T.A.R. Bologna, Sez. II - 9 luglio 2014 n. 724 - Pres. MOZZARELLI, Est. LELLI Nuova Sanità Cooperativa sociale ed altri (avv. Penta A.) c. A.S.P. Città di Bologna (avv. Ferlini M.) e Soc. cooperativa Consorzio Indaco ed altri (avv. Rossi A.). 1. - Procedimento giurisdizionale - Interruzione del processo - Liquidazione coatta Ditta ricorrente - Non interrompe. 1. - L’intervenuta liquidazione coatta amministrativa della Ditta ricorrente non comporta l’interruzione del processo. FATTO e DIRITTO. - 1.Col ricorso in epigrafe parte ricorrente ha impugnato la determinazione dirigenziale dell'ASP Poveri Vergognosi di Bologna 518/2011 con il quale è stata aggiudicata al raggruppamento controinteressato la gestione di entrambi i 2 lotti di servizi sociali messi a gara col bando deliberato dall'ASP intimata con determinazione a contrarre n. 343 / 2011, anch'essa impugnata unitamente agli altri atti indicati in epigrafe. Avverso i suddetti atti vengano dedotte censure di violazione di legge e di eccesso di potere sotto vari profili. L'amministrazione intimata e il consorzio contro interessato si sono costituiti in giudizio deducendo, con varie argomentazioni, l'inammissibilità e l'infondatezza del ricorso. Viene altresì dedotta l'estinzione del processo per effetto della intervenuta liquidazione coatta amministrativa della cooperativa ricorrente. 2. Ritiene il collegio preliminarmente che nell'ipotesi della sopravvenuta liquidazione coatta amministrativa non possono operare le norme in materia di fallimento tenuto conto del fatto che l'art. 200 L. Fall., pur prevedendo che in caso di liquidazione coatta amministrativa nelle controversie, anche in corso, per l'impresa stà in giudizio il commissario liquidatore, non richiama espressamente l'articolo 43 della legge fallimentare nella parte in cui dispone all'ultimo comma che "l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo". Quindi nel caso della liquidazione coatta non si può applicare per analogia la regola secondo cui il fallimento della parte provoca in modo automatico ed implicito la detta interruzione, senza necessità di dichiarazione in giudizio o di notificazione alle parti dell'evento, in quanto, trattandosi di norma speciale produttiva di effetti particolarmente gravi sul piano processuale, non può esserne ammessa l'applicazione analogica. Per quanto sopra l'eccezione di estinzione del processo formulata dai resistenti è infondata. 3. Nel merito il ricorso è infondato. Per quanto riguarda la mancata dichiarazione sostitutiva di cui all'articolo 38 del codice di contratti pubblici dei legali rappresentanti della cooperativa Caronte incorporata dalla consorziata La Rupe a far tempo dal 1/10/2010, si deve osservare che, come risulta dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato V numero 3814 / 2013, che, a sua volta, richiama l'Adunanza Plenaria 10 e 21 del 2012) la stessa, tenuto conto dell'incertezza interpretativa anteriore alle suddette pronunce dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, non comporta l'esclusione dalla gara a meno che non venga data una prova dell'effettiva sussistenza di precedenti penali, prova che nel caso di specie non sussiste. Nel caso di specie si deve poi rilevare che l'art. 13 del bando di gara limitava tassativamente i soggetti che dovevano presentare le dichiarazioni sostitutive. Per quanto riguarda la mancata dichiarazione di cui all'articolo 38 del codice dei contratti pubblici del vice presidente di una consorziata di Indaco relativamente al lotto 1 si deve osservare che anche in questo caso non può operare l'automatica esclusione per effetto della mancata produzione della dichiarazione in quanto sussistono i presupposti del soccorso istruttorio di cui all'articolo 46 del codice dei contratti (si veda Tar Lazio III n. 11177/2013 che richiama anche l' incertezza legata alla 1 14 nota G. Pagano posizione del vice presidente ed le modalità di effettivo esercizio dei poteri di rappresentanza da parte dello stesso, con conseguente applicabilità del principio del "soccorso istruttorio"). Quanto sopra esime dall’esaminare la rilevanza della circostanza dedotta dalla resistente in ordine al fatto che analoga dichiarazione era stata presentata nel gennaio del 2011 in occasione della precedente gara annullata in autotutela dall'ASP e che verifiche effettuate dalla stessa azienda in ordine al casellario giudiziale dell'interessato è risultata negativa. Per quanto riguarda gli ulteriori motivi di ricorso gli stessi attengono: - alla insufficiente documentazione: del possesso dei requisiti in materia di personale anche relativamente alle consorziate (Rupe, Arca di Noè, associazione Amici di Piazza Grande ecc); del possesso dei requisiti inerenti al fatturato. - all'erroneità, tenuto conto della documentazione presentata, del punteggio attribuito in relazione al parametro relativo al personale. In ordine ai suddetti motivi questo Tribunale ha disposto una verificazione con ordinanza numero 172/2014 da espletarsi a cura del Settore Gare del comune di Bologna. La relazione di verificazione è stata depositata in data 15 maggio 2014. Per quanto attiene al possesso dei requisiti di cui all'articolo 7 lettera D) del bando di gara, dalla relazione risulta che la presentazione dei modelli DM 10, pur essendo idonea a dimostrare la quantificazione dell'organico dei singoli operatori economici nelle diverse mensilità del triennio individuato dal bando e, quindi, essendo idonea a dimostrare il possesso del requisito richiesto dal bando in termini di "organico minimo", non è idonea a comprovare i titoli di studio e professionali del personale. Tuttavia, ritiene il collegio, la suddetta carenza non poteva portare di per sé all'esclusione del consorzio contro interessato, in quanto, trattandosi di una carenza di documentazione soltanto parziale (in quanto il mod DM 10 contiene l'indicazione dei dati retributivi ed i codici identificativi della categoria del personale) sussistevano i presupposti del soccorso istruttorio previsto dall'articolo 46 del codice dei contratti. In ogni caso i titoli e i requisiti professionali del personale sono stati oggetto di valutazione nell'ambito dell'attribuzione del punteggio previsto dal bando di gara per questa voce essendo stati depositati i relativi curricula. Per quanto riguarda poi le censure con cui viene contestato il punteggio attribuito alla voce relativa alla consistenza ed alla qualità del personale, la relazione di verificazione, con argomentazioni che il collegio condivide, assume essere non illogico l'aver attribuito all'elemento quantitativo carattere prevalente rispetto ai singoli curricula e che, in ogni caso, gli elementi quantitativi e qualitativi dovevano necessariamente essere valutati congiuntamente, tenuto conto delle caratteristiche dell'appalto e della necessità di dover operare anche con il personale riassorbito. In particolare occorre considerare che lo stesso bando di gara prevede l'ipotesi in cui il personale da impiegare nello svolgimento dei servizi non sia quello presentato in sede di gara: in questo caso la ditta aggiudicataria resta impegnata ad impiegare personale che possiede titoli equipollenti e conformi alla documentazione prodotta in sede di gara. Ne consegue che, tenuto conto delle suddette caratteristiche del contratto, l'elemento quantitativo (consistenza oraria di personale offerta) assume necessariamente carattere prevalente rispetto ai singoli curricula, in quanto la natura del servizio offerto e le concrete modalità di svolgimento, ivi compreso il subentro del personale già in servizio, comporta una valutazione complessiva. Anche per quanto riguarda la documentazione concernente il possesso del requisito di capacità economica e finanziaria di cui all'articolo n. 7 lettera C), sottopunto c) e sottopunto d), dalla relazione di verificazione emerge che la documentazione presentata è idonea a documentare il possesso del requisito inerente al fatturato globale come pure quello inerente al fatturato specifico da parte delle imprese facenti parte dei raggruppamenti risultanti aggiudicatari sia del primo lotto sia del secondo lotto. Il bando di gara, poi, ammette espressamente l'autocertificazione per quanto riguarda i fatturati, in quanto prevedono espressamente la "dichiarazione" dei soggetti interessati. 2 14 nota G. Pagano Infine, per quanto attiene alla violazione del contratto collettivo nella parte in cui prevede l'assunzione del personale precedentemente impiegato, si deve osservare che trattasi di censura che attiene ad una fase successiva all'aggiudicazione. Per quanto attiene alla mancata valutazione di alcuni curricula presentati dai ricorrenti, si deve rilevare la genericità del motivo e la mancata dimostrazione, in ogni caso, dell'effettiva incidenza di tale mancata valutazione dell'esito finale della gara. Inoltre non costituisce causa di incompatibilità il fatto che nel passato una componente della commissione avesse lavorato per la coop DOLCE, in quanto tale situazione non è più sussistente da tempo. In conclusione il ricorso deve essere respinto. Tenuto conto del carattere interpretativo della controversia sussistono motivi per compensare fra le parti le spese di giudizio. DISCIPLINA FALLIMENTARE E LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA: ASPETTI PROCESSUALI E SOSTANZIALI La pronuncia in esame, per quanto attiene alla estrapolata questione preliminare di cui alla massima, tocca il tema del rilievo della liquidazione coatta amministrativa, sotto il profilo della eventuale perdita della capacità di stare in giudizio. Ha osservato testualmente il Tribunale: Ritiene il collegio preliminarmente che nell'ipotesi della sopravvenuta liquidazione coatta amministrativa non possono operare le norme in materia di fallimento tenuto conto del fatto che l'art. 200 L. Fall., pur prevedendo che in caso di liquidazione coatta amministrativa nelle controversie, anche in corso, per l'impresa stà in giudizio il commissario liquidatore, non richiama espressamente l'articolo 43 della legge fallimentare nella parte in cui dispone all'ultimo comma che "l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo". Quindi nel caso della liquidazione coatta non si può applicare per analogia la regola secondo cui il fallimento della parte provoca in modo automatico ed implicito la detta interruzione, senza necessità di dichiarazione in giudizio o di notificazione alle parti dell'evento, in quanto, trattandosi di norma speciale produttiva di effetti particolarmente gravi sul piano processuale, non può esserne ammessa l'applicazione analogica. L’affermazione contenuta nella sentenza si pone in evidente (e da ritenere, consapevole) contrasto con quanto sancisce il superiore giudice amministrativo secondo cui Come è noto, la messa in liquidazione coatta amministrativa di una società determina la perdita della capacità di stare in giudizio, ai sensi dell'art. 199 Cod. proc. civ., atteso che, a norma dell'art. 200, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, detto stato comporta, tra l'altro, la cessazione delle funzioni dell'assemblea e degli organi amministrativi e di controllo della società medesima e, comunque, l'attribuzione al commissario liquidatore, e non più, quindi, alla persona fisica che la rappresentava fin quando era in bonis, della capacità di stare in giudizio nelle controversie (anche in corso). Conseguentemente, ai sensi degli artt. 299 e 300 comma 2, Cod. proc. civ., cui rinvia l'art. 79 comma 2 Cod. proc. amm., la perdita della capacità della parte dichiarata in udienza dal suo procuratore (o da questa notificata alle altre parti), comporta 3 14 nota G. Pagano l'interruzione del processo, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo, si costituiscano volontariamente, ovvero l'altra parte provveda a citarli in riassunzione.1 Nell’ottica precipua di questo commento non si vuole, tuttavia, testare la fondatezza delle tesi registrabili in argomento, quanto effettuare una ricognizione di fondo (di disciplina sostanziale) cui pur si ricollega la (oscillante) scelta processuale. L’ipotesi di lavoro, in altri termini, è quella tesa a dubitare fortemente della attuale tenuta di sistema (anche, come si dirà, in connessione alla rete europea) distintivo funditus fra disciplina fallimentare e LCA. Ai fini della programmata ricognizione, una premessa problematica, di carattere generale, si impone, innanzitutto, in ordine alla identificazione dei soggetti sottoponibili alle procedure fallimentari e di liquidazione straordinaria. Nel contesto inizialmente delineato dal legislatore (nazionale) la summa divisio fra ente pubblico e ente privato era netta e ben percepibile: da un lato, vi era l’Ente Pubblico con la sua organizzazione, un peculiare rapporto di pubblico impiego, potestà pubblicistiche e beni con pari caratura; dall’altro, il sistema delle entificazioni private, con la loro disciplina civilistica e, per i fini che qui interessano, una precisa ricognizione dei casi della loro fallibilità. L’art. 1 della legge fallimentare, di conseguenza, coerentemente distingueva fra imprenditori commerciali sottoposti al fallimento ed Enti pubblici esclusi da tale fallibilità. Si tratta, tuttavia, di criterio destinato ad essere ripensato -e questo è il rilievo critico su cui si invita a riflettere- nel momento in cui si è andata delineando nel diritto pubblico il criterio interpretativo della neutralità delle forme societarie cioè la possibilità per l’Ente pubblico di perseguire i suoi scopi (anche) attraverso strutture privatistiche, specie, societarie. Si pone quindi il quesito della disciplina cui tali soggetti sono sottoposti, oscillandosi fra un riverbero accentuato del carattere pubblicistico ed uno stabilizzato sull’originario imprinting di società privata. La tematica – è facile arguire – ―tocca‖ anche il tema della liquidazione coatta amministrativa che ha la sua originaria allocazione nello stesso R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (come successivamente novellato): il relativo art. 2 infatti si intitola liquidazione coatta amministrativa e fallimento ed esordisce affermando che ―La legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa ed i casi per le quali la liquidazione è disposta‖, senza introdurre distinzioni di sorta. La coerenza di sistema era dunque facilmente rintracciabile, tutta inscritta nell’ottica del legislatore nazionale che separava soggetti imprenditoriali fallibili, da altre imprese, sottratte al regime fallimentare per la peculiarità della attività svolta: significativa è l’attività bancaria che il D.L.vo 1° settembre 1993 n. 385, Testo Unico Bancario (TUB) dichiara ―attività d’impresa‖, riservata (appunto) alle banche. La caratura pubblicistica o meno è divenuta però una problematica a ―spettro‖ comunitario ove predomina una interpretazione della realtà giuridica tutta riorientata sul principio dell’effetto utile. 1 Consiglio di Stato, sez. V, 24 marzo 2014 n. 1437. 4 14 nota G. Pagano In altri termini, specie il giudice comunitario, non si ritiene vincolato (come è agevole accertare) da una lettura sistematica, ma ricerca il criterio allocativo (nella dicotomia pubblico/privato) a seconda della finalità comunitaria da perseguire: valsente è il richiamo agli appalti pubblici, ove la apicale esigenza della concorrenza, rende particolarmente estesa la identificazione di profili pubblicistici. Valga per tutti, l’esempio dell’organismo di diritto pubblico di cui al codice degli appalti: qui la natura pubblicistica è ricercata con parametri quanto mai estesi affinchè nulla sfugga al regime della concorrenza. Una nozione, così ampia, non si riscontra però unitariamente: così (esemplificazione notoriamente frequentata) per i lettori di lingua straniera, presso le Università Italiane, la Corte di Giustizia non ha mostrato cedimenti nel negare la identificabilità di un rapporto di pubblico impiego in virtù del pari fondativo principio della libera circolazione dei lavoratori, restringendo la portata dunque della nozione di amministrazione pubblica che per contro (ripetesi) è estensivamente ritagliata con riferimento all’organismo di diritto pubblico.2 Il problema si è dunque articolato variamente nella giurisprudenza (italiana) ed è stato risolto secondo le seguenti direttive: – la società cd pubblica non è snaturata nella sua identità privatistica per essere ―tarata‖ sull’appagamento di interessi pubblicistici; – eventuali discipline legislative speciali possono anche fortemente alterare il carattere privato della società, ma costituiscono una sorte di eccezione che conferma la regola del carattere privatistico della società: ergo possono fallire. – Non è comunque possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in mano pubblica. Un esaustivo panorama di quanto qui riassunto è offerto dalla massima secondo cui È proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica. Non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in mano pubblica, le quali (come può accadere anche a società a capitale interamente privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei settori di attività in cui assume rilievo la natura pubblica dell’interesse perseguito, da realizzare attraverso disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa predicarsene l’appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società-ente, sottratto in toto al diritto comune.3 2 CGE – Corte di Giustizia delle Comunità Europee – sentenza 30 maggio 1989 n. 33/88: Il posto di lettore di lingua straniera nelle università non è un impiego nella pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 48, n. 4, del trattato Cee. I posti di insegnante infatti non implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche e non presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza. 3 Corte di Cassazione – sezione I civile – sentenza 27 settembre 2013 – n. 22209. 5 14 nota G. Pagano Interrogandosi sulla fallibilità o meno di una partecipata da un ente territoriale ed addetta alla gestione di un rilevante servizio pubblico, quale la rimozione dei rifiuti urbani, la Cassazione civile (sent. n. 22209/2013) afferma una serie di concetti che è utile estrapolare: Secondo la Corte: – Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica non è certo nuovo nel nostro ordinamento: il Codice civile del 1942 già dettava, agli art. 2458, 2459 e 2460 Cod. civ., le disposizioni applicabili, in tema di nomina e revoca degli amministratori e dei sindaci, alle «società con partecipazione dello Stato o di altri enti pubblici» (ed a quelle il cui atto costitutivo prevedesse, pur in mancanza di una partecipazione azionaria, che la nomina di uno o più amministratori e sindaci spettasse alla pubblica amministrazione) ma, per lungo tempo, non si è dubitato che si trattasse di società di diritto comune, interamente soggette alla disciplina civilistica (e perciò anche alla legge fallimentare), distinte dagli enti pubblici (economici) aventi ad oggetto esclusivo o principale un’attività di impresa (art. 2201 Cod. civ.), ma non fallibili ai sensi degli art. 2221 Cod. civ. ed 1, 1° comma, L. fall. – A partire quantomeno dall’ultimo decennio del secolo scorso, il contesto politicoeconomico di riferimento ha però subìto un innegabile mutamento: il progressivo assottigliarsi della linea di confine fra l’agire pubblico e l’agire privato, l’abbandono di una concezione autoritativa della pubblica amministrazione in favore di una sua concezione funzionale, nella quale i poteri di cui essa è dotata sono intesi come meramente strumentali alla tutela dell’interesse pubblico, il convincimento diffuso che tale interesse possa essere maggiormente garantito attraverso il ricorso ad istituti di diritto comune, indubbiamente più snelli di quelli usualmente a disposizione dell’apparato burocratico, la fiducia nelle capacità del «mercato» di stimolare la competitività, e quindi di regolamentare al meglio anche attività di contenuto economico tipicamente riservate alla pubblica amministrazione, hanno dato luogo alla sempre più diffusa costituzione (al vero e proprio proliferare) di società c.d. pubbliche, a partecipazione integralmente pubblica o mista, pubblica-privata, o sottoposte ad una particolare influenza da parte di enti pubblici, aventi ad oggetto la gestione non solo di beni di proprietà pubblica, ma di servizi di interesse pubblico, in precedenza erogati dallo Stato o dagli enti territoriali attraverso aziende municipalizzate. – Non è invece mutato il quadro normativo generale: il legislatore ha ribadito la scelta favorevole alla riconducibilità delle società pubbliche fra quelle di diritto comune sia con il D.L. n. 3 del 2003, di riforma del diritto societario, che ha sostituito agli art. 2458-2460 gli art. 2449 e 2450 Cod. civ. (quest’ultimo, fra l’altro — relativo all’attribuzione allo Stato o ad altri enti pubblici privi di partecipazione azionaria della facoltà di nomina di amministratori e sindaci — abrogato, a seguito dell’avvio di una procedura d’infrazione da parte della commissione europea, dall’art. 3 1° comma D.L. n. 10 del 2007, convertito nella legge n. 46 del 2007), sia con il D.L. n. 5 del 2006 di riforma del diritto fallimentare, che non ha modificato l’art. 1 1° comma R.D. n. 267 del 1942. – E, come sottolineato da autorevole dottrina, neppure le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società 6 14 nota G. Pagano pubbliche, costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentarne attività e funzionamento ed a modificarne la natura di soggetti di diritto privato, così da sottrarle espressamente alla disciplina civilistica. – La sempre più stretta commistione fra la sfera pubblica e quella privata ha, nel contempo, condotto all’emanazione di numerose leggi speciali applicabili ad enti, società pubbliche e società formalmente private, accomunati dall’agire in settori di pubblico interesse: in questa sede, a mero titolo esemplificativo, si possono citare l’art. 3 comma 26 D.L. n. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), che definisce organismo pubblico, cui è imposto il rispetto delle norme dettate per gli appalti pubblici, qualsiasi organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale e dotato di personalità giuridica, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico» e l’art. 22 legge n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 15 legge n. 15 del 2005, che prevede il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse e che, alla lett. e), ricomprende nella nozione di pubblica amministrazione «tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario». – Tuttavia, è proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica. – Il discorso è indubbiamente più delicato quando si passa ad esaminare il piano della funzione, ossia dello scopo per il cui perseguimento la società è costituita ed agisce, non potendosi tacere che nell’operare di talune società pubbliche, in specie di quelle affidatarie di pubblici servizi, non è sempre dato ravvisare quell’attività economica a scopo di lucro che l’art. 2247 Cod. civ. tuttora indica come elemento caratteristico di ogni società di capitali. Ma, non potendosi al contempo disconoscere che il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad es., alle società sportive di cui alla legge n. 91 del 1981), l’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. – Deve dunque concludersi, secondo quanto è stato correttamente rilevato in dottrina, che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali — e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico — comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla 7 14 nota G. Pagano loro insolvenza, pena la violazione principî di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità. Le considerazioni sin qui svolte rendono superfluo l’esame delle questioni di fatto illustrate dalla ricorrente al fine di dimostrare la sua qualità di ente strumentale e necessario per la pubblica amministrazione. E, dunque, seguendo il pensiero della Corte, tali società possono fallire. Sul fecondo terreno della responsabilità (specie, da danno erariale) i predetti criteri investigativi si specializzano4. L’articolato discorso delle Sezioni Unite5 orbita, in sintesi, intorno al criterio secondo cui spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, nè un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, nè un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece, per le Sezioni Unite, la giurisdizione di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio". La questione si rende particolarmente interessante poiché, come sopra osservato, pur perseguendo una lettura ispirata alle regole del diritto comune, ai fini ricognitivi ed affermativi della responsabilità erariale la giurisprudenza non ha mancato di 4 La Corte dei Conti ha giurisdizione sull’azione di responsabilità degli organi sociali per i danni cagionati al patrimonio della società solo quando possa dirsi superata l’autonomia della personalità giuridica rispetto all’ente pubblico, ossia quando la società possa definirsi in house, per la contemporanea presenza di tre requisiti: 1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; 3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile. (Corte di Cassazione – Sezioni Unite civili – 10 marzo 2014 – n. 5491). 5 Corte di Cassazione – Sezioni Unite civili – 10 marzo 2014 – n. 5491. 8 14 nota G. Pagano riconoscere, per contro, la applicabilità dei criteri pubblicistici e dunque la giurisdizione della Corte dei Conti. Il quesito che questo breve sguardo complessivo vuole problematicamente enucleare ruota dunque sulla constatazione che l’impostazione generale – che il legislatore italiano già con il R.D. del 1936 (n. 375), successivamente con la legge fallimentare del 1942 ed ora con l’art. 80 del TUB ha elaborato – riposa su criteri identificativi che potrebbero forse entrare in tensione con il diritto dell'Unione europea, declinato in chiave concorrenziale. Valga un esempio emblematico: la gestione del credito. In sintesi: la banca è un’impresa6; gli imprenditori commerciali sono sottoposti alla disciplina fallimentare; ogni distinzione che diversifica il regime delle conseguenze disciplinari fra imprenditori sconta una adesione ai canoni comunitari che potrebbe risultare non razionale ad una approfondita analisi, ora che, come si è cercato di 6 Non occorre soffermarsi eccessivamente sulla centralità imprenditoriale della attività bancaria. cfr, ex pluris, Amatucci C., Bassi A., Capo G., Costi R., Fauceglia G., Luminoso A., Martorano F., Racugno G., Rosapepe R. e Sandulli M., Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore V. ove si afferma: per poter avviare ed esercitare la sua attività l’imprenditore ha necessità di mezzi patrimoniali e quindi ha bisogno di finanziamenti, e per far ciò deve trovare chi lo finanzi, ricorrendo all’eterofinanziamento. A tal fine il canale primario è costituito da quello bancario, ancor più accentuato nel nostro Paese considerati i caratteri originari del capitalismo italiano storicamente dipendente dal sostegno bancario, nonché dal solo recente sviluppo della intermediazione finanziaria non bancaria. Tutte le imprese, sia che operino nel settore commerciale come in quello agricolo, dovranno pertanto necessariamente confrontarsi con le imprese bancarie (art. 2195, n. 4, Cod. civ.), cioè con le imprese autorizzate – dall’autorità creditizia italiana o da corrispondente autorità di altro Stato comunitario – ad esercitare l’attività bancaria, intesa come attività congiunta di raccolta del risparmio tra il pubblico e di esercizio del credito, che viene effettuata mediante i contratti bancari: rispettivamente, da un lato, i depositi bancari (art. 1834 Cod. civ.), dall’altro, l’apertura di credito bancario (art. 1842 Cod. civ.), l’anticipazione bancaria (art. 1846 Cod. civ.) e lo sconto bancario (art. 1858 Cod. civ.), nonché con mutui destinati ad essere rimborsati mediante piani di ammortamento; oggi, a differenza che in passato, le banche possono operare congiuntamente nel breve e nel medio-lungo termine: c.d. despecializzazione temporale dell’esercizio del credito. La banca, per quanto concerne l’esercizio (o la concessione) del credito, mette a disposizione del cliente somme di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato, dando vita ad un’operazione comunemente detta attiva, in quanto la banca risulta creditrice del proprio cliente. Le somme di danaro che la banca eroga al cliente traggono origine non soltanto dai “mezzi propri” – con termine anglosassone equity, vale a dire il capitale di rischio corrispondente ai conferimenti ed agli apporti effettuati dai soci a titolo di proprietà dell’impresa – di cui la banca è dotata, che costituiscono il principale presidio a fronte dei rischi assunti, o dalle risorse acquisite sul mercato interbancario, ma anche dalla raccolta di fondi che la stessa effettua presso il pubblico, divenendo così debitrice nei confronti dei propri depositanti: operazione questa denominata passiva. Secondo la teoria economica classica, la funzione specifica del banchiere consiste nel trasferire risorse finanziarie da settori in surplus a settori in deficit, mediante l’impiego anche di danaro altrui in operazioni di credito per proprio conto: cioè il rischio che la banca corre nella concessione del credito e, in generale, nella gestione del risparmio raccolto non si trasferisce sul cliente. Di qui la classificazione dell’attività esercitata dalle banche nella categoria dello «scambio», ancorché il processo di trasformazione che subisce il risparmio bancario, che determina la creazione di ricchezza nuova (grazie al c.d. moltiplicatore bancario) e non semplicemente lo scambio di ricchezza già esistente, induce a ritenere preferibile annoverare l’attività bancaria nella categoria della «produzione» di servizi. 9 14 nota G. Pagano dimostrare, la dicotomia pubblico privato è trasversale e le collocazioni in un’area ―protetta‖ è foriera di possibili discriminazioni. La scelta di regime non è infatti di breve momento: la liquidazione coatta amministrativa per le banche (art. 80 TUB) è disposta quando le irregolarità ovvero le violazioni disciplinari sono di ―rilevante gravità‖; la declaratoria di fallimento (ex art. 5 L. fall.) quando l’imprenditore non è in grado di ―adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni‖.7 7 Come nota la dottrina, Guglielmucci L. Diritto fallimentare, Capitolo tredicesimo, La liquidazione coatta amministrativa, La circostanza che, per un imprenditore assoggettato o assoggettabile a liquidazione coatta amministrativa, venga accertato lo stato di insolvenza, a norma degli artt. 195 o 202 L. fall., riteniamo comporti innanzi tutto un effetto sul patrimonio e sui rapporti assoggettati alla procedura. Se manca l’accertamento dello stato di insolvenza, assoggettata alla procedura è solo l’impresa, cioè solo il patrimonio ed i rapporti in essa compresi. Se, invece, c’è l’accertamento dello stato di insolvenza, sarà compreso nella procedura l’intero patrimonio dell’imprenditore. Quindi, si può dire che nel primo caso assoggettata alla procedura è l’impresa, nel secondo è l’imprenditore. Vale ancora evidenziare come: I poteri e le funzioni del commissario sono molto vicini a quelli propri del liquidatore (v. art. 2277 Cod. civ.) se pure con taluni correttivi, quali a) il dovere di stimare i beni al momento dell’inventario, dopo che gli siano stati consegnati (art. 204 comma 3 L. fall.); b) la dispensa dalla formazione del bilancio annuale, sostituito con un dovere di relazionare semestralmente all’organo di vigilanza; copia della relazione è trasmessa al comitato di sorveglianza, è depositata nel registro delle imprese ed è comunicata ai creditori a mezzo posta elettronica certificata (art. 205 comma 2 L. fall.); c) il potere di esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e degli organi di controllo dell’impresa in liquidazione (art. 206 comma 1 L. fall.); d) la legittimazione a compiere tutti gli atti connessi alla liquidazione, salvo l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza per il compimento degli atti di cui all’art. 35 l. fall. di valore indeterminato o eccedente euro 103,29, e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa (art. 206 L. fall.). Tutte le comunicazioni con i creditori sono eseguite a mezzo di posta elettronica certificata (art. 207 L. fall.). In generale, per uno sguardo d’insieme fra le due discipline, si rimanda ancora a Gugliemucci L., cit.: ―…per gli enti pubblici economici e le società soggette a controllo pubblico è preveduta una procedura concorsuale amministrativa di liquidazione coatta. Secondo quanto dispone il 2° comma dell’art. 2 L. fall. “la legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa, i casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta e l’autorità competente a disporla”. Rientrano tra le imprese assoggettabili a liquidazione coattiva, per una risalente normativa, oltre agli enti pubblici economici, anche le società costituenti strumento di partecipazione dello Stato all’esercizio dell’impresa . Il progressivo ritrarsi dello Stato dall’esercizio delle attività economiche ha relegato in secondo piano le procedure volte a regolare la crisi di queste imprese, mentre ha assunto un rilievo sempre maggiore l’assoggettamento a controllo ed a liquidazione coattiva delle imprese chiamate ad amministrare ingenti mezzi finanziari loro affidati come banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio, ecc. . La procedura di liquidazione coattiva è poi, preveduta per le imprese caratterizzate da finalità mutualistiche (art. 2545 terdecies 1° comma Cod. civ.) e, da ultimo, per le imprese sociali, caratterizzate dall’assenza di scopo di lucro (art. 15 D.L.vo 24 marzo 2006 n. 155). Poiché il controllo pubblico è volto ad assicurare il regolare funzionamento della gestione in relazione agli interessi coinvolti e, soprattutto, a consentire un intervento tempestivo prima dell’esplosione della crisi, i presupposti della liquidazione coattiva, preveduti dalle leggi speciali, coprono una vasta gamma di irregolarità di funzionamento e di rischio di insolvenza. In ogni caso presupposto della liquidazione coatta amministrativa è anche, come per il fallimento, lo stato di insolvenza ed in tal caso se di regola le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al 10 14 nota G. Pagano Si tratta di parametri –a prima lettura– di diverso spessore lessicale ed accertativo, sicchè la ricomprensione in un ambito (procedura fallimentare), ovvero nell’altro (liquidazione coatta) si risolve in una scelta alternativa rispetto alla quale viene da chiedersi se sia plusvalente da considerare l’interesse pubblico (nazionale) al controllo sul delicato sistema del credito, ovvero quello concorrenziale (europeo) al pari trattamento fra imprese. È la stessa impostazione classica della ricognizione dottrinale sulla liquidazione coatta amministrativa a suggerire, del resto, la problematica qui sintetizzata. Introducendo il tema, in una voce enciclopedica8, così la dottrina delineava lo scenario normativo: Non tutte le imprese hanno la medesima rilevanza economica e sociale. Ve ne sono alcune, o certe categorie, rispetto alle quali gli interessi in giuoco non sono soltanto quelli, privatistici, del soggetto o dei soggetti che vi partecipano, ma anche e soprattutto quelli generali della collettività. È quindi in un certo senso naturale che lo Stato guardi con particolare attenzione a questo tipo di imprese, rivendicando sia il potere di limitarne la libertà di iniziativa o comunque di controllarne (mediante autorizzazioni, concessioni, ecc.) l'immissione nel mercato, sia quello di vigilarne fallimento (art. 2 comma 2 L. fall.), talora è possibile, in alternativa, la soggezione a fallimento, come ad esempio per le imprese cooperative che esercitano una attività commerciale (art. 2545 terdecies comma 2 Cod. civ.), nel qual caso trova applicazione il criterio della prevenzione, quindi “la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa preclude la dichiarazione di fallimento” (art. 196). .. Le leggi speciali non determinano soltanto le imprese soggette a liquidazione coattiva ed i casi nei quali può essere disposta, ma regolano anche svariati aspetti della procedura, che può essere quindi differenziata per le imprese operanti nell’uno o nell’altro settore. Nella legge fallimentare è contenuta una disciplina di carattere per lo più integrativo e, tuttavia, di rilievo tutt’altro che trascurabile. Le norme degli artt. 194-214 L. fall. dettano infatti una disciplina che completa (quando non prevale su) quella contenuta nelle leggi speciali e, soprattutto, disegna compiutamente la disciplina della procedura con norme che, nei loro tratti essenziali, risultano rispettate anche nelle leggi speciali successive. Anche se, come si è visto, secondo quanto statuiscono le leggi speciali, la procedura può essere aperta anche in assenza di insolvenza – la quale costituisce, tuttavia, il presupposto che più di frequente ne occasiona l’avvio – la disciplina generale della liquidazione coattiva contenuta nella legge fallimentare ed anche quella contenuta nelle leggi speciali che da essa si discostano, sono modellate sulla procedura di fallimento e prevedono quindi una regolazione concorsuale dei crediti. Prima della riforma organica delle procedure concorsuali il parallelismo fra fallimento e liquidazione coatta amministrativa era particolarmente accentuato, essendo la gestione della crisi affidata in entrambi i casi all’autorità, giudiziaria nel primo ed amministrativa nel secondo. La “privatizzazione” del fallimento attuata con la riforma, esprimentesi nell’affidamento delle scelte gestionali principalmente ai creditori, considerati gli interlocutori naturali del debitore, e nella limitazione delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria a quelle istituzionali di risoluzione dei conflitti, oltre che di controllo di legalità, ridimensiona il parallelismo, che rimane limitato, per lo più, alle fasi in cui dev’essere preveduto il ricorso all’autorità giudiziaria per la risoluzione di conflitti. È su questi aspetti, per un’esigenza di coordinamento fra la disciplina processuale dell’intervento dell’autorità giudiziaria nelle due procedure, che la riforma organica delle procedure concorsuali ed il successivo decreto correttivo hanno introdotto alcune modifiche alle norme della legge fallimentare relative alla liquidazione coatta amministrativa, che – si può affermare – è stata soltanto sfiorata dalla riforma.‖ 8 Bavetta G. Liquidazione coatta amministrativa (EdD, ad vocem pg. 753). 11 14 nota G. Pagano l'andamento della gestione, sia, infine, quello di imporne coattivamente la cessazione, tutte le volte che, in relazione alle particolari vicende connesse con la singola impresa, questa non sia più in grado di proseguire l'attività o si appalesi comunque l'opportunità della sua eliminazione. La liquidazione coatta amministrativa rappresenta una delle manifestazioni di tale ingerenza dello Stato: ché, anzi, per certi aspetti, ne costituisce la manifestazione più appariscente, in quanto essa addirittura è destinata a segnare la fine dell'impresa, indipendentemente e, talvolta, anche contro la volontà del suo titolare e dei terzi (creditori compresi). Accertare se tutto ciò sia legittimo o, anche, semplicemente opportuno è problema di politica legislativa, di fronte al quale sino ad un certo punto l'interprete può pronunziarsi. Qui, comunque, è il caso di sottolineare che la liquidazione coatta amministrativa costituisce un momento dell'anzidetto intervento dello Stato nell'àmbito delle imprese (pubbliche e private): quindi, il problema della sua legittimità (o anche della sua semplice opportunità), che è poi il problema della sua giustificazione sul piano giuridico, trascende, almeno entro certi limiti, la liquidazione coatta amministrativa, isolatamente considerata, ed investe quello, ben più vasto, dell'intervento statale in generale, nella molteplicità e multiformità delle sue specifiche manifestazioni. Ed allora, nell'àmbito di tale prospettiva, può anche ritenersi che la liquidazione coatta amministrativa si giustifica, sul piano del diritto, in relazione alla finalità, costituzionalmente garantita, di assicurare che l'attività economica pubblica e privata sia indirizzata a fini sociali, ben potendo essere socialmente utile o, anche, soltanto opportuno che, in un certo momento, avuto riguardo alle particolari vicende della (singola) impresa, quest'ultima venga eliminata dal mercato. In tal modo, avuto riguardo alla liquidazione coatta amministrativa, può essere detto questo: che alla sua base c'è sempre un interesse socialmente rilevante. Il legislatore è lasciato libero «di determinare caso per caso quando questo interesse ricorra e di adeguare caso per caso la procedura alle diverse esigenze del pubblico interesse». In ogni caso, però, tale interesse deve necessariamente ricorrere e rappresenta la giustificazione logico-giuridica della liquidazione. Nelle frasi poste qui in grassetto si evidenzia, pertanto, a chiare lettere come l’istituto rappresenti una ingerenza dello Stato nel mondo imprenditoriale ed economico, sicché viene da chiedersi -e questo è il principale apporto che con la presente nota si intende offrire- se tale costrutto che, sconta forse la datazione degli anni settanta non ancora così permeati di europeismo, si ponga o meno in assoluta sintonia con i valori della Unione che rifugge da protezionismi ed ingerenze statali anticoncorrenziali, disvelando possibili ―aiuti di Stato‖9 nei più disparati settori. 9 Sul concetto lato di aiuti di Stato cfr. la nozione espressa nel sito della Commissione europea: State aid is defined as an advantage in any form whatsoever conferred on a selective basis to undertakings by national public authorities. Therefore, subsidies granted to individuals or general measures open to all enterprises are not covered by this prohibition and do not constitute State aid (examples include general taxation measures or employment legislation). To be State aid, a measure needs to have these features: 12 14 nota G. Pagano La tesi può risultare meno peregrina di quanto sembra a primo impatto se si riflette sulla estensione, veramente massima, che la nozione di aiuto di Stato ha registrato. Basta qui ricordare come la nostra Corte Costituzionale si esprima sull’argomento: Gli aiuti di Stato incompatibili con il mercato interno, secondo la nozione ricavabile dall’art. 107 TFUE (in precedenza art. 87, paragrafo 1, del Trattato della Comunità europea), consistono in agevolazioni di natura pubblica, rese in qualsiasi forma, in grado di favorire talune imprese o talune produzioni e di falsare o minacciare di falsare in tal modo la concorrenza, nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli Stati membri. I requisiti costitutivi di detta nozione, individuati dalla legislazione e dalla giurisprudenza comunitaria, possono essere così sintetizzati: a) intervento da parte dello Stato o di una sua articolazione o comunque impiego di risorse pubbliche a favore di un operatore economico che agisce in libero mercato; b) idoneità di tale intervento ad incidere sugli scambi tra Stati membri; c) idoneità dello stesso a concedere un vantaggio al suo beneficiario in modo tale da falsare o minacciare di falsare la concorrenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 17 novembre 2009 C-169/08, in questa Rassegna 2009, III, 863); d) dimensione dell’intervento superiore alla soglia economica minima che determina la sua configurabilità come aiuto «de minimis» ai sensi del regolamento della Commissione n. 1998/2006, del 15 dicembre 2006 (Regolamento della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore «de minimis»). La nozione di aiuto di Stato è quindi di natura complessa e l’ordinamento comunitario riserva alla competenza esclusiva della Commissione europea, sotto il controllo del Tribunale e della Corte di giustizia, la verifica della compatibilità dell’aiuto con il mercato interno, nel rispetto dei regolamenti di procedura in vigore. Questa Corte ha già precisato che «Ai giudici nazionali spetta solo l’accertamento dell’osservanza dell’art. 108, n. 3, TFUE, e cioè dell’avvenuta notifica dell’aiuto. Ed è solo a questo specifico fine che il giudice nazionale, ivi compresa questa Corte, ha una competenza limitata a verificare se la misura rientri nella nozione di aiuto» (sentenza n. 185 del 2011, in questa Rassegna 2011, III, 515) ed in particolare se i soggetti pubblici conferenti gli aiuti rispettino adempimenti e procedure finalizzate alle verifiche di competenza della Commissione europea. there has been an intervention by the State or through State resources which can take a variety of forms (e.g. grants, interest and tax reliefs, guarantees, government holdings of all or part of a company, or providing goods and services on preferential terms, etc.); the intervention gives the recipient an advantage on a selective basis, for example to specific companies or industry sectors, or to companies located in specific regions competition has been or may be distorted; the intervention is likely to affect trade between Member States. Despite the general prohibition of State aid, in some circumstances government interventions is necessary for a well-functioning and equitable economy. Therefore, the Treaty leaves room for a number of policy objectives for which State aid can be considered compatible. The legislation stipulates these exemptions. The laws are regularly reviewed to improve their efficiency and to respond to the European Councils' calls for less but better targeted State aid to boost the European economy. The Commission adopts new legislation is adopted in close cooperation with the Member States. 13 14 nota G. Pagano Un qualsivoglia vantaggio idoneo a falsare la concorrenza potrebbe dunque essere un regime che sottrae un’impresa al criterio della fallibilità in senso proprio. Se non si vuole accedere alla delineata tesi estrema, si dovrà comunque convenire, come le due massime del T.A.R. emiliano e del Consiglio di Stato evidenziano, che la inscrizione in un regime (fallimentare) ovvero nell’altro (LCA) non è scevro di rilevanti effetti, specie processuali. dott.ssa Ginevra PAGANO 14 14 nota G. Pagano