Inno alla vita,
O Vita, o Vita,
dono terribile del dio,
come una spada fedele,
come una ruggente face,
come la gorgóna,
come la centàurea veste;
o Vita, o Vita,
dono d’oblìo,
offerta agreste,
come un’acqua chiara,
come una corona,
come un fiale, come il miele
che la bocca separa
dalla cera tenace;
o Vita, o Vita,
dono dell’Immortale
alla mia sete crudele,
alla mia fame vorace,
alla mia sete e alla mia fame
d’un giorno, non dirò io
tutta la tua bellezza?
GIOVANNI PASCOLI
Da Myricae (varie edizioni)
Lavandare
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
L’assiuolo
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più? …);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…
Patria
Sogno d’un dì d’estate.
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.
Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose:
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, róse:
due bianche spennellate
in tutto il ciel turchino.
Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbïatrice,
l’angelus argentino...
dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.
Arano
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazïente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro.
Nebbia
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli,
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
Il gelsomino notturno
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
SERGIO CORAZZINI
Da Toblack
I
…. E giovinezze erranti per le vie
piene di grande un sole malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.
II
Le speranze perdute, le preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole degli amanti
illusi, le impossibili chimere,
e tutte le defunte primavere,
gli ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere,
e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,
è nelle tue terribili campane
è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange; Morte che cammina.
GUIDO GOZZANO
Da L’amica di nonna Speranza
Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, [gusci di conch.]
gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità, [prime fotografie]
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, [moltiplica]
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
GLOSSARIO PER LA PARTE MONOGRAFICA
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«Grande» guerra: espressione per definire la prima forma di guerra ‘totale’ sul fronte occidentale.
«Grande» si riferisce alla durata del conflitto, al numero di vittime, al numero di paesi belligeranti
(una guerra ‘mondiale’), al grado di tecnologia militare usata per la prima volta, all’immensa crisi
provocata dal conflitto che ha aperto il ventesimo secolo in Europa.
Interventismo: scelta di entrare nel conflitto mondiale da parte degli ‘interventisti’ italiani, contro i
pacifisti e i neutralisti. L’interventismo ha forme varie e contradditorie: l’interventismo della destra
nazionalista, l’interventismo socialista, l’interventismo irredentista, ecc. Ad esempio quello di Lussu
è l’interventismo meridionalista e democratico di un intellettuale che considera la guerra dura, ma
necessaria tra l’altro per dare nuova coscienza al popolo.
Irredentismo: forma politica dell’aspirazione nazionale a compiere l’unità territoriale dell’Italia
dopo il Risorgimento. Si tratta di liberare le terre irredente (= non libere) dall’Impero austro-ungarico:
Trentino Alto Adige, Istria, Friuli Venezia Giulia, Dalmazia.
Triplice Alleanza e Triplice Intesa: Italia, Germania e Austria-Ungheria formavano la Triplice
Alleanza, contro Francia, Gran Bretagna e Impero russo che formavano la Triplice Intesa. Sono
alleanze militari in caso di conflitto. L’Italia rompe la Triplice Alleanza nel maggio del 1915 dopo il
Patto di Londra, e entra nel conflitto ai fianchi delle nazioni della Triplice Intesa. La prima parte di
Due imperi... mancati di Palazzeschi tratta proprio del dibattito tra interventisti e pacifisti nel biennio
1914-1915. Palazzeschi accusa con violenza gli interventisti.
Caporetto: principale sconfitta dell’esercito italiano nell’ottobre del 1917, sul fronte del nordest. I
soldati austriaci e tedeschi entrano sul territorio italiano e occuparono una parte del Veneto. Fu un
momento di crisi militare, politica e morale per l’Italia. La crisi di Caporetto e le sue conseguenze
sono evocate da Palazzeschi.
Vittorio Veneto: vittoria dell’esercito italiano sul fronte del nordest, nell’ottobre del 1918. In
novembre viene firmato l’armistizio.
Vittoria mutilata: dopo l’armistizio e i trattati di pace, nel 1919, l’Italia non ottenne tutte le terre
irredente che aveva richiesto nel 1915. La vittoria viene definita «mutilata» perché la Dalmazia non
diventa italiana ma entra a far parte della Iugoslavia. Il ‘mito’ della vittoria mutilata sarà all’origine
dell’occupazione della città di Fiume (con D’Annunzio e gli arditi) e del discorso nazionalista dei
Fasci di combattimento (futuro partito fascista). L’ultima parte del libro di Palazzeschi tratta delle
conseguenze dei trattati di pace sul futuro dell’Europa.
Testi letti in classe per il corso monografico (escluse le opere da portare integralmente di Lussu,
Serra, Palazzeschi, Gadda e Stuparich):
ENRICO CORRADINI
Io e gli amici miei, fondando questa rivista, abbiamo un solo scopo: di essere una voce […] contro la
viltà del presente. E prima di tutto contro quella dell’ignobile socialismo.
Appena scoppiata la guerra russo – giapponese è accaduto un fatto mirabile ed edificante: tutti gli
umanitarismi e altri sentimentalismi, tutti i raccapricci e aborrimenti civili per le guerre si sono taciuti
come per incanto.[…] io ho degli amici maculati e inquinati da tutti i traviamenti della civiltà imbelle:
ora presi dal fascino della guerra, hanno anch’essi delle sensazioni estetiche dallo spettacolo lontano
delle forze scatenate, […] sono tornati insomma, senza saperlo, ad essere uomini sinceri allo stato di
natura. Tutto questo dimostra sino a qual punto l’esempio e lo spettacolo del fatto possano sugli spiriti
e come vi travolgano sentimenti e convincimenti, e come la guerra quando scoppia, non venga
considerata più come un fatto sottoposto alle leggi del piccolo bene e del piccolo male, ma venga
considerata quasi come un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze
avverse primordiali ed eterne, irrefrenabili. E tali sono appunto le forze che conducono alle guerre le
nazioni e le razze. Perciò dinanzi ad esse l’uomo civile è abolito. E ritorna l’uomo sincero allo stato
di natura.
GIOVANNI PAPINI
Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno
pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e
di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa
svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre.
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono
sempre buoni ad ammazzare i fratelli! i civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano
le madri belve.
Non si contentano più dell’omicidio al minuto.
Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là
che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno
bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano
nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il
coraggio di rifiutar la vita.
Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni,
quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano ai diti
delle mani e dei piedi messi insieme. E codesta perdita, se non fosse anche un guadagno per la
memoria, sarebbe a mille doppi compensata dalle tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti,
idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia,
nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa.
Non si rinfaccino, a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri,
dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare
anche il piacere. E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto
il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo aver pianto si
sta meglio.
Chi odia l’umanità - e come si può non odiarla anche compiangendola? - si trova in questi tempi nel
suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola.
"Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò son contento che ne spariscano parecchi". La
guerra, infine, giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni,
assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove
s’ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno!
E il fuoco degli scorridori [soldati mandati in avanscoperta] e il dirutarnento [rovina] dei mortai fanno
piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono
saranno rifatti più belli e più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e
troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e
dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio
mette capo a una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come
sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione.
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto
perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di
maschi.
DALL’«IDEA NAZIONALE»
Il Parlamento è Giolitti; Giolitti è il Parlamento: il binomio della nostra vergogna. Questa è la vecchia
Italia. La vecchia Italia che ignora la nuova, la vera, la sacra Italia risorgente nella storia e
nell’avvenire… L’ignora appunto perché è Parlamento. Parlamento cioè falsificazione della
Nazione… L’urto è mortale. O il Parlamento abbatterà la Nazione, e riprenderà sul sacro corpo
palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà
il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani;
ed in faccia al mondo che aspetta proclamerà la volontà della sua vita, la bellezza augusta della sua
vita immortale.
F.T. MARINETTI (dal Manifesto del Futurismo)
«L’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà, il movimento aggressivo, l’insonnia
febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno, la guerra – sola igiene del mondo –
, il militarismo, il gesto distruttore dei libertari».
GABRIELE D’ANNUNZIO (dalla Canzone d’oltremare)
I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz’ali. È giunta l’ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.
Italia! Dall’ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te l’esilio si colora.
Oggi più alta sei che il tuo destino,
più bella sei che la tua veste d’aria;
e di lungi il tuo vólto è più divino.
Odo nel grido della procellaria
l’aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro
nel vento della landa solitaria.
F.T. MARINETTI (dall’Alcova d’acciaio)
III.
LA BATTAGLIA CHIMICA E GLI ALONI AZZURRI
La trincea sembra un laboratorio chimico pieno di scienziati impazziti.
Impazziti forse dalle continue nuove miscele sempre più pericolose azzannanti e massacranti che la
valle smisurato lambicco fornisce a noi pronti ma un po’ ansanti nel risolvere i problemi di questa
così lirica e pur scientifica battaglia chimica: acetilene, solfuro di carbonio, acido solforoso,
cloropicrina.
TUM-TUM BRONG
d’un nostro 75 da campagna. Rispondono gli echi
BRAAA
bu-bu-bu-bu-bu-bu
vu-vu-vu-vu-vu-vu-vu
Entrano in scena i grossissimi calibri. Sulle bottiglie, i bottiglioni di esplosivo inebriante crollano
ormai i barili giganti. E la frenetica gioventù baldanzosa dei gas a lungo compressi si scatena nella
domenica di tutte le libertà omicide. I barili non bastano. Bisogna sventrarsi, pensano i cannoni, e
gettano a manate e a palate sulle montagne in giro le nostre lunghissime budella di bronzo.
Inghirlandiamone anche le cime che ora tintinnano sotto i primi buffetti dorati del lontanissimo
faticoso sole nascente. I rumori salgano, salgono, come spiraliche budella nere a strangolar le cime
perché se mai vi fosse un nostalgico pastore a sognare, possa pensare d’essere immerso a capofitto
colle punte dei monti nel più spaventoso inferno di tutte le religioni.
O Italia, o femmina bellissima viva - morta - rinata, saggia - pazza, cento volte ferita e pur tutta
risanata, Italia dalle mille prostituzioni subite e dalle mille verginità stuprate ma rifiorite con più
fascino di verde pensoso e di ombrie pudiche. Sono io, io il futurista che primo ti libero il petto
baciandolo col mio delirante amore!
Cosmica fusione del mio corpo col tuo! Ti sento, ti sento, ti sento! Ti prrrrendo, ti prrrrrendo, ti
prrrrrrrrendo!
L’impeto virilissimo di questo mio motore che è insieme cuore, sesso, genio ispirato e volontà
artistica, entra in te, con rude delizia per te, per me, lo sento! Sono lo strapotente genio-sesso futurista
della razza tua, il tuo maschio prediletto che ti rida penetrandoti la rifecondante vibrazione!
— Sono io, son io che ti bacio! urrrla la mia blindata 74 — Sono io che ti bacio! Io sono la bocca
d'acciaio veloce -che scivola sulle morbide colline del tuo seno, sulle ben tornite montagne delle tue
spalle, baciandoti tutta, avidamente, con lussuria! Sono io che ti bevo e mangio tutta di baci
minutissimi rapidissimi, Italia mia, donna-terra saporita, madre-amante, sorella-figlia, maestra d’ogni
progresso e perfezione, poliamorosa – incestuosa, santa – infernale – divina!
ARDENDO SOFFICI (da Kobilek)
Le granate, le bombarde, le torpedini scoppiavano da tutte le parti in uno spazio di pochi metri
quadrati; nuvoli di fumo e di polvere l’alzavano intorno a noi, oscurando il sole; sassi e terra
piovevano sul cocuzzolo brullo; gli shrapnels schiantavano nell’aria inondandoci di pallottole, per
fortuna innocue, e le loro nuvolette, bianche, nere, rosee parevano indugiarsi proprio sopra di noi per
indicare il bersaglio ai nemici. Ogni tanto un tonfo più formidabile, un 305, faceva sobbalzare il suolo;
e allora sembrava che persino il cielo oscillasse e si scolorasse di sgomento.
Era nel pensiero di ognuno di noi che ciascun attimo in quell’inferno era l’ultimo della nostra
esistenza. Ci guardavamo, trattenendo il respiro, preparati ormai al sacrificio imminente, come
vittime rassegnate al loro destino fissato dall’eternità.
Il sole, quasi allo zenit, ci schiacciava con le sue fiamme implacabili; il ciclo bianco a forza di esser
limpido ci abbarbagliava; la terra smossa della trincea ardeva e si sfaldava piano piano; le nostre
membra bollivano ammassate in quell’afa ristretta. Non saprei dire quanto restammo in quell’attesa
di un colpo che ci sfracellasse e mettesse fine alla nostra agonia.
So invece che a un certo punto i nostri spiriti si sollevarono d'improvviso, come se avessimo superato
il limite massimo di un angoscia istintiva, e una gaia serenità si diffuse fra noi. No, tutto era troppo
terribile e assurdo per considerarlo al modo naturale: meglio divenire assurdi anche noi, denudarci
della nostra umanità, come sempre ci si denuda in guerra, davanti alla morte, la cui presenza fa tutti
belli e puri. Tirammo fuori, chi la sigaretta, chi la pipa, e ci mettemmo a fumare e a motteggiare. La
tempesta delle cannonate, degli urli, dei rombi, dei sibili continuava. Continuasse pure; noi ridevamo
intanto per l'ultima volta, trasfigurati in una sorta di luce tragica che ci rendeva grandi.
Se un giorno io dovessi ricevere un premio attestante il mio coraggio, vorrei che nella motivazione
non si parlasse né di fatiche, né di pericoli affrontati, ma si scrivesse solo questo: «Fu allegro nella
trincea del Kobilek».
GIUSEPPE UNGARETTI (da Allegria di naufragi)
San Martino del Carso
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato
Allegria di naufragi
E subito riprende
Il viaggio
Come
Dopo il naufragio
Un superstite
Lupo di mare.
ALDO PALAZZESCHI
Dal Controdolore
Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra
profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna educare al riso
i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente
Dagli articoli sulla rivista «Lacerba»:
Neutrale:
Pochi giorni fa noi ascoltammo nelle ore della mattina le parole di un bravissimo uomo che con tutto
il fervore della sua grande anima ci diceva che partissimo subito alla conquista della Dalmazia, ma
che non perdessimo un minuto di tempo per amor di Dio! Noi tutti fremevamo con lui e non si stava
ormai più nei panni. Se fuori, alla porta del teatro, ci fosse stato il vapore ad aspettarci quella
nostalgica riva sarebbe oramai nostra del tutto. Nelle ore del pomeriggio, lo stesso giorno, dalla parte
opposta della città, abbiamo ascoltato le parole calde e generose di un altro valentuomo che ci disse
che per amor di Dio non fossimo andati altrimenti, che non avessimo fatto verso quella riva, che
un’oncia di quella terra ci avrebbe perduti per sempre. Le sue ingiunzioni erano tanto mai giuste, e
tanto disinteressate e convincenti le sue parole che quando uscimmo dalla sala nessuno di noi avrebbe
fatto un passo se lo avessero tirato con le funi. E rimanemmo neutrali.
Spazzatura:
“Noi vogliamo la guerra sola igiene del mondo!” Bravi! Anche quella che bella frase! Io veramente
l’avevo già sentita altre volte, ma in ogni modo e sempre piacevole sentirla ripetere specialmente in
un momento come questo che ci stiamo tutti così bene disinfettando! Una sola cosa m’ha
meravigliato. Ella volge decisamente e definitivamente le armi contro i tedeschi! Ma e proprio vero?
Oh, poveri tedeschi! Povero Kaiser! Non gli resta che ripetere le parole del suo ex collega Giulio
Cesare “Tu quoque brute fili mi!” Io ricordo, una volta, di aver dovuto intervenire contro un tale che
la faceva addirittura figlio naturale di Guglielmone! Chissà per quali supposizioni, o errate
informazioni era giunto a tale conclusione.... I suoi baffi forse... tutti i suoi “Zang-tumb tumb”! Quel
militarismo italo-prussia.... prusso-italia.... prusso-prussiano, ecco, ch’ella tanto ammira e vuole
diffondere per il mondo […].
Evviva questa guerra!:
Gridare: “evviva questa guerra!” vuol dire anzitutto: “abbasso la guerra”! Vuol dire operare
all’indispensabile schiacciamento della imbecille barbarie Germanica. Vuol dire iscriversi
incancellabilmente fra i popoli civili difensori della civiltà. Non agire significa difendere i tedeschi,
fare trionfare, forse, il loro imperialismo bestiale […]. Questa guerra deve regolare tutti i nostri
secolari conti con l’Austria. L’ora del pagamento di tali debiti non può tardare più. Questa guerra
segna il risorgimento morale d’Italia. La nuova coscienza ha esploso. Giolitti era il tappo che noi, al
momento buono, abbiamo fatto saltare con la forza di 35 milioni di uomini-vapore. Da questo
momento noi non siamo che una cosa sola: Italiani! Evviva, Evviva, Evviva questa guerra!
GIANI STUPARICH
Da Colloqui con mio fratello:
Ho in me una passione che non mi dà tregua: scavare, scavare dentro di me sino a trovar la vena
sincera. Nulla mi par di poter costruire se prima non metto in luce l’essenza, qual essa fu, del tempo
vissuto in balia della morte. O su questa o su nessun’altra esperienza fondare saprò la mia vita matura.
Sono fuggito dagli uomini come una bestia cacciata che si rintani. Non giova ch’io mi ragioni
freddamente. Un tempo queste mie fughe le credetti sentimentali, ma ora mi accorgo che sono una
fisica necessità. Devo aspettare che passi il ribrezzo. Parlami intanto, fratello, ché la tua voce viene
dall’alto e fa bene.
Mio fratello è morto da un anno e da un anno io vivo in prigionia. Passeggio le notti. Se ora mi trovo
supino, abbandonate le membra, è certo che questa notte la stanchezza m’ha vinto. Sotto, nel buio,
guizza la baionetta di una sentinella a guardia del reticolato. In alto il cielo è d’una luminosità così
fredda, che mi pare di immerger la faccia nel ghiaccio. E rimango, impregnato lentamente tutto il
corpo dal gelo luminoso, non so quanto, con le palpebre chiuse. Le riapro che una folata di calore
passa fra stella e stella, lontane, e milioni ne accomuna in un palpito, solo. Sento nel tempo stesso
librarsi su di me l’anima Sua e gli occhi mi si riempiono di pianto.
Da Trieste nei miei ricordi
Il mio intento era di rilevare quale forza coesiva possieda una famiglia in cui gli spiriti sono uniti, con
quale capacità di sofferenza e di sublimazione sia affrontata la vita, quanto sia fertile il dolore; volevo
mostrare a una generazione educata all’odio, alla ferocia, alla guerra per la guerra e per la conquista,
come la generazione precedente aveva saputo essere pur grande nell’amore e nella rinuncia ed aveva
combattuto e vinto una guerra mossa sopra tutto da un senso di giustizia; e infine rivendicava, in
un’epoca scettica e dura, la passione d’una città italiana, della mia Trieste che aveva custodito in sé
le ultime tradizioni del Risorgimento per farle risplendere, nella loro nobiltà romantica, ancora una
volta sull’Italia.
Mi si era rivelato un mondo “di coscienza e di libertà”, se pur affaticato dalle sue crisi, nel quadro di
una civiltà vitale; e il mio impegno era di contrapporlo al mondo presente che si perdeva in tentativi
crudeli per dividere gli uomini in dominatori e schiavi, nell’illusione di rinnovarsi. Al verbo
dell’epoca spavaldamente in marcia, volevo contrapporre il verbo di un’epoca in dolorosa sosta, ma
che poteva riprendere il suo cammino; all’odio, l’amore; all’insegnamento di Nietzsche
l’insegnamento di Cristo. A lungo avevo titubato, ma era venuto il tempo in cui sentivo dentro di me
come un’imposizione morale: devi scrivere. Forse le mie aspirazioni erano di molti superiori alle mie
capacità. Ma bisognava tentare. Dopo quattro anni di lavoro, con varie interruzioni, il romanzo era
compiuto.