Una premessa problematica si impone in ordine

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T.A.R. Bologna, Sez. II - 9 luglio 2014 n. 724 - Pres. MOZZARELLI, Est. LELLI Nuova Sanità Cooperativa sociale ed altri (avv. Penta A.) c. A.S.P. Città di Bologna
(avv. Ferlini M.) e Soc. cooperativa Consorzio Indaco ed altri (avv. Rossi A.).
1. - Procedimento giurisdizionale - Interruzione del processo - Liquidazione
coatta Ditta ricorrente - Non interrompe.
1. - L’intervenuta liquidazione coatta amministrativa della Ditta ricorrente non
comporta l’interruzione del processo.
FATTO e DIRITTO. - 1.Col ricorso in epigrafe parte ricorrente ha impugnato la determinazione
dirigenziale dell'ASP Poveri Vergognosi di Bologna 518/2011 con il quale è stata aggiudicata al
raggruppamento controinteressato la gestione di entrambi i 2 lotti di servizi sociali messi a gara col
bando deliberato dall'ASP intimata con determinazione a contrarre n. 343 / 2011, anch'essa
impugnata unitamente agli altri atti indicati in epigrafe.
Avverso i suddetti atti vengano dedotte censure di violazione di legge e di eccesso di potere sotto
vari profili.
L'amministrazione intimata e il consorzio contro interessato si sono costituiti in giudizio deducendo,
con varie argomentazioni, l'inammissibilità e l'infondatezza del ricorso.
Viene altresì dedotta l'estinzione del processo per effetto della intervenuta liquidazione coatta
amministrativa della cooperativa ricorrente.
2. Ritiene il collegio preliminarmente che nell'ipotesi della sopravvenuta liquidazione coatta
amministrativa non possono operare le norme in materia di fallimento tenuto conto del fatto che
l'art. 200 L. Fall., pur prevedendo che in caso di liquidazione coatta amministrativa nelle
controversie, anche in corso, per l'impresa stà in giudizio il commissario liquidatore, non richiama
espressamente l'articolo 43 della legge fallimentare nella parte in cui dispone all'ultimo comma che
"l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo".
Quindi nel caso della liquidazione coatta non si può applicare per analogia la regola secondo cui il
fallimento della parte provoca in modo automatico ed implicito la detta interruzione, senza necessità
di dichiarazione in giudizio o di notificazione alle parti dell'evento, in quanto, trattandosi di norma
speciale produttiva di effetti particolarmente gravi sul piano processuale, non può esserne ammessa
l'applicazione analogica.
Per quanto sopra l'eccezione di estinzione del processo formulata dai resistenti è infondata.
3. Nel merito il ricorso è infondato.
Per quanto riguarda la mancata dichiarazione sostitutiva di cui all'articolo 38 del codice di contratti
pubblici dei legali rappresentanti della cooperativa Caronte incorporata dalla consorziata La Rupe a
far tempo dal 1/10/2010, si deve osservare che, come risulta dalla giurisprudenza (Consiglio di
Stato V numero 3814 / 2013, che, a sua volta, richiama l'Adunanza Plenaria 10 e 21 del 2012) la
stessa, tenuto conto dell'incertezza interpretativa anteriore alle suddette pronunce dell'Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, non comporta l'esclusione dalla gara a meno che non venga data una
prova dell'effettiva sussistenza di precedenti penali, prova che nel caso di specie non sussiste.
Nel caso di specie si deve poi rilevare che l'art. 13 del bando di gara limitava tassativamente i
soggetti che dovevano presentare le dichiarazioni sostitutive.
Per quanto riguarda la mancata dichiarazione di cui all'articolo 38 del codice dei contratti pubblici
del vice presidente di una consorziata di Indaco relativamente al lotto 1 si deve osservare che anche
in questo caso non può operare l'automatica esclusione per effetto della mancata produzione della
dichiarazione in quanto sussistono i presupposti del soccorso istruttorio di cui all'articolo 46 del
codice dei contratti (si veda Tar Lazio III n. 11177/2013 che richiama anche l' incertezza legata alla
1 14 nota G. Pagano
posizione del vice presidente ed le modalità di effettivo esercizio dei poteri di rappresentanza da
parte dello stesso, con conseguente applicabilità del principio del "soccorso istruttorio").
Quanto sopra esime dall’esaminare la rilevanza della circostanza dedotta dalla resistente in ordine al
fatto che analoga dichiarazione era stata presentata nel gennaio del 2011 in occasione della
precedente gara annullata in autotutela dall'ASP e che verifiche effettuate dalla stessa azienda in
ordine al casellario giudiziale dell'interessato è risultata negativa.
Per quanto riguarda gli ulteriori motivi di ricorso gli stessi attengono:
- alla insufficiente documentazione: del possesso dei requisiti in materia di personale anche
relativamente alle consorziate (Rupe, Arca di Noè, associazione Amici di Piazza Grande ecc); del
possesso dei requisiti inerenti al fatturato.
- all'erroneità, tenuto conto della documentazione presentata, del punteggio attribuito in relazione al
parametro relativo al personale.
In ordine ai suddetti motivi questo Tribunale ha disposto una verificazione con ordinanza numero
172/2014 da espletarsi a cura del Settore Gare del comune di Bologna.
La relazione di verificazione è stata depositata in data 15 maggio 2014.
Per quanto attiene al possesso dei requisiti di cui all'articolo 7 lettera D) del bando di gara, dalla
relazione risulta che la presentazione dei modelli DM 10, pur essendo idonea a dimostrare la
quantificazione dell'organico dei singoli operatori economici nelle diverse mensilità del triennio
individuato dal bando e, quindi, essendo idonea a dimostrare il possesso del requisito richiesto dal
bando in termini di "organico minimo", non è idonea a comprovare i titoli di studio e professionali
del personale.
Tuttavia, ritiene il collegio, la suddetta carenza non poteva portare di per sé all'esclusione del
consorzio contro interessato, in quanto, trattandosi di una carenza di documentazione soltanto
parziale (in quanto il mod DM 10 contiene l'indicazione dei dati retributivi ed i codici identificativi
della categoria del personale) sussistevano i presupposti del soccorso istruttorio previsto
dall'articolo 46 del codice dei contratti.
In ogni caso i titoli e i requisiti professionali del personale sono stati oggetto di valutazione
nell'ambito dell'attribuzione del punteggio previsto dal bando di gara per questa voce essendo stati
depositati i relativi curricula.
Per quanto riguarda poi le censure con cui viene contestato il punteggio attribuito alla voce relativa
alla consistenza ed alla qualità del personale, la relazione di verificazione, con argomentazioni che
il collegio condivide, assume essere non illogico l'aver attribuito all'elemento quantitativo carattere
prevalente rispetto ai singoli curricula e che, in ogni caso, gli elementi quantitativi e qualitativi
dovevano necessariamente essere valutati congiuntamente, tenuto conto delle caratteristiche
dell'appalto e della necessità di dover operare anche con il personale riassorbito.
In particolare occorre considerare che lo stesso bando di gara prevede l'ipotesi in cui il personale da
impiegare nello svolgimento dei servizi non sia quello presentato in sede di gara: in questo caso la
ditta aggiudicataria resta impegnata ad impiegare personale che possiede titoli equipollenti e
conformi alla documentazione prodotta in sede di gara.
Ne consegue che, tenuto conto delle suddette caratteristiche del contratto, l'elemento quantitativo
(consistenza oraria di personale offerta) assume necessariamente carattere prevalente rispetto ai
singoli curricula, in quanto la natura del servizio offerto e le concrete modalità di svolgimento, ivi
compreso il subentro del personale già in servizio, comporta una valutazione complessiva.
Anche per quanto riguarda la documentazione concernente il possesso del requisito di capacità
economica e finanziaria di cui all'articolo n. 7 lettera C), sottopunto c) e sottopunto d), dalla
relazione di verificazione emerge che la documentazione presentata è idonea a documentare il
possesso del requisito inerente al fatturato globale come pure quello inerente al fatturato specifico
da parte delle imprese facenti parte dei raggruppamenti risultanti aggiudicatari sia del primo lotto
sia del secondo lotto.
Il bando di gara, poi, ammette espressamente l'autocertificazione per quanto riguarda i fatturati, in
quanto prevedono espressamente la "dichiarazione" dei soggetti interessati.
2 14 nota G. Pagano
Infine, per quanto attiene alla violazione del contratto collettivo nella parte in cui prevede
l'assunzione del personale precedentemente impiegato, si deve osservare che trattasi di censura che
attiene ad una fase successiva all'aggiudicazione.
Per quanto attiene alla mancata valutazione di alcuni curricula presentati dai ricorrenti, si deve
rilevare la genericità del motivo e la mancata dimostrazione, in ogni caso, dell'effettiva incidenza di
tale mancata valutazione dell'esito finale della gara.
Inoltre non costituisce causa di incompatibilità il fatto che nel passato una componente della
commissione avesse lavorato per la coop DOLCE, in quanto tale situazione non è più sussistente da
tempo.
In conclusione il ricorso deve essere respinto.
Tenuto conto del carattere interpretativo della controversia sussistono motivi per compensare fra le
parti le spese di giudizio.
DISCIPLINA FALLIMENTARE E LIQUIDAZIONE COATTA
AMMINISTRATIVA: ASPETTI PROCESSUALI E SOSTANZIALI
La pronuncia in esame, per quanto attiene alla estrapolata questione preliminare di
cui alla massima, tocca il tema del rilievo della liquidazione coatta amministrativa,
sotto il profilo della eventuale perdita della capacità di stare in giudizio.
Ha osservato testualmente il Tribunale: Ritiene il collegio preliminarmente che
nell'ipotesi della sopravvenuta liquidazione coatta amministrativa non possono
operare le norme in materia di fallimento tenuto conto del fatto che l'art. 200 L.
Fall., pur prevedendo che in caso di liquidazione coatta amministrativa nelle
controversie, anche in corso, per l'impresa stà in giudizio il commissario liquidatore,
non richiama espressamente l'articolo 43 della legge fallimentare nella parte in cui
dispone all'ultimo comma che "l'apertura del fallimento determina l'interruzione del
processo".
Quindi nel caso della liquidazione coatta non si può applicare per analogia la regola
secondo cui il fallimento della parte provoca in modo automatico ed implicito la
detta interruzione, senza necessità di dichiarazione in giudizio o di notificazione alle
parti dell'evento, in quanto, trattandosi di norma speciale produttiva di effetti
particolarmente gravi sul piano processuale, non può esserne ammessa
l'applicazione analogica.
L’affermazione contenuta nella sentenza si pone in evidente (e da ritenere,
consapevole) contrasto con quanto sancisce il superiore giudice amministrativo
secondo cui Come è noto, la messa in liquidazione coatta amministrativa di una
società determina la perdita della capacità di stare in giudizio, ai sensi dell'art. 199
Cod. proc. civ., atteso che, a norma dell'art. 200, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, detto
stato comporta, tra l'altro, la cessazione delle funzioni dell'assemblea e degli organi
amministrativi e di controllo della società medesima e, comunque, l'attribuzione al
commissario liquidatore, e non più, quindi, alla persona fisica che la rappresentava
fin quando era in bonis, della capacità di stare in giudizio nelle controversie (anche
in corso).
Conseguentemente, ai sensi degli artt. 299 e 300 comma 2, Cod. proc. civ., cui rinvia
l'art. 79 comma 2 Cod. proc. amm., la perdita della capacità della parte dichiarata in
udienza dal suo procuratore (o da questa notificata alle altre parti), comporta
3 14 nota G. Pagano
l'interruzione del processo, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo, si
costituiscano volontariamente, ovvero l'altra parte provveda a citarli in
riassunzione.1
Nell’ottica precipua di questo commento non si vuole, tuttavia, testare la fondatezza
delle tesi registrabili in argomento, quanto effettuare una ricognizione di fondo (di
disciplina sostanziale) cui pur si ricollega la (oscillante) scelta processuale.
L’ipotesi di lavoro, in altri termini, è quella tesa a dubitare fortemente della attuale
tenuta di sistema (anche, come si dirà, in connessione alla rete europea) distintivo
funditus fra disciplina fallimentare e LCA.
Ai fini della programmata ricognizione, una premessa problematica, di carattere
generale, si impone, innanzitutto, in ordine alla identificazione dei soggetti
sottoponibili alle procedure fallimentari e di liquidazione straordinaria.
Nel contesto inizialmente delineato dal legislatore (nazionale) la summa divisio fra
ente pubblico e ente privato era netta e ben percepibile: da un lato, vi era l’Ente
Pubblico con la sua organizzazione, un peculiare rapporto di pubblico impiego,
potestà pubblicistiche e beni con pari caratura; dall’altro, il sistema delle entificazioni
private, con la loro disciplina civilistica e, per i fini che qui interessano, una precisa
ricognizione dei casi della loro fallibilità.
L’art. 1 della legge fallimentare, di conseguenza, coerentemente distingueva fra
imprenditori commerciali sottoposti al fallimento ed Enti pubblici esclusi da tale
fallibilità.
Si tratta, tuttavia, di criterio destinato ad essere ripensato -e questo è il rilievo critico
su cui si invita a riflettere- nel momento in cui si è andata delineando nel diritto
pubblico il criterio interpretativo della neutralità delle forme societarie cioè la
possibilità per l’Ente pubblico di perseguire i suoi scopi (anche) attraverso strutture
privatistiche, specie, societarie.
Si pone quindi il quesito della disciplina cui tali soggetti sono sottoposti, oscillandosi
fra un riverbero accentuato del carattere pubblicistico ed uno stabilizzato
sull’originario imprinting di società privata.
La tematica – è facile arguire – ―tocca‖ anche il tema della liquidazione coatta
amministrativa che ha la sua originaria allocazione nello stesso R.D. 16 marzo 1942
n. 267 (come successivamente novellato): il relativo art. 2 infatti si intitola
liquidazione coatta amministrativa e fallimento ed esordisce affermando che ―La
legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa ed i casi
per le quali la liquidazione è disposta‖, senza introdurre distinzioni di sorta.
La coerenza di sistema era dunque facilmente rintracciabile, tutta inscritta nell’ottica
del legislatore nazionale che separava soggetti imprenditoriali fallibili, da altre
imprese, sottratte al regime fallimentare per la peculiarità della attività svolta:
significativa è l’attività bancaria che il D.L.vo 1° settembre 1993 n. 385, Testo Unico
Bancario (TUB) dichiara ―attività d’impresa‖, riservata (appunto) alle banche.
La caratura pubblicistica o meno è divenuta però una problematica a ―spettro‖
comunitario ove predomina una interpretazione della realtà giuridica tutta riorientata
sul principio dell’effetto utile.
1
Consiglio di Stato, sez. V, 24 marzo 2014 n. 1437.
4 14 nota G. Pagano
In altri termini, specie il giudice comunitario, non si ritiene vincolato (come è agevole
accertare) da una lettura sistematica, ma ricerca il criterio allocativo (nella dicotomia
pubblico/privato) a seconda della finalità comunitaria da perseguire: valsente è il
richiamo agli appalti pubblici, ove la apicale esigenza della concorrenza, rende
particolarmente estesa la identificazione di profili pubblicistici. Valga per tutti,
l’esempio dell’organismo di diritto pubblico di cui al codice degli appalti: qui la
natura pubblicistica è ricercata con parametri quanto mai estesi affinchè nulla sfugga
al regime della concorrenza.
Una nozione, così ampia, non si riscontra però unitariamente: così (esemplificazione
notoriamente frequentata) per i lettori di lingua straniera, presso le Università
Italiane, la Corte di Giustizia non ha mostrato cedimenti nel negare la identificabilità
di un rapporto di pubblico impiego in virtù del pari fondativo principio della libera
circolazione dei lavoratori, restringendo la portata dunque della nozione di
amministrazione pubblica che per contro (ripetesi) è estensivamente ritagliata con
riferimento all’organismo di diritto pubblico.2
Il problema si è dunque articolato variamente nella giurisprudenza (italiana) ed è
stato risolto secondo le seguenti direttive:
– la società cd pubblica non è snaturata nella sua identità privatistica per essere
―tarata‖ sull’appagamento di interessi pubblicistici;
– eventuali discipline legislative speciali possono anche fortemente alterare il
carattere privato della società, ma costituiscono una sorte di eccezione che conferma
la regola del carattere privatistico della società: ergo possono fallire.
– Non è comunque possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle
società in mano pubblica.
Un esaustivo panorama di quanto qui riassunto è offerto dalla massima secondo cui È
proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse
delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto
privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti
continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
Non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in
mano pubblica, le quali (come può accadere anche a società a capitale interamente
privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei settori di attività in cui
assume rilievo la natura pubblica dell’interesse perseguito, da realizzare attraverso
disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa predicarsene
l’appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società-ente, sottratto in toto
al diritto comune.3
2
CGE – Corte di Giustizia delle Comunità Europee – sentenza 30 maggio 1989 n. 33/88: Il
posto di lettore di lingua straniera nelle università non è un impiego nella pubblica
amministrazione ai sensi dell’art. 48, n. 4, del trattato Cee. I posti di insegnante infatti non
implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che
hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche e
non presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà
nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento
del vincolo di cittadinanza.
3
Corte di Cassazione – sezione I civile – sentenza 27 settembre 2013 – n. 22209.
5 14 nota G. Pagano
Interrogandosi sulla fallibilità o meno di una partecipata da un ente territoriale ed
addetta alla gestione di un rilevante servizio pubblico, quale la rimozione dei rifiuti
urbani, la Cassazione civile (sent. n. 22209/2013) afferma una serie di concetti che è
utile estrapolare:
Secondo la Corte:
– Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica non è certo nuovo nel nostro
ordinamento: il Codice civile del 1942 già dettava, agli art. 2458, 2459 e 2460 Cod.
civ., le disposizioni applicabili, in tema di nomina e revoca degli amministratori e dei
sindaci, alle «società con partecipazione dello Stato o di altri enti pubblici» (ed a
quelle il cui atto costitutivo prevedesse, pur in mancanza di una partecipazione
azionaria, che la nomina di uno o più amministratori e sindaci spettasse alla pubblica
amministrazione) ma, per lungo tempo, non si è dubitato che si trattasse di società
di diritto comune, interamente soggette alla disciplina civilistica (e perciò anche alla
legge fallimentare), distinte dagli enti pubblici (economici) aventi ad oggetto
esclusivo o principale un’attività di impresa (art. 2201 Cod. civ.), ma non fallibili ai
sensi degli art. 2221 Cod. civ. ed 1, 1° comma, L. fall.
– A partire quantomeno dall’ultimo decennio del secolo scorso, il contesto politicoeconomico di riferimento ha però subìto un innegabile mutamento: il progressivo
assottigliarsi della linea di confine fra l’agire pubblico e l’agire privato, l’abbandono
di una concezione autoritativa della pubblica amministrazione in favore di una sua
concezione funzionale, nella quale i poteri di cui essa è dotata sono intesi come
meramente strumentali alla tutela dell’interesse pubblico, il convincimento diffuso
che tale interesse possa essere maggiormente garantito attraverso il ricorso ad istituti
di diritto comune, indubbiamente più snelli di quelli usualmente a disposizione
dell’apparato burocratico, la fiducia nelle capacità del «mercato» di stimolare la
competitività, e quindi di regolamentare al meglio anche attività di contenuto
economico tipicamente riservate alla pubblica amministrazione, hanno dato luogo
alla sempre più diffusa costituzione (al vero e proprio proliferare) di società c.d.
pubbliche, a partecipazione integralmente pubblica o mista, pubblica-privata, o
sottoposte ad una particolare influenza da parte di enti pubblici, aventi ad oggetto la
gestione non solo di beni di proprietà pubblica, ma di servizi di interesse pubblico, in
precedenza erogati dallo Stato o dagli enti territoriali attraverso aziende
municipalizzate.
– Non è invece mutato il quadro normativo generale: il legislatore ha ribadito la
scelta favorevole alla riconducibilità delle società pubbliche fra quelle di diritto
comune sia con il D.L. n. 3 del 2003, di riforma del diritto societario, che ha
sostituito agli art. 2458-2460 gli art. 2449 e 2450 Cod. civ. (quest’ultimo, fra l’altro
— relativo all’attribuzione allo Stato o ad altri enti pubblici privi di partecipazione
azionaria della facoltà di nomina di amministratori e sindaci — abrogato, a seguito
dell’avvio di una procedura d’infrazione da parte della commissione europea, dall’art.
3 1° comma D.L. n. 10 del 2007, convertito nella legge n. 46 del 2007), sia con il
D.L. n. 5 del 2006 di riforma del diritto fallimentare, che non ha modificato l’art. 1 1°
comma R.D. n. 267 del 1942.
– E, come sottolineato da autorevole dottrina, neppure le innumerevoli disposizioni
normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società
6 14 nota G. Pagano
pubbliche, costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentarne attività e
funzionamento ed a modificarne la natura di soggetti di diritto privato, così da
sottrarle espressamente alla disciplina civilistica.
– La sempre più stretta commistione fra la sfera pubblica e quella privata ha, nel
contempo, condotto all’emanazione di numerose leggi speciali applicabili ad enti,
società pubbliche e società formalmente private, accomunati dall’agire in settori di
pubblico interesse: in questa sede, a mero titolo esemplificativo, si possono citare
l’art. 3 comma 26 D.L. n. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture), che definisce organismo pubblico, cui è imposto il rispetto delle
norme dettate per gli appalti pubblici, qualsiasi organismo, anche in forma societaria,
istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere
non industriale o commerciale e dotato di personalità giuridica, la cui attività sia
finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri
organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi
ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia
costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti
pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico» e l’art. 22 legge n. 241
del 1990, come modificato dall’art. 15 legge n. 15 del 2005, che prevede il diritto
degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse e che, alla lett.
e), ricomprende nella nozione di pubblica amministrazione «tutti i soggetti di diritto
pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario».
– Tuttavia, è proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli
ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di
diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti
continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
– Il discorso è indubbiamente più delicato quando si passa ad esaminare il piano della
funzione, ossia dello scopo per il cui perseguimento la società è costituita ed agisce,
non potendosi tacere che nell’operare di talune società pubbliche, in specie di quelle
affidatarie di pubblici servizi, non è sempre dato ravvisare quell’attività economica a
scopo di lucro che l’art. 2247 Cod. civ. tuttora indica come elemento caratteristico di
ogni società di capitali. Ma, non potendosi al contempo disconoscere che il modello
societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici,
sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa
mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad
es., alle società sportive di cui alla legge n. 91 del 1981), l’eventuale divergenza
causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove
sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di
organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali
disciplinata in via generale dal codice civile.
– Deve dunque concludersi, secondo quanto è stato correttamente rilevato in
dottrina, che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a
società di capitali — e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo
strumento privatistico — comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla
7 14 nota G. Pagano
loro insolvenza, pena la violazione principî di uguaglianza e di affidamento dei
soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di
avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed
attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di
trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e
con le stesse modalità.
Le considerazioni sin qui svolte rendono superfluo l’esame delle questioni di fatto
illustrate dalla ricorrente al fine di dimostrare la sua qualità di ente strumentale e
necessario per la pubblica amministrazione.
E, dunque, seguendo il pensiero della Corte, tali società possono fallire.
Sul fecondo terreno della responsabilità (specie, da danno erariale) i predetti criteri
investigativi si specializzano4.
L’articolato discorso delle Sezioni Unite5 orbita, in sintesi, intorno al criterio secondo
cui spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei
danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite
degli amministratori o dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto
riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, nè un rapporto di
servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, nè un danno
direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la
giurisdizione della Corte dei conti.
Sussiste invece, per le Sezioni Unite, la giurisdizione di quest'ultima quando l'azione
di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante
dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia
colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo
pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli
amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della
partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità
pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente
pregiudizio al suo patrimonio".
La questione si rende particolarmente interessante poiché, come sopra osservato, pur
perseguendo una lettura ispirata alle regole del diritto comune, ai fini ricognitivi ed
affermativi della responsabilità erariale la giurisprudenza non ha mancato di
4
La Corte dei Conti ha giurisdizione sull’azione di responsabilità degli organi sociali per i danni
cagionati al patrimonio della società solo quando possa dirsi superata l’autonomia della personalità
giuridica rispetto all’ente pubblico, ossia quando la società possa definirsi in house, per la
contemporanea presenza di tre requisiti: 1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o
più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a
privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti
partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul
mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; 3) la gestione sia per statuto assoggettata a
forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e
intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile. (Corte
di Cassazione – Sezioni Unite civili – 10 marzo 2014 – n. 5491).
5
Corte di Cassazione – Sezioni Unite civili – 10 marzo 2014 – n. 5491.
8 14 nota G. Pagano
riconoscere, per contro, la applicabilità dei criteri pubblicistici e dunque la
giurisdizione della Corte dei Conti.
Il quesito che questo breve sguardo complessivo vuole problematicamente enucleare
ruota dunque sulla constatazione che l’impostazione generale – che il legislatore
italiano già con il R.D. del 1936 (n. 375), successivamente con la legge fallimentare
del 1942 ed ora con l’art. 80 del TUB ha elaborato – riposa su criteri identificativi che
potrebbero forse entrare in tensione con il diritto dell'Unione europea, declinato in
chiave concorrenziale.
Valga un esempio emblematico: la gestione del credito.
In sintesi: la banca è un’impresa6; gli imprenditori commerciali sono sottoposti alla
disciplina fallimentare; ogni distinzione che diversifica il regime delle conseguenze
disciplinari fra imprenditori sconta una adesione ai canoni comunitari che potrebbe
risultare non razionale ad una approfondita analisi, ora che, come si è cercato di
6
Non occorre soffermarsi eccessivamente sulla centralità imprenditoriale della attività bancaria. cfr,
ex pluris, Amatucci C., Bassi A., Capo G., Costi R., Fauceglia G., Luminoso A., Martorano F.,
Racugno G., Rosapepe R. e Sandulli M., Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore V.
ove si afferma: per poter avviare ed esercitare la sua attività l’imprenditore ha necessità di mezzi
patrimoniali e quindi ha bisogno di finanziamenti, e per far ciò deve trovare chi lo finanzi,
ricorrendo all’eterofinanziamento. A tal fine il canale primario è costituito da quello bancario,
ancor più accentuato nel nostro Paese considerati i caratteri originari del capitalismo italiano
storicamente dipendente dal sostegno bancario, nonché dal solo recente sviluppo della
intermediazione finanziaria non bancaria. Tutte le imprese, sia che operino nel settore
commerciale come in quello agricolo, dovranno pertanto necessariamente confrontarsi con le
imprese bancarie (art. 2195, n. 4, Cod. civ.), cioè con le imprese autorizzate – dall’autorità
creditizia italiana o da corrispondente autorità di altro Stato comunitario – ad esercitare l’attività
bancaria, intesa come attività congiunta di raccolta del risparmio tra il pubblico e di esercizio del
credito, che viene effettuata mediante i contratti bancari: rispettivamente, da un lato, i depositi
bancari (art. 1834 Cod. civ.), dall’altro, l’apertura di credito bancario (art. 1842 Cod. civ.),
l’anticipazione bancaria (art. 1846 Cod. civ.) e lo sconto bancario (art. 1858 Cod. civ.), nonché
con mutui destinati ad essere rimborsati mediante piani di ammortamento; oggi, a differenza che in
passato, le banche possono operare congiuntamente nel breve e nel medio-lungo termine: c.d.
despecializzazione temporale dell’esercizio del credito. La banca, per quanto concerne l’esercizio
(o la concessione) del credito, mette a disposizione del cliente somme di danaro per un dato
periodo di tempo o a tempo indeterminato, dando vita ad un’operazione comunemente detta attiva,
in quanto la banca risulta creditrice del proprio cliente. Le somme di danaro che la banca eroga al
cliente traggono origine non soltanto dai “mezzi propri” – con termine anglosassone equity, vale a
dire il capitale di rischio corrispondente ai conferimenti ed agli apporti effettuati dai soci a titolo di
proprietà dell’impresa – di cui la banca è dotata, che costituiscono il principale presidio a fronte
dei rischi assunti, o dalle risorse acquisite sul mercato interbancario, ma anche dalla raccolta di
fondi che la stessa effettua presso il pubblico, divenendo così debitrice nei confronti dei propri
depositanti: operazione questa denominata passiva. Secondo la teoria economica classica, la
funzione specifica del banchiere consiste nel trasferire risorse finanziarie da settori in surplus a
settori in deficit, mediante l’impiego anche di danaro altrui in operazioni di credito per proprio
conto: cioè il rischio che la banca corre nella concessione del credito e, in generale, nella gestione
del risparmio raccolto non si trasferisce sul cliente. Di qui la classificazione dell’attività esercitata
dalle banche nella categoria dello «scambio», ancorché il processo di trasformazione che subisce il
risparmio bancario, che determina la creazione di ricchezza nuova (grazie al c.d. moltiplicatore
bancario) e non semplicemente lo scambio di ricchezza già esistente, induce a ritenere preferibile
annoverare l’attività bancaria nella categoria della «produzione» di servizi.
9 14 nota G. Pagano
dimostrare, la dicotomia pubblico privato è trasversale e le collocazioni in un’area
―protetta‖ è foriera di possibili discriminazioni.
La scelta di regime non è infatti di breve momento: la liquidazione coatta
amministrativa per le banche (art. 80 TUB) è disposta quando le irregolarità ovvero le
violazioni disciplinari sono di ―rilevante gravità‖; la declaratoria di fallimento (ex
art. 5 L. fall.) quando l’imprenditore non è in grado di ―adempiere regolarmente alle
proprie obbligazioni‖.7
7
Come nota la dottrina, Guglielmucci L. Diritto fallimentare, Capitolo tredicesimo, La liquidazione
coatta amministrativa, La circostanza che, per un imprenditore assoggettato o assoggettabile a
liquidazione coatta amministrativa, venga accertato lo stato di insolvenza, a norma degli artt. 195
o 202 L. fall., riteniamo comporti innanzi tutto un effetto sul patrimonio e sui rapporti assoggettati
alla procedura. Se manca l’accertamento dello stato di insolvenza, assoggettata alla procedura è
solo l’impresa, cioè solo il patrimonio ed i rapporti in essa compresi. Se, invece, c’è l’accertamento
dello stato di insolvenza, sarà compreso nella procedura l’intero patrimonio dell’imprenditore.
Quindi, si può dire che nel primo caso assoggettata alla procedura è l’impresa, nel secondo è
l’imprenditore.
Vale ancora evidenziare come: I poteri e le funzioni del commissario sono molto vicini a quelli
propri del liquidatore (v. art. 2277 Cod. civ.) se pure con taluni correttivi, quali a) il dovere di
stimare i beni al momento dell’inventario, dopo che gli siano stati consegnati (art. 204 comma 3 L.
fall.); b) la dispensa dalla formazione del bilancio annuale, sostituito con un dovere di relazionare
semestralmente all’organo di vigilanza; copia della relazione è trasmessa al comitato di
sorveglianza, è depositata nel registro delle imprese ed è comunicata ai creditori a mezzo posta
elettronica certificata (art. 205 comma 2 L. fall.); c) il potere di esercitare l’azione di
responsabilità nei confronti degli amministratori e degli organi di controllo dell’impresa in
liquidazione (art. 206 comma 1 L. fall.); d) la legittimazione a compiere tutti gli atti connessi alla
liquidazione, salvo l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza per il compimento degli atti di cui
all’art. 35 l. fall. di valore indeterminato o eccedente euro 103,29, e per la continuazione
dell’esercizio dell’impresa (art. 206 L. fall.). Tutte le comunicazioni con i creditori sono eseguite a
mezzo di posta elettronica certificata (art. 207 L. fall.).
In generale, per uno sguardo d’insieme fra le due discipline, si rimanda ancora a Gugliemucci L.,
cit.: ―…per gli enti pubblici economici e le società soggette a controllo pubblico è preveduta una
procedura concorsuale amministrativa di liquidazione coatta. Secondo quanto dispone il 2° comma
dell’art. 2 L. fall. “la legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa, i
casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta e l’autorità competente a
disporla”. Rientrano tra le imprese assoggettabili a liquidazione coattiva, per una risalente
normativa, oltre agli enti pubblici economici, anche le società costituenti strumento di
partecipazione dello Stato all’esercizio dell’impresa . Il progressivo ritrarsi dello Stato
dall’esercizio delle attività economiche ha relegato in secondo piano le procedure volte a regolare
la crisi di queste imprese, mentre ha assunto un rilievo sempre maggiore l’assoggettamento a
controllo ed a liquidazione coattiva delle imprese chiamate ad amministrare ingenti mezzi
finanziari loro affidati come banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio, ecc. . La
procedura di liquidazione coattiva è poi, preveduta per le imprese caratterizzate da finalità
mutualistiche (art. 2545 terdecies 1° comma Cod. civ.) e, da ultimo, per le imprese sociali,
caratterizzate dall’assenza di scopo di lucro (art. 15 D.L.vo 24 marzo 2006 n. 155). Poiché il
controllo pubblico è volto ad assicurare il regolare funzionamento della gestione in relazione agli
interessi coinvolti e, soprattutto, a consentire un intervento tempestivo prima dell’esplosione della
crisi, i presupposti della liquidazione coattiva, preveduti dalle leggi speciali, coprono una vasta
gamma di irregolarità di funzionamento e di rischio di insolvenza. In ogni caso presupposto della
liquidazione coatta amministrativa è anche, come per il fallimento, lo stato di insolvenza ed in tal
caso se di regola le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al
10 14 nota G. Pagano
Si tratta di parametri –a prima lettura– di diverso spessore lessicale ed accertativo,
sicchè la ricomprensione in un ambito (procedura fallimentare), ovvero nell’altro
(liquidazione coatta) si risolve in una scelta alternativa rispetto alla quale viene da
chiedersi se sia plusvalente da considerare l’interesse pubblico (nazionale) al
controllo sul delicato sistema del credito, ovvero quello concorrenziale (europeo) al
pari trattamento fra imprese.
È la stessa impostazione classica della ricognizione dottrinale sulla liquidazione
coatta amministrativa a suggerire, del resto, la problematica qui sintetizzata.
Introducendo il tema, in una voce enciclopedica8, così la dottrina delineava lo
scenario normativo:
Non tutte le imprese hanno la medesima rilevanza economica e sociale. Ve ne sono
alcune, o certe categorie, rispetto alle quali gli interessi in giuoco non sono soltanto
quelli, privatistici, del soggetto o dei soggetti che vi partecipano, ma anche e
soprattutto quelli generali della collettività. È quindi in un certo senso naturale che
lo Stato guardi con particolare attenzione a questo tipo di imprese, rivendicando sia
il potere di limitarne la libertà di iniziativa o comunque di controllarne (mediante
autorizzazioni, concessioni, ecc.) l'immissione nel mercato, sia quello di vigilarne
fallimento (art. 2 comma 2 L. fall.), talora è possibile, in alternativa, la soggezione a fallimento,
come ad esempio per le imprese cooperative che esercitano una attività commerciale (art. 2545
terdecies comma 2 Cod. civ.), nel qual caso trova applicazione il criterio della prevenzione, quindi
“la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e il provvedimento
di liquidazione coatta amministrativa preclude la dichiarazione di fallimento” (art. 196). .. Le
leggi speciali non determinano soltanto le imprese soggette a liquidazione coattiva ed i casi nei
quali può essere disposta, ma regolano anche svariati aspetti della procedura, che può essere
quindi differenziata per le imprese operanti nell’uno o nell’altro settore. Nella legge fallimentare è
contenuta una disciplina di carattere per lo più integrativo e, tuttavia, di rilievo tutt’altro che
trascurabile. Le norme degli artt. 194-214 L. fall. dettano infatti una disciplina che completa
(quando non prevale su) quella contenuta nelle leggi speciali e, soprattutto, disegna compiutamente
la disciplina della procedura con norme che, nei loro tratti essenziali, risultano rispettate anche
nelle leggi speciali successive. Anche se, come si è visto, secondo quanto statuiscono le leggi
speciali, la procedura può essere aperta anche in assenza di insolvenza – la quale costituisce,
tuttavia, il presupposto che più di frequente ne occasiona l’avvio – la disciplina generale della
liquidazione coattiva contenuta nella legge fallimentare ed anche quella contenuta nelle leggi
speciali che da essa si discostano, sono modellate sulla procedura di fallimento e prevedono quindi
una regolazione concorsuale dei crediti. Prima della riforma organica delle procedure concorsuali
il parallelismo fra fallimento e liquidazione coatta amministrativa era particolarmente accentuato,
essendo la gestione della crisi affidata in entrambi i casi all’autorità, giudiziaria nel primo ed
amministrativa nel secondo. La “privatizzazione” del fallimento attuata con la riforma,
esprimentesi nell’affidamento delle scelte gestionali principalmente ai creditori, considerati gli
interlocutori naturali del debitore, e nella limitazione delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria a
quelle istituzionali di risoluzione dei conflitti, oltre che di controllo di legalità, ridimensiona il
parallelismo, che rimane limitato, per lo più, alle fasi in cui dev’essere preveduto il ricorso
all’autorità giudiziaria per la risoluzione di conflitti. È su questi aspetti, per un’esigenza di
coordinamento fra la disciplina processuale dell’intervento dell’autorità giudiziaria nelle due
procedure, che la riforma organica delle procedure concorsuali ed il successivo decreto correttivo
hanno introdotto alcune modifiche alle norme della legge fallimentare relative alla liquidazione
coatta amministrativa, che – si può affermare – è stata soltanto sfiorata dalla riforma.‖
8
Bavetta G. Liquidazione coatta amministrativa (EdD, ad vocem pg. 753).
11 14 nota G. Pagano
l'andamento della gestione, sia, infine, quello di imporne coattivamente la
cessazione, tutte le volte che, in relazione alle particolari vicende connesse con la
singola impresa, questa non sia più in grado di proseguire l'attività o si appalesi
comunque l'opportunità della sua eliminazione.
La liquidazione coatta amministrativa rappresenta una delle manifestazioni di tale
ingerenza dello Stato: ché, anzi, per certi aspetti, ne costituisce la manifestazione più
appariscente, in quanto essa addirittura è destinata a segnare la fine dell'impresa,
indipendentemente e, talvolta, anche contro la volontà del suo titolare e dei terzi
(creditori compresi).
Accertare se tutto ciò sia legittimo o, anche, semplicemente opportuno è problema di
politica legislativa, di fronte al quale sino ad un certo punto l'interprete può
pronunziarsi. Qui, comunque, è il caso di sottolineare che la liquidazione coatta
amministrativa costituisce un momento dell'anzidetto intervento dello Stato
nell'àmbito delle imprese (pubbliche e private): quindi, il problema della sua
legittimità (o anche della sua semplice opportunità), che è poi il problema della sua
giustificazione sul piano giuridico, trascende, almeno entro certi limiti, la
liquidazione coatta amministrativa, isolatamente considerata, ed investe quello, ben
più vasto, dell'intervento statale in generale, nella molteplicità e multiformità delle
sue specifiche manifestazioni.
Ed allora, nell'àmbito di tale prospettiva, può anche ritenersi che la liquidazione
coatta amministrativa si giustifica, sul piano del diritto, in relazione alla finalità,
costituzionalmente garantita, di assicurare che l'attività economica pubblica e
privata sia indirizzata a fini sociali, ben potendo essere socialmente utile o, anche,
soltanto opportuno che, in un certo momento, avuto riguardo alle particolari vicende
della (singola) impresa, quest'ultima venga eliminata dal mercato. In tal modo, avuto
riguardo alla liquidazione coatta amministrativa, può essere detto questo: che alla
sua base c'è sempre un interesse socialmente rilevante. Il legislatore è lasciato libero
«di determinare caso per caso quando questo interesse ricorra e di adeguare caso
per caso la procedura alle diverse esigenze del pubblico interesse». In ogni caso,
però, tale interesse deve necessariamente ricorrere e rappresenta la giustificazione
logico-giuridica della liquidazione.
Nelle frasi poste qui in grassetto si evidenzia, pertanto, a chiare lettere come l’istituto
rappresenti una ingerenza dello Stato nel mondo imprenditoriale ed economico,
sicché viene da chiedersi -e questo è il principale apporto che con la presente nota si
intende offrire- se tale costrutto che, sconta forse la datazione degli anni settanta non
ancora così permeati di europeismo, si ponga o meno in assoluta sintonia con i valori
della Unione che rifugge da protezionismi ed ingerenze statali anticoncorrenziali,
disvelando possibili ―aiuti di Stato‖9 nei più disparati settori.
9 Sul concetto lato di aiuti di Stato cfr. la nozione espressa nel sito della Commissione europea:
State aid is defined as an advantage in any form whatsoever conferred on a selective basis to
undertakings by national public authorities. Therefore, subsidies granted to individuals or general
measures open to all enterprises are not covered by this prohibition and do not constitute State aid
(examples include general taxation measures or employment legislation).
To be State aid, a measure needs to have these features:
12 14 nota G. Pagano
La tesi può risultare meno peregrina di quanto sembra a primo impatto se si riflette
sulla estensione, veramente massima, che la nozione di aiuto di Stato ha registrato.
Basta qui ricordare come la nostra Corte Costituzionale si esprima sull’argomento:
Gli aiuti di Stato incompatibili con il mercato interno, secondo la nozione ricavabile
dall’art. 107 TFUE (in precedenza art. 87, paragrafo 1, del Trattato della Comunità
europea), consistono in agevolazioni di natura pubblica, rese in qualsiasi forma, in
grado di favorire talune imprese o talune produzioni e di falsare o minacciare di
falsare in tal modo la concorrenza, nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli
Stati membri.
I requisiti costitutivi di detta nozione, individuati dalla legislazione e dalla
giurisprudenza comunitaria, possono essere così sintetizzati: a) intervento da parte
dello Stato o di una sua articolazione o comunque impiego di risorse pubbliche a
favore di un operatore economico che agisce in libero mercato; b) idoneità di tale
intervento ad incidere sugli scambi tra Stati membri; c) idoneità dello stesso a
concedere un vantaggio al suo beneficiario in modo tale da falsare o minacciare di
falsare la concorrenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 17 novembre
2009 C-169/08, in questa Rassegna 2009, III, 863); d) dimensione dell’intervento
superiore alla soglia economica minima che determina la sua configurabilità come
aiuto «de minimis» ai sensi del regolamento della Commissione n. 1998/2006, del 15
dicembre 2006 (Regolamento della Commissione relativo all’applicazione degli
articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore «de minimis»).
La nozione di aiuto di Stato è quindi di natura complessa e l’ordinamento
comunitario riserva alla competenza esclusiva della Commissione europea, sotto il
controllo del Tribunale e della Corte di giustizia, la verifica della compatibilità
dell’aiuto con il mercato interno, nel rispetto dei regolamenti di procedura in vigore.
Questa Corte ha già precisato che «Ai giudici nazionali spetta solo l’accertamento
dell’osservanza dell’art. 108, n. 3, TFUE, e cioè dell’avvenuta notifica dell’aiuto. Ed
è solo a questo specifico fine che il giudice nazionale, ivi compresa questa Corte, ha
una competenza limitata a verificare se la misura rientri nella nozione di aiuto»
(sentenza n. 185 del 2011, in questa Rassegna 2011, III, 515) ed in particolare se i
soggetti pubblici conferenti gli aiuti rispettino adempimenti e procedure finalizzate
alle verifiche di competenza della Commissione europea.
there has been an intervention by the State or through State resources which can take a variety
of forms (e.g. grants, interest and tax reliefs, guarantees, government holdings of all or part of a
company, or providing goods and services on preferential terms, etc.);
the intervention gives the recipient an advantage on a selective basis, for example to specific
companies or industry sectors, or to companies located in specific regions competition has been or
may be distorted; the intervention is likely to affect trade between Member States.
Despite the general prohibition of State aid, in some circumstances government interventions is
necessary for a well-functioning and equitable economy. Therefore, the Treaty leaves room for a
number of policy objectives for which State aid can be considered compatible. The legislation
stipulates these exemptions. The laws are regularly reviewed to improve their efficiency and to
respond to the European Councils' calls for less but better targeted State aid to boost the European
economy. The Commission adopts new legislation is adopted in close cooperation with the Member
States.
13 14 nota G. Pagano
Un qualsivoglia vantaggio idoneo a falsare la concorrenza potrebbe dunque essere un
regime che sottrae un’impresa al criterio della fallibilità in senso proprio.
Se non si vuole accedere alla delineata tesi estrema, si dovrà comunque convenire,
come le due massime del T.A.R. emiliano e del Consiglio di Stato evidenziano, che la
inscrizione in un regime (fallimentare) ovvero nell’altro (LCA) non è scevro di
rilevanti effetti, specie processuali.
dott.ssa Ginevra PAGANO
14 14 nota G. Pagano
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