Il Canto di Tradizione Orale Il Canto di Tradizione Orale

DOTT.SSA LAURA RUZZA
Il Canto di Tradizione Orale
Appunti del Corso di Antropologia della Musica
presso il Conservatorio C. Pollini di Padova
A.A. 2006-2007
http://www.utenti.lycos.it/lauraruzza/
E-mail: [email protected]
Cell. 3336470115
1- VIAGGIO NELLA VOCALITA'
INTRODUZIONE
"E ovvio che il percorso non può essere lineare, né l'obiettivo chiaro quando ci si
lascia orientare dall'orecchio: l'organo più provato dai rumori del nostro tempo,
una volta lasciato libero, sceglie a suo gusto senza chiedersi il perché".
(R. Dalmonte, Parole di musica e poesia, in Phonè semantikè.)
R. Dalmonte si fa, in luogo mio, l'autorevole portavoce del disagio che si prova nell'accingersi a questa
ricerca e nel realizzare la presenza di una povertà di studi specifici sulla vocalità, sede del realizzarsi
dell'incontro tra Musica e Parola.
"Chi ha tentato davvero di penetrare nel labirinto dei rapporti tra suono e senso,
ovvero fra musica e linguaggio verbale? Non ci si lasci ingannare da titolo
come Testo e musica, La musica e il linguaggio, Poesia e musica, e da
innumerevoli altre analoghe declinazioni dei due campi artistico-concettuali.
Questi libri contengono sempre altro rispetto a quello che promettono. Il più
della volte si tratta della storia dei "generi" cui musica e poesia hanno dato vita:
storia del madrigale, del melodramma, della canzone, del lied, eccetera eccetera.
In qualche caso si avverte una tensione verso il mistero di quei rapporti, che si
traduce nell'impegno a chiedere alla musica la chiave dei suoi sensi e quindi la
base delle sue affinità con la poesia ... Il pensiero logico si arrende a fatica a
constatare che un prodotto dell'uomo non riesce ad essere spiegato al suo stesso
produttore, e sempre di nuovo ritenta. ... Si tratta di gettare uno sguardo nella
stanza da un piccolissimo pertugio."
Definire il senso dello stile vocale, come esito del rapporto tra musica e parola, luogo di incontro,
momento attualizzante-vitale, partendo dal presupposto che la voce detiene un proprio potere di senso
ed è essa stessa metafora e forma simbolica dell'Essere, costituisce l'arduo obiettivo di questo studio.
Il termine "rapporto" nel suo uso idiomatico denota qualcosa di diretto e attivo, di dinamico ed
energetico. "Fissa l'attenzione sul modo in cui le cose confluiscono l'una nell'altra, sui loro contrasti e le
loro unioni, sul modo in cui esse si appagano e si deludono, si promuovono e si ritardano, si eccitano e si
inibiscono scambievolmente"
. I rapporti sono modi di interazione, dialettiche sempre latenti. Si tratta di
oggetti e sensi in movimento: la materia presa dalla natura discutibilmente amorfa e priva di senso; il
linguaggio come sistema codificato di riferimento e il personale uso che trova nella trasgressione la
rivelazione e il nuovo; il diabolico e ambiguo gioco metaforico di ogni esprimersi umano che vorrebbe
essere specchio fedele ma che allontana l'oggetto dando solo l'illusione di un possesso.
Vi è un luogo squisitamente umano, in cui le dinamiche di un rapporto che sembra sfuggire ad una
spiegazione indiscutibilmente univoca, si realizzano, cioè si attualizzano rivelando le energie potenziali e
della parola e della musica: la voce.
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La parola è suono pronunciato che nella scrittura trova un modo cadaverico di vincere il tempo, ma che
riprende vita nella voce umana. La parola non si riduce ad un senso che difficilmente si può astrarre dalla
sua pronuncia. La parola è sempre parola intonata. La parola è sempre parola nella musica. La musica
ospita e accoglie una espressione della propria natura dialogando dialetticamente con le sue modalità
semantiche in uno strumento (la voce) che arricchisce ulteriormente il gioco dei sensi perché esso stesso
sede di senso.
Il testo, la voce, la musica s'incontrano dialetticamente sul territorio del linguaggio inteso come sistema
codificato e sono tanto più significativi quanto più creano uno "scarto" nei confronti di questo.
Nelle pagine introduttive si cercherà di dare una definizione di linguaggio e di vedere quali sono le
problematiche coinvolte nell'interazione fra Musica e Parola; in tale rapporto si darà una collocazione
alla vocalità e successivamente si passeranno in rassegna alcune espressioni vocali particolarmente
significative. Alla luce di queste premesse, verranno analizzate alcune opere delle avanguardie musicali
nel tentativo di mostrare il rapporto musica - testo - esito vocale.
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LE PROBLEMATICHE DEL RAPPORTO PAROLA-MUSICA
" Formulo, esteticamente a mio rischio, questa conclusione: che la Musica e le
Lettere sono il volto alterno ora proteso verso l'oscuro, ora scintillante con ogni
certezza, di un fenomeno, il solo, L'Idea, cosí lo chiamavo. Uno dei modi piega
verso l'altro e scomparendovi, ne riemerge arricchito: due volte, si raffina,
facendo oscillare un genere intero".
(Mallarmé, citato da P. Boulez,
in Punti di riferimento).
La scelta della Sfinge
Nel mare magnum delle riflessioni secolari sul linguaggio, due sono gli orientamenti che si possono
riscontrare. La loro co-esistenza è indice del di-lemma e dell'aporia ineliminabile che sta alla base del
processo di significazione.
1) Edipo: cioè la possibilità di una conoscenza come codificazione
( dal "paradosso" di Saussure che
tenta di definire il "segno" come unione di significato e significante pur avvertendone l'estrema
insufficienza
, fino agli studi di semiotica e semiologia di un Eco che riconduce il segno a formule
matematiche in un'evidenza che vuole porsi come incontestabile);
2) Sfinge: cioè l'affermazione "enigmatica" e negativa di un significante che si avvicina al suo oggetto
tenendolo indefinitamente a distanza; affermazione di una "barriera resistente alla significazione", di una
"dislocazione" interna alla stessa struttura del significare; consapevolezza dell'impossibilità per il segno di
prodursi nella pienezza della presenza e quindi la proprietà del segno di svelare nel momento in cui si
mostra, la propria lontananza, la connaturata scissione, l'eterno processo metaforico di qualcosa che
indica senza possedere, l'incanto di un'immagine riflessa nello specchio e trattenuta vivente in assenza
dell'oggetto che riflette
.
Si tratta ora di prendere una posizione, di operare la scelta che condizionerà metodi e conclusioni di
questo studio, di indossare le lenti attraverso le quali si guarderà il problema. Edipo o la Sfinge? La
chiarezza di una codificazione che "divide le acque dalle terre", o il potere dell'"enigmatico" che tenta di
spiegare qualcosa sapendo della sua inaccessibilità?
"Che cos'è dunque la verità? Una moltitudine in movimento di metafore, di
antropomorfismi, in breve: una somma di relazioni umane che sono state
poeticamente elevate, trasposte, ornate e che, dopo un lungo uso, sembrano a
un popolo ferme, canoniche e vincolanti... Mentre ogni metafora dell'intuizione è
individuale
e
senza
pari
e,
per
questo,
sa
sempre
sfuggire
a
ogni
determinazione, il grande edificio dei concetti mostra la rigida regolarità di un
colombario romano e esala nella logica la severità e la freddezza che sono propri
della matematica. Chi sarà impregnato di questa freddezza, crederà difficilmente
che il concetto, osseo e ottagonale come un dado e, come questo, inamovibile,
non è invece altro che il residuo di una metafora... Solo attraverso l'oblio di
questo mondo primitivo delle metafore, solo attraverso l'irrigidimento e la
cristallizzazione di ciò che era in origine una massa di immagini sorgenti, in un
fiotto ardente, dalla capacità primordiale della fantasia umana, solo attraverso la
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credenza invincibile che questo sole, questa finestra, questa tavola sia una verità
in sé, in breve, solo perché l'uomo si dimentica in quanto soggetto e, in
particolare, in quanto soggetto della creazione artistica, egli può vivere un po'; di
riposo e di sicurezza..."
.
"Il residuo di una metafora", ecco il punto di partenza per la definizione di linguaggio che si cercherà
di dare in questa sede, consapevoli dell'illusionarietà di posizioni che seppur estremamente rigorose nelle
metodologie, hanno la presunzione di costringere alla scientificità matematica verità che vogliono
sfuggire.
Per una definizione di linguaggio: l'aspetto materico
Il linguaggio è, alla prima evidenza e innegabilmente, "materia". Prima di essere "significante", (usando
il termine caro a Soussure), o "espressione", (per dirla invece come Eco seguace di Hjemslev), il
linguaggio è nel caso specifico, concretezza sonora.
Emerge subito quindi una prima analogia tra i linguaggi in questione: il linguaggio-Parola (L. P.) e il
linguaggio-Musica (L. M.) si costituiscono di suoni.
" Il suono (è) l'elemento più sottile e più duttile del concreto"
.
Il suono è l'unità "atomica" per il formarsi e l'articolarsi del linguaggio, punto di partenza fisico e
sensibile; un'unità che non è unica e necessariamente pura e che per le sue intrinseche proprietà
(altezza, intensità, timbro e durata) già mette di fronte la necessità/possibilità di una serie di selezioni e
combinazioni, già comporta cioè quella "resistenza"
della materia necessaria affinché l'intelligenza
umana si dispieghi in un lavoro produttivo e creativo.
I suoni, che come è stato detto sono unità complesse, vengono dall'operare umano, organizzati.
Una prima definizione di linguaggio a livello "immanente"
potrebbe dunque essere quella di materia
organizzata, quindi un materiale strutturato in un sistema in cui vigono leggi e norme vincolanti. Il
sistema rende necessaria la conoscenza di una "tecnica" come "insieme di valori saputi"
per una sua
comprensione e una sua utilizzazione e rende lecito e possibile un'analisi formale.
"Organizzare i suoni" significherà operare delle scelte di relazione e cioè stabilire un ordine, stabilire
gerarchie, stabilire meccanismi di funzionamento, strutture sintattiche, grammatica e lessico.
A questo punto il problema in questione del rapporto tre L. P. e L. M., comincia a prendere forma e a farsi
complesso: se il fatto di essere costituiti della medesima materia permette una fusione perfetta di suoni
con i suoni, la differenza, o meglio la similarità (ma non uguaglianza) dei sistemi di organizzazione e
funzionamento pone delle difficoltà.
Si parla di accento, frase, ritmo, metro, grammatica e sintassi in entrambi i campi
, ma il ritmo della
lingua ad esempio, non sempre s'incarna perfettamente in quello musicale: talora impone le proprie
accentazioni, talora si deve adattare a un procedere musicale stabilito. Quale linguaggio deve avere
priorità imponendo la propria dinamica?
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Le difficoltà aumentano quando si consideri l'aspetto semantico, cioè le diverse modalità in cui la materia
sonora si carica di significati.
Per una definizione di linguaggio: il linguaggio come forma simbolica
Il linguaggio non è solo materia organizzata in sistema, ma coinvolge anche il processo di significazione.
Il linguaggio comporta sempre organizzazione, intesa come necessaria conseguenza della presenza
umana agente sulla materia, forma, come necessità di un mezzo con cui e in cui tradurre tramite un
lavoro attivo e dinamico l'espressione, intesa sia come impulso, atto liberatorio cosciente
, sia come
contenuto recepibile.
Il linguaggio è sempre organizzato, formale, ed espressivo.
Si può definire il linguaggio come una forma simbolica, cioè un'attività di libertà mediante la quale si
rappresenta obiettivamente in una forma la forma mentis, ossia il meccanismo di funzionamento e i
contenuti della coscienza e dell'inconscio personale e collettivo.
L'affermazione fatta vuole chiarimenti.
Il linguaggio è "un'attività di libertà". Questa espressione intende mettere in luce la realtà di linguaggio
come operazione di volontà e creatività umana e quindi espressione della sua libertà. Il linguaggio esiste
in quanto esiste l'uomo agente, esiste come attività squisitamente umana, come affermazione dell'uomo
del suo desiderio di esprimersi, conoscersi, relazionarsi con gli altri e con il reale.
"Mediante la quale". Il linguaggio è strumento, medium tra sé e sé, tra sé e gli altri, tra sé e il mondo.
Intermediario
tra
dimensione
interiore,
spirituale
e
realtà
esterna;
mezzo
di
conoscenza;
di
comunicazione; ma anche strumento di diletto personale, di godimento. Tramite e anche fine di bisogni
umani, mediante cui e in cui si concretizza l'essere uomo.
" forma mentis e contenuti della coscienza e dell'inconscio personale e collettivo": si tratta della struttura
mentis, cioè delle modalità di funzionamento della psiche, delle modalità di percezione, ricezione,
memoria, ed emotività, e del mondo dei significati, di quello che viene variamente definito come idee,
concetti, "immagini", pensieri, sapere conscio e sapere rimosso o cancellato (la definizione di inconscio
secondo Freud), sapere umano universale ereditato ma non sempre consapevole (la definizione di
inconscio collettivo secondo Jung). Tali contenuti necessariamente (nel senso che la nostra mente non
può non, e non conosce altro modo di) si obiettivano tramite un processo di ra-ppresentazione, tramite
cioè un processo che rende presente l'assente in una forma.
Il linguaggio è un procedimento di tra-duzione, nel senso etimologico di "ducere trans", da una forma
all'altra, dalla forma mentis coi suoi contenuti (l'assente, intangibile, invisibile) ad una forma esteriore e
concreta a cui rimane strettamente legata. Un processo di tras-formazione in cui "la cosa" cambia forma
pur rimanendo e rappresentando sempre se stessa.
Il linguaggio non solo è specchio
, è "specchio-de-formante", rimanda l'immagine sotto altra forma.
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Il linguaggio è "metafora" delle "strutture mentali"
, cioè dei contenuti e delle modalità di
funzionamento della mens.
Forma, metafora e simbolo.
Il mondo dei significati che si considera come contenuto della psiche nella sua duplicità di Luce e Ombra,
di coscienza (cioè sapere acquisito e consapevole) e inconscio (cioè presenza di saperi, complessi e
archetipi
, che agisce senza consapevolezza), esiste come semplice funzione, operante prima che venga
posta la forma rappresentante.
La Forma è un'unità chiusa, complessa, e sensibile nella quale e con la quale necessariamente si presenta
a noi il mondo dei significati. Come sostiene E. Cassirer
quindi, cessa di contrapporsi mundus sensibilis
e mundus intelligibilis, (e quindi non ha più senso una "netta" separazione tra significato e significante,
contenuto ed espressione) perché i significati non possono presentarsi alla nostra coscienza se non in
forma sensibile
. Nulla ha significato al di fuori delle forme che rappresentano il significato stesso
. Il
segno costituisce il mezzo per l'espressione di un senso che non può trovarsi al di fuori del segno stesso.
Questo che appare un paradosso dimostra la complessità del linguaggio che non si risolve nella semplice
relazione significato/significante, S/s. Come dice Agamben, occorre porre l'attenzione sulla "barriera /",
consapevoli delle ancora misteriose "stonature" implicite al processo di significazione. Una di queste è
"l'equivocità"
, per cui ad uno stesso linguaggio possono corrispondere diverse realtà, cosí come a una
stessa realtà possono corrispondere diversi linguaggi
. Per indicare lo stesso oggetto esistono diversi
segni, tutti ugualmente veri, e tutti ugualmente distanti dall'oggetto stesso, che ha subíto il passaggio di
tras-formazione da oggetto o fenomeno concreto alla dimensione del segno del linguaggio, con
conseguente perdita e acquisto di sensi-connotanti. Questo stato di perdita-acquisto che si verifica nel
processo tras-formante è quello che avviene nella metafora. La metafora è una figura in cui si indica un
oggetto non con il termine che gli è proprio (il significato "denotante", cioè il primo dato nei vocabolari),
ma con un'espressione che lo evoca secondo principi analogici. Posso ad esempio indicare l'oggetto
"capigliatura" come "crine fluente" oppure come "fili dorati". In entrambi i casi si realizza una perdita di
denotazione in quanto manca la precisione offerta dal termine che sarebbe proprio dell'oggetto; ma
l'oggetto stesso si carica di connotati: nel primo caso, "crine fluente", il termine "crine" porta con sé
l'immagine della criniera, quindi del cavallo, di qualcosa di selvaggio, di libero, che si dispiega nel vento,
concetto rafforzato dall'aggettivo "fluente", che scivola tra le dita, acquoso, quindi ondulato come il mare,
ecc...; nel secondo caso, si mette in evidenza della capigliatura, l'aspetto filiforme, di sottigliezza
estrema, del particolare della singolarità dei capelli, unito alla proprietà del colore, in questo caso non
solo biondo ma anche lucente, proprio come l'oro.
I contesti richiamati dalle parole coinvolte si arricchiscono reciprocamente.
La metafora rappresenta l'oggetto fissando l'attenzione su alcune proprietà dell'oggetto stesso. Al
medesimo modo, le varietà di linguaggi selezionano una serie di proprietà dell'oggetto, a seconda degli
stimoli percepiti che variano da cultura a cultura, da uomo a uomo, ma che possono esistere anche come
forme universali (questione citata in note come degli "universalia") , riflettendo nel segno le "marche
semantiche"
selezionate perché sentite come espressive e significative.
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"Non esistono tante realtà quante sono le lingue: la realtà biologica è una sola,
ma vi è un ampio margine di fluttuazione nei modi in cui la guardiamo: ...il
pensiero stabilisce connessioni, metafore che ci consentono di conoscere
qualcosa di nuovo in quanto simile a qualcosa di già noto. Ma tutto ciò non
sarebbe possibile se la lingua (il linguaggio) stesso non possedesse la metafora
in forma di costruzione lessicale... "
Il segno può però anche allontanarsi dall'oggetto indicato cosí da divenire simbolo, forma in cui i tratti
analogici possono celarsi o non riscontrarsi.
Nella teoria vichiana riguardo alla nascita e allo sviluppo del linguaggio espressa nella Scienza Nuova,
questo è un processo evolutivo e di allontanamento dall'oggetto. Ma il simbolo, a partire soprattutto dalla
fine dell'Ottocento e in ambito decadente, vuole affermarsi come quella forma che proprio perché allude e
non indica, proprio perché si allontana da contaminazioni ctonie e assume connotazioni polisemiche,
permette di raggiungere il vero e primordiale senso delle cose che si è perduto per un uso e abuso
quotidiano del linguaggio. In questa prospettiva, il L. M. diviene per eccellenza il segno simbolico ed
evocatore
, perché libero dai denotanti che caratterizzano il L. P., strumento della quotidiana esistenza
e del pensiero cosciente.
La musica è quindi un linguaggio, in quanto materia organizzata in sistema significativo e in quanto
forma
simbolica,
anche
se
si
caratterizza
per
una
semanticità
indeterminata
"indeterminatezza che non equivale a non significatività ma ad una plurivalenza"
e
intraducibile,
.
La parola, considerando la dimensione semantica, può costituire un condizionamento alla produzione
musicale; può venire in aiuto conferendole una senso preciso; può sposarsi perfettamente recuperando la
propria dimensione evocatrice-magica-incantatoria; può essere trattata come mero materiale fonico,
come qualsiasi prodotto di strumento musicale.
Il rapporto conflittuale Musica-Parola non è solo a livello di materiali sensibili dai meccanismi affini, ma
anche a livello di segni significanti, di forme rappresentanti, cioè attualizzanti, in modalità e forme
diverse, lo spirito umano.
Linguaggio e arte
La questione di "cos'è l'arte" è ancor più complessa della definizione di linguaggio. Sicuramente tenendo
presente ciò che è stato detto precedentemente è possibile affermare che l'arte è un linguaggio. Sono
presenti nell'arte tutti gli elementi che determinano un linguaggio: materia, lavoro umano su di essa,
principio di organizzazione, espressività e forma simbolica. Anche l'arte è frutto della libera attività
umana e specchio de-formante della mens. Anche l'arte trova nella Forma il mezzo e il senso, tanto che
non è possibile sottrarre alcunché da una poesia o da un quadro senza che anche il senso dell'opera si
modifichi.
Viceversa però il linguaggio diviene artistico nel momento in cui gli si attribuisce tale valore. L'arte è
quindi un linguaggio con valore artistico. Apparentemente tautologico.
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L'artistico è un Valore, variabile e relativo. L'arte è la Dimensione in cui il soggetto o la cultura colloca
l'opus, cosa o accadimento prodotto, in base a principi vari che possono essere il contemplativo, il bello,
la maestria tecnica, l'espressione di sentimenti, l'elevazione spirituale, la comunicazione di verità
trascendenti, e cosí via. Come dice Molino riferendosi alla musica, "il musicale è il sonoro costruito e
riconosciuto da una cultura"
.
Implicato in una definizione di arte è il discorso sull'Opera d'arte. Se si parla di "Opera d'arte" e non di
"opera di linguaggio", è perché il linguaggio, forma strutturata e significante che si riferisce ad un sistema
solo virtualmente assoluto perché dal carattere dinamico e storicamente metamorfico
, diviene lo
strumento per la creazione irripetibile di un'unità-testo riconosciuta validamente artistica dal soggetto e/o
dalla comunità.
Si deve a questo punto fissare l'attenzione sull'elemento dell'"irrepetibilità" per arrivare alla definizione di
Opera nel senso etimologico di Opera =plurale di opus =le opere. L'Opera è quella nell'intenzione
dell'artista, è quella a livello immanente, è quella percepita.
Come sostiene Nattiez
seguendo fedelmente la tripartizione di Molino, l'opera è costituita non solo dal
testo o dalle strutture, ma anche dai processi compositivi (momento poietico) e dagli atti percettivi e
interpretativi che determina (momento estesico). Ne consegue che l'opera ha carattere molteplice
e
comporta una dinamica attiva sia da parte dell'autore sia da parte della ricezione, trovando nel caso della
comunicazione, intesa come invio di messaggio e codifica, un caso particolare ed eccezionale
. Questo
vuol dire che una volta uscita dalle mani del suo autore, come i personaggi pirandelliani l'opera ha vita
propria ed è sempre comunicativa e interpretabile anche al di fuori delle intenzioni del creatore con le
quali sole l'opera non può coincidere.
"L'opera d'arte... è una forma, e cioè un movimento concluso, che è come dire
un infinito raccolto in una definitezza; la sua totalità risulta da una conclusione, e
quindi esige di essere considerata non come la chiusura di una realtà statica e
immobile, ma come l'apertura di un infinito che si è fatto intero raccogliendosi in
una forma. L'opera perciò ha infiniti aspetti, che non ne sono soltanto "parti" o
frammenti, perché ciascuno di essi contiene l'opera tutt'intera, e la rivela in una
particolare prospettiva... Gli infiniti punti di vista degli interpreti e degli infiniti
aspetti dell'opera si rispondono e si incontrano e si chiariscono a vicenda, sí che
un determinato punto di vista riesce a rivelare l'opera intera solo se la coglie in
quel determinatissimo aspetto, e un aspetto particolare dell'opera, che la sveli
intera sotto una nuova luce, deve attendere il punto di vista capace di captarlo e
prospettarlo"
.
Riassumendo
Il linguaggio è una libera creazione umana che traduce, con un processo metaforico e in parte ancora
enigmatico, in una forma necessariamente sensibile, le strutture e i meccanismi della psiche e i suoi
contenuti, consci e inconsci. Il linguaggio è quindi sempre forma sensibile ed espressiva.
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Il linguaggio esiste virtualmente come materiale sistematizzato e regolarizzato a disposizione di una
comunità ma si realizza nell'uso soggettivo. Il linguaggio diviene artistico quando l'opus creata mediante
lo stesso viene riconosciuta come artistica dal soggetto e/o dalla cultura.
Il L. P. e il L. M. interagiscono a livello materico, a livello di sistemi organizzati, a livello semantico. A
livello materico entrambi i linguaggi si costituiscono di suoni; a livello di sistemi, possiedono meccanismi
affini ma non coincidenti; a livello semantico il L. P. per lo più denota, il L. M. connota ed evoca.
Il L. P. e il L. M. però incontrandosi danno vita ad un nuovo linguaggio, ad una forma simbolica che ha
caratteri peculiari, musicali e linguistici, denotanti e polisemici allo stesso tempo.
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LA VOCALITA NEL RAPPORTO MUSICA-PAROLA
LA VOCE COME "INTERPRETE"
" La musica,..., si accompagna il più delle volte alla parola, per una serie di
motivi alquanto divergenti, la meno importante delle quali non è il ruolo
preponderante del fenomeno vocale."
(P. Boulez, Punti di riferimento, p.147)
P. Zumthor nella prefazione a Flatus Vocis: metafisica e antropologia della voce, di C. Bologna, opera una
distinzione tra "oralità", funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio (qui inteso come
lingua); e "vocalità", l'insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal
linguaggio.
La voce è una forza archetipica nell'inconscio umano: è un'immagine primordiale e dotata di un potente
dinamismo creatore. "Energia e configurazione di tratti che predeterminano, attivano e strutturano in
ciascuno di noi le esperienze primarie, i sentimenti, i pensieri". Luogo di articolazione delle parole e delle
frasi, la voce ne travalica, con tutta la sua potenza esistenziale, la materialità e il significato.
La voce è quindi essa stessa una forma simbolica espressiva anche in assenza di articolazioni fonetiche
significative. Rappresentazione, Ri-Presentazione, che forma nel corso dei secoli un'eredità culturale
trasmessa col, nel, dal linguaggio e gli altri codici che il gruppo umano elabora.
La voce è materia non ancora organizzata, significante puro e libero che sgorga alludendo e accennando
senza dire. "La voce si dice nel momento in cui dice": è pura esigenza. Il grido inarticolato, il gemito
puro, il vocalizzo senza parole, il grido di guerra ...sono esplosioni dell'essere che si identifica con la
propria voce: la voce è "voler dire e volontà di esistere"
.
Una distinzione tra lingua = nominazione = memoria e coscienza come presenza a sé, e vocalità pura è
quindi un'astrazione, in quanto la potenza mitica, archetipica, magica della voce è sempre latente anche
durante l'"oralità". Ed è soprattutto nelle composizioni poetiche e canore che questa potenzialità emerge
e la voce recuperando una primordiale sonorità riporta alla luce miti e archetipi ad essa legati.
La voce costituisce un sostrato ineliminabile che non ha luogo proprio: il testo linguistico non la esaurisce
e non determina la sua origine.
"La voce canta "sotto" il testo"
oratoria e nel verso recitato"
. "C'è un canto oscuro nascosto nella parola
.
"La voce accade sempre accanto al linguaggio, insieme al linguaggio, nonostante
il linguaggio"
.
"Il linguaggio è impensabile senza la voce"
.
La voce è flatus, respiro, soffio vitale, spirito, testimonianza di una presenza, la propria presenza e vita,
perché la nostra voce "si sente", è il "dentro" fuori di noi, "chiave psicologica della conoscenza
dell'interiorità".
La voce è medium, ci permette di relazionarci con gli altri facendo sentire i nostri bisogni; ci relaziona
con il reale aprendoci la via alla conoscenza (si pensi alla sacra primordiale nominazione di Adamo
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nell'Eden); ci relaziona con noi stessi: è strettamente legata al nostro corpo, abita nel silenzio del nostro
corpo, da cui è generata e morfologicamente caratterizzata, e a cui ritorna come eco.
Quindi è affermazione dell'identità dell'individuo; ci mette in comunione con l'Assoluto perché vibrazione
ed energia che circola dentro e fuori di noi (si pensi ai suoni prodotti nelle pratiche di meditazione)...
"La voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è
risonanza infinita, che fa cantare ogni sorta di materia, come attestano le tante
leggende sulle piante e sulle pietre incantate che, un giorno, furono docili"
.
La voce seduce, incute paura, sfoga il dolore, ...la voce esprime e coincide con l'Essere e in particolare
con l'essere uomo.
La presenza di miti, archetipi, nonché l'esistenza di fonosimbolismi vocali (che spesso costituiscono una
conseguenza dei primi), sono elementi che non devono essere trascurati nel rapporto Musica _Parola,
anzi sono operanti e talora condizionanti le scelte artistiche, sia poetiche che musicali.
La lingua non vede significazione solo a livello lessicale o proposizionale
, ma porta inevitabilmente con
sé tutta una serie di significati legati alla vocalità, che agiscono a livello microscopico dei fonemi (fattori
fonosimbolici) a quello macroscopico della frase (fattori soprasegmentali o paralinguistici), a livello
fonico-timbrico (fattori antropologici legati alla voce) . Questa significazione complessa lungi dal costituire
un ostacolo all'interazione con la musica costituisce il punto di incontro con la dinamica semantica
propria della musica.
"La significanza è per sua natura indicibile. Non si può dire razionalmente, se
non per metafore e illuminazioni parziali. L'inspiegabilità è l'essenza della libertà,
la licenza impellente dell'immaginazione e del pensiero. La letteratura, l'arte e la
musica sono il compattamento voluto di questa libertà. La loro apertura alla
comprensione o al malinteso, all'accoglienza o al rifiuto, la loro inesauribilità,
sono i migliori accessi all'alterità, alla libertà, vivificante e abissale, della vita
stessa."
Per F. Frasnedi
la voce viva e corporea, si misura con la polisemia e l'infinità della significanza
traducendo valori di significanza nel suo universo tattile e sonoro. La voce è "l'orizzonte nel quale
l'infinitezza del senso incontra l'indicibilità della significanza". La voce limita l'infinitezza dell'orizzonte e la
rende percepibile; pone un limite rivelatore. Ridà corpo al testo riportandolo alla sua origine
squisitamente sonora e musicale. La corporeità della voce conduce l'ascoltatore su vie del senso nascoste
rivelandole.
La forza archetipica e l'eredità culturale della voce reagisce incontrando la polisemia della musica e il
senso della scrittura, incanalando l'infinità della significanza, rendendo sensibile il senso.
La voce è un interprete: attualizza e restringe privilegiando certi significati su altri.
La voce media la soggettività della personalità di cui è espressione e l'oggettività del codice.
La voce è un linguaggio, è un interprete, ed è la voce dell'interprete.
"Insomma su un fondo comune ed umano, in quanto siamo tutti forniti di un
apparato atto alla fonazione e portati ad usarlo per comunicare, si innesta una
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mimica vocale imposta dalla società e insieme trova modo di manifestarsi
l'individuo con la particolarità della sua voce, espressione del suo corpo e della
sua psiche. La voce è in parte uguale a tutti gli altri, in parte uguale ad alcuni
altri, in parte uguale a nessun altro"
.
La vocalità costituisce quindi in un'opera musicale vocale, una vera e propria scelta artistica,
condizionante l'esito formale, i giochi di sensi e la ricezione.
La prospettiva di questo studio, in definitiva, conferisce il primato nel rapporto Musica-Parola, non al
testo, non alle scelte musicali, ma all'esecuzione vocale, alla performance di una voce che dice-cantainterpreta.
Di seguito saranno illustrati quelli che sono gli aspetti principali che caratterizzano la vocalità, allo scopo
di offrire oggetti di riflessione e strumenti per una delle possibili analisi del problema parola-musica, con
l'avvertenza al lettore della giovinezza
degli studi scientifici sull'argomento e insieme l'ammissione di
una possibile generalità.
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LO STILE VOCALE: parametri per un'analisi
La definizione di stile vocale viene data dallo studioso I. Fonagy nel suo trattato di psicofonetica
.
Lo stile vocale è una modalità, una serie di possibilità, un modo particolare di pronunciare; una scelta
prettamente vocale, fra le possibili, che comporta messaggi più o meno involontari. Esso è dunque uno
dei modi possibili dell'espressione che profitta dei meccanismi propri del linguaggio e di ogni sistema
semiotico per quanto riguarda il rapporto significato-significante, i quali come visto, si occultano e si
svelano a vicenda.
Il principio fondamentale per indagare i sensi dello stile vocale (in aggiunta ad un'analisi formaleacustica) il cui problema di fondo è il fatto di non sembrare concreto e tangibile
, è quello
dell'isomorfismo;
"Quando si vuole nominare una realtà invisibile bisogna ubbidire alle leggi
dell'analogia."
Per descrivere la voce...
"occorre spesso riferirsi a ciò che cade sotto l'attenzione di sensi diversi
dall'udito: di una voce si può dire che è scura, calda, dolce, e cosí via."
...cioè considerare la voce come una forma metaforica nell'accezione precedentemente esposta di traduzione del mondo dei significati in nuove forme-vesti, mediante la scelta di marche analogiche.
" Per questo la voce è essenzialmente una metafora, di cui tutto può
"esternamente" essere detto (tono, timbro, frequenza, altezza, vivacità, colore,
profondità, registro, ampiezza, livello ecc.), mentre nulla può venir descritto
pienamente circa la sua "sostanza interna", che è quella del flusso, del brivido,
del sospiro."
La voce è metafora sonora del "vento interiore", o anima, principio dell'Essere; sinonimo di psiche "nel
senso originario di respiro e insieme di anima, spirito pensante"
de la vie intériorieure"
; "sa function première est l'expression
e nulla può dirsi dell'anatomia dell'interiorità direttamente,
"giacché la voce può udirsi solo come voce, e la voce può pronunciarsi solo
attraverso le parole, che occultano la sonorità originaia dietro il corpo ombroso
del significato"
Quindi la voce apre vie metaforiche
per la comprensione dell'uomo e dell'Essere riecheggiando, cioè
ospitando solo come eco, sonorità ancestrali.
Da un lato (aspetto antropologico) deve esistere una "griglia referenziale", cosí come esiste un reticolo di
rapporti fra il tono, il timbro, il registro della voce ed i sentimenti, le emozioni, che generano le parole.
La voce denuncia la verità dell'anima, "lascia spirare il cuore messo a nudo". Sono parole di C. Bologna,
che, come I. Fonagy e recenti studi di L. Anolli e R. Ciceri
, propone una scienza della vocalità che apra
la strada alla comprensione dell'uomo attraverso la sua espressione vocale
18
.
Il legame voce-personalità-messaggio veritiero, viene evidenziato anche nell'opera di G. Giuliani: la voce
"è giudicata più degna di fiducia rispetto al discorso intenzionale ritenuto più suscettibile di controllo"
.
Anche Zumthor dice che " più ancora che dallo sguardo o dall'espressione del viso, possiamo essere
traditi dalla voce"
.
Dall'altro, (aspetto metafisico) il potere d'eco della voce porta con sé forze archetipiche che riportano
l'uomo alla intuizione della sua origine, ma anche trascendenti l'umanità stessa, capaci di condurre
l'uomo in contatto con realtà metafisiche
.
Ma vi è anche un aspetto storico-sociale che deve essere tenuto presente e che giustifica quella che J.
Potter
definisce "vocal authority", l'egemonia di uno stile vocale sopra un altro.
La vocalità è condizionata ed è riflesso, dalla particolare struttura sociale e culturale di un popolo in un
dato momento storico: è il motivo del successo di uno stile piuttosto che un altro, della sua popolarità o
viceversa del suo carattere elitario, del suo potere conservatore o eversivo, insomma, del suo peso
ideologico. Lo stile vocale è una norma e uno scarto dalla norma.
Per poter operare un'analisi dello stile vocale, è necessario fissare criteri di differenziazione formali e
definirne la portata semantica.
Si intendono offrire al lettore strumenti e prospettive di definizioni al fine di una miglior comprensione
delle analisi successive.
Le marche proprie della voce sono:
- La presenza e la moltiplicazione delle pause
- La distribuzione e la qualità degli accenti
- Il tempo
- Le dinamiche
- Il timbro
- L'intonazione
- L'articolazione dei suoni e dei fonemi
- Elementi vocali non linguistici
Questi
caratteri
combinandosi
in
modi
diversi
danno
quindi
vita
a
stili
vocali
differenti.
Il respiro e la pausa
Per vivere è inevitabile respirare. La respirazione è l'atto vitale per eccellenza. Scomponibile in
inspirazione ed espirazione, la respirazione insieme con il battito cardiaco, segnano il ritmo costante della
nostra esistenza e costituiscono l'insieme di quelle attività necessarie-vitali che agiscono al di sotto di una
volontà cosciente continuamente in atto.
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Inspirare ed espirare. Due movimenti dunque naturali, biologici e scontati, non pensati nella vita
quotidiana, mantenuti al minimo dello sforzo e della capacità; scopo della respirazione è portare ai
polmoni l'aria che ricarica i globuli rossi di ossigeno e liberare gli stessi dal gas carbonio. Questo processo
quindi assicura un apporto nutritivo e purificante.
"L'aria che respiriamo è anche il primo nutrimento, la prima energia che
preleviamo
al
nostro
biotopo;
un'inspirazione
l'approvvigionamento di base in energia vitale"
atrofizzata
compromette
.
S'impone la necessità di un'inspirazione piena e profonda come rinascita ad ogni istante di un essere
sereno, padrone di sé e generoso. Lo yoga afferma che l'espirazione è generosità. L'espirazione, il
momento del buttare fuori, è un donarsi.
La voce risiede e viaggia sul fiato che è in uscita. La voce è un uscire all'esterno e il canto, che della voce
esprime le possibili libertà, è piena generosità.
Il respiro è dunque una necessità biologica-vitale che può essere condotta con l'esercizio sotto controllo e
quindi divenire attività cosciente, e la conditio sine qua non, della generosità della voce.
Ma il respiro nel momento dell'inspirazione e in quel vertice cruciale che è quasi apnea prima della
discesa espirante, è luogo di silenzio.
Il silenzio è altra conditio che l'espressione vocale porta con sé. Ma come il respiro, seppur inevitabile, il
momento di silenzio può essere sottoposto a controllo, guidato coscientemente. Fonagy parla di
"strategie di silenzi"
.
La pausa oltre che rispondere ad una necessità biologica, scandisce il farsi del senso, del pensiero e del
moto emotivo, pone in rilievo ed enfatizza, esercitando il proprio potere di separazione e di sospensione.
Ne consegue che nel passaggio dal testo scritto alla voce attualizzante, entreranno in gioco strategie
retoriche interagenti con le pause sintattiche e i segni di punteggiatura, che tras-formeranno il discorso
rivelando sensi celati. Si deve però sottolineare che le strategie riguardano la presenza e la distribuzione
di pause e non la loro durata. Pause di durata differente possono avere la medesima funzione
(ad es.
pausa di attesa).
L'accento
L'accento è la sottolineatura vocale di sillabe o gruppi di sillabe, oppure di consonanti soprattutto
consonanti iniziali. L'accento articola e organizza le parole (accento lessicale). Divide la catena parlata
continua in sequenze o gruppi ritmici stabilendo una certa gerarchia semantica all'interno della frase
(accento fraseologico).
Da un'analisi fisiologica si viene a conoscenza di come le sillabe accentate siano prodotte da uno sforzo
particolare dei muscoli fonatori, delle labbra, della lingua, dei muscoli della glottide, e soprattutto da una
forte contrazione dei muscoli respiratori, intercostali interni e addominali. Il senso dell'accentazione e la
sua efficacia sono strettamente legati alla modalità articolatoria di produzione. La produzione
20
dell'elemento accentato richiede lo scoppio di una pressione
. Chi percepisce rivive secondo un principio
isomorfico, lo sforzo articolatorio della persona parlante.
La distribuzione degli accenti (che non avrebbe senso senza implicare l'alternanza con momenti di
rilassamento come il movimento binario del respiro precedentemente visto) crea movimento, ritmo,
dinamiche corporee.
L'accento enfatico in particolare serve retoricamente ad evidenziare accanto agli accenti grammaticali,
certe prominenze di senso che si richiamano, per i meccanismi fisiologici coinvolti (come l'attività
particolarmente vigorosa dei muscoli respiratori e un'iperventilazione o getto violento d'aria all'esterno),
allo stato fisico-psico-emotivo della collera e dell'uomo che si prepara al combattimento tramite una
simulazione della battaglia.
"L'accento si carica di vibrazioni significative ed emotive (lo stupore, l'esultanza,
la collera, lo slancio passionale...), emergendo sopra il tessuto delle altre
parole."
Gli accenti metrici (accento ritmico) costanti di certa poesia invece, richiamano un andamento
altalenante, ninnante, di danza; danno la sicurezza di un ritmo che ritorna sempre uguale, circolare. V.
Mathieu
sottolinea come il ritmo circolare sia un tentativo di sottrarsi al divenire e quindi alla morte, un
tentativo di rinchiudere l'infinito e avere la illusione di poter controllare quello che segue, il futuro.
La distribuzione degli accenti e la qualità dell'accentazione, più o meno marcata, costante o meno,
costituisce quindi un ulteriore indicatore d'analisi dello stile vocale.
Il tempo
Mai come nel Novecento si è messa in discussione la dimensione temporale, relativizzandola.
Con Einstein il tempo è diventato una coordinata e una variabile; con Bergson si è riflettuto su un tempo
interiore che possiede un proprio flusso e un proprio ritmo.
Esiste un tempo "naturale" dovuto all'incessante ritorno del giorno e della notte, delle stagioni, delle
maree. Esiste un tempo artificiale e convenzionato: i secondi di un orologio per esempio. Esiste un tempo
interiore: il tempo dei ricordi, il tempo delle emozioni, il tempo onirico, ...assolutamente elastici.
La modalità di misurazione della velocità dell'eloquio (come avviene ad esempio in I. Fonagy o nello
studio di L. Anolli e R. Ciceri) del parlato calcolata in funzione della durata delle pause e della velocità di
articolazione delle sillabe e al fine di dimostrare le differenze in relazione ai diversi stati psico-emotivi,
deve essere affiancato da altre considerazioni di ordine percettivo.
Affermando come indissolubile il legame tra un fenomeno sonoro e la percezione di esso, ossia l'uno
esiste solo se esiste l'altro, non si può prescindere dal considerare l'aspetto percettivo oltre a quello
fisico.
Durante il canto ad esempio la velocità d'eloquio fisicamente si dilata, e viene percepito diversamente in
situazioni diverse.
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Come esempio, sia perché chiaro, sia perché ampiamente studiato, riporto quello del melodramma. Il
melodramma si struttura in un alternarsi di arie e recitativi. Durante il recitativo, che è una sorta di
declamato, di parlato intonato, l'azione scenica procede: scorre il tempo dell'eloquio parimenti al tempo
reale dell'azione. Il momento dell'aria rappresenta invece una pausa nello sviluppo drammaturgico, ma
ospita la manifestazione di "azioni interiori", che si palesano in forme puramente musicali e non in eventi
scenici. L'aria è quindi una sospensione temporale dell'azione del dramma, ma apre le porte alla scena
dei moti interiori, conduce ad un'altra dimensione dove i tempi sono dilatati, elastici, relativi.
In linea generale, gli studi di L. Anolli e R. Ciceri hanno dimostrato che gli stati emotivi ad alto livello di
attivazione psicofisiologica (come paura, collera e gioia), presentano una durata di frase più breve e una
velocità di eloquio maggiore. Viceversa emozioni come il disprezzo o la tristezza sono caratterizzate da
velocità d'espressione più lenta. Naturalmente l'unità di confronto è "la durata della frase standard"
,
che è stata scientificamente calcolata e che costituisce il punto di riferimento in base al quale ogni scarto
sarà significativo e denotante.
Le dinamiche
Un
altro
parametro
caratteristico
dello
stile
vocale
è
l'intensità.
Percepita
come
volume,
è
fisiologicametne dovuta alla pressione ipolaringea e alla forza fonoespiatoria. Le differenze di volume
vengono descritte da G. Cardona
in termini di rapporti spaziali e di distanze.
"Per dire qualcosa di confidenziale abbassiamo la voce, anche se questo non è
sempre strettamente necessario; è un segnale per ridurre fisicamente la cerchia
degli interessati; è come se ci avvicinassimo all'interlocutore, costringendolo a
fare altrettanto ed escludendo gli altri. Alla stessa finalità risponde la qualità di
voce usata tra confessore e confessando; anche se la confessione avvenisse in
una chiesa vuota, e dunque al riparo da orecchie indiscrete, il tono sarebbe pur
sempre basso; e il confessionale tradizionale, "preconciliare", era costruito in
modo che, effettivamente assai vicini, confessando e confessore potessero
parlarsi all'orecchio. L'effetto inverso suggeriamo se alziamo la voce come se
stessimo gridando; richiameremo un interlocutore assente o spaesato usando un
tono di voce speciale, che simula l'eco di un richiamo a distanza. Poiché quel
richiamo e quella intonazione sarebbero appropriati solo se dovessimo farci
sentire da lontano, è come far capire che l'interlocutore non è lí davanti a noi,
ma altrove, su una nuvola magari, o nel mondo della luna; e da questi mondi
deve essere richiamato: "Ooh mi senti? Guarda che parlo a te!"".
Inoltre il volume della voce viene gestito dal soggetto come una possibilità di incisività negli eventi:
necessità di far sentire ed evidenziare la propria presenza; colpire l'altro col proprio tono, usando la voce
come materia per aggredire e per dare valenza alla propria persona (ad esempio in un rimprovero o in un
litigio).
Lo sforzo fisiologico per una grande intensità si richiama allo sforzo impiegato per l'esecuzione di una
maggior accentazione, che come visto prevede uno scoppio di tensione. Anche in questo caso il volume
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può aumentare dietro esplosioni di tensioni come collera, ma anche gioia: l'entusiasmo, l'esultanza non
ha mai voce sussurrata.
Il timbro
Il timbro è il colore di fondo personale e irripetibile che ogni voce reca con sé, e anche il modo
inconfondibile che ogni voce ha di pronunciare le vocali, di articolare le consonanti.
Il timbro dipende e coincide con la fonte che lo produce: il timbro è il nostro corpo, anatomicamente cosí
fatto, è la nostra persona e personalità cosí costituita. Il timbro è il parametro maggiormente con-forme
al nostro Essere e che per questo più difficilmente possiamo accomodare. Si può parlare in modo più
lento o più veloce, più o meno forte, ma non possiamo mutare la sostanza della nostra voce.
Il timbro è il segno di un'individualità che per F. Frasnedi vuol dire "creazione di un nuovo orizzonte di
significanza"
. Individualità significa prospettiva, quindi interpretazione, e cioè scelta tra i possibili
sensi: orizzonte=limite dell'infinità propria del significare. Il testo-scrittura possiede varie potenzialità
significanti; la voce che lo attualizza, lo interpreta anche solo con il proprio colore, con il proprio tessuto
.
Il timbro e il registro della voce ne costituiscono dunque il corpo, la stoffa, il colore, la presenza.
"Accanto alla "voce-di-miele" avremo allora quella "di velluto", quella "tagliente",
quella "metallica", quella "di bronzo" e cosí via. Gli antichi per i quali la mitologia
aveva anche (come Jung ha ben visto) un senso psicologico, oltre che sacrale,
affabularono con ricchezza attorno ai timbri vocali: quindi Eco ha, come la maga
seduttrice Circe, voce "divina"; Stentore (il cui nome si riallaccia alla radice del
sanscrito stanah, donde il gr. "mugghiare" detto del mare, "gemere e sospirare"
di esseri umani, ed il lat. tonare) ha voce bronzea: da Omero si dirà "stentorea"
ogni voce dal forte timbro. Voce inudibile e variata, anzi, "voci di ogni specie e in
numero illimitato" emanano le cento teste serpentiformi di Tifeo, figlio della
Terra, secondo Esiodo. Altrettanto variabile di timbro e di registro è la voce del
trickster o buffone sacro: per questo l'asino dal raglio tremante e spezzato ne
sarà il totem (e in America, il coyote)."
.
Nel timbro giacciono gli strati più intimi e profondi della corporeità vocale: a ciascun sentimento, come ha
dimostrato Fonagy, corrisponde un livello timbrico-musicale: ad esempio il timbro "chiaro" e squillante è
proprio della gioia; la voce riflette un'articolazione in avanti, la sua sonorità e la sua pienezza, e il
rilassamento dei muscoli della laringe e della faringe. Per questo motivo nell'insegnamento del canto si fa
spesso riferimento ad un atteggiamento "sorridente" per portare il suono in avanti e renderlo chiaro,
cristallino.
Il timbro vocale è relazionabile ai sentimenti, ma soprattutto alla personalità. La voce è espressione
dell'individuo e della sua personalità, nonché specchio e risultato della sua integrazione nella società e del
suo ruolo in essa.
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D. W. Addington (1968, 1970)ha stilato un elenco delle qualità della voce in relazione alla personalità
.
"Una voce aspirata (brethness) viene associata a caratteristiche di giovanilità e
femminilità. Nella voce femminile l'aspirazione viene percepita come propria di
una donna effervescente, minuta, graziosa e ipersensibile, Nella voce maschile
richiama aspetti di creatività e omosessualità. La voce esile (thinness) viene
associata nel parlato femminile a persone fisicamente, emozionalmente e
mentalmente immature, dotate tuttavia di senso dello humor e molto sensibili.
La voce piatta (flatness) è legata, per entrambi i sessi, ad attribuzioni di
mascolinità e di lentezza; viene inoltre ritenuta prerogativa di persone scostanti
e fredde. La voce nasale (nasality) è associata a pigrizia, scarsa intelligenza e
noiosità. È quindi, una qualità vocale indesiderabile. La voce tesa (tenseness)
viene percepita negli uomini come individui di anzianità, di scarsa flessibilità e di
arrendevolezza; per contro, nelle donne viene associata a giovinezza ed
emotività. La voce gutturale (throatiness) è associato allo stereotipo dell'uomo
maturo e sofisticato, curato nell'aspetto e dotato di realismo. Nelle donne,
all'opposto, viene associata a mascolinità, scarsa intelligenza e sensibilità,
rozzezza. La voce altisonante (orotundity), chiara e forte, viene considerata
propria di un uomo energico, interessante, sofisticato, creativo e orgoglioso. Ad
essa è associata la figura di un uomo espressivo, aperto e leader. Nelle donne
una voce altisonante è connessa ad una persona gregaria, anche se briosa e con
spiccato senso estetico."
Si pensi ad esempio all'utilizzazione che è stata fatta della caratterizzazione vocale nel melodramma
ottocentesco per individuare stereotipi di personaggi: voce di basso, scura, profonda, virile, tellurica per il
malvagio oppure per persona matura, come il ruolo di padre: l'autorevolezza è radicata alla terra, salda,
con radici profonde come la voce; voce tenorile per l'eroe della storia, il giovane amante; voce di
soprano, leggera, celestiale, acuta e sottile come quella di un bambino (simbolo di innocenza) per la
giovane amata; voce di mezzosoprano (o contralto) invece come segno di ruolo intermedio o maturità
.
Proprio perché il timbro è riflesso dell'individuo e della sua particolare personalità, è proprio sul timbro
che si esercita la pressione normalizzatrice e neutralizzatrice della cultura, mirata al controllo dell'eccesso
di individuale pulsione (che è insieme esistenziale ed erotico-sovversiva) sedimentato nella voce. Gli
stessi timbri "naturali" della voce umana verranno cosí per via culturale contraffatti, imitati, incanalati in
codici socialmente fruibili e trasmissibili artificialmente. All'estremo di questo discorso si trova la voce atimbrica, artificiale, sintetica, di robots e computers: una voce spersonalizzata, senza carne e senza
emozioni.
L'intonazione
Difficilmente quando l'uomo si esprime vocalmente, tiene la medesima nota, cioè la medesima altezza del
suono, per tutta l'esposizione. Anche quando parla, l'uomo in-tona la propria pronuncia, disegnando
curve melodiche, seppur minime.
24
L'interrogazione, l'affermazione, il comando, hanno curve melodiche proprie e socialmente codificate
(sospesa per l'interrogazione che attende risposta e quindi attende una conclusione; ascendente e poi
discendente, quindi dal tracciato completo e conclusivo per l'affermazione; solo discendente, gesto
incisivo e penetrante, per il comando).
Cosí come le emozioni generano intonazioni caratteristiche
.
La curva melodica della collera ad esempio, è rigida, angolare, interrotta da bruschi salti di quarta e
quinta, in corrispondenza delle sillabe accentate. Riflette una forte contrazione muscolare, una posizione
del corpo tesa, come quella di un uomo pronto a precipitarsi sull'avversario per scagliare un colpo. Gli
scarti bruschi di tono costituiscono i colpi.
La tenerezza, all'opposto, ha una melodia ondulata e corrisponde a movimenti lenti, graduali, rotondi:
l'equivalente di una carezza. Nella didattica del canto si fa spesso riferimento alla voce "carezzevole" per
indicare uno stato di rilassatezza corporea che permette la fuoriuscita di una voce dolce, capace di
volteggiare nell'aria e posarsi con estrema delicatezza e piacere all'orecchio dell'ascoltatore, dando
proprio l'impressione di una carezza. Fonagy
parla della voix caressante come di in-canto, quello stato
di ipnosi "materna", restaurazione dello stato edenico perduto che l'infante ritrova sul seno materno. La
voce carezzevole non è tale solo per il timbro dolce e suadente, ma anche per il carico di melodiosità che
possiede. La voce della tenerezza è una voce che molto si avvicina al canto.
La voce cantata si distingue da quella parlata per l'indugio sui singoli suoni e la regolarità della curva
melodica, cioè per il livello tonale relativamente costante nell'intervallo di una sillaba, che produce una
sensazione di piacevolezza. "Un ingegnere ad esempio, dovrà fare 250 volte più misure per determinare
lo spettro di una vocale parlata che per quello di una vocale cantata." La percezione di un suono
"musicale" è dunque più piacevole di quella del rumore o della voce parlata perché la sua codifica esige
molto meno sforzo.
"La voce cantante sta al principio di piacere come la voce parlata sta al principio
di realtà; voce melodiosa, voce di piacere. ... Come il percorso del parlato,
fittamente articolato di consonanti, sta al movimento articolato del camminare,
cosí il decorso fluido, facile e scorrevole, disteso e distensivo, libero da inciampi,
della voce melodiosa sta al movimento continuo del volo. Volo e sogno: desiderio
e piacere che sfugge la dura realtà, movimento al rallentatore, ampio e fluido,
potenza che non conosce ostacoli. Cantare come volare. Per questa via, la
melodia musicale si fa simbolo delle stesse delle stesse realtà profonde investite
nel volo sogno. "
.
Il fattore intonazione è quindi strettamente legato alla presenza e alla qualità della melodicità. Questa
comporta uno stato fisiologico di rilassamento e completa distensione, una facilità estrema di emissione e
articolazione del suono: fattori che divengono riflesso, causa o conseguenza, di stati psico-emotivi che
inducono piacevolezza e dis-tensione. Viceversa, un procedere asmatico, una curva melodica spezzata da
bruschi salti, o sospesa, o poco fluida, dispone il nostro corpo e la nostra mente a dinamiche tese e non
rilassate.
25
L'articolazione dei suoni e dei fonemi
La questione dell'articolazione dei suoni e dei fonemi (cioè di quei suoni significativi all'interno del
linguaggio) si collega alla questione discussa dell'origine del linguaggio. Questo perché non è ancora certo
se le parole, o suoni articolati significativi, siano frutto del caso combinatorio, di una codificazione
arbitraria, o di principi analogici secondo cui la nostra mente richiama fra di loro realtà che percepisce
affini. Lo studio riassuntivo di precedenti ricerche sull'argomento di F. Dogana
dimostra la portata
simbolica dei singoli suoni articolabili dall'uomo.
Il principio da cui parte Dogana per sostenere le sue tesi, è il principio imitativo, secondo il quale la
mente umana procederebbe, nel suo rapportarsi al reale, per analogie.
Alcuni suoni sono imitazioni dirette della natura, onomatopee (fonosimbolismo ecoico); altri rispecchiano
caratteristiche articolatorie ed evocano elementi pertinenti ad altre modalità sensoriali (fonosimbolismo
sinestesico); altri suoni evocano caratteristiche emotive e psicologiche (fonosimbolismo fisiognomico).
Il fonema /i/ ad esempio, viene associato a qualcosa di acuto, pungente, sottile e chiaro. Il suono /i/
viene articolato e risuona infatti in posizione avanzata e alta. All'opposto, il fonema /o/ viene invece
associato a qualcosa di scuro, di grave, di profondo, grosso, e tondeggiante. Il suono /m/ è pronunciato
con le labbra serrate come in un bacio o nell'atteggiamento di suzione del neonato; al suono è permesso
vibrare e risuonare a lungo; /m/ è un suono dolce come il M-iele, è il suono dell'a-M-ore, della Maternità; suggerisce unione, calore, tenerezza.
Gli esempi sarebbero diversi. Rimando allo studio citato di Dogana e al particolare delle analisi musicali
successive in questa ricerca.
Elementi vocali non linguistici
Si tratta di quell'insieme di suoni-rumori che gli organi fonatori umani sono in grado di produrre,
espressivi di stati fisico-emozionali, spesso di carattere irrazionale. Per questo motivo, per il fatto di non
essere concreto possesso di una ratio cosciente, manifestano un mondo di significati inconsci, profondi,
ancora inesplorati.
Il gemito, il pianto, il riso, il grido.
"La scaturigine della Voce è nelle profondità del corpo, proprio là dove i limiti
della voce sono velati dal pianto e fanno cenno verso il naufragio dell'indicibile.
Le nostre lacrime, ha scritto Valéry, sono l'espressione della nostra impotenza ad
esprimere, cioè a disfarci attraverso la parola dell'oppressione di quello che
siamo. Solo nell'abolirsi della parola per restituirsi al silenzio del linguaggio
sovrannaturale o al grido inarticolabile dell'animalità, la voce indica la barriera
della propria origine: esperienza di Dio, dell'Amore, del Nulla sono nel pensiero
europeo da sempre coniugate in uno stesso gesto, che individua il limite e lo
trasgredisce, pretendendo di dire l'indicibile , ossia di significare il solo
significante vuoto e puro."
.
26
Conclusioni
Sono stati elencati e spiegati in maniera sintetica, i fattori che caratterizzano lo stile vocale.
La voce, per quanto possa sembrare invisibile, impalpabile ed inafferrabile, è un corpo. Dice Lucrezio (De
rerum natura, IV, vv. 526-527)
"Corpoream quoque enim vocem constare fatendumst Et sonitum, quoniam
possunt impellere sensus."
La voce è un corpo danzante, un corpo in movimento, un corpo capace di atteggiarsi nelle diverse
situazioni. Un corpo di cui si subisce il fascino, capace di comunicare con la sua stessa presenza viva.
La vocalità è un linguaggio umano universale
.
Lo stile vocale è il particolare uso che della voce viene fatto, variando i diversi fattori in gioco (timbro,
intensità, accentazioni, ecc.).
Questi fattori non sono solo parametri fisico-acustici-articolatori, ma assumono valori simbolici. Valori che
trascendono il dato reale, seppur ad esso legato e da esso condizionato, per rendersi portatori di
significati che riguardano l'espressione, la manifestazione, la rivelazione dell'Essere Uomo.
27
SULLE VOCALITA:
OSSERVAZIONI ANTROPOLOGICHE
Si è cercato di dimostrare come la voce sia speculum dell'Essere Uomo e possa quindi a ragione dare
importanti informazioni e sull'uomo universale e sull'uomo particolare. La voce porta con sé: archetipi
collettivi, cioè memorie di un passato originario, fatto di sostrati comuni; ed eredità culturali di gruppi di
uomini particolari.
La percezione, l'ascolto, che non si possono scindere dal fenomeno sonoro
, sono mediati e condizionati
da questa duplice eredità, dell'umanità universale (l'essere uomo in quanto tale) e dell'umanità
particolare (società-cultura).
Ogni vocalità porta inevitabilmente con sé delle valenze, che si ripropongono nell'immaginario
dell'ascoltatore
.
Potenza ancestrale della voce, potenza vibratoria e ri-creatrice, che s'incontra con l'ambiente culturale
mediatore delle percezioni.
Le valenze del grido
La voce è la prima manifestazione dell'Essere uomo.
Il neonato grida al momento della nascita la propria presenza viva: lo grida al mondo, lo grida a se
stesso, testimoniando energicamente, cioè sotto forma di flusso energico e con un'ampiezza respiratoria
purificatrice, l'inizio della propria alterità dalla madre. La forza di questo grido è una "violenza
inaugurale", la manifestazione energica dell'inizio della vita.
Il grido informe e inarticolato è il più puro segno di Vita. Secondo antiche cosmogonie che M. Schneider
passa in rassegna nel suo celebre testo Il significato della musica
, all'origine del cosmo starebbe
proprio il grido. Esplosione di energia creatrice.
"Il canto di lode della Morte, il grido o la risata rappresentano la musica
primordiale che partorisce il cosmo"
.
Grido - vita - lode - morte.
Il grido ha in sé la duplicità vita-morte, il loro strettissimo legame, la loro dipendenza.
"Il canto della morte è l'atto creativo da cui si sprigiona la vita"
.
Da una sillaba mistica cantata, grido o suono primordiale di lode, che la Morte esala, nasce il cosmo. Nel
vocabolario vedico il canto di lode a polmoni gonfi (ark) è sinonimo di "gonfiare" o "crescere" e perciò la
nota primordiale risuonando crea il mondo intero materializzandosi poco a poco.
Secondo il sistema filosofico Vedanta ogni morte trapassa nella vita e ogni vita nella morte mediante uno
sfregamento o sacrificio per superare il dualismo dell'universo.
La vita umana nasce dalle urla della madre sofferente che deve affrontare il sacrificio di un doloroso
travaglio.
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Il grido creatore è doloroso e liberatorio. Offre e "butta fuori". Cosí si spiegano i gridi alti sacrificali a
squarciagola dell'udgitha o della saeta d'Andalusia. Poiché il suono rappresenta la sostanza primordiale
del mondo l'offerta del suono è il sacrificio più alto. Secondo il già citato G. Cardona la voce gridata serve
per colmare grandi distanze e raggiungere l'altro: nelle offerta sacrificali la distanza è tra cielo e terra. Il
grido sacro è il mezzo con cui le supplici si rivolgono alla divinità, ma è anche il modo in cui si esprimono
le profetesse invasate: "la profetessa invasata non parla, strepita col fragore dell'urlo di dolore, musicale
come il suono che emana dalla terra. L'urlo è il contatto della lingua umana con la voce sovrannaturale."
.
Cosí in latino jubilare è tanto il grido guerriero del rapace trionfante (jubilat milus) quanto il giubilo del
canto rituale. Il grido è "l'espressione di un rapporto funzionale tra due poli" : l'estremo della sofferenza e
del sacrificio, e l'estremo della vita, della luce e della gioia. Il grido comprende in sé tanto il pianto quanto
il riso.
Il grido è espressione di sentimenti cosí dolorosi da essere incontenibili all'interno del corpo: è l'urlo
isterico, il pianto al massimo della sua sonorità, la forma sonora del delirio.
" Il giorno del funerale, nel momento in cui la bara fu fatta uscire dalla finestra
del soggiorno, mia madre gettò un grido, uno solo- il lungo urlo di un animale
straziato."
.
L'urlo diviene l'espressione sonora della lacerazione, del corpo fatto a pezzi, della carne straziata, della
privazione violenta.
Contemporaneamente possiede un potere liberatorio. Già di per sé, la voce è un uscire dall'interno del
corpo all'esterno. Un uscire materiale, concreto, che porta con sé delle cose, delle energie interiori.
L'entusiasmo, l'uscire da sé per una gioia tale che non si può contenere e che può trovare espressione
solo nel giubilo informale, senza parole e spinto con forza verso l'alto dalla passione che tra-bocca.
Nella direzione di una "liberazione della voce e del corpo", il grido, insieme ad altre manifestazioni di
"eruttazione" di suoni informali e violenti (come scoppi di riso, pianto, borborigmi), viene utilizzato dal
metodo di insegnamento di S. Wilfart: il grido, lo scoppio di risata, pianti, mimiche infantili, sono
fenomeni di liberazione vocale che sbloccano la "memoria corporea". Il grido che si origina nel ventre e
nelle parti basse del corpo e lo attraversa interamente, conduce il corpo stesso a quella originaria
condizione di vibrazione totale, che si riscontra nello stadio infantile prelinguistico, permettendo di
recuperare tutte quelle potenzialità ed energie che nella crescita si sono perdute a favore di un'eccessiva
intellettualizzazione ove tutto è determinato e condizionato dalla sola mente. Wilfart propone
un'educazione che non elimini il grido ma che insegni a gestirlo, come stadio fondamentale di liberazione
dalle tensioni e di costruzione dell'edificio sonoro vibrante del corpo, come parte essenziale del nostro
essere.
Studi scientifici di musicoterapia hanno dimostrato il potere terapeutico dell'urlo come liberazione da ogni
tensione.
Ma il grido possiede un'altra caratteristica che è quella di essere tagliente, di ferire come una freccia.
Viene lanciato come una freccia.
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Nella mistica indù, la sillaba OM, ritenuta forza che pervade lo spazio dell'universo col fiato, sillaba
primordiale, significa "freccia" e viene designata come saetta vibrante capace di penetrare ogni cosa.
Disparar una saeta , cantare la melodia alta eseguita in falsetto dell'Andalusia, è come scoccare una
saetta. Nel libro quarto del De rerum natura di Lucrezio, il grido di un venditore perciet auris, percuote le
orecchie
.
Nella vita quotidiana una voce gridata è una voce che si vuole imporre, che colpisce per attirare
l'attenzione o per offendere volutamente; per sovrastare l'altro in una discussione dimostrando, come in
una lotta, la propria superiorità fisica (per la quantità d'aria che si deve gestire nell'urlo) e di personalità
(la voce individua la persona e il suo essere). La voce è il senso che agisce, attivo rispetto alla passività
dell'udire o del vedere
. Il grido cosí si definisce un'azione violenta, diretta, informale, che aggredisce
l'altro.
La voce sussurrata
Si è già visto come G. Cardona interpreta il sussurro in termini di spazialità. La voce sussurrata è una
voce che crea ed esige intimità, vicinanza dell'altro, confidenza, confessione. Una voce prossima al
silenzio, che dice e non vorrebbe dire: confessione di segreti.
Una voce senza voce: nell'emissione della voce sussurrata le corde vocali non vengono interessate, non
sono fatte vibrare. Viene articolato il puro fiato.
Le preghiere cristiane devono essere sussurrate, quasi silenziose, per creare una forte intimità col divino,
perché la parola quasi si eclissi nel puro suono "mantrico" e ripetitivo che conduce all'estasi, all'"uscirefuori-di-sé", per incontrare la dimensione trascendente.
Anche certe formule magiche vengono sussurrate, perché il nemico non possa sentire e "rubare" la parola
potente, il suono che crea ed agisce.
Grazie alla tecnologia, la voce sussurrata paradossalmente è diventata udibile a distanza: la voce
dell'intimità è stata amplificata; il suono del fiato, quale vento interiore, si è palesato con tutte le sue
sfumature ed è stato utilizzato da cantanti, soprattutto del genere jazzistico, a fini estetici, per creare una
nuova comunicatività intima con un pubblico vasto.
Il sussurro rivela i nostri segreti, i nostri pensieri più profondi, i sentimenti più intimi, ci avvicina
all'altro.
Il parlato
La voce parlata si basa sul principio fondamentale di risparmio energetico al fine della massima
funzionalità comunicativa: il parlato articola i suoni con rapidità, senza cioè soffermarsi, nella pronuncia,
su sillabe o parole; le pause sono fisiologiche e funzionali al senso; l'intensità è pressoché costante. Non
ci sono indugi di sorta, tutto è mirato alla efficacia della comunicazione, alla necessità del dire. Ogni
scarto rispetto all'"eloquio standard"
è significativo al fine comunicativo.
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" Il parlato non utilizza che una piccola parte delle risorse della voce... Il ruolo
dell'organo vocale consiste nell'emettere dei suoni udibili che rispondano alle
regole di un sistema fonematico che non dipende da esigenze fisiologiche, me
costituisce una pura negatività. La voce resta in disparte. ... Il linguaggio detto
sottomette la voce."
.
La voce parlata è il frutto del "corpo sociale" che codifica la forma del vivere e del comunicare.
L'ordine politico e sociale implicano l'ordine nella rappresentazione del sé: disciplinare il particolare,
codificare gesti al fine di un senso immediatamente comprensibile e totalmente significativo nella
circolazione sociale.
La voce entra come parte essenziale dell'educazione: non urlare, piegare la voce al silenzio o alla parola,
adeguandola ad una gestualità controllata, ecc.
Numerosi sono gli esempi che si potrebbero riportare soprattutto in alcune società altamente cerimoniali,
come quella fra XVI e XVII secolo: compaiono veri e propri manuali del parlar corretto in società a
dimostrazione di come il parlare sia specchio dell'inserimento perfetto dell'individuo nella società
.
Ma anche certa precettistica religiosa, ad esempio quella del cardinale Bona, De discrezione spiritum
(1677), indica come educare la voce perché sia specchio di un'interiorità integra e non "sibilo del
serpente infernale".
C. Bologna parla di questa voce parlata come di voce da Salotto, luogo simbolico di conversazioni
misurate e ben educate. Sarà nelle pagine di Montaigne che si troverà la congiunzione tra Salotto e
Anima, non solo la voce della società artificiale, ma la voce dell'Io: "la voce significa tutto il mio essere
(mon sens), dice Montaigne, sta a me indirizzarla pour me representer"
.
Verso una valorizzazione non solo dell'ordine ma anche degli scarti rispetto a questo.
La voce parlata è quindi la voce della misura, dell'economia funzionale, della disciplina, del rispetto delle
norme, della comunicazione, dell'essere sociale, ma è anche il canale dell'anima individuale, dell' "Io
dico", strumento per "dire"la propria persona.
La voce recitata
La voce non si concentra solo sul principio di economia comunicativa e rispetto delle norme: la voce si
alza, la scansione prosodica si fa più dettagliata (accenti tonici e grammaticali, durate a senso, marcatura
dell'interpunzione): siamo alla proclamazione, all'annuncio.
"Il professore di matematica che enuncia un teorema, il banditore, il cantastorie,
il venditore ambulante, l'annunciatore ferroviario, il lettore od orante pubblico in
una liturgia, sono altrettante situazioni di enunciazione pubblica informativa e
neutra, senza coinvolgimento personale, in cui il parlante si fa semplice
portavoce della parola. "
.
31
L'emissione ha tendenzialmente altezza e intensità costante, e articolazione ritmica minima. Il risultato è
uno stile cantilenante, monotono, in cui la parola è sovrana sugli elementi musicali ridotti al minimo.
I recitativi liturgici, i recitativi operistici, o certe pratiche cultuali che si ispirano a questo stile vocale,
denunciano uno stretto legame con la dimensione vocale del parlato e quindi la necessità funzionale di
dare rilievo alle parole.
La voce alta e sonora , la voce solenne del dire , dell'annunciare, del richiedere è anche la voce della
Persuasione, del Potere, la voce dal pulpito, la voce che rapisce l'ascolto per la sua potenza e la sua
fermezza.
Il recitativo è una voce legata al parlato per la scansione e l'articolazione dei suoni delle parole, ma
risulta voce "intonata", voce che implica un dispiego maggiore di energia in fatto di fiato, di potenza e di
sonorità allo scopo di rendere maggiormente incisivo il proprio dire.
La voce cantata
"Nel canto i formanti, pure senza essere neutralizzati (ad essi è infatti affidata la
comprensibilità semantica delle parole) passano in secondo piano, mentre il
ruolo primario viene assunto dalle fondamentali. Esse acquistano pertanto una
funzione strutturale, dal momento che a distinguere un segmento melodico
dall'altro è appunto l'altezza specifica alla quale essi sono situati. ... Il profilo
melodico complessivo dell'enunciazione, che nel parlato aveva un disegno
approssimato e si sovrapponeva come componente marginale alla sequenza
fonetica, acquista qui
contorni
chiaramente
definiti e si propone come
costituente fondamentale del messaggio. Lo stesso avviene per le durate, che
nel canto acquistano valori esatti e reciprocamente proporzionali."
.
Il canto porta con sé un vasto immaginario.
Si è già potuto notare come si accompagna all'idea di volo e di sogno; quindi all'idea di liberazione.
V. Cuomo
lega l'origine del canto al carattere liberatorio del grido e si è visto come l'urlo per Wilfart è
preparazione fondamentale ad una buona educazione canora.
Il canto per A. Tomatis
, è sorgente di energia: fornisce nutrimento metabolico al cervello in termini di
profonda ossigenazione e quindi rigenerazione, e fornisce sollecitazioni dinamiche per le necessità
espressive e creative del cervello stesso.
Il canto permette di esplorare il proprio corpo, suo strumento, e l'ambiente circostante facendolo convibrare, permettendo una completa fusione del soggetto col tutto che lo circonda.
Il canto è "uno dei mezzi più raffinati di donare sé stessi": è un conoscersi e un mostrarsi, un aprirsi
all'altro, il canale della propria interiorità.
A differenza del parlato che per Zumthor sottomette la voce, il canto ne dispiega ed esalta la potenza: "i
valori mitici della voce vengono esaltati nel canto". Mentre nel parlato "la presenza fisica del locutore
32
tende in misura maggiore o minore ad attenuarsi, a fondersi con le circostanze", nel canto essa si
afferma, rivendicando la totalità del suo spazio.
"Il canto è la manifestazione insigne della magie della voce, Orfeo archetipico,
accolto in tutte le nostre mitologie, ivi comprese quelle del più quotidiano. Per gli
amerindi Montagnais, il canto è un sogno sonoro, che apre un passaggio verso il
mondo da cui proviene. ...Il canto concilia gli opposti e domina il tempo".
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LA TECNICA VOCALE.
La tecnica è il complesso di norme da seguire nella pratica di un'arte; procedimento di lavorazione che
implica un uso pratico di strumenti, quindi implica una padronanza, cioè la conoscenza di ciò che lo
strumento può dare, può fare, e la conoscenza del "come" fare per ottenere risultati voluti. Nel caso
nostro, lo strumento è la voce:
"La voce, ove la si voglia utilizzare, costringe quasi subito all'articolazione; il solo
vocalizzo stanca abbastanza presto, in quanto tutti lo sentono, sia pure
inconsciamente, come un'utilizzazione molto sommaria, sicuramente incompleta,
dell'apparato vocale che è capace di prodezze più raffinate. Questa reazione è, in
certo qual modo, un segno di umano rispetto: articolare dei suoni che preservino
la qualità propria dell'uomo".
P. Boulez
tratta delle problematiche relative al rapporto Parola e Musica, fissando l'attenzione in
particolare sulla possibilità "di un incontro privilegiato e durevole" tra i due linguaggi mediante il concetto
di struttura.
L'incontro è possibile e duraturo perché avviene sul campo comune della struttura, che prevede gli
aspetti fondamentali del tempo, della forma e della tecnica vocale.
La tecnica vocale, (la prosodia, l'accentazione, l'intonazione, nei sensi più lati), è quindi uno dei terreni
comuni di musica e di poesia.
"A seconda che ci si allontani più o meno dalla trascrizione diretta, si passa per le diverse categorie che
portano dal parlato al cantato, ossia, da un'assenza di convenzione, alla convenzione assoluta".
Seguendo la trattazione di Boulez, si è provato a tracciare le varie tappe di questo processo, passando
sinteticamente in rassegna le principali tecniche vocali.
Il
parlato
puro
è
fondamentalmente
eterogeneo
rispetto
alle
strutture
musicali:
differiscono
nell'utilizzazione degli intervalli, nei valori ritmici e nel tempo, gerarchizzati e organizzati nella musica,
istintivi nel parlato. "Corpi estranei in presenza l'uno dell'altro, la cui mescolanza è soltanto fisica, si
percepiscono su piani differenti".
La declamazione ritmata permette invece, di unire, grazie ad una distribuzione organizzata di accenti, i
due piani su una superficie comune.
Lo Sprechgesang aggiunge a tutto questo "l'approccio" degli intervalli in un ambito ristretto.
Il canto, distribuendo gli intervalli su una tessitura più estesa, "guida alla coincidenza della voce e dello
strumento", raggiunta, infine, dalla soppressione della parola o dalla distensione dell'articolazione, in
quanto la voce estrae dalle parole la loro sonorità.
La prosodia passa di conseguenza, dalla totale servitù alla totale indipendenza dal testo: "da
un'elocuzione naturale a una declamazione convenzionale". Una stessa gradazione si ritrova nel modo in
cui la voce viene accompagnata o si inserisce nel blocco strumentale, facendone parte.
Zumthor tiene a precisare che non è propriamente una questione di gradi. Il movimento dal parlato al
cantato non conosce né tappe né scale. Abitudini, pregiudizi collettivi, ideologie finiscono per condizionare
34
la capacità degli esecutori come degli ascoltatori di sentire una netta separazione tra le due arti. L'eredità
culturale condiziona la percezione che ciascuno ha delle differenze in questione. Ogni società fissa quindi
gli stili e le tecniche e i confini tra di esse.
Ma mai come nell'ultimo secolo, il Novecento, si è potuto vedere realizzato l'ideale di sperimentazione e
ricerca, l'apertura totale e incondizionata, verso le infinite possibilità della voce.
Queste innumerevoli possibilità, portano a scritture, forme, generi diversi; a dialettiche sempre vere e
vive, ma più o meno celate, più o meno rivelate.
Il testo sarà, nelle varie tecniche vocali, in-conoscibile o ri-conoscibile, "centro e assenza", e "incrocio
dell'insieme"
"volto alterno dell'Idea, ora protesa verso l'oscuro ora scintillante, con ogni
certezza"!
(Mallarmé).
35
2-L’apparato fonatorio
I suoni del linguaggio vengono normalmente prodotti mediante l’espirazione,
con un flusso di aria egressivo: l’aria fluisce dai polmoni attraverso i bronchi e
la trachea, e raggiunge la laringe [fig. 1].
Nella laringe, che è un organo a forma piramidale, si trova la glottide che, a
sua volta, contiene le corde vocali. Queste ultime sono costituite da due
Fig. 1
membrane che durante la normale respirazione rimangono separate e rilassate, mentre nella
fonazione possono contrarsi e tendersi, avvicinandosi e allontanandosi una dall’altra e
bloccando in tal modo il passaggio dell’aria. Queste vibrazioni cicliche e velocissime delle corde
vocali determinano i cosiddetti suoni "sonori".
Il flusso d’aria passa poi attraverso la faringe ed entra nella cavità orale.
All’interno della cavità orale vi è una serie di organi, mobili o fissi, che giocano un ruolo
fondamentale nella caratterizzazione fisica dei suoni.
L’organo mobile più importante è senza dubbio la lingua, ove distinguiamo una "radice", un
"dorso" e un "apice". Gli altri organi della cavità orale sono: il velo (o "palato molle"), il palato,
gli alveoli (la zona immediatamente retrostante i denti superiori), i denti e le labbra.
Oltre che attraverso la cavità orale, l’aria che fluisce dalla faringe può passare attraverso la
cavità nasale, in seguito all’abbassamento del velo palatino. Vengono così prodotti i suoni
cosiddetti "nasali".
In ognuno dei punti compresi fra la glottide e le labbra, l’aria che fluisce dai polmoni può subire
delle costrizioni da parte degli organi della fonazione, ottenendo così i diversi "segmenti di
suono" che costituiscono la sostanza fisica delle parole.
Oltre ai suoni polmonari egressivi (che sono i più diffusi tra le lingue del mondo), esistono altri
due tipi di flussi d’aria che possono dar luogo a fonazione: il flusso ingressivo e quello
glottidale.
Nel primo caso, il suono viene realizzato mediante inspirazione (e dunque l’aria proviene
dall’esterno), mentre nel secondo l’aria proviene dalla glottide (invece che dai polmoni),
producendo dei suoni cosiddetti avulsivi ("schioccanti", interiettivi e di incitamento), tipici delle
lingue dell’Africa centrale o meridionale.
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3-La Fonetica
La fonetica è quella branca della glottologia rivolta allo studio dei suoni linguistici indipendentemente
dalla lingua a cui appartengono. I suoi principali temi di studio riguardano la produzione e la percezione
dei suoni linguistici da parte dell’uomo, e le loro caratteristiche acustiche, viste sia dal lato dell’emittente,
il parlante, che da quello del ricevente, l’ascoltatore; in base dell’argomento, privilegiato nello studio, si
possono distinguere tre tipi di branche fonetiche:
•
La fonetica articolatoria o fisiologica che descrive il processo di produzione dei suoni
linguistici, detti più propriamente foni, riferendosi agli organi preposti alla fonazione, i quali nel
complesso prendono il nome d’apparato fonatorio, della loro fisiologia, ovvero del processo di
fonazione, e dei criteri di classificazione.
•
La fonetica sperimentale o strumentale, lo studio della produzione dei suoni linguistici
attraverso l'utilizzo di determinati strumenti.
•
La fonetica acustica o descrittiva che descrive le caratteristiche fisiche dei suoni linguistici e la
loro propagazione nel mezzo, in questo caso l’aria.
•
La fonetica uditiva, lo studio di come i suoni linguistici vengano percepiti dall'apparato uditivo
umano.
•
La fonetica naturale, quel tipo d’analisi e d’introspezione dei suoni linguistici e dell’intonazione,
che si possono fare da soli, senza costose e complicate apparecchiature.
•
La fonetica strutturale si identifica con la fonologia.
Se si usa la parola 'fonetica' senza specificazioni ulteriori si intende solitamente la fonetica articolatoria.
Si distingue dalla fonologia che studia i sistemi linguistici basandosi sulle unità linguistiche astratte dette
fonemi. Raramente la morfologia tocca lo studio della fonetica, e ancor meno la semantica (lo studio del
significato delle parole) e la sintassi. Invece la pragmatica può benissimo venir considerata quando si
tratta del livello acustico
Fonetica articolatoria
La fonetica articolatoria studia i suoni di una lingua sotto l'aspetto della loro produzione attraverso
l'apparato fonatorio, descrive quali organi intervengano nella produzione dei suoni, in quale posizione
s'incontrino e come queste posizioni interferiscano con il percorso dell'aria in uscita dai polmoni
attraverso la bocca, il naso o la gola per produrre suoni differenti.
Non si occupa di tutte le attività che intervengono nella produzione di un suono, ma seleziona solamente
quelle che attengono al luogo di articolazione. I simboli fonetici sono solo abbreviazioni della descrizione
articolatoria di un suono, nonché una sua approssimazione in determinate classi detti foni, dal momento
che nessuno è in grado di riprodurre due volte lo stesso identico suono. I simboli più utilizzati sono quelli
dell'AFI, l'Associazione fonetica internazionale, conosciuta anche come IPA.
Gli organi che intervengono nel processo di fonazione possono essere mobili o fissi. Sono organi mobili le
labbra, la mandibola, la lingua e le pliche vocali ("corde vocali"), chiamati anche gli organi articolatòri o
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semplicemente gli articolatóri. Variando la posizione di questi, il parlante modifica il flusso dell'aria
polmonare. Sono invece organi fissi i denti, la radice dei denti, il palato duro e il palato molle (velo
palatino). I suoni si producono quando si portano in contatto due articolatóri, per esempio il (fono)
bilabiale [p], che si produce col contatto di entrambe le labbra; così quando si pongono in contatto due
organi articolatòri il suono che si ottiene si nomina con gli organi che si avvicinano o si congiungono in un
punto d'articolazione particolare: per esempio [f] si definisce fono labiodentale, perché il labbro inferiore
entra in contatto con gli incisivi superiori. Quando l'organo mobile è la lingua non si fa in genere
riferimento ad essa (tranne in casi particolari, come per i rari foni linguolabiali) per denominare il fono,
così [t], che si produce quando la punta della lingua tocca la parte posteriore (in inglese piuttosto la
radice, gli "alveoli") degli incisivi superiori si chiama semplicemnete dentale (alveolare in inglese).
Il modo d'articolazione si determina per la disposizione degli articolatóri mobili nella cavità buccale e
come impediscono o restringono il passaggio dell'aria. Questa azione può consistere nell'interruzione
istantanea e completa del passaggio dell'aria, con i foni cosiddetti occlusivi che sono di tipo momentaneo.
Nei foni cosiddettinasali ugualmente si ha interruzione completa del flusso dell'aria nella bocca ma viane
aperta il passo nasale per fare uscire il flusso nella cavità nasale ottenendo così un fono continuo. Nei foni
cosiddetti laterali la lingua si accosta solo alla parte centrale della cavità buccale lasciando passare l'aria
dalle parti o anche da una parte sola (foni unilaterali). Nei foni vibranti la lingua vibra ripetutamente
(almeno più di tre volte) creando una serie di brevissime occlusioni. Nei foni vibrati il meccanismo è
intermedio tra quello occlusivo e quello vibrante: consiste di una rapidissima singola occlusione, di
articolazione assai più instabile che negli occlusivi veri e propri. Nei foni costrittivi gli articolatóri non
chiudono il passaggio ma provocano un restringimento per l'aria che produce una caratteristica frizione (e
si chiamano per questo anche fricativi benché il termine non sia articolatorio ma piuttosto acustico). Se il
passaggio è più largo, la frizione non si produce e il fono si dice approssimante il passaggio dell'aria è
continuo ma in qualche modo alterato e reso instabile dalla posizione degli articolatóri. Tutti questi modi
di articolazione si chiamano contoidi. Nei vocoidi invece, il passaggio dell'aria è completo, continuo,
stabile e senza nessun restringimento.
Ci sono alcune articolazioni particolari. I contoidi cosiddetti semiocclusivi (acusticamente affricati) hanno
due fasi strettamente legate l'una all'altra: una fase occlusiva e una costrittiva. Entrambe sono
omorganiche, cioè devono avere lo stesso punto d'articolazione; inoltre l'occlusione rimane in qualche
modo presente anche nella fase di rilascio costrittiva: per questi sono stati definiti anche: foni occlusivi
con rilascio udibile costrittivo. Questa è anche la ragione per cui scriverli con due simboli è errato: si deve
usare il monogramma (presente nelle estensioni fonetiche di Unicode anche se non previsto ufficialmente
nelle ultime revisioni dell'IPA) oppure il digramma con legatura (SAMPA: [-\]). Esistono altre notazioni
non ufficiali IPA: per esempio, il simbolo dell'occlusiva con un circonflesso sopra come in esperanto,
oppure l'uso di caratteri usate nelle lingue slave o baltiche che utilizzano l'alfabeto latino c per [t-\s], č
per [t-\S]. Esistono poi particolarti "contoidi sillabici" (intensi e generalmente allungati) che possono
costituire apice sillabico (SAMPA: [=]) e al contrario vocoidi asillabici (più brevi e meno forti di quelli
comuni) che possono solo essere elementi (asillabici) di un dittongo (SAMPA: [_^]).
I vocoidi si distinguono per la varie posizone della lingua: in particolare il punto mediano del dorso è
spesso preso come punto di riferimento. A seconda dell'altezza (la posizione rispetto al palato) e
dell'(anteriorità-)posteriorità (la posizione rispetto al palato anteriore e al velo palatino) si distinguono
vocoidi alti, medi e bassi secondo l'asse verticale (sono necessari spesso gradi intermedi, come mediobassi, medio -alti e simili) e anteriori (o palatali), centrali e posteriori (o velari) sull'asse orizzontale
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(anche qui spesso sono necessari gradi intermedi come antero-centrali e postero-centrali secondo il grado
di precisone richesto). A seconda della presenza o meno dell'arrotondamento labiale poi si distinguono
vocoidi arrotondati (procheili) e non-arrotondati (aprocheili). I vocoidi più frequenti nelle varie lingue
sono [a], [i] e [u], che rappresentano anche il massimo degli spostamenti del punto mediano del dorso
della lingua sui due assi (orizzonatale e verticale). In particolare [a] è di gran lunga il fono più frequente
ed è presente nella maggior parte delle lingue del mondo.
Fonetica sperimentale
La fonetica sperimentale studia i suoni secondo un approccio fisico, sia usando strumenti particolari
per determinare con precisione la posizione dei vari organi articolatòri sia prestando attenzione al
risultato del processo fonatorio. Unendo i dati si sono scoperte caratteristiche importanti sull'articolazione
dei suoni linguistici. essa utilizza strumenti come i raggi x per determinare la posizione degli articolatóri e
il chimografo che traccia le linee d'intensità. Lo studio congiunto di questi dati risulta tanto più preciso e
significativo quanto sono più perfezionati gli strumenti usati.
Fonetica acustica
La fonetica acustica tratta l'onda sonora come il prodotto di un qualsiasi risonatore. In pratica equipara
l'apparato fonatorio umano a un qualsiasi altro sistema d'emissione e riproduzione di suoni. Nella
comunicazione le onde sonore hanno un'importanza maggiore che la semplice articolazione (e
produzione) dei suoni, poiché un determinato pubblico ascolta i suoni prodotti dal'apparato fonatorio
come quelli riprodotti da un qualsiasi altro mezzo. Per decodificare le caratteristiche salienti dell'onda
sonora prodotta si utilizza lo spettrografo: con questo strumento si possono identificare determinate
bande chiamate formanti che sono risultate essere importanti per la comprensione dei suoni linguistici e
hanno anche mostrato una certa relazione con alcuni processi articolatori. Inoltre si è manipolata l'onda
sonora per capire quali fossero le frequenze che contenevano i dati fondamentali, necessari e sufficienti
per identificare i suoni delle varie lingue, cancellando alcune parti dell'onda e riproducendone le altre.
Fonetica uditiva
La fonetica uditiva è probabilmente il ramo della fonetica a tutt'oggi meno esplorato e tratta di come i
suoni linguistici vengano recepiti dall'apparato uditivo umano: per questo studia in particolare come
funziona il canale uditivo. Un altro campo d'investigazione riguarda le possibili interferenze acustiche che
si possono determinare nell'ascolto dei suoni linguistici. Recentissimi sono gli studi in campo cognitivo,
correlati alla percezione effettiva dei suoni. La fonetica uditiva utilizza strumenti come la camera
insonorizzata per isolare la persona da sperimentare concentrandosi solo sul suono linguistico in quanto
tale. Anche le statistiche su come vengano percepiti i suoni nelle diverse situazioni comunicative
(soprattutto nei diversi ambienti, in particolare rumorosi) è un campo studiato dalla fonetica uditiva.
Fonetica naturale canIPA
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Il principale esponente di questa "corrente" è il fonetista e linguista italiano Luciano Canepari. Per avere
un'applicazione pratica nell'apprendimento e/o insegnamento della pronuncia, ma anche come base
convincente per qualsiasi successiva speculazione e teorizzazione astratta, la fonetica dovrebbe essere
‹naturale›, nel senso che dovrebbe esser possibile farla senza altri strumenti che il proprio apparato
articolatorio e le proprie orecchie. Dovrebbe basarsi sulla nostra innata capacità di distinguere i suoni,
che tutti possediamo, o perlomeno possedevamo, prima d'essere, per così dire, ‹corrotti› dalle
convenzioni ortografiche della nostra madrelingua. Quando da piccoli scrivevamo scenza al posto di
scienza o anno per hanno, coerentemente con la loro effettiva pronuncia, stavamo facendo fonetica in
modo naturale (o Fonetica naturale). Quindi, la Fonetica naturale
can
IPA è un metodo per riattivare quella
capacità che da bambini possedevamo istintivamente. Piú scientificamente, potremmo dire che la
Fonetica naturale mira a cogliere l'essenza dei suoni linguistici: determinandone l'esatta articolazione per
mezzo della cinestesía (la coscienza di ciò che succede nella nostra bocca mentre li produce); mostrandoli
con
accurati
diagrammi
articolatori
(orogrammi,
vocogrammi,
labiogrammi,
palatogrammi,
dorsogrammi), e uditivi (principalmente tonogrammi); rappresentandoli con simboli fonetici appropriati
(che non devono essere troppo vaghi, pena l'inutilità).
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4-André Schaeffner, Maurice Merleau-Ponty,
Demetrio Stratos.
Dialogo a tre voci sul luogo della risonanza
L’obiettivo di questa ipotesi di confronto è approfondire il rapporto tra il luogo della risonanza e
l’emissione sonora attraverso una considerazione ravvicinata e articolata del tema del corpo, che balza in
primo piano contestualmente allo spostamento dell’attenzione sulla fisicità della materia del suono. La
profonda interdipendenza dei concetti di concavo e risonante ci mette infatti sulla via di quell’idea dello
strumento-corpo[1] così fortemente presente nalla riflessione di Piana. La voce umana, nella forma del
risuonatore boccale e polmonare, è uno strumento da suonare e allo stesso modo l’intero corpo viene
coinvolto, con modalità differenti, nel desiderio di espressione sonora. Le dinamiche che stanno alla base
di questa tendenza del corpo a “fare musica” coincidono con un’esplorazione materiale delle sue concrete
possibilità sonore e con una rivalutazione delle sue concavità per l’istituzione di una organologia musicale
di matrice corporea. È in questa prospettiva teorica che si inseriscono le indagini etnomusicologiche di
André Schaeffner (1895-1980) che, nel volume Origine des instruments de musique
“fenomenologia della risonanza sui generis”
[3]
[2]
, propone una
, svolta attraverso lo studio del ruolo della superficie
concava nell’emissione del suono in uno strumento musicale fino alla ricostruzione della genealogia del
risuonatore. L’opera dell’etnomusicologo francese compare in un panorama di studi dominato dall’opera
di C. Sachs, un’importante riflessione sull’origine della musica strutturata sul modello vocale della
melodia a picco. Schaffner da parte sua presenta dei contributi fortemente originali rispetto alla
tradizionale
ed
istituzionalizzata classificazione
degli
strumenti
musicali, novità che
riguardano
principalmente la teoria delle origini corporali della musica (che scopre un alternativo modello percussivo
e
una
grande
attenzione
riservata
al
materico)
ed
il
criterio
tassonomico
per
materiali.
Il suono strumentale viene allora inserito in un contesto comunicativo di tipo orale: all’origine dello
strumento si trova un’istanza espressiva che, canalizzata in un gesto o un’articolazione cinesica, si muove
nello spazio e si dirige ad una superficie. Sono in particolare le superfici concave che, nel sistema
tassonomico di Schaeffner, svolgono un ruolo rivoluzionario. La considerazione e l’utilizzo di cavità
naturali e di cavità artificiali modificano l’immagine dell’oggetto sonoro. Lo studio del risuonatore infatti
mette in crisi molte categorie musicali tradizionali, prime fra tutte quelle interne alla classificazione
organologica, e istituisce invece un concetto trasversale nel quale confluiscono le più differenti famiglie di
strumenti. La scoperta delle superfici concave, quali fondamentali dispositivi per la generazione sonora,
introduce una riflessione sul materico di grande importanza: i risuonatori “sono imprescindibili dalla
materia in sé, dai materiali che determinano il ‘mistero timbrico’ che è alla base degli strumenti musicali”
[4]
. La figura della cavità risonante e l’importanza della sua costituzione materiale attraversano l’intera
tassonomia di Schaeffner e hanno la forma di universalia organologiche
[5]
dal sapore lievemente
strutturalista.
Il libro di Schaeffner mostra la musica come un’arte continuamente presente nel quotidiano,
“necessariamente mischiata alla nostre azioni, che si realizza a dispetto di tutto e con una fantasia o con
una temerarietà di mezzi materiali che ci confonde”
41
[6]
: assistiamo qui ad un chiaro allargamento del
senso e del contenuto del musicale, dove lo strumento viene ora concepito come oggetto–dispositivo
sonoro del quale riconosciamo il suo essere musicale o meno. È con queste premesse che l’autore
approccia il tema del corpo: esso viene indagato, come ogni altro strumento, per le sue proprietà di
emissione sonora e musicale. In questo senso il corpo è una cavità risonante che emette ed amplifica
suoni e rumori: il gioco sonoro della materia corporea lascia la traccia di una carne vibrante, di una pelle
tesa, del sangue che scorre, del vuoto interno che agisce. In questo modo completamente nuovo di
incontrare e di abitare il corpo ci interroghiamo sulla possibilità che esso abbia una forza espressiva non
verbale: la voce e ogni altra modalità di stimolazione sonora del corpo, sono già di per sé segni, tracce
del corpo stesso; la voce annuncia la materia di una presenza, di un’unicità incarnata. Questa primordiale
musicalità che scaturisce naturalmente dal corpo corrisponde ad una volontà di dirsi, di farsi sentire e di
soddisfare quindi una urgenza espressiva. Il completamento di tali fini comunicativi scorre lungo un
complesso percorso esplorativo del materiale sonoro offerto dal corpo che porterà il corpo stesso a
configurarsi come un oggetto sonoro, articolato in varie regioni timbriche nelle quali è possibile modulare
un’infinità di gesti espressivi. “Appare evidente che l’origine della musica sia da ricercarsi nel corpo
umano. E così anche nella danza. Quest’ultima è però unica mentre la musica si divide in vocale e
strumentale. Da una parte il canto, prodotto, così come il linguaggio, dall’apparato vocale; dall’altra la
musica strumentale, nata, con la danza, dal movimento del corpo.”[7] Il libro apre direttamente con
questa dichiarazione programmatica nella quale si fanno chiari gli intenti dell’analisi dell’autore. I
principali snodi concettuali del volume muoveranno infatti dalla preliminare collocazione dell’origine della
musica nel corpo umano. Nella culla di questa scaturigine corporea prende vita anche la divisione
originaria tra musica vocale, il canto dell’apparato fonatorio, e musica strumentale, di matrice cinetica. È
proprio il movimento che si porrà a fondamento della progressiva indagine dei portati sonori del corpo. A
proposito di questa partizione del musicale, Schaeffner si affretta a specificare che non c’è nessuno
squilibrio derivato dalla precedenza di una delle due forme musicali sull’altra ma che al contrario si tratta
di una coppia simmetrica dove non si pone problema di una maggiore o minore originarietà o di vincoli di
dipendenza dell’una rispetto all’altra. Questo è il motivo che spinge l’autore ad individuare un primo
obiettivo polemico in quelle teorie che propongono una dipendenza della musica strumentale da quella
vocale. “La teoria assai diffusa di una musica strumentale nata dall’imitazione del canto è poco
sostenibile. Infatti nulla prova che con gli strumenti si è cercato di imitare la voce umana”
[8]
. In questa
ipotesi Schaeffner riconosce un abuso del concetto di imitazione che ha un effetto estremamente falsante
del quadro dell’arte musicale. Esso propone una forma di musicalità strumentale modellata sullo stile
vocale, conclusione assai imprudente. La musica strumentale in realtà sostiene una linea di sviluppo
autonoma rispetto a quella del canto: pur ammettendo che la musica ha una precedenza di comparsa (le
prime capacità musicali di cui l’uomo si accorge sono quelle vocali), esso non gode di priorità strutturali
che gli avrebbero permesso di influenzare lo sviluppo del filone strumentale. Lo strumentale si sottrae da
questo presunto potere formativo del vocale e si rende indipendente; ciò nonostante, i due ambiti restano
comunque comunicanti, lasciando aperta una valvola di reciproca interferenza. “La musica strumentale si
sarebbe così modellata su una cosa diversa dalla voce umana; anche nel caso di una ipotetica afasia
originaria il corpo umano ha potuto conoscere i rudimenti della musica guidato dai suoi primi movimenti
di danza e di lavoro”
[9]
. La musica strumentale nelle sue forme primitive è sempre danza, presuppone
cioè il coinvolgimento originario del corpo, più precisamente del corpo in movimento. Essa ha sempre
un’origine cinetica. L’uomo batte il suolo con i piedi e le mani, percuote il proprio corpo con le mani, agita
il corpo per animare gli ornamenti sonori che porta addosso. Battere, percuotere, agitare hanno una forte
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componente gestuale che risiede in regioni corporee differentemente localizzate: obiettivo di Schaeffner è
anche quello di sfuggire ad una teoria che proponga come fondamento della musica una “azione
restrittiva delle mani, dei piedi, o di qualsiasi altra parte del corpo umano”
[10]
e che reifichi il ruolo di tali
appendici, rischiando di cadere nella “tesi inversa di un’origine manuale di tutti gli strumenti”[11], insidiosa
tanto quanto l’ipotesi imitativa. Una conseguenza di questa chiara impostazione è l’inquadramento dei
fenomeni vocali nel panorama gestuale di quei movimenti corporei con una qualche valenza espressiva:
l’urlo e canto, i rumori gutturali, il respiro cadenzato hanno tutti una matrice nel desiderio comunicativo,
pur venendo poi a ricoprire in ambito sacro e religioso una importante funzione evocativa e simbolica di
tipo rituale. A questo proposito Schaeffner squaderna una vasta fenomenologia di espressioni vocali a
testimonianza dell’innata elasticità dell’apparato vocale, capace di un’infinità di timbri, di diverse
risonanze ed effetti: accanto alla voce nasalizzata o a quella di testa, ai bassi profondi o ai registri
sovracuti, il mezzo vocale annette al suo ambito canoro “suoni a bocca chiusa, singhiozzi, ansiti,
chiocciolii, squittii, sibilii, strane grida”[12]. La dimensione del vocale si apre ad una nuova interrogazione
della sua materia sonora, che la rende strumentale: questa commistione di vocale e strumentale si gioca
sul terreno comune che i due ambiti lasciano sempre disponibile per una possibile comunicazione e
deformazione. L’indagine dell’etnomusicologo mira al chiarimento di come la voce persegua “un certo fine
strumentale”[13]: in questo slittamento del vocale verso lo strumentale si riconosce un’abdicazione, un
cedimento
della funzione
linguistica a quella espressivo-musicale
che
inaugura la progressiva
configurazione del corpo come oggetto sonoro. Un esempio particolarmente eloquente della comparsa
dello strumento-corpo è il percuotimento della gola con la mano; Schaeffner riporta la testimonianza di
alcune pratiche vocali del Turkestan in cui “la mano destra, con dei piccoli colpi sul pomo d’Adamo,
produce un vibrato artificiale dai tratti patetici”[14]. Questo tipo di manifestazione musicale chiarisce come
un intervento e una manipolazione del corpo secondo un fine sonoro aprono la strada alla considerazione
strumentale della voce e del corpo intero: il canto si presta ad altri effetti sonori e lo fa convertendo i
suoni vocali alle forme della percussione. Sotto questo impulso l’uomo si trova a forzare le capacità
espressive del proprio corpo e ad allargare i suoi margini strumentali, approfondendo le possibilità
musicali di varie regioni corporee. Schaeffner trova per esempio nel fischio, che propone un inedito uso
della
lingua
e
delle
sue
proprietà
sonore,
un’autentica
materia
di
studio.
È a questo punto della trattazione che l’etnomusicologo propone la sua originale teoria del risuonatore:
è la cavità che dà al suono vocale un timbro tipicamente strumentale, cioè è la decisone di usare il corpo,
in virtù della sua natura concava, come strumento per l’amplificazione che lo avvicina ad un principio di
tipo strumentale. “ Ora, logicamente, dovremo capovolgere i ruoli e considerare la bocca non più nel suo
legame con l’apparato vocale, ma nelle sue possibilità di rafforzare i suoni che vibrano all’interno della
sua cavità naturale […] Da questo momento essa non ‘parla’ o parla appena”[15]. La considerazione del
corpo come una naturale cassa di risonanza lo inserisce in una gioco con la materia sonora che impone di
interrogarlo nelle sue potenzialità sonore e musicali: si percuote la cassa toracica dentro la quale si odono
risuonare i colpi, si percuotono i bicipiti, i gomiti piegati, le ascelle, il ventre, si battono i piedi a terra, le
mani una contro l’altra e si schioccano le dita. Tutta questa gestualità sonora confluisce e trova un’unità,
anche simbolica, nell’immagine del tamburo umano che compare nel testo Schaeffner: è nella forza di
questo simbolo che sta il senso dell’esperienza musicale corporea: il corpo, “il primo luogo di una
musicalità che nasce dal desiderio d’espressione”[16], è un tamburo, una pelle tesa sopra una caverna
che
risuona,
capace
di
emissioni
musicali
se
sollecitato
adeguatamente.
Un’ulteriore evoluzione nella costruzione del corpo sonoro è rappresentata dal coinvolgimento nel gioco
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sonoro di elementi esterni al corpo, in modo che non siano solo le sue parti a risuonare: dal
percuotimento dell’acqua con le mani o del suolo con i piedi si passa all’applicazione di ornamenti sonori
che accompagnano la kinesis corporea e la arricchiscono di sfumature timbriche e ritmiche. Qui la musica
si dirige verticalmente verso l’essenza cinetica del musicale: “Ora, che questi strumenti vengano applicati
alle gambe, alla cintura o alle braccia, il problema resta sempre lo stesso: dal movimento generale o dai
movimenti parziali del corpo, abilmente guidati, e non più dalla percussione, risulta un rumoreggiare
continuo, ornamento sonoro della danza. Il corpo, così, si copre di musica”[17]. Si tratta allora di rivelare
lo spessore filosofico di tali conclusioni e di indicare quanto può essere fruttuoso per il filosofo la
considerazione attenta di questo materiale antropologico. Il calpestio del suolo è certamente il modo più
primitivo di produrre un rumore e riporta alle origini della musica come danza: questo risalimento
originario rivela però anche una profonda “istanza metafisica: la musica sembra nascere dal piede che
batte sul terreno, ed in un autore che mostra un così grande interesse per la musica del novecento come
l’etnomusicologo francese, questo discorso nasconde forse una riflessione sull’essenza del musicale come
struttura ritmica e danzante”[18]. Il movimento del corpo induce il gesto verso una sonorità e la musica
che ne scaturisce è qualcosa che aderisce completamente al corpo: nell’ambito della musica corporale si
introduce una gestualità interamente motivata dal suono. Da ciò si deduce che “ la musica ha chiesto
all’uomo di divenire con la danza uno dei suoi strumenti, non il più mobile […] ma il più affascinante per il
suo gioco concreto e libero.”[19] Il corpo del danzatore è uno strumento musicale autonomo, un sonaglio
vivente che scarica il suo ritmo in complessi agglomerati sonori attraverso una gestualità inedita: i gesti
del corpo diventano intimamente musicali e capaci di trasformare ogni movimento e agitazione in un fine
sonoro. Ogni impulso gestuale ricerca un “contatto sonoro”[20] con le mani, i piedi o qualsiasi altro
oggetto
per
poterne
trarre
dei
suoni:
dove
c’è
gesto
c’è
manifestazione
sonora.
Il ruolo fondamentale sostenuto dalle forme cave appare trasversalmente in tutte le famiglie di strumenti
e ad ogni grado della loro evoluzione, a partire dai sonagli dove funge da recipiente o da semplice cavità
vuota, fino ai tubi sonori riempiti di semi o nella quale si sospinge una colonna d’aria attraverso il soffio.
L’utilizzazione delle cavità naturali e delle cavità artificiali rappresenta una rivelazione eclatante per
l’organologia: se prima era evidente che l’urto di due oggetti pieni, come potevano essere il piede ed il
suolo, poteva produrre un suono o una rumore, ora, con l’interesse rivolto verso le potenzialità della
superficie concava, l’esplorazione sonora consisterà nel mettere in vibrazione una parete sottile incavata
o l’aria presente in essa. Già nelle forme di musica corporale più originarie si inizia ad intravedere
un’inconsapevole ed istintivo impiego delle “risorse sonore di ogni cavità più o meno chiusa: utilizzazione
della bocca come risuonatore; percuotimento della gola o del petto; battuta delle mani disposte a coppa;
impiego musicale dello scudo o di una superficie similare, sia cantando davanti alla sua faccia concava,
sia percuotendo la convessa […]; calpestio di un suolo sospeso, o di una parete che più o meno ricopre
una fossa di risonanza.[…] In modo confuso e con diverso significato, questi esempi mostrano fin dalle
forme più semplici di musica strumentale il senso infallibile che ha portato l’uomo primitivo a cogliere, e a
mettere a frutto il valore sonoro di ogni parte cava. Sembra che le più piccole cavità scoperte in natura o
prodotte dall’ingegnosità umana siano state, senza eccezione, incamerate nella musica.”[21] La cavità
appare in queste prime descrizioni come una parete che racchiude e che ha universalmente,
prescindendo dai vari modi di vibrazione, percussione, scuotimento, insufflazione, la funzione di
risuonatore, di amplificare cioè la vibrazione del corpo sonoro. In ultima istanza si potrebbe ipotizzare che
la cavità risponda al bisogno di rafforzare un processo sonoro ancora allo stato elementare. Corpo sonoro
e risuonatore, che spesso intrattengono un rapporto di sovrapposizione, sono infatti interdipendenti:
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l’amplificazione è ottenuta dal corpo vibrante e viceversa il corpo vibrante comunica sempre con il suo
risuonatore, ottenendo così un rafforzamento della sua sonorità. Attraversando questa riflessione sulla
cavità ci accorgiamo, ancora una volta, che uno dei motivi più ricorrenti è la comparsa del corpo umano
come dispositivo o supporto della produzione sonora: emblematico di questo luogo comune della
risonanza è lo scacciapensieri, uno strumento rudimentale che corrisponde al principio di far vibrare una
lamina di ferro entro una cavità, in particolare quella orale, e che, comparendo in tradizioni musicali
profondamente distanti, ripropone quelle universalia organologiche a cui accennavamo e giustifica “una
interpretazione poligenetica e strutturale del fenomeno”[22]. L’antica intuizione che sta alla base dello
scacciapensieri è quella di pizzicare una lamella metallica posizionando lo strumento davanti alle labbra
socchiuse, in modo che la bocca formi una cavità di risonanza: il corpo si atteggia ad una funzione
strumentale poiché accoglie una vibrazione e, costituendosi come risuonatore, offre la possibilità di
rafforzare i suoni che vibrano al suo interno. Anche questo esempio contribuisce a ribadire “l’importanza
universale del risuonatore. Siamo propensi a credere che si collochi, assieme ai gesti corporali, all’origine
di tutta la musica strumentale. […] Un buco in terra, una bocca socchiusa e l’uomo pensò di utilizzarne le
qualità
sonore
battendo,
pizzicando,
grattando
qualche
oggetto
postovi
davanti”[23]
L’idea di un’organologia musicale che ha fondamento nelle importanti potenzialità sonore della concavità
e della convessità del corpo umano anticipa alcuni spunti riflessivi presenti, seppur ancora in potenza,
nell’ultima fase della riflessione di Merleau-Ponty. Si tratta del pensiero del creux [cavità], un’istanza
teorica che il filosofo intendeva sviluppare in seno al problema della soggettività e che avrebbe segnato
l’avvenuta archiviazione del soggetto autocoscienziale. È prorio l’idea fondamentale della cavità che, nella
complessità dei suoi rimandi e delle sue implicazioni, sta alla base dei due percorsi, ciò che ci permette di
tessere delle fini relazioni di vicinanza tra l’etnomusicologo ed il filosofo. Entrambe le riflessioni vanno
infatti nella direzione di un ripensamento del soggetto e del ruolo del corpo: il primo, l’etnomusicologo,
nell’ambito dell’organologia musicale e il secondo, il filosofo, su un terreno ontologico più ampio e
generale.
L’idea del creux merleau-pontiano è contenuta nelle Note di lavoro de Il visibile e l’invisibile, degli appunti
tracciati dall’autore in modo non sistematico e con l’intento di figurarsi lo sviluppo futuro del lavoro. Il
pensiero del creux è uno di quei centri tematici che, relegato ad un destino di non sviluppo, lascia delle
tracce in diversi passaggi di questi appunti: esso lascia presagire un terreno di riflessione estremamente
fecondo che avrebbe forse portato a compimento il senso profondo dell’impresa filosofica che stava alla
base di un’opera cruciale come Il visibile e l’invisibile. “Nelle pagine che ci rimangono, e nelle note di
lavoro che le accompagnano, diviene manifesta l’intenzione di riprendere le vecchie analisi sulla cosa, sul
corpo, sulla relazione fra il vedente e il visibile, per dissipare la loro ambiguità, e per mostrare che esse
acquistano il loro senso solo al di fuori di un’interpretazione psicologica, collegate a una nuova ontologia.
Soltanto quest’ultima può adesso fondarne la legittimità, così come soltanto essa permetterà collegare le
critiche rivolte alla filosofia riflessiva, alla dialettica e alla fenomenologia – critiche sino ad ora disperse e
apparentemente tributarie di descrizioni empiriche - , svelando l’impossibilità ormai di mantenere il punto
di vista della coscienza”[24]. La nozione di creux si pone proprio in questo terreno di ripensamento
dell’ontologia e di svelamento delle ingenuità della prospettiva metafisica: essa, sublimando l’Essente e
considerandolo come un’identità piena e positiva dal carattere assoluto, oscura la dimensione dell’essere
carnale che offre il vero rapporto con l’Essere. Il nuovo concetto merleau-pontiano si fa invece portatore
del negativo e attraverso esso tenta di istallarlo in quell’orizzonte di indifferenza tra attività e passività,
45
per smascherare la presunzione di una soggettività in senso assoluto. Già in alcune
pagine della
Fenomenologia della percezione, il filosofo rendeva chiara un’esigenza di questo tipo: “Abbiamo
l’esperienza di un Io, non nel senso di una soggettività assoluta, indivisibilmente disfatto e rifatto dal
fluire del tempo. L’unità del soggetto o quella dell’oggetto non è una unità reale, ma un’unità presuntiva
all’orizzonte dell’esperienza, ed è necessario ritrovare, al di qua dell’idea del soggetto e dell’idea
dell’oggetto, il fatto della mia soggettività e l’oggetto allo stato nascente, il sostrato primordiale dal quale
nascono sia le idee che le cose”[25]. È però l’impostazione che Merleau-Ponty dà alla teoria dell’ideazione
che rende decisivo l’adozione di un nuovo concetto di soggettività: “La genesi dell’idea consisterebbe
allora in un accoglierla che a sua volta configura la soggettività come ‘cavità [creux]’ nella quale l’idea
avviene, così come, per parte sua, la melodia si canta. Occorre però precisare subito che quella cavità
non risulta mero ricettacolo dell’idea, ma fa anzi tutt’uno con il sua avvento: ‘attività e passività
accoppiate’”[26]
Lo
smantellamento
del
soggetto
assoluto
e
autoriflessivo
passa
attraverso
il
riconoscimento della “passività della nostra attività”, proprio perché il pensare non è “un’attività
dell’anima, né una produzione di pensieri al plurale, e io non sono nemmeno l’autore di quella cavità che
si forma in me per il passaggio del presente alla ritenzione, non sono io a farmi pensare più di quanto sia
io a far battere il mio cuore”[27]. La cavità, cioè la soggettività che ha svelato il suo lato passivo, è
creatrice di idee: in essa l’idea avviene “perché vi viene passivamente – cioè in modo fungente –
creata.”[28] Merleau-Ponty osserva che la cavità istituisce un “negativo fecondo”[29] nella carne: dove il
cavo si contrappone al pieno, il negativo si contrappone al positivo. L’idea di una soggettività così
configurata permette allora di realizzare che “ né io né l’altro siamo dati come positivi, come soggettività
positive. Si tratta di due antri, di due aperture, di due scene in cui accadrà qualcosa, - e che
appartengono entrambi allo stesso mondo, alla scena dell’Essere”[30]. Il creux appare come una linea di
confine dove si effettua la conversione io-altro, il punto di rivoltamento tra interno ed esterno, quindi
l’unico vero luogo del negativo: “non c’è identità, né non-identità o non-coincidenza, c’è interno ed
esterno che ruotano l’uno attorno all’altro- Il mio nulla ‘centrale’ è come la punta della spirale
stroboscopica, che non si sa dov’è, che è ‘nessuno’”[31]. Con queste premesse Merleau-Ponty imposta il
problema del medesimo e dell’altro per giungere alla conclusione che il medesimo non è che l’altro
dell’altro e l’identità differenza di differenza. Tali formulazioni sono possibili a patto che vengano collocate
sullo sfondo del chiasma e della reversibilità, per cui ogni percezione è doppiata da una contropercezione; solo questo contesto teorico permette di evidenziare la circolarità della percezione e la
conseguente uguaglianza di attività e passività.
Appare chiaro che il concetto di creux è interno
all’orizzonte dalla chair a cui è intimamente connesso per il fatto che apre ad essa la dimensione del
negativo. Il filosofo spiega questo ruolo della soggettività attraverso una riflessione sulla percezione: “La
carne del mondo è qualcosa di Essere-visto, i.e. è un essere che è eminentemente percipi, e grazie a essa
si può comprendere il percipere […] in fin dei conti tutto ciò è possibile significa qualcosa solo perché c’è
L’Essere, ma non l’Essere in sé, identico a sé, nella notte, ma l’Essere che contiene anche la sua
negazione”[32]. È con questo prototipo di essere che si misura Merleau-Ponty: siamo partiti dalla
dichiarazione di Lefort che vedeva nelle pagine de Il visibile e l’invisibile un tentativo di sottrarsi al punto
di vista coscienzialistico e alla sua ingenuità (“cecità della coscienza”). Ecco l’opportunità di concepire la
soggettività come creux, un concetto capace di dare ragione del negativo dell’essere e sottrarlo alle
falsificazioni “positiviste”: mondo e anima non si danno come due sostanze positive tra cui si istituisce un
parallelismo ma si organizzano nell’apertura della Weltichkeit. Il loro legame “è da comprendere come il
legame del convesso e del concavo, della volta solida e della cavità che essa forma […]. L’anima, il per
46
sé, è una cavità e non un vuoto, non non-essere assoluto in rapporto a un Essere che sarebbe pienezza e
nucleo compatto.”[33]. Abbiamo notato come la cavità contribuisce all’introduzione “negativo fecondo”
nella filosofia merleau-pontiana. In una nota precedente a quella sopra citata, Merleau-Ponty respinge la
formulazione sartriana per cui il nulla (non-essere) debba esser concepito come un buco [hole]. Il
negativismo di Sartre è inaccettabile proprio perché, nella prospettiva avviata dalla nozione di chair, il
nulla è sempre un altrove[34]: questo altrove corrisponde alla ricerca di un nuovo orizzonte di senso che
non è nella forma della negazione assoluta ma che consiste nel taglio di una “altra dimensionalità”[35], di
un profondo che si scava dietro il positivo ma che resta “racchiuso nell’Essere come dimensionalità
universale”[36]. Le teorie sartriane escludo l’esistenza di un profondo come sdoppiamento dell’essere,
come il suo rovescio, poiché istituiscono un nulla che è abisso assoluto dove non si da profondità proprio
perché non c’è fondo. In Merleau-Ponty invece “il problema della negatività è il problema della
profondità”[37]: la cavità del soggetto è questo spazio accogliente in cui si accomoda l’Essere e dove
trova la sua risonanza. Ricaviamo allora da questa suggestione musicale un’identità di tipo relazionale
che si scopre sulla scena intersoggettiva: è nell’intersoggettivo, nella differenza, che si scopre il
soggettivo. La scoperta dell’identità si gioca tutta in un contesto di relazioni e non di categorie.
L’individualità nasce con l’atto espressivo e da esso viene gettata nel mondo laddove il sonoro rivela
un’unicità volitiva che si comunica. La soggettività si costituisce come un polo di mondo al quale è
profondamente integrata e la comparsa di tale polo è una dimensione di emersione dal presoggettivo. È
qui che il concetto statuario di soggetto entra in crisi perché viene inserito in un orizzonte gestuale dove il
mondo è un suo correlato inseparabile ed il corpo il garante e l’attivatore
di questa correlazione
ineliminabile: in questo contesto l’identità non è più derivabile dall’autoaffezione e dall’autocoscienza. Il
soggetto cartesiano dai tratti fortemente narcisistici che si pensa e pensa il suo pensiero aveva la
presunzione di ricavare la sua esclusività da una razionale considerazione di se stesso. È un soggetto
tondo su cui scivola la sua autoriflessione. Il creux merleau-pontiano invece ci suggerisce un’idea di
soggetto alternativa: il cavo permette soltanto una risonanza, una produzione sonora canalizzata verso
l’altrove. Sono necessari dei nuovi dispositivi che assicurino identità, legati a una nozione di unicità
corporea ottenuta dalla differenza. Il corpo è infatti al primo posto nella determinazione della differenza e
nella
voce
esso
si
esprime
come
timbro,
la
stoffa
di
un
respiro
e
di
un
grido
unico.
Giunge finalmente il momento in cui questo simposio fantastico tra pensatori necessita di un momento di
confronto empirico, di verifica sul campo. La decisione di integrare la riflessione con materiale
extrafilosofico corrisponde in larga parte allo spirito merleau-pontiano di considerare l’arte e la letteratura
come intimamente legati alla pratica filosofica: nel mondo dell’arte si replica con strumenti diversi
quell’interrogazione del mondo e dell’Essere che trova origine nella dimensione filosofica.
Ed è
esattamente qui che una voce estremamente autorevole entra in gioco a completare il nostro dialogo. Si
tratta del’esperienza musicale di Demetrio Stratos (1945-1979), una personalità coraggiosa le cui
sperimentazioni vocali (in lavori come Metrodora del ‘76 o Cantare la voce del ‘78 fino alla collaborazione
con J. Cage) offrono una fine e strepitosa ricerca musicale che lo vedrà trattare la sua voce come un
campo di indagine e il suo corpo come un vero e proprio laboratorio per lo studio delle potenzialità
espressive e delle qualità del mezzo vocale. Contemporaneamente a ricerche nel campo della poesia
fonetica e sperimentale, Stratos aveva iniziato da molto tempo un percorso mirato a liberare la voce da
qualsiasi dipendenza dalle tecniche sterilizzanti del canto occidentale così da restituirle uno spessore
adeguato. La straordinaria malleabilità del mezzo a sua disposizione gli permise di adottarlo come luogo
privilegiato di sperimentazione così da incrinare tutti quei registri che avevano archiviato la voce in
47
stilemi tecnici ed espressivi castranti. Il primo passo verso un inedito uso della voce fu quello di
considerare le corde vocali come strumenti musicali: “Oggi si parla dello strumento voce come di uno
strumento difficile da suonare ma contrariamente a qualsiasi altro strumento che può essere riposto dopo
l’uso, la voce non si separa mai dal suo proprietario e quindi è qualcosa di più di uno strumento.
L’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della
vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche.”[38] In queste poche righe si prefigura
quella che Stratos concepisce come una vera e propria liberazione della voce dagli automatismi della
comunicazione quotidiana, che l’hanno a lungo andare sterilizzata e confinata in una insignificante
neutralità. Inaugurare una “nuova vocalità” significa allora ridare fecondità allo strumento voce e alla sua
musica, riabilitare cioè una vocalità piena, in grado di dare spazio ad una completa espressività corporea.
L’effetto sconcertante che provoca la musica vocale di Stratos ad un primo ascolto è forse imputabile
proprio a questa nostra estraneità ad una vocalità così energica, dove insieme all’udibile viene
musicalmente riattivato anche l’inudibile: “di solito quando una persona parla non sentiamo i suoi respiri,
ma questi sono la parte più importante della voce”[39]. Lo spazio musicale si apre volontariamente ad una
massiccia componente rumoristica, condensa suono e rumore in un unico corpus espressivo, dove il flatus
vocis continua a svolgere un ruolo decisivo. “La voce di Stratos agisce nella prospettiva del rumore”[40]:
questo è vero nel momento in cui il grande rumorismo dell’emissione vocale va nella direzione di un
recupero di quelle caratteristiche istintive della voce, delle sue inflessioni grezze e selvagge, della sua
natura materica e somatica, tutti elementi soffocati nell’interazione quotidiana o nella voce musicalmente
conformata. Quello che risulta è un’espressività che lascia spazio ad ampi agglomerati di suoni spuri ed
erotizzanti (grida, gemiti, suoni gutturali), a tutti quei suoni non discreti del corpo sonoro: il pharmakon
musicale libera la voce e con essa libera anche il corpo. Il desiderio di rivitalizzare la vocalità si completa
con la conseguente esigenza di intervenire anche sulla pratica dell’ascolto musicale: “Se una nuova
vocalità può esistere, deve essere vissuta da tutti e non da uno solo: un tentativo di liberarsi dalla
condizione di ascoltatore e spettatore a cui la cultura e la politica si hanno abituato. Questo lavoro non va
assunto come un ascolto da subire passivamente”[41]. Stratos ha in mente una condizione di ascolto
patico, partecipativo e creativo, quasi rituale, in cui la distanza tra ascoltatore ed esecutore è stata
abbattuta in favore di una “fluidificazione del soggetto”[42]: l’esperienza musicale non ha più un carattere
lirico ma si è completamente estraniata dalla logica della rappresentazione e quello che prima veniva
indicato come soggetto scorre ora in un’intima comunicazione e correlazione di corpi. La rivoluzione della
tecnica vocale operata da Stratos conduce alla dissimulazione del carattere convenzionale delle pretese
tessiture naturali della voce umana arrivando a superarle e cambiarne il timbro. Il risalimento a tecniche
complesse quali difonie, triplofonie, quadrifonie dalle armoniche chiare e dense permette infatti a Stratos
di rimuovere in un solo colpo l’arida monodia vocale e di aprire la via a delle vere e proprie
microorchestazioni, in cui si scorgono continue variazioni di timbro ed una finissima polifonia. Il lavoro
sull’uso della voce che si incontra in opere come Metrodora, primo disco solista di Stratos del 1976, e nel
già citato Cantare la voce si configura come un’analisi sperimentale
delle qualità espressive dello
strumento vocale attraverso la sua scomposizione strutturale ma anche dei suoi portati psicoanalitici ed
etnomusicologici. Le acrobazie tecniche interne alla diplofonia mongola, pratica vocale di cui Stratos si
serve in questi lavori, non sono una pura esibizione virtuosistica ma rientrano in un progetto di
comprensione profonda di questo strumento attraente e pericoloso. “La complessità di questo lavoro è
capire
l’interiorità
delle
proprie
espressioni
vocali.
È
un
lavoro
di
curiosità
interiore.”[43]
La tecnica diplofonica mongola[44] (che nei lavori di Stratos non si incontra nelle sua forma originaria
48
quanto piuttosto modificata e integrata) propone un tipo di vocalità fisicamente molto impegnativa
proprio perché richiede un coinvolgimento globale di tutto l’apparato fonatorio: la tecnica addominale, il
movimento della lingua, l’atteggiamento della labbra e dei denti, l’intervento della laringe che strozza le
vocali devono essere gestiti in modo tale che, all’emissione della nota fondamentale (bordone)
corrisponda la possibilità di lavorare sui suoi armonici e sulle loro combinazioni melodiche. Il respiro viene
spinto alternativamente in una serie di risuonatori naturali e questo coinvolgimento nell’emissione vocale
di differenti agenti fonatori (nasale, labiale, palatale, della glottide o della cavità toracica) permette una
differenziazione timbrica locale in base al risuonatore impiegato. Tale tecnica di emissione che fa ricorso a
molti luoghi di risonanza propone un campionario di possibilità espressive estremamente diverse tra loro
e profondamente legate al luogo di formazione della voce stessa. La pratica diplofonica permette alla
voce di essere sviscerata nelle sue enormi potenzialità sonore e strutturali: il suono circola nelle parti
vuote del corpo seguendo un percorso metamorfico e viene scomposto nelle sue componenti armoniche
per poi essere in qualche modo ricomposto sulla struttura fondamentale del bordone. Nota fondamentale
e suoni concomitanti sono espressione cangiante della medesima entità sonora: gli armonici trascolorano
l’uno nell’altro ma in un unico orizzonte sonoro dove la nota fondamentale viene adombrata dai suoni
secondari, producendo un effetto dialettico di contrasto ed integrazione. Il bordone e le sue filiazioni
armoniche vengono a formare un corpo sonoro massiccio anche se internamente stratificato e sincretico:
la fondamentale infatti, si mantiene sempre su un fondale percettivo che agisce mascherato sotto una
potente armonia contingente, garantendo così l’identità della voce a se stessa. La fluidità del reciproco
trapassamento dei suoni nell’ambito del metamorfismo materico della voce diplofonica richiama quella
che viene definita aquaticità del suono e comporta frequenti passaggi dal suono musicale più o meno
discreto al rumore. L’esecuzione polifonica di motivi e frammenti di essi, le diplofonie, triplofonie o
quadrifonie di armonici, la commistione tra rumore e suoni puri, la sovrapposizione e l’interazione di un
bordone e di una voce di superficie realizzano una multifonia molto fitta. Le relazioni tra gli elementi ed il
gioco motivico tra i vari strati del flusso vocale (un’arte della variazione per cui l’identico non ritorna mai)
confluiscono tutti in una simultaneità densa e destabilizzante che “fa esplodere il tempo della voce,
spazializzandola e conferendole un volume quasi labirintico”[45]. Il risultato non è una scansione
temporale lineare o circolare ma un tempo rituale condensato. L’ascolto dei lavori di Stratos sull’uso della
voce è un’inquietante alternarsi di gorgoglii criptici, quasi fossero il ribollire di un corpo profondo ed
umido. Proprio per questo una tale esperienza musicale riesce a comunicare con estrema limpidezza
l’origine corporea della voce, cioè la sua provenienza calda, organica e salivare. Tra i gorgogli gutturali in
cui il fiato sembra fuoriuscire come fosse spinto e forzato dentro cunicoli del cavo faringeo, dietro lo
strozzamento e la compressone della materia sonora che produce sibilii e fischi, si riesce a percepire una
carne vibrante ed una cavità carnosa tesa sopra un vuoto carico di fiato. Il flusso corporeo della voce
viene interrotto e alimentato dal respiro che, oscillando e ritirandosi, irrompe nell’esecuzione come
scansione ritmica e temporale. Il corpo trova voce e prende voce, la carne si esprime come presenza
massiccia. La funzione semiologia della voce è qui chiara nella sua natura di rinvio segnico ad un corpo.
La circolazione del suono vocale nelle cavità corporee produce una tensione della voce stessa che,
sempre protesa verso un nuovo spostamento e una nuova mutazione timbrica, oscilla tra l’espansione e
lo sprofondamento del suo spazio di esistenza. Sotto la pressione del respiro, sospinto verso le pareti
cavernose dell’apparato fonatorio, si percepisce la fatica di un corpo forzato al limite delle sue possibilità
espressive, direi che quasi si sente il corpo: la carne sembra sull’orlo dello sfibramento e della
dilatazione. In queste deformazioni della tessitura naturale e del consueto uso dello strumento voce ci si
49
accorge della sua inespressa potenza: essa, entità immateriale invisibile, fantasma sonoro riesce a
sottomettere il corpo massiccio. La componente eminentemente timbrica della pratica vocale di Stratos ci
ha permesso di osservare come la localizzazione corporea della voce ne influenzi radicalmente la sua
natura: se il gesto vocale, per il suo implicito carattere relazionale, proietta l’emittente verso un “là fuori”
di ordine sociale, è il corpo che garantisce l’identità vocale di un “qui dentro”, che si costituisce come il
rimbalzo dell’azione della voce.[46] Nell’ambito di questa dinamica tra interno ed esterno il momento del
rimbalzo ha una potenza formativa molto forte, soprattutto a livello immaginativo: è il fuori che
costituisce retrospettivamente il dentro. Come la voce prende vita all’esterno, essa inizia ad esistere
anche all’interno. La cavità, spazio di esistenza del dentro, possiede un coefficiente assiologico molto
particolare e molto ambiguo: la bocca e tutto l’apparato fonatorio rappresentano, oltre che un’uscita, una
discesa in sé. Questa discesa è accompagnata da una qualità termica, un calore dolce e lento, per nulla
bruciante ed estraneo: esso è il calore dell’intimità. Lo schema discensionale ha inoltre una densità
cromatica tipicamente notturna. La fenomenologia della cavità[47], che ha inizio dal ventre materno, il
primo cavo ad essere avvalorato positivamente, si lega, attraverso queste caratterizzazioni tipicamente
materne e protettive, alla simbolica dell’intimità. L’isomorfismo tra la bocca ed il ventre chiarisce come la
profondità del nostro corpo è sempre ed immediatamente intima. Il simbolismo del corpo, nel suo
richiamo ad un profondo dentro che si apre al fuori, traduce nell’immaginario un’intimità che si svela. La
voce è un farsi avanti, un venire in presenza o piuttosto “un operare di essa un rafforzamento”[48] sulla
scena intersoggettiva: come tutti i suoni annunciano la cosa materiale di cui sono vibrazione e riverbero,
anche
la
voce
richiama
ad
un’esistenza
carnale
nell’atto
espressivo
di
rivelarsi.
È certo inoltre che alla base della pratica vocale di Stratos si trova una questione ancora più originaria del
metamorfismo timbrico, il problema dell’intonazione. Con il termine intonazione ci riferiamo a quell’abito
di risposta ad un’istanza volitiva di tipo espressivo, a quel gesto che comporta un’uscita da sé, il
superamento del confine dell’interiorità e quindi una risonanza. Si tratta in ultima istanza della voce che
cerca espressione, di un’intenzionalità che si completa secondo fini sonori. E proprio in questo si
intravede il senso del gesto vocale (e non soltanto ad un livello artistico ma anche internamente ad un
più comune commercio quotidiano): intonare significa modellare la concreta materia vocale, selezionare il
tessuto
sonoro
e
fonico
per
precisi
fini
comunicativi
e
per
precise
configurazioni
di
senso.
Nell’iperbole musicale di Stratos l’intonazione è l’indagine stessa, essa è l’interrogazione forte della
ricchezza articolatoria della voce. La deformazione del materiale sonoro attraverso il respiro corrisponde
infatti ad un preciso progetto espressivo: la gestione e l’intervento sul respiro apre ad una dimensione
nuova in cui prolifera materiale sonoro nuovo e variamente sperimentabile. La deformazione costituisce
allora una riserva di materiale fonico interrogabile. Ed è proprio con questo materiale che Stratos realizza
una profondissima riflessione sulla natura del suono: sul suono come materialità, sul suono come entità
che si muove, sulla sua dinamicità e la sua transitività. In definitiva, sul suono come fenomeno.
50
[1]
G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano, 1991, p. 83. [2] A. Schaeffner, Origine des instruments
de musique. Introduction ethnologique à l'histoire de la musique instrumentale, Paris, Payot, 1936, rééd. par Mouton &
Co et Maison des Sciences de l'Homme, 1959, traduzione italiana a cura di D. Carpitella, Origine degli strumenti
musicali, Sellerio, Palermo, 1978.
[3]
C. Serra, La voce e il riferimento. Una discussione su “À l’écoute” di Jean-Luc Nancy, in "De musica", VIII, 2004,
Internet, http://users.unimi.it/~gpiana/demus.htm, p. 14.
[4]
D. Carpitella, Introduzione all’edizione italiana di A. Schaeffner, Origine degli strumenti musicali, cit., p. 12.
[5]
Ibidem.
[6]
A. Schaeffner, op. cit., p. 23.
[7]
A. Schaeffner, op.cit., p. 25.
[8]
Ibidem.
[9]
Ibidem, p. 26.
[10]
Ibidem.
[11]
Ibidem.
[12]
Ibidem, p. 27.
[13]
Ibidem, p. 28.
[14]
Ibidem, p. 33.
[15]
Ibidem, pp. 38-39.
[16]
C. Serra, op. cit., p. 15.
[17]
A. Schaeffner, op. cit. , p. 47.
[18]
C. Serra, op.cit., pp. 14-15.
[19]
A. Schaeffner, op. cit., p. 49.
[20]
Ibidem, p. 50.
[21]
Ibidem, p. 60.
[22]
D. Carpitella, op.cit., p. 12.
[23]
A. Schaeffner, op. cit., p. 161.
[24]
C. Lefort, Postilla all’edizione italiana di M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 295.
[25]
M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1945, tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia
della percezione, Bompiani, Milano, 2003, p. 297.
[26]
M. Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili, Quodlibet, Macerata, 2004, p. 46
[27]
M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, texte établi par C. Lefort, Gallimard, Paris, 1964, tr. it. di A. Bonomi
riveduta da M. Carbone, Il visibile e l’invisibile, nuova edizione italiana a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano, 1993,
p 235.
[28]
M. Carbone, op. cit., p. 46
[29]
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 274.
[30]
Ibidem.
[31]
Ibidem, p. 275.
[32]
Ibidem, p. 262.
[33]
Ibidem, pp. 246-247.
[34]
Ibidem, p. 212.
[35]
Ibidem, p. 249.
[36]
Ibidem.
[37]
Ibidem.
[38]
D. Stratos, dichiarazione reperita in http://www.demetriostratos.com/stratofonia.htm.
[39]
D. Stratos, Diplofonie ed altro, originariamente apparso in “Il piccolo Hans – rivista di analisi materialistica”, n. 24,
ottobre-dicembre 1976. Il testo è stato reperito in J. El Houli, Demetrio Stratos. Alla ricerca della voce musica,
Auditorium Edizioni, Milano, 1999, p. 25.
[40]
J. El Houli, op. cit., p. 95.
[41]
Demetrio Stratos, note di copertina per Metrodora, Cramps Records, Milano, 1976.
[42]
J. El Houli, op. cit., p. 62.
[43]
D. Stratos, dichiarazione reperita in http://www.demetriostratos.com/stratofonia.htm
[44]
Per una più ampia analisi delle tecniche diplofoniche mongole cfr. C. Serra, La voce e lo spazio, Edizioni Spazio
Temporaneo, Milano, 2005.
[45]
D. Charles, Omaggio a Demetrio Stratos, Milano, intervento al Convegno “Cantare la voce”, 29-30 maggio 1989).
[46]
La terminologia è presa dal testo di C. Sini, La mente e il corpo. Filosofia e psicologia, Jaca Book, Milano 2004, pp.
100-101.
[47]
Per una più precisa analisi dei portati immaginativi della cavità, cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche
dell’immaginario: introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, Bari, 1972.
[48]
G. Piana, Riflessioni sul luogo in Id. La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Guerini e
Associati, Milano, 1988, p. 266.
5-Il canto di tradizione orale a Cosola
Il rimpianto per un mondo caratterizzato da durezze e povertà, ma anche da momenti di
convivialità e socializzazione oggigiorno quasi inconcepibili, si traduce sempre più spesso nella
volontà di valorizzarne gli aspetti positivi. Gli abitanti di Còsola in alta val Borbera, non
diversamente dai loro vicini delle valli confinanti, benché costretti dal corso degli eventi a
vivere e lavorare altrove, hanno conservato un forte legame affettivo per il loro paese, come
pure per quel ricchissimo patrimonio di canti che un tempo risuonavano in ogni momento della
giornata: si cantava nell'aperto dei pascoli, accudendo le bestie o sfalciando i campi,
trebbiando il grano o scartocciando il granturco, nel calore delle stalle, tra il fumo dell'osteria
come tra l'incenso della chiesa. E si cantava nei momenti rituali del matrimonio e del
carnevale, quando risuonavano anche le note del piffero. Un tempo il piffero era anche
utilizzato per accompagnare la melodia degli stranôt, canti rituali o narrativi, diffusi in tutte le
valli delle Quattro Province. A Cosola era attivo lo stimato pifferaio Damiano Figiacone che si
distingueva anche come cantore. Il canto religioso rappresenta un importante capitolo nella
tradizione
canora
locale,
passata
e
presente. Quasi tutti i canterini del paese
sono anche esecutori di canti liturgici.
A Cosola, come altrove nelle valli delle
Quattro Province, convivevano il canto a
terze (basato cioè su intervalli di terza),
diffuso in varie modalità in tutta l'Italia
settentrionale, e il trallalero ligure, canto
genovese
dalla
caratteristica
impostazione contrappuntistica. Si ritiene
che questo stile di canto sia stato portato
dai primi villeggianti genovesi, anche se determinante potrebbe essere stata la presenza di
squadre di trallalero nella vicina valle Scrivia, e il passaggio dei mulattieri che portavano merci
dal genovesato verso l'entroterra e viceversa. Gli stessi cantori eseguivano entrambi i
repertori, anche se il trallalero era considerato un canto più esclusivo e "professionale", mentre
più libero, conviviale e alla portata di tutti era considerato il canto locale.
Nella squadra di trallalero, come di consueto, si avvicendavano vari canterini, anche se si
possono indicare alcuni membri pressoché stabili del gruppo: Ivo Burrone, Sergio Negro,
Biagio Novelli "Biazen", il figlio Luigi Novelli, Cornelio Callegari, Giovanni Negro "Péveri",
Davide Novelli "Dolu". In particolare, il baritono (cuntrubassu) Sergio Negro è stato attivo per
alcuni anni anche nella squadra di Grondona ed ha preso parte alle registrazioni effettuate nel
1982 da Mauro Balma per il suo studio dedicato alla polivocalità della montagna pavese [La
polivocalità della montagna pavese / Mauro Balma (( Pavia e il suo territorio -- Silvana : Milano
: 1990].
Sull'onda della ricerca e dell'interesse folkrevivalistico degli anni Sessanta, i canterini cosolani
hanno preso parte nel 1968 alle celebrazioni per l'ottavo centenario della fondazione della città
di Alessandria. La prematura scomparsa di gran parte dei componenti del gruppo e la parziale
disgregazione del tessuto comunitario hanno purtroppo posto termine all'esperienza di una
squadra prestigiosa. Il trallalero cosolano resta documentato da sei tracce registrate nel 1958
da Pietro Negro "Pidron", un cosolano immigrato in Argentina, mentre esempi del canto
tradizionale locale sono contenuti in un nastro registrato dal parroco del paese don Romolo
Boccardo, alla vigilia della partecipazione dei canterini alla manifestazione di Alessandria,
presso l'Albergo del Ponte: la prima
voce è quella di Battista Negro, zio
di Giovanna e Romana.
Accanto
alla
pratica
polivocale esisteva
vastissimo
narrativo,
arcaiche,
del
canto
a Cosola un
repertorio
spesso
talvolta
su
in
liricomelodie
forma
di
stranôt. Si tratta di un repertorio
facilmente riconducibile, pur nelle
varianti locali, alla classificazione operata dal Nigra (1828-1907), il diplomatico canavesano
che realizzò la prima raccolta sistematica di canti popolari piemontesi [Canti popolari del
Piemonte / Costantino Nigra -- Torino : 1974]. Di questi canti erano spesso depositarie le
donne, e a Cosola è rimasta una preziosa documentazione del repertorio di Mafalda e Maria
Negro, raccolto intorno alla fine degli anni Settanta dai ricercatori del Centro di Cultura
popolare "G. Ferraro" di Alessandria. Le due sorelle, dotate di una memoria prodigiosa, sono
tuttora fonte di trasmissione orale per alcuni dei canterini protagonisti di questa raccolta.
L'esperienza della monda è unanimemente riconosciuta come una delle principali fonti di
arricchimento del patrimonio canoro della comunità, e il repertorio lirico-narrativo è per lo più
caratterizzato dall'utilizzo di un dialetto che potremmo definire
"letterario", ma sicuramente più vicino ai dialetti parlati in Lomellina
e nel Vercellese. Nel repertorio locale entrarono anche i canti della
Grande
guerra,
ma
non
sembra
ne
sia
rimasta
traccia
considerevole, come pure legati alla contingenza storica sono
rimasti i canti della Resistenza.
Impossibile ricordare in questo spazio limitato tutti i cosolani che si
distinsero
nella
quotidiana
pratica
del
canto
tradizionale.
Ci
limitiamo ad un cenno a quei suonatori che furono protagonisti delle
innumerevoli occasioni festive e rituali che animavano la vita del
borgo appenninico, come il bravissimo fisarmonicista Mario Negro, i
fisarmonicisti Luciano Burrone e il figlio Silvano. Anche il clarinettista Giovanni Burrone, detto
"Giuanen dee clarinettu", è ricordato con stima e affetto, sia a Cosola che nei paesi delle vicine
valli.
Alcuni Brani
1: Vieni oi bella
Quando Afrodite arriva a Cipro, la terra rinverdisce sotto i suoi piedi. Al ritorno di Persefone
dall'Ade, la terra trema, spuntano fiori e crescono frutti. Non è solo un'immagine poetica, ma
anche l'antichissimo archetipo della donna portatrice di fecondità. Vi si sono ispirati i poeti
d'ogni tempo e lo ritroviamo in questa serenata dagli spiccati toni lirici.
2: Angiolina bella Angiolina
Questo canto cela un piccolo enigma linguistico, tutto locale, per risolvere il quale occorre
pensare alle caratteristiche del dialetto parlato nell'alta val Borbera: chi sono i "piemontesi con
la lingua dei genovesi" esperti nell'arte amatoria? Il dibattito è aperto.
3: Lei mi voleva bene
Il giardino e la fonte, promesse d'amore. La canzone popolare, come sempre, è custode di
simboli antichissimi. L'origine più prossima è ancora nella lirica medievale, che pullula di
giardini e fontane in prossimità delle quali accade qualcosa di fatale.
4: Cosetta
La drammatica storia di Cosetta era tra le preferite dai mulattieri di Bogli, paese della
confinante val Boreca dalla prestigiosa tradizione canora. Si fermavano a mangiare e bere nelle
osterie di Cosola, e cantavano. A Cosola era rimasto solo un ricordo frammentario di questa
canzone, ricostruita grazie alla memoria di Maria Negro e dei fratelli Marco e Pio Negro.
5: Perché piangi
Il canto è eseguito dalla voce solista di Romana Negro.
Un canto di lontananza, tema sentimentale eterno, qui
contestualizzato nel dramma moderno della partenza
per il servizio militare.
6: Dimmi che növa
È uno stranôt entrato nel ciclo matrimoniale al pari di
Sposina. "Dimmi che növa" è un canto lirico, molto
toccante, che, contrariamente a "Sposina", non presenta
accenti drammatici. La melodia da piffero plasma ampie
campiture che evocano gli spazi aperti di una sera
d'estate al di sotto del solito fatale balcone.
7: Tutte le lettere
Possiamo immaginare che molte ragazze si siano riconosciute in questo canto di disarmante
semplicità, dove la collera per l'abbandono da parte dell'amato si stempera in malinconia e
dolcezza. Il genere della lettera d'amore, improntata al dolore per l'abbandono e al ricordo
della felicità trascorsa, nasce probabilmente con le Eroidi di Ovidio (43 a.C. - 17 d.C.). Conosce
poi l'enorme fortuna dell'età "ovidiana", tra il 12' e 14' secolo e si diffonde nel Rinascimento in
tutte le letterature europee. In Francia, scrive Gabriella Leto, "nel secolo 18', si diffuse un
genere di lettera lacrimosa e galante, elaborata sul modello delle Heroides" [Le Eroidi. p 9 /
Ovidio ; G Leto -- Torino : 1966].
8: Maiulin
"L'infanticida condannata è argomento di canto popolare in quasi tutti i paesi", scrive il Nigra a
proposito di quei canti da lui stesso riuniti sotto il titolo di "Infanticida alla forca" [Nigra. 10].
La versione cosolana presenta un testo semplificato rispetto a quelle riportate dal Nigra, dove
fa la sua apparizione il consueto gentil galant che chiede di vedere la bella prigioniera. Gli vien
risposto che la vedrà sì, ma in compagnia del boia che si appresta a giustiziarla. Però il tema
simbolico centrale, il bambino gettato nell'acqua, è presente nella nostra canzone, ed è forse
questo il nucleo più antico, mitologico o leggendario, della storia, che nelle versioni anglosassoni e germaniche si evolve nel salvataggio del bimbo da parte degli angeli e nel suo
ritorno, dopo sette anni, a visitare la madre in prigione. Il salvataggio del bimbo affidato alle
acque è uno dei temi più antichi della storia dell'umanità ed è superfluo qui ricordarne gli
esempi.
9: La strada nel bosco
Un altro viaggio nella natura assunta a simbolo dei piaceri amorosi. Terra, mare e cielo
risuonano in cosmica congiunzione nei tratti essenziali del canto di tradizione. La spontaneità
ed originarietà della poesia popolare è come sempre sicuro antidoto al cattivo gusto.
10: Bosch ad Dâi
La più cosolana delle canzoni qui raccolte. Se ne ricorda
l'autore, soprannominato Sataturnu, che la compose per
celebrare
il
suo
matrimonio
forse
anomalo,
che
presumibilmente suscitò commenti sarcastici nei compaesani.
Lo sposo annuncia il suo arrivo al paese dell'amata con una
"brugida", ovvero un grido animalesco, poco convenzionale,
ma in pieno spirito carnevalesco. Che i carnevali tradizionali
abbiano nella parodia del matrimonio uno dei loro temi
centrali è infatti cosa risaputa e non estranea alla cultura
tradizionale delle Quattro Province. L'arrivo a Cosola del
corteo nuziale è annunciato dal suono di piffero e cornamusa
(quest'ultima segnalata dall'uso dell'espressione "sgunfiai i
suonatori" nella versione delle sorelle Mafalda e Maria Negro).
Benché tutti sminuiscano le grazie e l'altezza della sposa,
l'innamorato non recede e si ripropone di rimediare con "un
paio di scarpettin ben alte di calcagno", e due anellini che
certo accresceranno la bellezza della fanciulla di Daglio. La
canzone richiama, per la melodia e il motivo delle "scarpette
ben alte di calcagno" la più nota "Sü e zü per San German".
Quando sun stâ inti boschi d'Dâi
l'ü trâi d'üna brügida,
la mê Tranquilla la m'â sentì
e l'ê rimasta stramurtita.
Quando sun stâ insela piana
con una coppia di suonatori
tüta la gente curivan lâ
per vedere la mia sposa.
Tutti mi dicevano che l'era piccolina
ma mi la me pâr grânda,
mi che sun 'ndâi aposta a Dâi
per piâla bêla grânda!
Ti comprerò un par de scarpettin
un po' alti di calcagno.
I scarpettin i te van ben ben, te stan proprio ben,
ma sono alti, troppo alti.
Ti comprerò un par di anellin
che pendon giù d'in gloria
e giù d'in gloria, e giù d'in ciel, cara la mia bella come ti voglio ben,
e ti prego di non lasciarmi.
11: Le carrozze
Diffusissimo canto, entrato a far parte del rituale matrimoniale quasi con funzione didattica. Lo
si ritrova in varie zone del Nord Italia. Presenta un'interessante commistione di toni lirici,
drammatici e realistici.
12: Re Gilardin
Insegnata da Maria Negro al figlio Renzo
Negruzzo e alla nuora Romana. Nigra ha
titolato la canzone, nelle sue numerose
varianti, "Morte occulta". Il diplomatico
canavesano riporta quindi l'opinione di
Svend
Grundtvig
che,
dopo
aver
analizzato in uno studio comparativo del
1881 i canti popolari di varie regioni
europee aventi attinenza con il contenuto
della canzone, riconobbe alla stessa
un'origine celtica. Forse il Grundtwig
pervenne a tale conclusione avendo
presente il tema del "re ferito", proprio
dell'antica letteratura celtica. Romana
racconta di aver appresa da bambina, in
forma di fiaba, la storia narrata nella
canzone e di averne imparato la melodia solo successivamente, dalla voce della suocera, Maria
Negro.
13: Il fraticello
Il diffusissimo motivo popolare del frate traditore sfocia in una morale decisamente alternativa
rispetto alla furiosa gelosia omicida del marito cornuto. Una morale improntata al buon senso,
che potremmo definire "naturalistica", e alla quale viene altrettanto naturale aderire, anche se
risulta difficile pensare che la schiettezza della sposina abbia potuto placare le ire del consorte
ingannato. Nigra titola "Il taglione" una canzone raccolta nel biellese dove si trova lo stesso
atteggiamento da parte di una sposa infedele: "O piano, piano, marito caro, le mie ragioni
lassêmie dì | Tu me l'hai fatta nel mez di marzo, e te la rendo nel mese d'avril | Tu me l'hai
fatta cun na villana, e te la rendo ch'un citadin." Anche la nostra sposa "mal maritata" avrà
avuto qualcosa da rimproverare al marito.
14: Erano tre sorelle
Canto diffusissimo, presente nella tradizione orale di varie regioni del nord e del sud d'Italia. È
pervaso da un'atmosfera onirica e denso di simbolismi. Il tema è quello dell'iniziazione
all'amore, simboleggiata dalla caduta in mare dell'anello. Le diverse versioni presentano esiti
altrettanto differenziati, proprio come nella vita. Nigra, che titola la canzone "La pesca
dell'anello" [66], riporta un'opinione dotta secondo la quale il motivo della pesca dell'anello
avrebbe "qualche lontana relazione con la leggenda dell'uomo-pesce, incarnata nel pugliese,
messinese, o catanese Nicola-Pesce, detto Cola-Pesce, la quale, per suggerimento di Goethe,
fornì a Schiller l'argomento d'una delle sue celebri ballate" (Nigra, p. 415). Va detto che il
motivo delle tre sorelle in attesa di scoprire l'amore sulla riva del mare si ritrova in un'anonima
poesia provenzale del 12'-13' secolo, il cui incipit recita: "Trois sereurs seur rive mer |
chantent cler" ("Tre sorelle sulla riva del mare | cantano con voci chiare") [cfr. Poesia dell'età
cortese. p 422 / A Roncaglia -- Milano : 1961]. Chissà che una più attenta ricerca nella vasta
materia della lirica medievale non possa portare ad individuare più strette ascendenze.
15: Son tornata dalla Francia
Canto d'amore sublimato o semplicemente
impossibile; lei non è "né montanara né cittadina",
è invece una creatura soprannaturale, immacolata
come un giglio, forse scaturita da qualche antica
leggenda celtica. Anche qui il riferimento alla
poesia medievale (un altro anonimo del 11'-12'
secolo) è certo, anche se frammentario. Vi si trova
il tema dell'incontro, la provenienza dalla Francia,
il riferimento alla veste (che nell'antica poesia è
descritta nel dettaglio), e infine la dichiarazione delle origini soprannaturali della fanciulla: "La
seraine ele est ma mere, qui chantent in la mer salee | Et plus haut rivage" ("La sirena è mia
madre, | Che canta nel mare salso | Dove più fonda è la costa") [cfr. Roncaglia. p 417].
16: Adré la riva de lu mâr
L'incontro tra la pastorella e il cavaliere è il più classico esempio dell'ascendenza medievale dei
canti di tradizione del Nord Italia. Già il Nigra ne indicava la sicura corrispondenza con il
Carmen 119 dei celebri Carmina Burana (12'-13' secolo) reperiti nel monastero di
Benediktbeuren (da cui il nome della raccolta) in Baviera. Il finale della canzone è invece
analogo ad altri due carmi della stessa raccolta (120 e 52). Stranamente incruenta la punizione
paventata per l'eventuale infedeltà della pastora. Il canto affonda le sue radici nel repertorio di
quegli scolari vagabondi "vestiti da chierici, che nel 12' secolo e seguente, col nome di Goliardi,
giravano da scuola a scuola, da Bologna a Parigi, da Colonia a Pavia, da Toledo a Salerno..."
[Nigra. p 421-434]. Il motivo dell'uccisione del lupo e della profferta amorosa è al centro anche
del componimento di Adam de la Halle (13' sec.). La commedia di Robin e Marion, mentre il
tentativo di seduzione della pastorella da parte del cavaliere era motivo diffusissimo che dal
trovatore Marcabru, vissuto nel 12' secolo ("L'autrier jost'una sebissa | trobei pastora
mestissa..."), è pervenuto nelle ballate lirico-narrative dell'Italia settentrionale. Il canto è qui
eseguito in forma di stranòt, con la melodia del canto che si svolge parallelamente a quella del
piffero esaltando le doti vocali della canterina.
17: Era figlia di un fittavolo
Drammatica storia di abbandono e crudeltà, una figlia affranta e un padre disumano. Le mura
del convento, destino di segregazione per tante giovani vite, si ergono con la stessa cupezza
anche nella canzone Vorrei essere come una formica.La storia potrebbe basarsi su di un fatto
reale e rientrare nel repertorio dei cantastorie.
18: Signor capitano
Il dramma della lontananza dall'amata, dell'incontro mancato. Il bacio alla fanciulla amata
oramai morta è un tratto macabro di ascendenza medievale, esemplarizzato da Shakespeare in
Romeo e Giulietta, rinvigorito dal gusto romantico, ben radicato nella sensibilità popolare.
19: Stornelli della monda
Ben viva nella memoria permane l'immagine del camion che partiva verso le risaie della
Lomellina e del Vercellese, portando alla stagione della monda, verso un guadagno sudato,
magro ma sicuro, le donne cosolane. Partivano le ragazze lasciando il moroso, e partivano le
donne lasciando marito e figli. Vi era chi piangeva, ma le più cantavano, e se per la partenza
c'era un canto, ce n'era uno anche per il ritorno, magari imparato proprio tra le acque
limacciose delle risaie, grande mescita di canti tradizionali che lì confluivano da diverse aree
geografiche.
20: Vorrei essere come una formica
Il tema della metamorfosi ebbe fortuna immensa e duratura nella sensibilità popolare ed è
ampiamente documentato. Ancora una volta il pensiero vola ad Ovidio, alle sue "Metamorfosi",
l'opera che più d'ogni altra illustra la forza dei sentimenti e delle passioni che travalica i limiti
imposti dalla natura. In questo canto, sotteso al quale echeggia il suono dell'antico oboe
popolare, il chiarore solare dei lunghi capelli contrasta con la cupezza delle alte mura che
separano dal mondo la fanciulla segregata. Romana ha appreso questo canto dallo sconfinato
repertorio della suocera Maria.
21: Mâma mia mi vöi maridâm
Tutta la diffidenza del mondo contadino nei confronti di pretendenti
al matrimonio troppo blasonati. L'inganno è in agguato e la
diffidenza d'obbligo. Ma soprattutto erano le differenze tra i ranghi
sociali a non lasciare speranza di esito positivo ad una scelta
matrimoniale che avesse voluto infrangerne i confini. La melodia
lenta ed arcaica è di una ninna nanna, ed ogni ninna nanna, oltre ad
indurre la benedizione del sonno, rivestiva funzioni esorcistiche e
didattiche. Era la prima forma di insegnamento, destinato ad
imprimersi negli strati più profondi della coscienza. Zulema Negro ha
appreso questo canto dolcissimo dalla nonna Pinotta.
22: Margherita de la Piev del Cairo (Sposina)
Nigra riporta varie versioni di questa canzone, o di canti aventi un tema analogo, provenienti
dal Novarese, dal basso Monferrato, dalla collina di Torino, dal Canavese e dal Monferrato
["Sposa per forza": 37]. "Il tema della maritata a malincuore, che muore di cordoglio, è
specialmente caro alla poesia popolare della bassa Bretagna" (Nigra, p. 243). Della
lunghissima e bellissima ballata, che testimonia anche lo stile antico del canto epico-narrativo,
riportiamo la parte che, scorporata dal resto della canzone, entrò a far parte del rituale
matrimoniale. Alla gioiosità di "Bella növa" e al lirismo venato di crudezza di "Le carrozze",
"Sposina" contrappone la descrizione drammatica di una realtà costante del mondo contadino
(ma non solo) del passato, ovvero il matrimonio per forza o per convenienza. Ma la poesia del
canto è tutta dalla parte di lei, come per compensare una secolare ingiustizia.
23:L'usignolo
24: Paloma
Nel 1958 un emigrato cosolano in America, Pietro Negro detto Pidròn, registrò sei brani di
trallalero eseguiti dalla squadra di canto di Cosola. I dischi, gentilmente concessi in prestito
dalla proprietaria Elsa Callegari "Adele", sono stati masterizzati e, nei limiti del possibile,
restaurati. La bassa qualità della registrazione nulla toglie al valore documentario di questi
esempi di "trallalero montanaro". Dei due brani riportati il primo rientra a pieno titolo nello stile
del trallalero, mentre il secondo è una elaborazione polivocale di un brano non di tradizione
locale.
6-Appunti per una ricerca etnomusicologica
nel territorio di Paluzza
Un radicato luogo comune vuole che “oramai” la musica di tradizione orale sia del tutto
scomparsa (o comunque in via di rapida sparizione) e solo interrogando qualche arzillo
vecchietto con buona memoria sia possibile, forse, “ricostruire” le “antiche melodie del
popolo”. Al riguardo probabilmente i lettori ricorderanno la grottesca caricatura presentata nel
film di Mario Monicelli, Speriamo che sia femmina, dove il personaggio interpretato da Paolo
Hendel, alla ricerca di “arcaiche testimonianze del mondo contadino” va a registrare dei canti
da una vecchina in letto di morte, salvo poi scoprire — dopo che i suoi “preziosi” nastri
finiscono distrutti — che quei canti nella zona li conoscevano tutti, anche la sua giovane
fidanzata (Giuliana De Sio). In realtà basta andare in giro con le “orecchie ben aperte” per
trovare ancora oggi in tutta Italia un notevole patrimonio di canti di tradizione orale. Canti
conosciuti non solo dagli anziani ma anche da numerosi giovani (1) che vengono eseguiti
normalmente, soprattutto nelle occasioni in cui una comunità si incontra, nelle feste e nelle
ricorrenze pubbliche e private. Certamente i canti che oggi si ascoltano sono ben diversi da
quelli del passato. È questo un assunto che deve essere ben chiaro onde evitare
fraintendimenti. La tradizione orale non è qualcosa di immutabile: essa cambia con il
succedersi delle generazioni, modificando ed adattando i repertori alle nuove realtà della vita
sociale, abbandonandone definitivamente altri, man mano che vengono meno i contesti e le
funzioni cui erano connessi. Così ad esempio è del tutto normale che certi canti corali legati ai
lavori agricoli del passato siano del tutto scomparsi con la diffusione delle macchine: che senso
avrebbe (e come si potrebbe) cantarli oggi, che so, sul trattore? D'altra parte le trasformazioni
nella musica tradizionale non sono certo una novità della nostra epoca. Di esse, ad esempio, si
lagnava più di un secolo fa il folklorista trentino Nepomuceno Bolognini il quale dichiarava di
raccogliere i testi dei canti del popolo che secondo lui «a poco a poco vanno scomparendo,
soffocati e rimpastati dall'invadente affratellamento dei popoli che viene, viene a corsa sfrenata
nei posti di terza classe delle ferrovie e dei tram a vapore o a cavalli che sia»! (2)
Al contrario di ciò che spesso si pensa, l’etnomusicologo non ha il compito di “ricostruire” il
passato o attribuire “etichette” di autenticità a quanto viene ancor oggi eseguito. Egli,
piuttosto, si propone di registrare e studiare i cambiamenti in corso ed interpretarli alla luce
delle odierne dinamiche della nostra società. (3). Quello che segue è
un progetto di studio
etnomusicologico sulla musica di tradizione orale dell'Arco Alpino. Obiettivo di tale iniziativa è
infatti la definizione dell'odierna dinamica della musica etnica alpina, di studiare cioé cosa,
quando e come viene oggi eseguito nei paesi e nelle diverse comunità valligiane, con
particolare riguardo al canto polivocale, (4) ritenuto — come dirò tra poco — una delle sue più
importanti espressioni. In questo contesto lo scrivente, insieme con un gruppo di studenti ha
avviato uno studio specifico sul repertorio di tradizione orale nel territorio di Paluzza. Tale
repertorio presenta infatti numerosi motivi di interesse che tra l'altro possono essere
considerati rappresentantivi, per molti aspetti, di certi meccanismi più generali caratterizzanti
la cultura musicale alpina nel suo complesso. Fra questi, in primo luogo, il fatto che nello
stesso territorio comunale convivano comunità abitative diverse fra di loro, ciascuna con una
specifica e spiccata identità culturale. Ne consegue che lo studio comparato della pratica
musicale delle diverse località che compongono il comune di Paluzza può offrire in piccolo una
immagine di come anche nell'ambito di territori relativamente ristretti si siano potute
sviluppare ed attualmente persistano identità etno-musicali differenti fra di loro. Identità che
pur presentando una comune struttura musicale rivelano elementi stilistico-espressivi alquanto
diversi e chiaramente caratterizzanti. Lo studio è stato avviato ovviamente con una prima fase
di ricognizione della documentazione bibliografica e sonora realizzata nel passato. In
particolare
è stato possibile conoscere alcune registrazioni effettuate in paese negli anni
Settanta da Pietro Sassu e Piero Arcangeli, nonché i materiali raccolti e presentati in una prima
trascrizione da Claudio Noliani nella sua importante raccolta Anima della Carnia che sono stati
rieseguiti negli anni Cinquanta dalla corale Birchebner di Topogliano diretta da G.... Famea. (5)
Quindi si è proceduto alla trascrizione su pentagramma delle registrazioni realizzate a Cleulis
da Valter Colle e Lino Straulino alcuni anni fa (..... ). Attraverso tali trascrizioni — realizzate
con criteri corrispondenti alla più moderna etnomusicologia (6) — sono emersi una serie di
spunti di analisi e studio. Fra questi la cosiddetta questione delle varianti, fondamentale per
qualsiasi indagine sulla musica di tradizione orale. Si è infatti verificato come, benché la
struttura dei canti di Cleulis (come la quasi totalità dei canti tradizionali del Nord Italia) sia di
tipo strofico (stessa musica per tutte le strofe del testo verbale), succede di norma che un
cantore (o un gruppo di cantori) realizzi delle varianti notevoli nel corso dell'esecuzione,
modificando continuamente lo stile e l'agogica del canto, ma anche elementi minimi della
melodia e del ritmo (che comunque risultano sempre chiaramente riconoscibili). Ciò è ben
rappresentato dal seguente esempio musicale in cui viene confrontata da prima e la quarta e
ultima strofa di un canto eseguito a voce sola dalla signora Anita Puntala di Cleulis. Preciso che
i criteri di notazione utilizzati mirano ad evidenziare l’articolazione della strofa in versi musicali,
ciascuno dei quali occupa un singolo rigo. Non viene esplicitata la struttura metrica ma essa
risulta comunque facilmente ricavabile alla lettura. Il raggruppamento dei valori ritmici intende
suggerire l’articolazione base del fraseggio musicale. La sillabazione del testo verbale non tiene
in considerazione le convenzioni ortografiche dell’italiano bensì mira a rappresentare il rapporto
nota-sillaba così come effettivamente esso si presenta. (7)
I segni diacritici utilizzati sono i seguenti:
Si osservi, fra l’altro, come la prima strofa sia articolata in quattro versi mentre la quarta
strofa presenti la ripetizione degli ultimi due versi. (8) Casi del genere sono piuttosto frequente
nella musica di tradizione orale e rientrano fra quei meccanismi performativi attraverso cui il
cantore ha la possibilità di apportare ogni volta delle modifiche alla propria esecuzione
(allungandone o accorciandone di conseguenza la durata).
testo verbale
Benedetis ches promesis
c'a son dadis tantis di cûr
profonditis son talmenti
che nissun lis gjava fûr
Benedeta sei la tier
(e) che al pescje il gior plevan
benedeta che zornade
c'a mi met la vera in man
Benedeta sei che mari
c'a mi a dat chel biel fantat
ie ie lade lontanone
a toli (cjoli) su chel biel ritrat
Che travierse qualchelade
ches cjalzutis a colors
chel cjapel plen di curdelis
ue (i) nuviz ce bien splendôr
chel cjapiel plen de curdelis
ue (i) nuviz ce bien splendôr
Accanto alle questioni generali relative alla verifica dei meccanismi di formalizzazione musicale
(le varianti, le diverse formazioni delle strofe, il rapporto ritmo musicale - metro poetico
eccetera) le trascrizioni degli studenti hanno evidenziato anche altri motivi di interesse, più
specifici alla realtà di Paluzza. È infatti emersa con tutta evidenza la grande varietà e
l’ampiezza dei repertori documentati nel territorio comunale: dalle villotte in friulano, ai canti
propri della Carnia nell’idioma locale e a quelli nella lingua di Timau (propri cioé della
minoranza etnico-linguistica che ivi risiede); dalle ballate e dai canti narrativi in italiano ai
repertori infantili; dalle memorie dei canti di guerra a quelle delle forme connesse al lavoro, e
così via, a cui si aggiungono pure diversi repertori per varii organici strumentali (che
comunque in questa fase iniziale della ricerca non sono stati ancora specificamente
considerati).
Pertanto, dopo questo preliminare ascolto “da lontano” si è organizzato un primo rilevamento
su campo nei giorni 15 e 16 novembre 1997 nelle località di Cleulis e Timau. Tale rilevamento
(condotto con l'aiuto di Lino Staulino, di due studenti dell’Università di Udine — Claudio e ....,
...., e con la guida e l’ospitalità offerti da Valter Colle) (9) è servito soprattutto ad una presa di
contatto con la realtà del territorio di Paluzza e con una serie di cantori in vista di un ben più
articolato soggiorno che si svolgerà nella prossima primavera. Nonostante il carattere
preliminare, tale rilievamento ha permesso di raccogliere una importante documentazione ed
una ricca messe di informazioni su diversi aspetti del repertorio locale. Fra l’altro una specifica
attenzione è stata rivolta alla pratica polivocale, pratica che senza dubbio costituisce ancora
oggi
l'espressione
più
significativa
del
patrimonio
musicale
di
Paluzza.
In particolare la polivocalità di Cleulis che abbiamo avuto modo di ascoltare in vivo nel corso di
due diversi incontri con altrettanti gruppi di cantori risulta imperneata su due parti vocali nel
registro medio che si muovono per moto parallelo a distanza intervallare di terza. A queste nel
caso di gruppi misti si aggiunge una parte maschile al grave che ripropone sul proprio registro
la melodia e/o ribatte le note più importanti della scala con lo stesso ritmo delle due voci
superiori. Una ulteriore aggiunta si può avere invece all’acuto mediante un raddoppio all’ottava
superiore di una delle due parti vocali femminili. Il numero delle voci che cantano una è
indipendente rispetto a quello delle altre. Ad esempio nel corso della prima registrazione (la
sera del 16 novembre) si sono ascoltate esecuzioni quasi sempre a tre parti vocali: la superiore
femminile era svolta da due donne; l’inferiore femminile da quattro donne (una delle quali in
certi canti raddoppiava all’ottava superiore aggiungendo una quarta parte) mentre la parte
maschile era svolta da un solo cantore. Nelle registrazioni del secondo incontro (17 mattina) si
sono avute invece esecuzioni a due parti maschili ciascuna realizzata da due o tre cantori.
Tale struttura esecutiva costituisce la norma del canto corale di tradizione orale di tutto l’Arco
Alpino e più in generale dell’Italia centro settentrionale e di una ampia zona del continente
europeo a ridosso della stessa regione alpina e verso oriente fin quasi verso gli Urali. (10)
Va precisato al riguarda che cantare a più voci non è qualcosa di “spontaneo” ma una pratica
che presuppone l'esistenza di una particolare competenza dei partecipanti che debbono in
qualche modo collaborare reciprocamente. Ogni cantore ha piena consapevolezza della parte
vocale che può concorrere a realizzare, se cioè sa far di "primo", di "secondo" o di "basso".
Una volta avviata l'esecuzione (normalmente l'attacco è realizzato da una sola voce) tutte i
cantori si distribuiscono nell'ambito delle due o più parti vocali parallele: un processo frutto
della profonda conoscenza della struttura formale del repertorio (e mai dovuto alle indicazioni
di un "maestro" o di un "direttore"), risultato dei meccanismi di apprendistato tradizionali
ancora operanti. Una competenza di questo tipo deve essere considerata come un elemento
specifico della cultura di tradizione orale alpina. Per intenderci: se ad esempio un gruppo
qualsiasi di siciliani, di calabresi, di toscani o di altre regioni centro meridionali canta in coro il
risultato è in genere il raddoppio all'unisono di una melodia. La capacità nel distribuirsi in più
parti separate dimostrata dagli uomoni e dalle donne di Cleulis costituisce l'espressione di una
norma diffusa in tutto l'arco alpino, il risultato di una specializzazione nell'ambito della
tradizione orale. Non si tratta quindi di una capacità "naturale" bensì di una competenza
acquisita.
Per questa ragione nel corso dell'incontro con i cantori di Cleulis la registrazione dei canti è
stata integrata da lunghe interviste — o meglio chiaccherate — durante le quali si sono
ricavate
delle
prezione
informazioni
sulla
loro
competenza
musicale.
Per dare un'idea del tipo di ricerca effettuato e dell’attenzione verso i meccanismi di
elaborazione polivocale propongo nell'esempio seguente il confronto fra due versioni della
stessa villotta: la prima è solista ed è stata eseguita dalla signora Anita Puntala di Cleulis,
registrata da Valter Colle e Lino Straulino nel ... ; la seconda invece è a più parti vocali ed
stata realizzata dal gruppo dei cantori nel nostro primo incontro a Cleulis il pomeriggio del 16
novembre. Entrambe le trascrizioni sono state realizzate da Boris Ferrari.
testo verbale:
Ducj i moros a mia mi plasin
a le moro ancje il gno ben
lui al mi puarte peraulis dolcis
ogni sere (in) quanc'al ven
soi impensade di la muinie
su la puarte dal convent
soi impensade da gno giovin
soi colade in sveniment.
Un altro interessante repertorio polivocale documentato dal rilevamento a Cleulis è quello
narrativo cantato in italiano. Si tratta come è noto di una componente importante del
patrimonio di tradizione orale del nostro Paese, che affonda le proprie radici in epoca
medievale. (11) Inoltre, gran parte dei temi narrativi presentati dal repertorio italiane si
ricollegano direttamente ad un più vasto corpus di ballate diffuso in tutta Europa, dalla Scozia
alla Puglia, dai Pirenei agli Urali (sebbene cantato in forme musicalmente dissimili da una zona
all’altra), uno dei più straordinario fenomeno della cultura di tradizione orale del Vecchio
Continente.
Fra i canti narrativi documentati a Cleulis nel secondo incontro (domenica 17 novembre) vi è
La Barbiera Francese - Nigra 33 (denominazione corrispondente al titolo convenzionale
attribuita dalla fondamentale raccolta di Costantino Nigra), (12) un canto conosciuto in tutto il
Nord Italia e che ha precisi riferimenti con altri canti di analogo contenuto narrativo
documentati nella Francia Meridionale e in forse anche in Catalalogna. (13) Riporto la
trascrizione realizzata dallo scrivente della terza strofa dell’esecuzione citata.
testo verbale:
O barbiera bella
barbiera vorresti farmi vorre- sti farmi la
barba a mi
Io sì che io te la
faria ma ho
paura ma ho
paura del mio marì
Mio marito l'è andato in Francia con la
speranza con la
speranza di ritornar
Oi che torni o che
non torni ma la
tua barba ma la
tua barba la voglio tagliar
E mentre l'acqua la si
scaldava barbiébarbiera filàbarbiera filava il rasun
E la tua barba l'è riccia e bionda ma la
parìa ma la
parìa del mio marì.
Decisamente importanti sono state anche le esecuzioni dei canti rituali proposte dagli stessi
cantori di Cleulis. Fra questi, soprattutto, alcuni brani previsti in periodo natalizio come Puer
Natus che come ci è stato riferito viene ancora eseguito durante i riti all'interno della chiesa.
Anche questo canto ha una amplissima attestazione in tutto l’Arco Alpino a cui sovente
corrispondono delle precise similitudini relative alle condotte melodiche e alle modalità di
esecuzione. (14) Riporto la prima strofa
della esecuzione a tre parti vocali misti
registrata la sera del 16 novembre nella
trascrizione realizzata dallo scrivente.
testo verbale:
Puer Natus in Bethlem
in Bethlem
Unde gaudet Hierusalem
unde gaudet Hierusalem
Allelluja
Allelluja
Allelluja
Ave Maria gratia plena
Hic jacet in praesepio
in praesepio
Qui regnat sine termino
qui regnat sine termino
Allelluja
Allelluja
Allelluja
Ave Maria gratia plena
Al di là delle notizie sui canti polivocali nel corso del rilevamento a Cleulis sono state richieste
informazioni anche sui repertori monodici. In particolare sono state richieste alle diverse donne
incontrate delle esecuzioni di ninna-nanne e di canti infantili: ed anche in questo caso la
documentazione raccolta è stata di grandissimo rilievo sia dal punto di vista quantitativo che
qualitativo. Una di queste ninna-nanne, eseguita ancora una volta dalla signora Anita Puntala
(con sovrapposizione dalla seconda strofa in poi di una parte superiore realizzata dalla signora
Giovanna....) la sera del 16 novembre è riportata nell’esempio seguente. La trascrizione è di
Sandra Matuella.
Sempre nel corso dei due giorni di rilevamento si è effettuata anche una preliminare presa di
contatto con la specifica realtà musicale di Timau, grazie all'aiuto della signora Velia Plozner. In
particolare si è realizzata una seduta di registrazione a casa della signora Margherita Primus, la
quale ha proposto l'esecuzione di diversi brani nella lingua timavese e ha offerto delle preziose
testimonianze
sulla
realtà
musicale
della
località
e
su
altri
elementi
culturali.
Fra i brani raccolti un particolare interesse ha suscitato una ninna nanna, trascritta dallo
scrivente nel seguente esempio musicale, che presenta un profilo melodico rapportabile con
altri canti dello stesso genere registrati in altre vallate alpine. (15) È evidente in questo caso
come tale documentazione risulti importante sia come testimonianza sulla circolazione delle
melodie tradizionali del passato sia come attestazione del valore simbolico che l'uso della
lingua nei canti tradizionali ha conservato ancora oggi in quanto elemento di identificazione
etnica.
testo verbale (a cura dell’assessora Vera Plozner)
Miar saim af dear olm
miar ckouckn guaz muas
miar prauchn ckaan roudl
miar riarn min vuas
jullari, jullari, jollari ah
jullari, jullari, jollari ah
Dein schiacklan
Deing schtimpflan
Deing schaug niit oon
Deing schaug laii main piablan
Da aigalan oon
jullari, jullari, jollari ah
jullari, jullari, jollari ah
Afta griana bisa
Honadi gevrogt
Hosmi du nouch libe
Io host duu gesogt
Unt in paradise
Var dos himbl scheen
Afta griana bisa ie, ie, ie, ie
Miar saim a bla zbaa chindarlan
Chindarlan, chindarlan
Miar saim a bla zbaa....
Come si sarà capito nel corso della trattazione, l'impegno a Paluzza del laboratorio
etnomusicologico dell'Università di Trento non finisce qui. Nuovi e più articolati rilevamenti
sono stati già programmati per i prossimi mesi primaverili parallelamente allo studio “da
tavolino” di tutta la documentazione disponibile. Un impegno che mira in tempi ragionevoli a
proporre
uno
studio
monografico
su
tale
importante
realtà
etnomusicologica
alpina.
Desidero in chiusura, sottolineare la grande disponibilità, la cortesia e la pazienza che i cantori
di Cleulis e di Paluzza hanno avuto nel corso del nostro rilevamento ed anche un certo clima di
reciproca simpatia e di rispetto che mi pare si sia creato e che costituisce la base
indispensabile per qualsiasi ulteriore sviluppo del lavoro.
Note
1) La tendenza delle giovani generazioni a riappropriarsi del patrimonio di canti tradizionali è oramai un dato in
crescita in tutta Italia: lo dimostra , se non altro, il moltiplicarsi di gruppi musicali a tutti i livelli (da quelli cosiddetti
folk a quelli popolari e perfino alle formazioni pop e rock e alla recente esplosione dello pseudo rap ) e soprattutto il
crescere di iniziative di ricerca a carattere locale a cura di associazioni giovanili e amministrazioni comunali.
2) Nepomuceno Bolognini, Usi e costumi del Trentino, 1882-1892 (ristampa anastatica, ed. Forni, Bologna 1979, pag.
2). Lagnanze di questo tipo si ritrovano anche più indietro nel tempo: cfr. Ignazio Macchiarella, Continuità e
trasformazione della musica di tradizione orale, in «Avidi Lumi. Quadrimestrale di culture musicali del teatro Massimo
di Palermo», n. 2, 1997. Va detto per inciso che nostalgiche invettive contro «il progresso tecnologico» si ritrovano
ancora oggi come corollario di certi studi sulla musica etnica: nessun etnomusicologo (e comunque nessuna persona di
buon senso), però, può effettivamente rammaricarsi per la scomparsa di un mondo fatto di miseria e di vessazioni per le
classi più umili, per quanto importante possa essere stato il bagaglio musicale che in questo modo è andato perso. Altra
cosa è invece il rammarico verso certe condizioni che hanno limitato nel nostro paese l'avvio della documentazione
etnomusicologica fin quasi agli anni '60 (vedi Roberto Leydi, L'altra musica, Giunti-Ricordi 1991) compromettendo in
questo modo la conoscenza in vivo di molti repertori in seguito scomparsi.
3) Sugli obbiettivi dell'etnomusicologia nella cultura di massa si veda ad esempio M. Peter Baumann, (a cura di) World
Music. Musics of the World, Florian Noetzel Verlag, Wilhelmshaven, 1992.
4) Con il termine polivocalità in etnomusicologia si indica qualsiasi esecuzione realizzata da più cantori sia essa o meno
articolata in parti distinte. Vedi: Ignazio Macchiarella, Il canto a più voci di tradizione orale in R. Leydi (a cura di),
Guida alla musica popolare in Italia, LIM, Lucca 1996.
5) Vedi Anima della Carnia, a cura di Claudio Noliati, Società Filologia Friulana, Udine 1980. Alcuni brani delle
riesecuzioni del coro Birchebner sono depositati nell’Archivio della Discoteca di Stato di Roma: vedi Etnomusica, a
cura di S. Biagiola, Roma, ed. Discoteca di Stato, 1986. Sul relativo valore documentario che hanno riesecuzioni corali
di questo tipo si veda Diego carpitella, Musica e tradizione orale, Flaccovio, Palermo 1973, nonché Ignazio
Macchiarella, Introduzione allo studio del canto di tradizione orale nel Trentino, in corso di stampa.
6) Sull'uso della trascrizione in etnomusicologia vedi Bela Bartok,Scritti sulla musica popolare, Torino, Boringhieri,
1977; Giovanni Giuriati, Trascrizione in M. Agamennone et al., Grammatica della musica etnica, Bulzoni, Roma 1991
e Ignazio Macchiarella, Introduzione alla trascrizione della musica popolare, Bologna, Dipartimento di Musica e
Spettacolo, 1989.
7) Su questi aspetti vedi Macchiarella, Introduzione allo studio del canto ..., op. cit., Appendice III-nota alle
trascrizioni.
8) Delle quattro strofe che compongono l’esecuzione in questione solo l’ultima ha la ripetizione dei versi finali, mentre
le altre due sono ciascuna di quattro versi.
9) Gli studenti trentini che vi hanno preso parte sono stati Massimo Bolognini, Boris Ferrari, Sandra Matuella, Sonia
Parisi, Dennis Pisetta, Claudio Todeschini, tutti frequentanti il seminario teorico-pratico nell’ambito del Laboratorio
etnomusicologico della Facoltà di Lettere.
10) Sull’argomento vedi Ernest Emsheimer, Some Remarks on Europea Folk Polyphony, «Journal of International Folk
Music Council», XVI 1964.
11) Sulla ballata in Italia e sui rapporti con il patrimonio tradizionale europeo vedi Roberto Leydi, Sentite buona gente
.... in Canti popolari (a cura di R. Leydi), Electa, Milano 1990 e l'ampia introduzione di Roberto Leydi, Canté bergera,
Diakronia, Vigevano 1992.
12) Vedi Costantino Nigra, Canti popolari del Piemonte, Roux-Frassati, Torino 1888. Sull’importanza di questa
raccolta nello studio del canto narrativo in Italia vedi R. Leydi , Canté Bergera, cit., pp. 7 sgg.
13) Sulla possibile derivazione dall'estero del testo verbale del canto vedi Nigra, Canti popolari, cit., pagg. 224 sgg. Per
altre attestazioni del canto nell'Italia Settentrionale vedi Renato Morelli, Identità musicale della Val dei Mocheni,
Istituto Culturale Mocheno-Cimbro, Palù (Trento) 1997, pag. 233.
14) Vedi Morelli, Identità Musicali , op. cit., pagg. 137 sgg. ; e Roberto Starec, .
15) Su altre attestazioni di repertori cantati in lingue derivate dal tedesco si veda Gerlinde Haid, Apporti di area
germanofona nel canto e nella musica popolare della Val di Fassa , in Fabio Chiocchetti, Musiche e canti popolari in
Val di Fassa , Institut Cultural Ladin, Vigo di Fassa 1997, con relativi rinvii bibliografici.
7-I Canti di Tradizione Orale nel Trentino
INTRODUZIONE
Secondo un luogo comune molto radicato, anche perché alimentato da tante becere
trasmissioni televisive, il canto di tradizione orale dalle nostre parti sarebbe oramai scomparso
o in via di rapida sparizione. Soltanto pochi anziani - si crede - "ricordano qualche antico
canto" che eccezionalmente sono in grado di rieseguire. Altrimenti, se si vuole conoscere
l'eredità della tradizione vocale di montagna, bisogna indirizzarsi verso i cori alpini organizzati
(modello
SAT/SOSAT)
e
le
relative
armonizzazioni
delle
"melodie
di
una
volta".
In realtà le cose non stanno affatto così: ancora oggi in Trentino - così come in tutto l'Arco
Alpino - esiste un ricco e articolato patrimonio di canti trasmessi per tradizione orale - ed
indipendentemente dai cori alpini organizzati - che la ricerca etnomusicologica studia
attivamente. Certamente, tali canti sono ben diversi e meno numerosi rispetto a quelli del
passato. La musica di tradizione orale, del resto, non è mai conservatrice né immutabile, bensì
si trasforma continuamente, modificando ed adattando le sue espressioni alle nuove realtà
della vita sociale. È dunque normale che certi canti siano stati abbandonati (per esempio: che
senso avrebbero oggi, nell'epoca della meccanizzazione dell'agricoltura, quei canti legati ai
lavori manuali nei campi di una volta?) così come è normale che vi siano nuove occasioni per
cantare e che il repertorio tradizionale abbia acquisito nuovi significati sociali. Tali processi di
trasformazioni sono sempre avvenuti: già cento venti e più anni fa, ad esempio, l'erudito
trentino Nepomuceno Bolognini si lamentava a modo suo della perdita del canto e delle
tradizioni
popolari
che "a poco a poco vanno scomparendo, soffocate e rimpastate
dall'invadente affratellamento dei popoli che viene, viene a corsa sfrenata nei posti di terza
classe delle ferrovie e dei tram a vapore o a cavalli che sia"! Il patrimonio musicale di
tradizione orale del Trentino è caratterizzato dalle forme di canto polifonico , a due o più parti
vocali, quasi sempre senza accompagnamento strumentale.
Tradizione orale e coralità alpina
Nel Trentino, come un po' in tutto l'Arco Alpino, la coralità organizzata è oggi un fenomeno
musicale molto importante. Questa si caratterizza per l'esecuzione di brani fissati dalla
scrittura su pentagramma (spesso armonizzazioni di linee melodiche ricavate da canti di
tradizione orale) e per la presenza di un direttore, diplomato al conservatorio ed esperto
conoscitore della teoria musicale "colta". Va però osservato che anche all'interno dei cori
organizzati la trasmissione orale e l'apprendimento attraverso l'ascolto rivestono ancora una
basilare importanza. Non tutti i coristi sanno leggere la musica - anzi in alcuni dei più famosi
cori della regione si contano sulle punta delle dita i cantori che possiedono queste capacità - e i
canti vengono insegnati dal maestro attraverso delle strategie assai prossime a quelle della
tradizione
orale
(ascolto/imitazione,
passaggio
"bocca-orecchio").
Ogni
coro
trentino
mediamente ha in repertorio diverse decine di canti. Pertanto ciascun corista - che come si è
detto nella maggior parte dei casi non conosce o non usa la scrittura musicale - deve ricordare
un numero altrettanto elevato di linee melodiche. Basta questa semplice osservazione per
dimostrare il legame essenziale fra la coralità organizzata e la polivocalità tradizionale: solo
delle armonizzazioni fortemente radicate nel bagaglio culturale dei coristi possono essere
memorizzate in questo modo. Se ciò non fosse l'uso della scrittura sarebbe indispensabile. Se
cioè le armonizzazioni non rispettassero in certo modo le basi di quella competenza polivocale
di cui abbiamo parlato (e fossero realizzate, per esempio, sui modelli della musica d'arte
barocca, o romantica o comunque lontana della musica etnica) certamente non sarebbe
possibile la loro memorizzazione per dei cantori non professionisti come sono quelli dei cori
alpini.
Del resto Silvio Pedrotti (che gentilmente mi ha parlato della sua attività musicale nel corso di
un lungo incontro nel febbraio 1997) mi ha raccontato che la commissione del coro SAT ha
richiesto ed ottenuto che niente meno Arturo Benedetti Michelangeli correggesse le proprie
armonizzazioni in alcuni punti in cui esse risultavano difficilmente eseguibili, cioè verosimilmente - lontane dal modello standard.
Al di là del fatto tecnico-musicale il mondo della coralità organizzata è interessante anche per
la dimensione sociale comunque compresa nella sua attività. Far parte di un coro è
essenzialmente motivo di aggregazione comunitaria: il concerto o l'incisione discografica - al
contrario di quanto pensano alcuni studiosi - sono solo un pretesto per l'attività corale, non il
suo scopo primario, che è invece, stare insieme, ritrovarsi dopo il lavoro. Al di fuori dei concerti
e delle relative prove preparatorie, i coristi si ritrovano spesso, cantando insieme brani del
repertorio specifici del coro di cui fanno parte, brani di altri cori o brani tradizionali e non
armonizzati. È in tali occasioni informali che si manifesta pienamente la sostanziale
competenza tradizionale (polifonia trentina) condivisa da tutti i coristi trentini: per esempio
nella capacità (che ho direttamente rilevato) di eseguire canti di cui non sono note le parti o di
proporre immediatamente l'accompagnamento a più voci di una linea melodica appena
ascoltata. Basta che qualcuno intoni una melodia e subito c'è chi la raddoppia una terza sopra
(o sotto) e chi aggiunge una parte di basso secondo lo schema della musica tradizionale prima
citato.
D'altra parte se si analizzasse la struttura profonda dei repertori utilizzati dai diversi cori,
sfrondandola degli artifici e dei manierismi superficiali, sono certo che emergerebbe
chiaramente l'ossatura base della polivocalità alpina - magari volutamente inquadrata dentro
un contesto armonico pienamente tonale. Del resto anche ad uno sguardo superficiale appare
evidente la sostanziale omoritmia delle parti e il ruolo fondante dell'intervallo armonico di
terza. (Ciò al di là della bravura degli armonizzatori, capaci di variare e "vivificare" il modello
base: argomento questo che ci porterebbe al di là degli obbiettivi dell'incontro odierno e che
pertanto tratteremo in una apposita occasione più avanti). A queste ragioni si associano anche
motivi simbolici e di indentità etnica che si rispecchiano anche nella scelta dei testi, o nella
avvertita diversità stilistica.
D'altra parte il mondo della coralità organizzata non può non influenzare la pratica di tradizione
orale. Numerosi sono ad esempio i brani eseguiti nelle occasioni di incontro collettive (contesti
esecutivi) che adattano secondo la prassi esecutiva tradizionale, (polifonia trentina) i più
famosi canti del repertorio della coralità alpina.
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 142 BRANO 9
«In alto i cor / com'è dolce l'udir» Katzenau (versione cantata del brano Fior di roccia
di Giacomo Sartori, 1914; parole di Romano Joris 1919) - per altre informazioni su
questo brano vedi Mirko Saltori, Giacomo Sartori, il circolo mandolinistico trentino, Tesi
di Laurea in Etnomusicologia, Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento, A.A. 1999-2000)
Esecuzione gruppo di tre uomini e due donne originari di Faedo. Registrazione
realizzata a Trento il 20/2/2002 da Ignazio Macchiarella.
Allo stesso tempo le convenzioni esecutive apprese facendo parte di un coro alpino hanno
riflesso anche nella pratica tradizionale. È il caso, ad esempio, delle esecuzioni in cui si notano
moti obliqui (o contrari) fra le parti che producono cadenze chiaramente di tipo tonale, oppure
i casi in cui la parte maschile ribatte alcune note (di solito primo e quinto grado della scala)
omoritmicamente con le due (o più) superiori, determinando una sorta di effetto pedale
mobile. Ciò è soprattutto evidente nel pratica polifonica dei gruppi maschili, che spesso
dedicano una particolare attenzione perfino alla dinamica (cosa poco comune nella tradizione
orale). Addirittura secondo alcuni cantori cembrani una continua variazione del volume
qualifica il «bel canto» e la cura della dinamica è comunque indispensabile per la buona riuscita
dell'esecuzione: «a far bene, sostiene uno dei cantori cembrani, bisogna alternare sempre
piano e forte».
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 106 BRANO1
«Siete turchi lo sapete» (I scalini della scala). Frammento. Registrazione realizzata a
Cembra il 26/7/1999 da Ignazio Macchiarella, Sandra Matuella e Boris Ferrari.
La polifonia femminile, invece, sono più "fedeli" alla tradizione e meno proclivi ad accettare
innovazioni
o
influenze
della
coralità
alpina
organizzata.
L'andamento
polifonico
è
rigorosamente a due parti vocali, anch'esse definite prima e seconda, le quali procedono
omoritmicamente, con minime variazioni dinamiche ed agogiche. In qualche caso vengono
realizzati dei raddoppi all'ottava superiore in fase di cadenza. Le strofe sono piuttosto brevi e
regolari, formate da due-quattro versi musicali.
Polifonia trentina
È indubbio che la polifonia rappresenti l'espressione maggiormente caratterizzante del
patrimonio etnomusicologico trentino, anzi, si potrebbe sostenere che ne costituisca il
fondamento, il cardine essenziale. Cantare a più voci (vedi canto polifonico) è una pratica che
nella tradizione orale non ha finalità estetiche (come avviene invece nel caso della coralità
alpina organizzata). Si tratta di una azione connaturata allo stare insieme e che perciò
presuppone l'esistenza di precise occasioni di incontro collettivo quali sono, ancor oggi, le
serate in osteria, le feste paesane o private, le gite, eccetera (vedi contesti esecutivi). In tali
occasioni il canto è di norma eseguito con il concorso di tutti i partecipanti e risulta articolato
almeno in due parti vocali: ogni parte viene realizzata da più cantori all'unisono. Per cantare
insieme a più parti è necessaria comunque una particolare competenza dei partecipanti che
debbono in qualche modo collaborare reciprocamente. Ciò si deve ammettere anche nel caso in
cui il risultato musicale sia il più semplice possibile: il raddoppio di una linea melodica ad una
costante distanza intervallare. Ogni cantore ha piena consapevolezza della parte (o delle parti)
che può concorrere a realizzare, se cioè sa far di "primo", di "secondo" o di "basso".
Normalmente l'attacco è realizzato da una sola voce. Una volta avviata l'esecuzione tutte le
voci si distribuiscono nell'ambito delle due o più parti: un processo frutto della profonda
conoscenza della struttura formale del repertorio (e mai dovuto alle indicazioni di un maestro o
di un direttore), risultato dei meccanismi di apprendistato tradizionali ancora operanti.
«Canto di càneva». Polifonia maschile della Val di Cembra. Foto realizzata durante una
registrazione nel febbraio 2002.
Una competenza di questo tipo deve essere considerata come un elemento specifico della
cultura trentina e, più in generale, alpina. Per intenderci: se ad esempio un gruppo qualsiasi di
siciliani, di calabresi, di toscani o di altre regioni centro-meridionali canta in coro il risultato è
in genere il raddoppio all'unisono di una melodia. La capacità nel distribuirsi in più parti
separate, che in Trentino costituisce la norma, è il risultato di una specializzazione nell'ambito
della tradizione orale. Non si tratta quindi di una capacità naturale bensì di una competenza
acquisita. È perciò quanto mai inopportuno definire spontaneo il canto polivocale tradizionale
(come invece hanno fatto - e fanno tuttora - alcuni studiosi della musica trentina). Del resto
l'etnomusicologia ha chiaramente dimostrato che nessun canto di tradizione orale, per quanto
semplice possa apparire, si può considerare frutto della spontaneità! L'aggettivo spontaneo (ed
altri analoghi come "genuino", "naturale", "primordiale") che viene applicato alla musica di
tradizione orale riflette approcci di tipo romantico che nulla hanno a che fare con la ricerca
etnomusicologica.
Per quanto riguarda la struttura musicale, la polivocalità trentina rientra pienamente nella
tipologia caratteristica dell'area alpina, variante del più generale modello diffuso nell'Italia
settentrionale e in tutta l'Europa centro-orientale. Si tratta di un impianto melodico-lineare,
imperniato su due parti parallele alle quali si possono aggiungere una terza ed una quarta
parte, al grave e/o all'acuto. Le due parti fondamentali procedono omoritmicamente, nota
contro nota, ad una costante distanza intervallare costituita di norma da una terza. Le parti
eventualmente aggiunte di solito raddoppiano all'ottava, inferiore e/o superiore, le due
fondamentali. Ciascuna parte può essere eseguita da più di un cantore. Il numero delle voci
che cantano l'una è indipendente rispetto a quello delle altre. L'esecuzione è solitamente
avviata da una sola voce. L'entrata delle altre, e quindi della seconda parte, ha luogo di solito
al primo accento forte nel caso vi sia attacco con anacrusi, evenienza decisamente ordinaria
nel Trentino. Tutte le parti cantano il testo verbale. Nel corso dell'esecuzione il rigido
parallelismo può essere interrotto da note di volta, ritardi o anticipazioni realizzate da una delle
due parti. Si tratta, comunque, sempre di passaggi transitori e con carattere ornamentale che
spesso sono indicative di rapporti con la coralità organizzata (tradizione orale e coralità alpina).
Di norma il canto è a cappella. Solo in alcuni casi si sono ascoltate esecuzioni con
l'accompagnamento di strumenti musicali (fisarmonica soprattutto) che si limitano a proporre
un ulteriore raddoppio della linea melodica (sostenuto, nel caso della fisarmonica, dagli accordi
sui gradi fondamentali della scala).
Polifonia femminile a Cembra. Fotografia scattata durante una registrazione nell'agosto 2001.
Al degli aspetti tecnico-formali, la polifonia trentina assume soprattutto dei valori simbolici,
valori attraverso cui si esprime il piacere dello stare e del cantare insieme che sono ancora
molto avvertiti (e non soltanto nelle valli o nei paesini isolati), riaffermando con forza la
specificità e l'identità culturale della provincia.
Contesti esecutivi
Nel complesso il Trentino possiede un vasto patrimonio di canti trasmessi per tradizione orale
che facilmente si può documentare girando per le vallate. Un patrimonio che rappresenta
un'espressione musicale viva, conosciuta ed eseguita da una fascia piuttosto ampia di
popolazione. Un'espressione piacevole per chi la realizza, che possiede dei precisi significati
sociali e veicola dei valori collettivi: attraverso il canto tradizionale una comunità si riconosce e
si manifesta come tale.
Nella odierna realtà del Trentino i contesti esecutivi più importanti sono indubbiamente
costituiti dalle numerose occasioni di incontro collettivo extralavorativo. È il caso soprattutto
degli incontri fra uomini e donne nelle sedi dei circoli ricreativi, delle associazioni culturali, delle
società alpinistiche e così via. Contesti assai importanti sono i festeggiamenti legati alle
ricorrenze del calendario annuale, religiose o profane, oppure le innumerevoli sagre paesane e
feste sociali, promosse delle società alpinistiche, dalle pro-loco, dai circoli ANA, dalle
associazioni cattoliche e così via, che ravvivano ciascun paese della provincia soprattutto nei
mesi primaverili-estivi. In queste occasioni, al di là della programmazione ufficiale (spesso
imperniata su un concerto di uno o più cori alpini organizzati) gli uomini e le donne, i giovani e
gli anziani di un paese si ritrovano insieme - magari con il pretesto di un banchetto in piazza o
di una bevuta di vino ed un assaggio di prodotti alimentari "tipici" - finendo, di norma, per
intonare dei canti tradizionali alla cui esecuzione possono prendere parte tutti i convenuti.
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 33 BRANO 2
«Sento il fischio del vapore». (brano appartenente al genere canzone tradizionale vedi
Principali Repertori) Esecuzione contestuale effettuata durante un banchetto dei
membri di un'associazione privata. Registrazione realizzata a Storo il 1/3/1996 da
Ignazio Macchiarella.
"Cembra 1999: si canta al termine di un banchetto
Accanto alle occasioni di incontro collettivo pubbliche vi sono quelle a carattere privatofamiliare, connesse a cerimonie celebrative (ad esempio banchetti di nozze, battesimi,
compleanni) o senza una specifica motivazione (cene in campagna, riunioni tra amici e
parenti). In tali circostanze l'esecuzione dei repertori tradizionali può durare a lungo e,
soprattutto in estate, può protrarsi fino a tarda notte. In tutti i casi fin qui citati il canto ha
funzione di intrattenimento collettivo, espressione del piacere del ritrovarsi insieme. Esso
inoltre costituisce un fondamentale strumento di identificazione sociale, al pari del dialetto:
attraverso l'esecuzione musicale (che non ha bisogno di prove o di specifica preparazione) di
brani a tutti noti, i partecipanti ad un incontro si riconoscono immediatamente come membri di
una stessa comunità.
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 142 BRANO 8
«In riva al mare/ C'è un prât fiorito». Esecuzione gruppo di tre uomini e due donne
originari di Faedo che ogni tanto, privatamente, si ritrovano insieme, in città.
Registrazione realizzata a Trento il 20/2/2002 da Ignazio Macchiarella.
Per il resto, scomparsi del tutto i contesti esecutivi connessi alle attività lavorative manuali del
passato, vi sono ancora alcune feste del calendario annuale in occasione delle quali hanno
luogo rituali che prevedono l'esecuzione di specifici repertori tradizionali. È il caso del
Carnevale che in alcuni paesi prevede lo svolgimento di articolate rappresentazioni in
maschera, oppure del Natale e dell'Epifania quando si svolgono delle questue rituali.
Particolare importanza ha il cosiddetto canto dei Tre re, diffuso in diverse varianti, che
accompagna il rituale della Stela, una questua rituale di fine/inizio d'anno incentrata su un
canto il cui testo è documentato in fonti a stampa del XVI secolo (vedi Renato Morelli, Dolce
felice notte ... Sacri canti di Giovan Battista Michi, Quaderni di Trentino Cultura, Trento 2001).
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 71 BRANO 9
«Noi siamo i tre re dell'Oriente» (Canto dei tre re). Esecuzione contestuale.
Registrazione effettuata a Palù - Val dei Mocheni, il 31/12/1997 da Sandra Matuella e
Boris Ferrari.
Rituale della Stela, Palù - Val dei Mocheni, il 31/12/1997
Negli ultimi anni il Canto dei tre re con il rituale della Stela sono oggetto di una notevole
revival in numerosi paesi della provincia. A Faedo, ad esempio, per iniziativa di alcuni uomini
(soprattutto
dei
fratelli
Bruno
e
Giovanni
Filippi)
viene
organizzato
una
articolata
manifestazione, con la presenza di vari figuranti che coinvolge praticamente l'intero paese.
L'esempio sonoro si riferisce all'edizione di quest'anno.
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 141 BRANO 1
«Noi siamo i tre re» (Canto dei tre re). Esecuzione gruppo di dodici uomini circa.
Registrazione contestuale realizzata a Faedo il 5/1/2002 da Ignazio Macchiarella e
Dennis Pisetta.
Revival di questo tipo vengono sempre più documentati in provincia anche a proposito di altri
rituali e di altre forme di canto e di modi di stare insieme tradizionali. Si tratta di interessanti
segnali che si inseriscono entro più generali processi di riappropriazione della musica e più in
generale della cultura tradizione da parte delle giovani generazioni, in Italia ed un po' in tutta
Europa: una riscoperta delle micro-specificità culturali a carattere locale che si oppone, più o
meno esplicitamente o consapevolmente, alla tendenze all'omologazione della società di massa
(per lo specifico italiano vedi Ignazio Macchiarella, Voix d'Italie, Cité de la musique/Actes Sud,
Paris 1999).
Raduno di "stellari" della Val Rendena a Vermiglio. Dicembre 2000
L'ambiente familiare, infine, costituisce ancora, in diversi casi, il contesto esecutivo per
repertori privati come ninna-nanne, filastrocche eccetera. Tali contesti, tuttavia, sono assai
difficilmente documentabili in vivo proprio perché appartenenti alla sfera più intima della vita
domestica. Non mancano comunque le testimonianze da parte di diverse donne che riferiscono
di eseguire spesso tali repertori ai propri figli o nipoti (v. ad esempio la tesi di laurea in
etnomusicologia di Saba Terzi, Ninnananne e canti infantili del Trentino, Facoltà di Lettere e
Filosofia di Trento, Anno Accademico 1999-2000, relatore prof. Rossana Dalmonte - i materiali
raccolti per la realizzazione di questa tesi sono depositati presso l'Archivio del Laboratorio di
Etnomusicologia - raccolte 93-97)
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 93 BRANO 1
«Izo izo cavalizo». Registrazione effettuata a Tione il 30/4/1999 da Saba Terzi
ESEMPIO SONORO RACCOLTA 95 BRANO 2
«Din don campanon». Registrazione effettuata a Vigo Rendena il 26/5/1999 da Saba
Terzi
Bambini partecipanti al raduno di "stellari" della Val Rendena a Vermiglio. Dicembre 2000
Documenti sonori originali proposti all'ascolto::
RACCOLTA 15 BRANO 1
«Faghe la ninna nanna». Registrazione realizzata a Faedo nel novembre-dicembre
1993 da Bruno Filippi, Roberto Gianotti e Renato Morelli. Copia del documento sonoro
originale donato da Bruno Filippi al Laboratorio di Etnomusicologia nel 1996.
RACCOLTA 16 BRANO 1
«Teresina va ti vesti» (Bella al ballo). Frammento. Registrazione realizzata a Faedo nel
novembre-dicembre 1993 da Bruno Filippi, Roberto Gianotti e Renato Morelli. Copia del
documento sonoro originale donato da Bruno Filippi al Laboratorio di Etnomusicologia
nel 1996.
RACCOLTA 31 BRANO 1
Trato marzo. Frammento. (esecuzione non contestuale, su richiesta del ricercatore).
Registrazione realizzata a Storo il 1/3/1996 da Ignazio Macchiarella.
RACCOLTA 33 BRANO 2
«Sento il fischio del vapore». Frammento. Esecuzione contestuale durante un
banchetto dei membri di un'associazione privata. Registrazione realizzata a Storo il
1/3/1996 da Ignazio Macchiarella.
RACCOLTA 36 BRANO 12
«La vien giù dalle montagna» (Casto rifiuto). Frammento. Registrazione realizzata a
Condino il 11/3/1996 da Ignazio Macchiarella.
RACCOLTA 47 BRANO 11
«El villano che zappa la terra» (Volta la carta). Frammento. Esecuzione di un gruppo di
anziani frequentanti i corsi dell'Università della III età. Registrazione realizzata a
Trento il 28/11/1996.
RACCOLTA 71 BRANO 9
«Noi siamo i tre re dell'Oriente» (Canto dei tre re). Frammento. Esecuzione
contestuale. Registrazione effettuata a Palù - Val dei Mocheni, il 31/12/1997 da Sandra
Matuella e Boris Ferrari.
RACCOLTA 93 BRANO 1
«Izo izo cavalizo». Registrazione effettuata a Tione il 30/4/1999 da Saba Terzi
(materiale documentario per la realizzazione di una tesi di laurea in etnomusicologia)
RACCOLTA 94 BRANO 6
«La bella inglesina» (L'inglesina). Esecuzione di un gruppo di uomini di Vermiglio
durante una lezione di etnomusicologia presso la facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università di Trento (17 maggio 1998, aula 3)
RACCOLTA 94 BRANO 1
«Carezze», Valzer. Autore Francesco Riccardi. Frammento. Esecuzione di un gruppo
strumentale a plettro di Meano-Gazzadina durante una lezione di etnomusicologia
presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento (17 maggio 1998, aula
3)
RACCOLTA 95 BRANO 2
«Din don campanon». Registrazione effettuata a Vigo Rendena il 26/5/1999 da Saba
Terzi (materiale documentario per la realizzazione di una tesi di laurea in
etnomusicologia)
RACCOLTA 106 BRANO1
«Siete turchi lo sapete» (I scalini della scala). Frammento. Registrazione realizzata a
Cembra il 26/7/1999 da Ignazio Macchiarella, Sandra Matuella e Boris Ferrari.
RACCOLTA 108 BRANO 2
«E lassù sulle montagne» (La pastora e il lupo). Esecuzione gruppo di sei donne.
Registrazione realizzata a Cembra il 17 agosto 1999 da Ignazio Macchiarella, Sandra
Matuella e Boris Ferrari.
RACCOLTA 141 BRANO 1
«Noi siamo i tre re» (Canto dei tre re). Frammento. Esecuzione gruppo di dodici uomini
circa. Registrazione contestuale realizzata a Faedo il 5/1/2002 da Ignazio Macchiarella
e Dennis Pisetta.
RACCOLTA 142 BRANO 8
«In riva al mare/ C'è un prât fiorito». Frammento. Esecuzione gruppo di tre uomini e
due donne originari di Faedo. Registrazione realizzata a Trento il 20/2/2002 da Ignazio
Macchiarella.
RACCOLTA 142 BRANO 9
«In alto i cor / com'è dolce l'udir» Katzenau. Frammento. (versione cantata del brano
Fior di roccia di Giacomo Sartori, 1914; parole di Romano Joris 1919) - per altre
informazioni su questo brano vedi Mirko Saltori, Giacomo Sartori, il circolo
mandolinistico trentino, Tesi di Laurea in Etnomusicologia, Facoltà di Lettere e Filosofia
di Trento, A.A. 1999-2000) Esecuzione gruppo di tre uomini e due donne originari di
Faedo. Registrazione realizzata a Trento il 20/2/2002 da Ignazio Macchiarella.
8-La Musica di tradizione orale in Abruzzo
La
trascrizione
di
un
brano
di
tradizione
orale
sul
pentagramma,
un
arrangiamento,
un’orchestrazione, una libera trasposizione per pianoforte, ha causato un così forte impoverimento
delle caratteristiche proprie della musica di tradizione orale (da un punto di vista demoantropologico
e musicologico) da determinarne la sua quasi totale estinzione. Epitaffio la tarantella per pianoforte.
Dall’altro lato molti studiosi delle tradizioni, seguendo un istinto romantico hanno trascritto i testi
senza il loro contesto musicale, finendo cosi di smembrare quel corpus indissolubile cui musica e
canto partecipano. Insensibilmente si è passati da folklore/musica tradizionale a folklorismo/musica
popolare che non sono sinonimi. I folklorismi sono rappresentazioni più o meno artistiche e infedeli
o addirittura inventate della tradizione, manifestate in modi e luoghi remoti rispetto alla tradizione.
In questo passaggio sono stati accantonati centinaia di brani musicali, canti e di balli mentre un
unico motivo globalizzante, apocrifo, agiografico, vola vola vola (composta da Albanese Dommarco, 1922), trionfava ignaro del disastro, nel 1953 vincitore di un festival europeo ad
epitaffio della tradizione musicale abruzzese. Un altro esempio é reginella campagnola di C.
Bruno e Eldo Di Lazzaro (1939), composizione che nulla ha a che fare con lo stile e i contenuti della
musica e del canto di tradizione orale abruzzese. Nel secolo appena passato, il cambio culturale ha
agito profondamente e rapidamente spostando la proprietà della musica, del canto e della danza dal
popolo ad Enti impersonali come le case editrici, la SIAE, la RAI, le emittenti radiofoniche, i gestori
di discoteche, le multinazionali.
Il risultato ultimo è la decontestualizzazione e defunzionalizione della musica tradizionale in
opposizione al sincretismo culturale della musica abruzzese che consiste nella sua tracciabilità
filologica e ontologica sia in linea cronologica che in linea trasversale quando diventa, anzi è
sempre, parte integrante della cultura tradizionale, della storia, ballo, rito magico o religioso, cibo,
poesia come espressione dei sentimenti umani, senza filtri estetici, morali o manierismi. Non si
cantava ne a coro e a solo esisteva solo il cantare assieme e solo durante le fasi salienti della vita.
Nella tradizione non esiste una netta differenza tra musica, canto e ballo e resta sempre il fatto che
spesso la voce e le semplici percussioni fatte con parti del corpo od oggetti comuni sostituiscono lo
strumento musicale.
Pochi frammenti ancora casualmente affiorano nella memoria degli abruzzesi e magari degli
emigranti che ritornano per la festa del paese, ma è solo una pallida realtà rispetto all’originale. Dal
dopoguerra ai giorni nostri cito il lavoro di Bruni, Nataletti, Lomax, Carpitella, Profeta, Gandolfi, De
Silvestre, Giancristofaro, Gala e Di Virgilio.
Domenico Di Virgilio ha cercato di riproporre lo scavo archeologico delle tradizioni musicali
abruzzesi, ma per essere creduto ha dovuto usare l’arido linguaggio del purista, del fonetista, del
musicologo tecnico, ponendoci il dubbio se la distanza che c’è tra noi e la musica tradizionale non
sia ormai troppo grande.
Pino Gala ha fatto un opera unica di salvataggio e raccolta di dati etnocoreologici che ancora deve
trovare un adeguato contesto e riconoscimento ufficiale in Abruzzo.
Emiliano Giancristofaro e in minor misura Lomax hanno raccolto anzi mietuto l’unica poca messe
rimasta tra gli anni 50 e 60, consegnandoci un repertorio misto ormai irrecuperabilmente marcato
da un leggibile folklorismo.
Un esempio Scura Maje. Scura Maje è molto conosciuto ed in realtà è una parodia del canto funebre
abruzzese, veniva cantato dalla vedova del Carnevale, la più importante festa in Abruzzo, un
maschio en travestì, durante il corteo funebre grottesco del carnevale. Una versione probabilmente
poco rimaneggiata ce l’ha lasciata Lomax e cantata dal celebre Giuseppillo di Scanno mentre
Giancristofaro riporta una versione tangata, su cui esistono ipotesi tanto esotiche quanto
inverosimili, e cantata dalla celebre solista Antonietta D’Angeloantonio del gruppo folkloristico di
Vasto. Il lamento funebre è la forma monodica più arcaica di ritualizzazione del dolore. Troppo lungo
il tempo richiesto per declinare tutti i vari tipi di canti e circostanze della vita associati al canto
monodico (ninnananne, canti a suspitte, alcune ballate, le ottave improvvisate). Invece lu avete e lu
basse sono la base del canto bivocalico (tipico dei canti di questua: Pasquetta, San’Antonio,
Passione). Quasi sempre un canto bivocalico si traduce in polivocalità se sono presenti più di tre
persone come nell’esecuzione della celebre ballata la fija di Caitanelle, o le funtanelle. La
polivocalità è la costruzione musicale indefinibile basata su un ingresso ad libitum dettato dall’uso e
dall’abitudine, di più voci intorno al basso ma anche in duplicazione in sordina all’avete. Non esiste
musica tradizionale polifonica tranne forse che nel caso dei Tenores sardi!
Prima caratteristica della Musica di Tradizione orale è il Timbro espressivo che è la qualità più
importante. Ben si sposa foneticamente con il dialetto. In fatti il dialetto ha potenzialità vocali
enormemente maggiori dell’Italiano che vengono di solito arrangiate in strummotti (distico di
endecasillabi). Il timbro tradizionale ha una frequenza formantica intorno a 2000-4000 Hz ma ha
parziali elevatissimi fino ad oltre i 16.000 hertz. Una simile performance richiede un atteggiamento
fonetico ed anatomico tipico, detto a Gola Tesa e deriva dal fatto di dover conciliare il canto col
lavoro, col camminare, col farsi sentire, con la fatica fisica in generale. Infatti, nel canto spesso non
esiste battuta e metrica precisi ma è il movimento a dare la scanzione, se il movimento rallenta
anche il dettato musicale si allunga asimmetricamente. Oppure se il cantore non se lo ricorda e
improvvisa. Altri esempio sono i canti processionali. Altre caratteristiche tecniche della musica di
tradizione orale è non solo la non mensurabilità ma anche appoggiature in e (eeEEE), i portamenti,
la vocalizzazione al termine della frase melodica e lo stop glottale. La voltata è un cambiamento del
modulo melodico e ritmico che diviene mensurabile e determina un sensibile cambio dell’atmosfera
musicale si trova con frequenza come ad esempio ne la partenza, etc
Che dire poi dei pregi/difetti? del canto tradizionale, gioia degli antropologi e dolore dei maestri di
corali, non è temperato e manifesta sfrontatamente un numero di “note” maggiore di quante se ne
possono scrivere nel pentagramma. E' per questo che il canto tradizionale quasi mai si avvale di
strumenti e comunque il passaggio all’uso di strumenti con note fisse rappresenta già un
impoverimento musicale cosi come il passaggio dall’uso di strumenti a toni non fissi e suono
variabile come la scupine a strumenti come la dubbotte che ne rappresenta la più facile
continuazione (con perdita di richhezza espressiva). Già abbiamo parlato all’inizio di altre
usurpazioni.
Perchè la musica è sincretismo storico, riporto il caso della Cotte, musica e ballo di origine spagnole
(jota) abruzzesizzati in un contesto storico e sociale preciso. Più recentemente un numero di brani
tradizionali di origine nord italiana sono arrivati in Abruzzo con i ragazzi del ’99 ma si sono
sincretizzati assumendo le modalità polivocali e tonali del canto abruzzese.
bibliografia essenziale
Domenico Di Virgilio (2000) LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE IN ABRUZZO. Quaderni Rivista
Abruzzese, 35,pp 208.
Emiliano Giancristofaro (2002) CANTI POPOLARI ABRUZZESI. Quadreni Rivista Abruzzese, 42,
1pp. 57.
Carlo di Silvestre (1994) IL CANTO LIRICO NELLA TRADIZIONE ORALE ABRUZZESE: La
partenza della sposa. I Tascabili d' Abruzzo 66, pp. 96.
Canti Tradizionali Il repertorio abruzzese è legato in parte ai folklorismi, agli arrangiamenti, alla
contaminazione, cosi difficile resistergli cosi difficili da eliminare. Facciamo il massimo sforzo per
tornare alla realtà storica. Sussiste inoltre il problema della dislocazione, della globalizzazione e
dell'anacronismo delle tradizioni ma tutto questo è quasi impossibile da eliminare anche se
cerchiamo sempre di adattare le nostre partecipazioni al ciclo calendariale, alle circostanze e alla
storia locale.
Canti a suspitte adatti a varie situazioni ma soprattutto durante momenti allegri e di banchetto.
si tratta di competizioni poetico-canore di strofe cantate spesso sul tempo di saltarella che
umoristicamente trattano di varie situazioni oppure invocano la buona sorte o esprimono
esortazioni amorose, la Cumbagnie li esegue accompagnati dalla musica del Du'bbotte e del
tamburello. Maria Nicole, Fra Gaeta, Lu primme ammore sono quelli più popolari e ancora in
voga....
Maitinate Nella tradizione il Natale non è quella festa consumistica ed eclatante che oggi
conosciamo. il canto delle maitinate si esegue nel periodo dell'epifania, che è il tempo per
l'omaggio al bambino Gesù e in alcune zone d'Abruzzo si accompagna anche al canto della
pasquetta (pasqua-epifania) soprattutto nel Teramano. sia le maitinate che la pasquetta culminano
con un canto di questua. Da questo momento fino a Maggio, i canti di questua proliferano!
Sant'Antonio Il Sant'Antonio è un evento tra i più importanti tra i riti del solstizio invernale, il
canto rievoca in vario modo la vita di Sant'Antonio spesso in maniera caricata e con vari spunti
comici, avvolte invece è molto serio. la nostra versione è quella della zona di Chieti-francavilla ma
molto diffusa anche altrove. al fuoco delle farchie il Sant'Antonio viene cantato di casa in casa.
Sant'Antonio accompagnato da due rumiti è intento alle solite faccende domestiche ma viene
assalito e tormentato da 4 diavoli (li ciuce) due rossi e due neri. uno di loro è travestito da donzella
peccaminosa e procace. l'Arcangelo Gabriele interviene a ripristinare l'ordine. altre figure sono i
pastori omaggianti e l'immancabile pecorella dispettosa. tutti i personaggi sono rigorosamente
interpretati da maschi mentre le femmine cantano in coro.
La Scura Majë e il carnevale Satira del lamento funebre abruzzese che per altro è un genere
interessantissimo e molto commovente tuttavia la Scura Maje ha spunti comici in quanto si tratta
del canto funebre della vedova del Carnevale chepiangendo si lamenta della morte del marito che
l'ha lasciata povera, senza un soldo e con dei figli perennemente affamati. Le strofe sono infinite e
lasciano spazio all'improvvisazione, più sono tante le disgrazie della povera vedova più aumentano
le strofe. Si accompagna al rito del carnevale abruzzese con angeli, diavoli e personaggi umoristici
tra cui il carnevale che viene portato in corteo e poi bruciato come si fa in tante altre parti del
mondo a rappresentare il carnevale pagano in cui l'anno vecchio fa posto al nuovo.
Le ballate Di gusto gotico la ballata comprende innumerevoli storie di santi, eroi o anche semplici
personaggi che vivono storie d'amore contrastate. Questo è anche il caso della ancora molto
diffusa Fije di Gaitanelle, Le Fundanelle, etc. Rientra nel genere il San Giorgio e il Drago che narra
la vita di S.Giorgio con particolare riferimento alla lotta con il Dragone. San Giorgio e il Dragone
sono strumenti divini per operare la conversione al cristianesimo dei miscredenti. Si tratta di canti
polivocalici in cui alla voce solista subentra il coro.
La partenza La serenata che lo sposo accompagnato da fisarmonica, ddu' botte e comitiva di
amici, portava alla sposa la notte prima del matrimonio. La comitiva si radunava sotto il balcone o
la finestra della camera da letto della sposina e con il canto la invitavano ad affacciarsi alla finestra.
Esistono diverse versioni di Partenze, ma il filo conduttore è sempre il distacco (la "partenza") della
figlia dalla sua famiglia di origine (soprattutto dalla mamma e sorelle) e nello stesso tempo
l'augurio alla sposa di trovare nella sua futura famiglia amore con il marito e concordia con la
suocera. Non mancano spunti a doppio senso e ironici specie da parte dei fratelli che vedono
alleggerito il patrimonio familiare della spese degli sponsali e per il necessario corredo.
Il Majo e il canto dei mesi Il Canto dei Mesi è una antica drammatizzazione popolare in cui i
mesi dell'anno venivano personificati da figure in maschera e rappresentati con le loro
caratteristiche riguardanti il lavoro, i prodotti dei campi, la vita domestica. La recitazione veniva
eseguita dal periodo di carnevale fino a maggio (Majo) da dodici attori che impersonavano ciascuno
il ruolo di un mese, spesso con l'aggiunta di un tredicesimo che rappresentava il capodanno o il
'tempo'.
Ninnananne Ne esistono tantissime! Evidentemente
prima i bambini non avevano molto sonno... Ricordiamo
la famosa "lu lope sa magnate la picurelle" e altre in cui
una sfilza di Santi insieme alla Madonna compaiono bene
auguranti e apportatori di sonno... Come le filastrocche e
i lamenti funebri sono in genere monodie. Un elemento
imprescindibile delle veglie di lavoro sono i racconti, un
patrimonio ricchissimo di favole edificanti o spaventose.
Canti di lavoro La raccolta del lino, delle olive, la mietitura. Spesso si tratta di canti a doppio
senso erotico, o che esprimono la rivalsa verso il padrone, o semplicemente la durezza della fatica.
Sono spesso canti con una voce solista e un coro ritmato sui tempi del gesto di lavoro.
Filastrocche Come le ninnananne rappresentavano un modo gioioso di intrattenete i piccoli,
spesso fanno riferimento a situazioni edificanti, esprimono affetto o scherzo ma anche sono ricche
di frasi senza senso e onomatopeiche che rievocano situazioni fantasiose o buffe.
saltarella cantata
brindisi
e se ce l'avema fa facemecele mo ca mo teneme lu tempe e ddumane nin si sa!
canto processionale
La musica di tradizione orale abruzzese il canto a serenata
Nel quadro della musica di tradizione orale in Abruzzo il canto
presenta evidenti elementi stilistici meridionali, come l’uso di
impianti prettamente melodici ricchi di decorazioni e di melismi,
pur se emergono tratti settentrionali quali la polivocalità per
terze e la diffusione del genere epico-lirico. Lo stile vocale più
arcaico è caratterizzato da un’emissione a gola chiusa, da note
appoggiate, dai cromatismi, dalle cesure e dalle cadenze a note
lunghe che concludono spesso con stop glottali. Le melodie,
basate su un sistema scalare non sempre temperato, sono
costruite per lo più nell’ambito di cinque note e ci rimandano sia
alle tonalità maggiori e minori di tradizione euro-occidentale e sia al sistema modale legato alla
cultura musicale mediterranea. Il canto lirico è caratterizzato dagli stornelli (strufette) e dalle
serenate
che
assumono
varie
connotazioni
a
seconda
della
funzione-occasione.
La struttura poetica si basa su una sequenza di due versi di endecasillabi a rima baciata o
assonanti cantati a tenzone o a dispetto (strufette a suspette). L’esecuzione vede due o più
cantori che si sfidano enunciando a turno una strofetta ciascuno; è abilità dell’esecutore non
far cadere il filo del discorso scegliendo tra le strofette memorizzate dalla tradizione quella più
consona.
I processi di trasformazione della cultura tradizionale avvenuti in questi ultimi cinquant’anni
hanno defunzionalizzato le serenate e gli stornelli con i quali un tempo i cantori esprimevano
pensieri che non potevano esser detti schiettamente in situazioni di vita quotidiana; cosicché il
canto dava modo all’innamorato di esternare senza inibizione il proprio sentimento alla donna
amata anche in presenza di parenti e amici rendendo così ufficiale la dichiarazione d’amore.
La partenza – il canto del distacco
Nell’ambito della poesia popolare italiana la serenata “La partenza” si colloca nel genere liricomonostrofico, pur se la sua struttura strofica, diversamente dalle serenate generiche e dagli
stornelli, non risulta libera bensì vincolata ad una disposizione logica dei distici. Una
successione di motivi tematici indipendenti ma al tempo stesso consequenziali in riferimento ad
una logica temporale degli accadimenti stessi. Legata al ciclo della vita umana, La partenza si
identifica come canto del distacco in quanto affronta il tema dell'allontanamento della sposa
che lascia i suoi cari, la casa paterna e il vicinato per iniziare una nuova vita al fianco del suo
amore. Il testo riassume gli aspetti nostalgici legati alla vita passata e futura della sposa
evidenziando i vecchi valori legati al concetto di famiglia patriarcale in cui la figura femminile
assume (sia prima che dopo il matrimonio) un ruolo subalterno e di soggezione. Il contenuto
poetico affronta i temi ricorrenti quali il saluto, il perdono, la benedizione ed altri ancora in cui
la figura femminile appare quasi turbata e ferita moralmente per il fatto che si accinge a
lasciare la sua famiglia privandola della sua compagnia e del suo aiuto fisico. Lei è debitrice
verso il padre e la madre ai quali deve la sua educazione; è debitrice verso i fratelli con i quali
ha condiviso la sua infanzia e verso i vicini che l'hanno considerata come una figlia. Al
rimpianto del passato si aggiunge il timore che la sposa ha nei confronti della sua nuova vita; il
timore di non adattarsi ad una nuova realtà a lei estranea. Il testo è ricco di particolari
situazioni che coinvolgono la sposa, i familiari, i parenti, il vicinato e quanti vivono
profondamente tale circostanza. Colorito risulta l'intreccio tematico in cui si alternano ora
motivi scherzosi, ora patetici, ora riflessivi tali da provocare nello stato d'animo di chi ascolta
fasi di rilassamento e di tensione. La musica che accompagna La partenza, eseguita da un
gruppo di affiatati cantori e suonatori di chitarra, fisarmonica e organetto, presenta una
melodia dolce e pacata ma al tempo stesso solenne e ricca di espressività e dinamismo.
E
tutta
al
ballo
è
data
la
notte
che
precede
il
dì
delle
nozze…..
…. se non che, inoltratasi di una buona metà, tace la festa in casa dello sposo che con i
suonatori ed amici muovono per la casa della fidanzata. Sotto alla finestra al suono del violino
e della chitarra si canta la Partenza che come tocca al suo termine, la brigata è in via, e torna
dov’era partita, che il giorno la sorprende per strada. Là son presenti altri parenti, i cavalli
sellati, si monta, e di nuovo a casa della sposa, dove nuovi parenti e nuovi cavalli ingrossano la
equestre compagnia; e via in città a porre l’anello. Primi della compagnia sono i pedestri
sonatori di violino e chitarra, vien dopo il mulo che porta due grosse casse, con entro la
biancheria della sposa, sulla quale si distende la coltre nuziale con sopra i cuscini, cosicché dà
vista di un letto ambulante. Al collo poi dell’animale è avvolto una rete, alla quale stanno
connessi spessissimi campanelli, che con il loro tintinnio compiscono la musica. Appresso lo
sposo e la sposa sopra i cavalli dalle cui teste sventolano fazzoletti bianchi, e finalmente la folla
di amici e parenti. Finito il pranzo, va la sposa a por commiato dai suoi: il padre poi
l'accompagna per mano fin fuori la porta di casa, ove intrecciano un balletto ed è di rito;
perocché significa l’addio che il padre dà alla figlia. Ne vanno quindi alla casa dello sposo dove
tutti scavalcano meno la sposa. Il fratello, il nipote o altro parente di lei non permette che la
smonti senza una grossa mancia: ella rimane spettatrice vergognosa e mortificata tra quei che
non vuoi cedere, ed i parenti dello sposo che la domandano. Finalmente viene il regalo e la
sposa è ceduta e viene portata come in trionfo alla casa. E di nuovo a darsi sul mangiare e sul
bere. I suonatori, durante il pranzo, uniti ad un cantore girano intorno alla tavola sonando e
cantando lor poesia chiamata «firlinghina». Sono saluti, epigrammi, felicitazioni, lodi, auguri,
amenità che vanno facendo a ciascun commensale; e scrosci di risa e battimenti di mano.
Chiude la festa il donativo che ciascun parente fa alla sposa”.
i canti di questua del solstizio
Il calendario agricolo scandisce i momenti rituali tradizionali della civiltà contadina, spesso
segnati da caratteri pre-cristiani a testimonianza di quanto profonde siano le radici di questa
ritualità.
Il periodo invernale, che dalle feste solstiziali conduce all’equinozio primaverile, è
caratterizzato da cerimonie di segno diverso: alcune orgiastiche, come il Carnevale e la
Mezzaquaresima, altre purificatorie e penitenziali come la Candelora, il mercoledì delle
Ceneri e la Quaresima; altre, invece, rammentano, come Sant’Antonio Abate, antichi riti per
propiziare gli dèi preposti alla fecondità e alla fertilità. Riti ed usanze che, provenienti dalle
arcaiche religioni italiche e celtiche nonché da tradizioni orientali, sono sopravvissuti
all’opera di evangelizzazione della Chiesa. Il lungo periodo che preludeva alla primavera,
ovvero all’antico Capodanno nell’arcaica religione romana, era segnato da cerimonie per
purificare uomini, animali e campi e per favorire, propiziando gli dèi, il rinnovo del cosmo.
Alla fine di Gennaio s’indicevano le Ferie sementine e si offriva a Cerere e a Terra una
pozione di latte e mosto cotto sacrificando loro una scrofa gravida accompagnata dall’offerta
di farro, mentre le giovenche venivano inghirlandate e lasciate a riposo. Nel calendario
odierno sono molte le feste che, sotto il velo di un santo, hanno funzione lustrale e
fecondante. La più importante è quella di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) che a poco a
poco ha assunto le caratteristiche delle divinità pagane. In molti paesi il 17 gennaio era
usanza benedire gli animali sul sagrato delle chiese; i sacerdoti ricevevano doni in natura e
distribuivano in cambio immagini del Santo da appendere nelle stalle in segno di protezione.
I canti di questua
per Sant’Antonio Abate
In onore di Sand’Andonje
or si canta questa storia
La pratica questuante, ossia l’uso di fare la questua di casa in casa da parte di squadre di cantori e
suonatori, rappresenta uno degli aspetti rituali tra i più vivi e radicati in Abruzzo attraverso cui si
celebrano, nel periodo del solstizio, la Natività, il Capodanno, l’Epifania e Sant’Antonio Abate. Un tempo,
la questua rappresentava per la squadra l’occasione di raccogliere beni alimentari; in pratica vi era lo
scambio tra i poteri magico-propiziatori portati dalle squadre di suonatori e l’offerta di beni alimentari,
oggi mutata in piccole somme di denaro, elargita dai padroni di casa. La squadra, in genere costituita
da uomini la cui età è compresa tra i trenta ed i settant’anni, segue le direttive del più anziano in
qualità di detentore affidabile della tradizione orale; è sua premura trasmettere ai più giovani quanto
appreso in passato. Il rito augurale del ritorno della nuova stagione si manifesta in Abruzzo in modo
evidente la vigilia del 17 gennaio con la questua ed il canto del Sant’Antonio Abate, in cui si racchiude
tutta l’espressione popolare ricca di elementi religiosi e pagani, di espressioni arcaiche e moderne che
testimoniano la dinamicità del canto orale rapportato alla società odierna. Alcuni giorni prima del 17
gennaio i componenti di una squadra, appartenenti ad una stessa comunità nella quale rivestono spesso
il ruolo di animatori tradizionali per le diverse celebrazioni collettive, si organizzano per riconfermare o
variare, se necessario, sia l’organico che il canto da eseguire per l’occasione. La formazione vocalestrumentale presente nelle valli del Fino, Piomba, Mavone e Vomano (zona teramano-pescarese) è
composta da un organetto, una grancassa, un tamburo, i piatti, un tamburo a frizione. Tante sono le
località abruzzesi nelle quali ancora oggi il canto di questua rimane vivo nella tradizione: Piane Vomano,
Montegualtieri, Cellino, Cermignano, Poggio delle Rose, San Massimo Colledoro, Befaro nel teramano;
Civitella Casanova, San Valentino, Piana delle Castagne nell’area pescarese; Fara Filiorum Petri,
Roccamontepiano,
Palmoli
nel
chietino;
Villavallelonga
e
Collelongo
nell’aquilano.
I testi e le musiche per Sant’Antonio Abate
La maggior parte dei motivi tematici presenti nei canti di Sant’Antonio – di diffusione orale – ci rimandano alla
Historia Sancti Antoni, storia medievale che, contenuta nel Codice Corsiniano del 1485 e pubblicata dal Monaci
– forse composta agli inizi del trecento da un giullare della Lombardia per edificazione e diletto dei conterranei
suoi –, giunse in Abruzzo. Da qui derivano le analogie con i motivi comici e burleschi inerenti i sotterfugi con
cui Sant’Antonio sconfigge il diavolo. La Historia Sancti Antoni risulta da una contaminazione della biografia
classica con le leggende medievali appartenenti al “ciclo delle novelle e dei fabliaux”. Il diavolo travestito da
donzella, il bambino concepito nel peccato e promesso a “lo nemico”, le vicende da portinaio dell’inferno, i
diavoli che piangono per le percosse e tutte le altre furberie del Santo, sono gli elementi che ritroviamo ancor
oggi nei testi largamente diffusi in Abruzzo. La figura del Santo che emerge nei canti è circondata sia da
sentimenti religiosi di grande devozione e di rispetto, e sia da un clima tipicamente giullaresco che ci rimanda
alla cultura popolare medievale, dove spesso valori ed immagini della cultura religiosa ufficiale volgono nel
grottesco e nella parodia. Alcuni canti, invece, rimandano all’orazione in onore di Sant’Antonio diffuso da
Campli lungo il versante orientale del Gran Sasso (zona teramano-pescarese) o all’orazione de “Il miracolo del
glorioso Sant’Antonio da Padova” il cui testo trovò diffusione su foglio volante stampato dal “Premiato
Stabilimento Tipografico Giuseppe Campi di Foligno”. Nell’immaginario contadino, le due figure coincidono
tanto che alcune squadre, per l’occasione del 17 gennaio, eseguono indistintamente i canti riferiti all’uno o
all’altro santo. La quasi totalità dei canti presenta nel testo poetico una traccia cronologica espositiva così
schematizzata: saluto della compagnia e presentazione del fatto che si sta per narrare; illustrazione della vita
penitente e contemplativa del santo; tentazioni e vittoria del santo; questua con richiesta di beni alimentari;
commiato con benedizione, saluti ed auguri. Una particolarità dei canti di questua di Sant’Antonio – come per il
canto di questua del Giovedì Santo - è quella di poter intonare le strofe su due tracce esecutive: la doppië e la
sdoppië. Il modo doppië si caratterizza per l’andamento più lento e per lo sviluppo strofico con ripetizioni degli
ultimi due versi o distici; il modo sdoppië si basa su un ritmo terzinato più veloce e la strofa poetica non subisce
dilatazioni nella fase esecutiva. A seconda dei casi e della fretta che i suonatori hanno – “…cchiù facemë prestë
a candà e cchiù casë giremo…!”- si sceglie al momento la formula da adottare. I canti sono eseguiti su ritmi
binari puntati o su ritmi ternari.
Canto di questua
Squadra di Palmoli
E dumane è cullu gran Sandë
A Palmoli (Ch), la tradizione questuante risale, al ricordo dei più anziani, agli inizi del novecento ma le sue
radici sono ben più remote. La squadra di Palmoli oggi è composta da soli uomini di diverse generazioni,
condizione ideale questa per la conservazione spontanea della cultura orale. I protagonisti sono: Venanzio Tilli,
Angelo Marulli, Claudio De Sanctis, Felice Meo (fisarmonica), Ferrara Marco, Donato Ferraina, Andrea Ferrara,
Rodolfo De Sanctis (grancassa), Massimo Ricci (piatti). Gli elementi tematici descrivono: l’eremitaggio del
santo; Gesù che lo chiama dalla croce assieme alla Madonna che prega San Michele; la benedizione del Santo
alla famiglia visitata; la richiesta di doni alimentari. L’esecuzione lenta ed in forma corale all’unisono ricreano
un clima di grande meditazione e coinvolgimento religioso. Di particolare rilievo sono le cesure (respiri) a metà
parola poste a fine verso, elemento esecutivo ricorrente nel canto tradizionale.
1- E dumane è cullu gran Sandë
e dumane è cullu gran Sandë
e dumane è cullu gran Sandë
è Sand’Andunji Sandë
è Sand’Andunji Sandë
2- Sand’Anduji s’è misse in gammine
jave vistutë da pellegrina
3- Chi nu cambanelle in manë
jave Gesù che richiamavë
4- Li chiamava a yalda voce
javë Gesù ma su ‘lla crocijë
5- E ‘na croce e ‘na corona
javi Gesù ‘nghë la Madonnë
6- La Madonni sajë in gieli
pe’ riprëgà Sandi Micchelë
7- San Micchele fu prigate
da la Madonne ‘ngoronata
8- Io ci endr’in guesta casë
ca ci li trove moglijë e marite
Sand’Andonje la bbenedica
9- Si cë avete nu fiijë maschjë
cavalier lë putete fajë
10- Si cë avete ‘na figlia femmënë
li putetë maritajë
11- e nu galle e ‘na galline
e l’anne chi vvé e ‘na vendinë
12- si cë avete ‘na picurellë
e l’anni chi vvè na particellë
13- canda vacchë e nu vove
e l’anne chi vè è diciannove
14- si cë avete na vindiricinë
Sand’Andunjë mo s’avvicin
15- si cë avete ‘na vindresche
Sand’Andonje mo s’arinfresche
16- si cë avete nu prusuttë
Sand’Andunjë si piglia tuttë
17- Sand’Andunjë ‘ngim’all’aldare
li guardava lu maiale
18- Sand’Andunje ‘ngim’a lu tettë
li guardava lu purquett
19- Nu purquettë e nu majale
si li mangiamë stu Carnevale
20- Tocca tocchë za’ Mari’
va caccijë nu pochë di vinë bbone
ca mo vè lë Sand’Andunje
21- Dopo che ce l’hai date
vale pi Sand’Andunje Abbate.
Il Bufù molisano
Nel Molise, la notte di San Silvestro è "la notte dei bufù", durante la quale si eseguono le
maitunate, i canti augurali e di questua intonati per il Capodanno. Maitunata (o maitenata) sta
per "mattinata"; fare cioè festa nell'attesa del mattino, del nuovo giorno e del nuovo anno.
Infatti, l'incipit di molte maitunate era Bonnì e Bonnanne, corruzione dialettale di Buon dì e
Buon anno. Ecco, in proposito, i versi iniziali d'una maitunata improvvisata: Che ru bondì e che
ru
bonanne/
puozza
campà
tanta
anne/
pe
quante
pese
i'
che
tutte
re
panne.
Alberto M. Cirese, nel secondo volume de I canti popolari del Molise (1957), scrive che le
maitunate, avevano "un tempo (e ancora un secolo fa) un certo carattere ufficiale, di cui si
trova traccia anche negli atti amministrativi, e costituivano uno dei compiti che i bidelli e i
banditori municipali dovevano assolvere; ma sono oggi affidati solo all'iniziativa di singoli o di
gruppi (un tempo anche femminili, e qualche volta ancora adesso a carattere semi
professionale)
senza
altro
obbligo
che
quello
che
nasce
dalla
tradizione".
Le maitunate molisane si eseguivano, a seconda dei paesi, con l'accompagnamento di vari
strumenti. È stato documentato l'uso di zampogne, chitarre, tamburi, tamburelli, organetti,
mandolini. Molto usati anche alcuni oggetti paramusicali: strucuratora (stropicciatoio per i
panni), coperchi per tegami, casseruole e altro. Ma lo strumento tipico delle maitunate
molisane è il bufù, che ancora oggi contraddistingue la notte tra San Silvestro e Capodanno in
varie località della regione. In alcuni casi si tratta di vere bande di suonatori e cantori,
composte da gruppetti di esecutori (le cosiddette "squadre") che girano per le strade e le case
del paese intonando strofette d'augurio e chiedendo donativi.
Il bufù
Nel Molise è detto bufù il "tamburo a frizione", cioè lo strumento musicale monopelle costituito
da un contenitore col fondo chiuso e col lato superiore aperto e intorno a cui è tesa una
membrana, al centro della quale è inserito un bastone. Lo strumento produce suono quando il
bastone viene 'frizionato' dal suonatore con le mani inumidite oppure munite d'uno straccio
bagnato, mettendo in tal modo in vibrazione la pelle che, utilizzando quale camera di risonanza
il contenitore, produce un rumore cupo, così caratteristico per il bufù da avergli dato, per
onomatopea, il nome. Nel secolo scorso l'uso campobassano del bufù venne documentato in un
articolo di Flaminio Pellegrini (Il capo d'anno nel Molise, "Rivista delle tradizioni popolari
italiane", I, 2, 1894): "A Capo d'anno girano per Campobasso compagnie più o meno
numerose di ragazzi e d'uomini, munite dei più discordi istrumenti […]. Caratteristico è il così
detto bufù, composto con un piccolo barile, sfondato da una delle due parti e ricoperto di pelle
tesa…".
Nella nostra regione, ancora oggi la tradizione musicale del bufù è viva in non poche località,
tra cui Sepino, Casacalenda, Ferrazzano, Pietracatella, Gambatesa. Lo strumento si compone di
più parti: - il recipiente che è solitamente un barile. Non a caso il poeta Giuseppe Altobello
scriveva: Cu nu varile viecchie haj'accurdate/ nu piezze de bufù pe cunte mije. Il varile è
spesso di medie dimensioni, ma può essere anche un piccolo barilotto d'uso domestico oppure
una grande e panciuta botte da cantina. In talune tradizioni, in sostituzione del classico barile
viene utilizzata la tina per la raccolta del mosto. Meno frequentemente possono essere
impiegati quale 'cassa di risonanza' pure recipienti in metallo o di terracotta e quant'altro può
servire all'uso. - la membrana, che negli strumenti grossi è una pelle di capra o agnello,
mentre in quelli piccoli e moderni può essere di altra natura, anche sintetica. Quando la pelle
viene sistemata sulla circonferenza superiore del barile, il suo pelo è rivolto verso l'interno del
risuonatore (camera di risonanza);- la fune con la quale si lega la pelle al recipiente. La fune,
soprattutto nei grandi bufù, viene ulteriormente stretta e tenuta in massima tensione con una
mazza-tirante;
- il bastone, realizzato in legno oppure con una solida canna di grossezza proporzionata alle
dimensioni del bufù. Nei grandi strumenti (come ad esempio i bufù sepinesi) il bastone è
piuttosto lungo e robusto, mentre nei bufù di dimensioni inferiori è più sottile e breve. Il
bastone viene allacciato al centro della pelle dello strumento con un semplice sistema
d'assemblaggio: si preme una estremità della mazza sulla membrana ottenendo una sacca
d'alloggiamento, quindi con un laccio si serra la sacca intorno alla mazza. Affinché la legatura
sia stabile i costruttori intaccano con un coltello il bastone, ottenendo così delle scanalature
intorno alle quali il laccio trova un saldo appiglio. Il tamburo a frizione è di due tipi: stanziale e
portativo. È stanziale quello costruito con una grossa cassa di risonanza, le cui considerevoli
dimensioni consentono di suonarlo solo 'a posto fisso', cioè stando fermi in un luogo. Questo
tipo di strumento deve essere frizionato a mani doppie, ovvero si fanno scivolare lungo il suo
bastone entrambe le mani. Invece, è portativo il tamburo a frizione che può essere suonato
mentre viene trasportato; il suonatore, infatti, lo tiene con un braccio e ne friziona il bastone
con la mano dell'altro braccio. Nel Molise sono usati entrambi i tipi, con una prevalenza di
quello stanziale.
Le maitunate
La nostra regione conserva un ricchissimo repertorio di maitunate di Capodanno (che in taluni
luoghi vengono dette capodannare). Molti testi sono stati documentati in pubblicazioni, altri
sono affidati solo alla tradizione orale. Una delle componenti fondamentali di questo repertorio
cantato è l'improvvisazione. I cantori, infatti, sovente creano al momento dell'esecuzione nuovi
versi, sia essi d'augurio, di scherno, di richiesta di cibarie. L'improvvisazione si rende
necessaria anche per il fatto che i canti si indirizzano, di volta in volta, a determinati
personaggi del paese (autorità, amici, parenti) e vanno quindi adattati al nome di detti
personaggi e a fatti e circostanze di cui durante l'anno essi sono stati protagonisti. Ecco un
esempio che parla di un tale Giovanni divenuto papà: Chesta maitunata la faceme a cumpare
Giuvanne/ ca la mugliera ze figliate propria auanne. Eccone un altro che allude al vizio del
bere: Ru bone capedanne a don Nicola Carline/ ca sta sempe appise a la buttiglia de vine.
Una non secondaria caratteristica delle maitunate è la questua, cioè la richiesta e la raccolta di
cibi di stagione, dolci, vino e, in certi casi, denaro. Ecco la parte finale d'una maitunata
documentata all'inizio del Novecento (O. Conti, Letteratura popolare capracottese, Napoli
1911):
'Ncicce e 'ncicce
damme nu poche de salsiccia
nen me ne dà tanta poche
ca se struie pe ru foche
ma na cosa iustamente
sant'Antuone ze cuntenta
ca se la casa perze à l'use
l'anne che vè
pozza sta chiusa.
Come si vede, oltre la richiesta di cibo (salsicce) si avverte il padrone di casa che, nel caso ci
sia un rifiuto o un'offerta troppo modesta, il canto diverrebbe male augurante, laddove la
chiusura della casa sottintende la morte del padrone.
9-IL CANTO DI TRADIZIONE ORALE IN SICILIA
Le Origini
In principio era il melos… così potrebbe dirsi del canto popolare siciliano di tradizione orale,
del canto spontaneo che si è congiunto, mescolato, con la poesia popolare nata in Sicilia e
trasmessa oralmente. Il popolo ha creato e riconosciuto una melodia propria sulla quale adatta
la poesia ereditata dai padri, la lingua parlata che sa fondersi docilmente con la forma ritmica
della sua musica, una melodia che sicuramente la Sicilia ha prodotto, assorbendo nei secoli gli
apporti di tutti i popoli che ne hanno calcato il suolo e facendone sue le espressioni artistiche
estranee con le quali e’ venuta in contatto.
Come osserva il grande musicologo Alberto Favara, nell’isola si sono succedute tante civiltà
dalle tipiche manifestazioni musicali; il popolo siciliano, ascoltò il nomos greco, il maqam
arabo, l’inno bizantino, la canzone cortese dei Trovatori, fino all’opulenta polifonia cinquesecentesca, un insieme di stili da cui è difficile rintracciare l’inizio della musica popolare
siciliana, ma da cui è possibile ipotizzare, come l’armonia del nostro canto popolare sia posta
su fondamenta antiche.
Come nasce il canto
L’arte popolare è sempre in condizione di ricettività; se un canto creato dal singolo veniva
apprezzato ed adottato, diventava nel tempo, oggetto di tradizione.
Il canto che nasceva da rustici poeti di paesi e villaggi sconosciuti, diventava il canto di tutti; il
popolo premiava il loro merito col tramandare questa melodia, con l’impararla, col passarla di
bocca in bocca da questo a quel paese, dalla montagna alla marina, dal campo al mercato.
Via via si andava ritoccando, prendeva il colore locale, si creavano le varianti.
In poco tempo si espandeva, veniva ripetuto in ogni dove, passava confini di paesi fino ad
entrare a far parte del patrimonio comune, custodito, tramandato, ripetuto. Il commercio, le
comunicazioni, i pellegrinaggi, le guerre, le grandi feste religiose, diffondevano i canti che
venivano adottati, abbelliti, accolti, modificati, secondo le abitudini ed il carattere del popolo.
Spesso accadeva che alcuni canti superassero i confini dell’isola assumendo altre forme
dialettali, divenendo canti toscani, lombardi, veneti.
Il Canto popolare
"Ogni genere di poesia popolare deve andar preso quale rivelazione del sentimento speciale dell’individuo del
popolo"
"I canti popolari - dice Herder - sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza, della sua religione,
della vita dei suoi padri, dei fasti della sua storia, l’espressione del cuore, l’immagine del suo interno, nella
gioia e nel pianto, presso il letto della sposa ed accanto al sepolcro".
Nei canti popolari, i siciliani hanno documentato la loro vita di tutti i giorni, la vita quotidiana del popolo; essi
sono diventati un documento storico e filosofico, morale e religioso.
Scrive così Alberto Favara.
"Nelle nostre canzoni popolari, la composizione poetica, sotto l’influenza diretta della melodia si sviluppa in
una serie di immagini che si legano tra di loro, al di fuori di ogni nesso logico, una sintassi libera che ha tutti
i caratteri dell’improvvisazione, una grande ricchezza di parole arcaiche, nella cui scelta la sonorità ha grande
importanza, una lingua vincente in continuo divenire, sotto l’alito creatore della musica. Il testo poetico è
come un materiale grezzo che il cantore dispone sotto la melodia come gli pare, con l’espressione dei
sentimenti umani fondamentali; quando l’esecutore ha reso quel sentimento, con un inciso melico
caratteristico, ha reso in pieno il sentimento del popolo."
Un patrimonio di sentimenti affidato a melodie accorate, vario nei temi, inesauribile, immenso che trova voce
nella cantilena solitaria del carrettiere, nel lamento del carcerato, nel canto d’amore ricco di sfumature, nella
poesia dei cantastorie, veicolato da una vocalità elementare ricca di passioni.
I CANTI
Il popolo ha cantato: Canzuni, Ciuri, Arii, Diesilli, Razioni, Storii, Canzuni di naca, Jocura,
Romanze di tradizione orale.
La canzuna e’ chiamata strambottu in Caltanissetta, sturnettu all’Etna, in S.Agata e’ detta
barcarola, marinara; è detta a la furnarisca, a la campagnola, a la vicariota, a la carrittera
perché cantate alla maniera dei carcerati, dei contadini, delle tessitrici (carere), dei carrettieri
che ne cantavano tantissime.
Il metro della canzuna siciliana è l’ottava di endecasillabi, con alterne rime.
I
CIURI
sono
gli
stornelli
da
due
a
tre
versi
detti
anche
ciuretti
o
muttetti.
Il ciuri, componimento non molto pregiato, era comunissimo in carcere e nei chiassi.
LE ARIE o ARIETTI, si cantavano con accompagnamento di chitarre, quando si facevano
serenate o mattinate alla bella.
LE STORII sono le leggende, narrazione cantata di avvenimenti che colpirono l’immaginazione
popolare.
LI JOCURA sono i giochi fanciulleschi, le filastrocche etc…
LE ORAZIONI sono brevi leggende sacre, endecasillabo è il loro verso, ottave, sestine,
quartine le strofe che venivano cantate la sera lungo le vie o davanti le case di devoti, cantate
da ciechi cantastorie, che celebravano le ricorrenze dei santi venerati dal popolo. I mercoledì di
San Giuseppe, i Venerdì della Passione, le Novene di Natale, dell’Immacolata, della Madonna
del Carmine, delle Anime dei corpi decollati, la tredicina in onore di S.Antonio ecc…
Tra i canti sacri ci sono pure le diesille per suffragare le anime dei defunti.
I Sentimenti dei Canti Popolari
I grandi folkloristi dell’Ottocento, osservarono e studiarono la Sicilia, con lo sguardo nostalgico
del passato, il mito romantico di una terra in cui la poesia si fonde con la natura:
così scrive l’insigne folklorista Giuseppe Pitrè a proposito dei sentimenti contenuti nei canti
tradizionali antichi: "La terra dà il carattere spiccato del canto: le montagne, gli scogli, i
macigni, danno l’inflessibilità dell’indole, la tenacia nei propositi; le amene convalli, le ridenti
pianure, ispirano gentilezza e cortesia; dal sorriso di questo cielo limpidissimo riflesso sulle
nostre donne, nasce l’amore vivo, ardente come il sole delle nostre contrade, e dall’Etna, che
alla nostra terra meritò il titolo di Isola del fuoco, provengono i pronti corrucci, le facili ire gli
eterni rancori, ed i subiti ardimenti, i sospetti senza fondamento, le irragionevoli gelosie… quel
misto di bollore e di quiete, di senno e di precipitazione, di malinconia e di brio, di
mansuetudine e di fierezza che nel canzoniere son doti particolari"
L’amore, la fede, lo stoicismo, la religione, il pianto, la felicità, la satira civile e politica, le
massime astiose, piene di bile, sono la gamma innumerevole dei sentimenti che il popolo canta
nelle sue canzoni.
Dipinto di Gioacchino Cappello
I
canti
parlano
dei
tanti
sentimenti
dell’animo
umano;
il primo fra tutti e’ l’amore: l’amante siciliano cantava la sua ammirazione per la bellezza della
donna con pregiate metafore; la donna è un diamante raro, palazzo di pietre preziose, vascello
navigante; lei dalle trecce d’oro, dalla fronte fine, archi trionfali, le ciglia, coralli le labbra; bella
più che il sole e la luna…
ecco alcuni esempi:
Primo esempio
Quannu nascisti tu, scumidda
d’uoru,
Quando nascesti tu, spumetta dorata
l’angili di lu cielu s’alligraru.
si rallegrarono gli angeli del cielo
Dimmillu, cu ti detti ssu trisoru?
Dimmelo, chi ti diede questi tesori?
Secondo esempio
Auta donna, na Reggina siti,
Altissima donna, una Regina siete
ca biddizzi nn’aviti nquantitati
poichè bellezze ne avete in quantità,
di la stidda Nniana figghia siti,
della stella Diana siete figlia,
la Luna soru, lu Suli v’è frati,
nove torce d'argento ti accesero:
della Luna sorella, iI Sole vi è
fratello,
Tu sula cci poi stari mmienzu l’uoru
li stiddi pi ghiucari li tiniti
Novi tuorci d’argientu t’addumaru.
tu sola puoi stare in mezzo all'oro
le stelle tenete per giocarci
Mmienzu li stiddi chi n’ cielu
ngastaru.
e nta lu menzu dù torci addumati,
fra le stelle che in cielo sono
incastonate
quannu un pedi a la porta vui
mintiti
(raccolto a Casteltermini)
nel mezzo due torce accese;
quando un piede alla porta mettete,
ncielu v’accumpagnanu li Fati.
in cielo vi accompagnano le Fate.
(raccolto a Palermo)
Terzo esempio
Stidda lucenti china di biddizzi
Stella lucente piena di bellezze
Montagna tutta di cristallu e d’oru,
montagna tutta di cristallo ed oro
mi nni ‘nciammai di li tò biddizzi,
mi infiammai delle tue bellezze,
quannu un ti viju di la pena moru:
quando non ti vedo muoio di pena;
dammi un capiddu di ssi bienni
trizzi,
dammi un capello di queste bionde
trecce
quantu lu ntrizzu c’un lazzettu
d’oru:
quanto l'intreccio con un laccetto
d'oro;
miatu dd’omu ca cerca biddizzi!
beato quell'uomo che cerca la
bellezza,
Ca cui pussedi a tia, teni un tisoru.
chi ti possiede, tiene un tesoro.
(raccolto a Termini)
I Canti d’Amore
Amore vuol dire cantare, il canto rivela gioie e dolori, gelosie, sdegno, corrucci, abbandono,
disperazione amorosa; numerosi sono i canti di "gilusia, spartenza e sdegnu"
Esempio di "gilusia"
Esempio di "spartenza"
Donna, ca duni acqua a dui vadduna,
Bedda chi mi cadisti di lu cori,
Donna che dai acqua a due torrenti
Bella, che mi cadesti dal cuore
e un poi furmari mai ciumi correnti,
comu un panaru di mènnuli amari,
e non puoi formare un fiume corrente,
come un paniere di mandorle amare,
donna ca amannu vai a tanti patruna,
ti nn’hajiu a dari assà peni a ssù cori
donna che amando vai tanti padroni,
te ne darò assai, pene nel cuore
e un li po’ fari a tutti mai cuntenti,
p’anzina chi ti fazzu mpustimari.
e non puoi farli mai tutti contenti;
sino a che ti farò ammalare.
amanni unu cu cori custanti,
( raccolto ad Alcamo)
amane uno con cuore costante
e l’autri levatilli di la menti;
e gli altri levateli dalla mente:
pirchì tu donna, pi amarinni a tanti
perchè tu donna, per amarne tanti,
t’abbruci, ti consumi, e nun fà nenti.
ti bruci, ti consumi e non fai niente.
(raccolto ad Alimena)
Le serenate rappresentavano le modalità del corteggiamento mentre i canti di sdegno, la rottura del
corteggiamento.
Esempi di "serenate"
Vurria cantari nta li matinati,
Nun dormiti no no, nun tantu sonnu
Vorrei cantare all'alba
Non dormite, no, tanto sonno
allura chi su tutti addurmisciuti
Chi lu tantu durmiri vi fa dannu,
quando tutti dormono
che il troppo dormire vi fa danno,
e nta ssu viancu lettu vi curcati
ccà c’è lu vostru amanti a stu cuntornu
e in questo bianco letto siete coricata
qui in giro c'è il vostro amante,
e vi guditi lu sunnuzzu duci.
cu strumenti d’amuri e va sunannu;
e vi godete il dolce sonno.
con strumenti d'amore và suonando;
Eu vajiu cantannu pi li strati:
sona di prima sira sinu a jornu,
Io vado cantando per le strade
suona da prima sera sino a giorno,
sona citarra e dammi bona vuci;
sona pri quantu jorna cc’è tra un annu;
suona, chitarra e dammi buona voce,
suona per i giorni che sono in un anno;
s’hannu a jicari sti dù cori amati
pri quantu beddi cc’è tra stu cuntornu,
si uniranno questi due cuori amanti
tra tante belle che sono nei dintorni
si lu Signori nni lassa ‘n saluti.
tu sula mi fa jiri pazziannu
se il Signore ci lascia vivere.
tu sola mi fai impazzire.
(raccolto a Camporeale)
I Canti della Vicaria
Questi
canti
venivano
eseguiti
con
o
senza
accompagnamento
musicale;
i canti della vicaria, raccontano la sofferenza dei condannati, con la piena degli affetti che
irrompe, col sentimento della libertà perduta; la disperazione è alle prese con il dolore, la vita
in lotta con la morte.
Esempio di canto
Su carzaratu e a sti gradi m’appizzu
Sono carcerato ed a queste grate mi afferro
pi miraculu di Diu nun nesciu pazzu
per miracolo di Dio non esco pazzo.
haiu na petra dura pi capizzu
ho una pietra dura per cuscino,
setti parmi di terra è matarazzu.
sette palmi di terra il materazzo.
O Ancilu di Diu cercacci ngrizzu
Oh, Angelo di Dio,trova il rimedio
cu stu cuteddu ccà stissu m’ammazzu!
o con questo coltello qui stesso mi uccido.
Mi votu, mi giriu, su sempri mpizzu,
Mi volto, mi giro, sono sempre sull'orlo,
veni la Morti, la strinciu e l’abbrazzu !
viene la Morte, la stringo, l'abbraccio.
I Canti di Lavoro
Nata nei campi, o nelle piazze cittadine, la canzone popolare e le sue espressioni musicali, era
correlata al ciclo dell’anno e del lavoro: pescatori, contadini, carrettieri, fornai, artigiani,
vanniatori, vantavano una cospicua produzione di canti relativi al loro mestiere.
I canti del lavoro nascevano spontaneamente dall’esigenza di dovere coordinare i lavori di
gruppo;
gli antichi mestieri tradizionali come la battitura del gesso, delle fibre, del frumento,
avvenivano con movimenti di percussione, o di trazione in ambito marinaro, con le vele, la
pesca, il trasporto del sale, la misurazione, con la pesa del frumento, del mosto del sale ecc… ;
i movimenti ed i ritmi di questi mestieri, producevano spontaneamente un accompagnamento
vocale che scaturiva dai gesti e dai ritmi propri di quei lavori.
Vanniatine
Frauli (fragole)
Ora si ponnu manciari veri frauli, a
trentadù grana calaru!
Ora si potranno mangiare vere fragole...
sono scese di prezzo...
La misuratine del frumento
Nomu di Diu, avemu unu e unu e
dui,
avemu tri, e unu quattro, cincu
avemu…
Cucuzza (Zucchina)
Viera comu u mieli è! viera comu u
mieli è!
..sei, setti, ottu,
Veramente come il miele è, veramente
e novi e tagghiala!
come il miele è!
Pumadoru (pomodori)
Sciacquatu l'haiu, pumaramuri, a tri
grana l'haiu!
Persichi (pesche)
Di Carini sta bedda persica
giannulidda!
Di Carini questa bella pesca giallina!
Favi (fave)
Chi beddi favi ca sunnu curti e chini
e vi vinnu a sè grana sti favi!
Che belle fave, sono corte e piene e ve
le vendo a sei grani queste fave!
I Canti dei Contadini
I canti della tradizione contadina restano solo ancora nella memoria degli anziani.
Questi canti venivano eseguiti durante il lavoro nei campi ma anche nelle riunioni conviviali,
feste, serenate etc..
Ed hanno anche loro delle forme distinguibili: il canto alla viddanisca, detto anche alla
campagnola e’ uno dei più diffusi, con ottave di endecasillabi, con esecuzione monodica a volte
con accompagnamento di marranzano.
Innumerevoli canti sono stati raccolti nel Corpus di musiche popolari di Alberto Favara, un
universo musicale compatto e variegato delle forme musicali degli antichi lavoratori:
contadini, zolfatari e carrettieri, partecipavano ad una comune tradizione, influenzandosi
nei repertori.
Primo esempio
Secondo esempio
Guarda chi figghia teni stu viddanu!
Dunni camini tu e li peri posi
Pari ca fussi na spignidda d’oru
Nascinu ciuri di milli paisi
Quannu si metti dd’aguglia a li manu
Nascinu ciuri di milli paisi
Pari arricamassi sita e oru
Balacu, gersumini, gigghi e rosi.
Quannu si metti ‘mmenzu ddu tilaru
Lu nomu Marianedda ti lu misi
Fa ghiri dda navetta volu volu.
Nta stu pittuzzu to porti gran cosi
(422 Corpus Favara)
Setti jardina, ottu paradisi
Novi canti d’aceddu unni arriposi.
(271 Corpus Favara)
I Canti dei Carrettieri
Dipinto di Gioacchino Cappello
Profonde trasformazioni socioculturali hanno determinato la crisi irreversibile che ha investito la cultura
tradizionale siciliana.
Il carretto è un mezzo di lavoro ormai in disuso: è quasi scomparso così come scomparsi sono i suggestivi,
elaborati ed arcaici canti che accompagnavano il duro lavoro del carrettiere.
Fino a non molti decenni fa le merci venivano trasportate con il carretto: prodotti per la campagna, per
l’edilizia, il concime, il carbone, il sale, lunghi percorsi attraverso trazzere, "stratuna" in solitudine, a volte
per diversi giorni, con l’unica compagnia il cavallo... e le canzoni, fino ai "fondaci", luoghi dove fermarsi per
riposare, bere, condividendo con altri carrettieri la fatica comune di un duro mestiere. E non solo: nel
fondaco i carrettieri si sfidavano a chi sapesse il canto più bello, a chi aveva la migliore "carenzia" cadenza,
una perfetta emissione vocale, il rispetto per il modello musicale tradizionale, riscuotendo il rispetto dei
compagni e la consacrazione naturale.
I cantanti, tra l’entusiamo generale completavano il loro brano con le "chiamate" invitando altri a
continuare il canto fra un bicchiere di vino e "favi a cunigghiu", un invito amichevole o anche
provocatorio. Canti che venivano trasmessi per generazioni di padre in figlio, da zio a nipote.
Motivo di vanto era a chi avesse il cavallo più potente ed abile, da qui le gare, l’ostentazione di qualche
superiorità, durante le fiere, pellegrinaggi, feste. I contenuti dei canti l’amore, le pene, la gelosia, lo sdegno
etc…
Elementi di competizione erano la tecnica del canto, la resistenza fisica, la capacita di mangiare
abbondantemente...
Tutto il repertorio dei canti alla carrittera è complesso e raffinato nelle trame melismatiche.
Oggi non ci sono più i carrettieri ma i loro canti costituiscono una delle espressioni più importanti della
musica etnica siciliana.
Primo esempio
Un ni lu fazzu cchiù lu carritteri
Non lo faccio più il carrettiere
Chi lu cavaddu un voli caminari
il mio cavallo non vuole camminare
Nta la scinnuta di Musulumeli
nella discesa di Misilmeri
Si rumpi suttapanza e pitturali.
si ruppe sottopancia e pettorali.
(Corpus Favara)
Secondo esempio
Gigghiu di novi pampini si natu
Giglio di nove foglie sei nato
Gigghiu adorni la pirsuna mia
giglio che adorni la mia persona
Catina chi mi teni ncatinatu
catena che mi tiene incatenata
Catina chi ncatini l’arma mia.
catena che incatena l'anima mia;
Beni ti vogghiu cchiù di lu mè ciatu
bene ti voglio più che il mio respiro
Accussì criu chi vò beni a mia
così credo tu voglia bene a me;
Lu sonnu di la notti m’ha rubatu
il sonno della notte mi hai rubato
Ti lu purtasti a dormiri cu tia.
te lo sei portato a dormire con te.
(Corpus Favara)
Le Novene di Natale
Le Novene di Natale, canto narrativo suddiviso in 9 parti che narrano le vicende della natività
sono eseguite per le 9 sere che precedono il Natale, ad opera di un gruppo di musicanti che
suonano davanti ad edicole sacre addobbate con frutta, alloro ed asparago ed eseguendo un
vario e suggestivo repertorio commissionato da devoti che alla fine offriranno cibo e bevande a
loro ed ai presenti; In diversi paesi, vengono accesi dei falò per "quadiari lu Bammineddu".
A Monreale, diverse coppie di zampognari (ciaramiddari) si esibiscono la mattina e la sera,
dall’Immacolata all’Epifania con la zampogna " a chiave", o a Licata con quella "a paio" con il
sostegno ritmico del cimmulu (cerchietto) munito di piattini e sonagli.
La
Novena
da
Madonna,
a
Novena
di
Natali,
l’Ottava
dell’Epifania,
della
Natività,
dall’Annunciazione alla Nascita, alla fuga in Egitto ed il Triduo (triinu), che conclude i tre giorni
dal 3 al 5 gennaio, sono alcuni degli antichi canti proposti nelle novene; i brani più richiesti e
commissionati dai devoti sono Lu viaggiu dulurusu (lu caminu di San Giuseppi), A la
notti di Natali, Ninu Ninu lu picuraru, Li tri re, Dinghi dinghi la campanedda, la Sarvi
Regina di Natali, e melodie strumentali come le Pasturali che sono l’esito di scambi tra la
musica dotta e quella popolare; i Ballitti concludono le Novene. Temi ricorrenti sono
l’adorazione dei pastori, le ninna nanne al Bambino.
"Lu caminu di San Giuseppi" è un lungo testo in quartine di ottonari che narra le vicende
evangeliche della nascita di Gesù di cui fu autore un monaco monrealese Binidittu Annuleri,
pseudonimo del canonico Antonio Di Liberto. Dal suo "Viaggio dulurusu di Maria
Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemmi", nacquero nei secoli molte varianti,
diversi brani simili, con svariate combinazioni vocali e strumentali.
Un’altra interessante novena è attribuita a Giacomo D’Orsa, celebre poeta popolare dei primi
anni del Settecento, dal titolo "Curteggiu di li pasturi a lu Santu Bambinu Gesù, la ninna
di la Gluriusa Virgini Maria"; da queste discendono le numerose varianti riproposte ancora
oggi.
Il Pitrè testimonia di novene di Natale, eseguite con svariati strumenti: friscalettu,
scacciapensieri, violino, contrabbasso e flauto. Alla fine dei canti, i cantanti ricevevano il
compenso. "Fari u firriatu" cioè offrire ai suonatori ed ai presenti, vino, ceci, cucciddati, uva
passa e fichi secchi dai devoti.
"E’ nasciutu u Bammineddu: datici lu carrineddu!", o "la nuvena è terminata, datici li
cucciddata".
Il contenuto delle Novene, i personaggi trovano origine molto spesso, dai Vangeli apocrifi
trasmessi nel tempo per via orale.
Esempio di novene
Quannu Cesari iccau ddu gran bannu rigurusu,
Quando Cesare proclamò quell'editto rigoroso,
San Giuseppi si truvau ntra la chiazza rispittusu
San Giuseppe si trovava nella piazza rispettoso:
San Giuseppi era cunfusu-Comu fazzu cu Maria-
San Giuseppe era confuso -come faccio con Mariasiddu senti chistu bannu, voli veniri cu mmia..-
-se lei sente quest'editto vorrà venire con me.-..
E Maria ci ha rispunnutu- fatta sia la vuluntati
ma Maria gli rispose-fatta sia la volontàgiacchè Diu l’ha dispunutu, vegnu dunni mi purtati…
-giacchè Dio l'ha disposto, vengo dove mi portate.
(Corpus Favara)
Ora veni lu picuraru
e nun ha chi ci purtari
porta latti e nti la cisca
cascavaddi e tuma frisca.
Arrivisciti o matri mia,
ca nui semu a la campìa.
E ninna hò, e ninna ahò
e lu mè figghiu dormiri vò.
(Corpus Favara)
E la notti di Natali c’è la festa principali
E la notte di Natale, c'è la festa principale,
parturiu la gran Signora nna n’afflitta manciatura
partorì la gran Signora in un'afflitta mangiatoia
mmenzu l’oi e l’asineddu fici a Gesù bammineddu
in mezzo al bue ed all'asinello fece a Gesù Bambinello,
e ognirunu lu biniricia: chistu è lu fruttu chi fici Maria
ed ognuno lo benediceva -questo è il frutto che fece Maria...
(Corpus Favara)
I Trionfi
I Triunfi sono tra le forme sonore della devozione popolare, il repertorio poetico-musicale di
maggiore interesse e rilevanza; tra i modi di divulgazione dei culti, importante era l’apporto
della poesia popolare largamente utilizzata presso le classi del popolo, e ad essa si rifaceva il
repertorio dei Triunfisti.
I Triunfi composti da canti e suoni ballabili, sunati a complimento, con particolari interludi di
violino, che inframmezzano le strofe dai diversi cambi di tonalità, contenevano le storie sacre
che venivano fatte in onore ed in ringraziamento per grazia ricevuta, di un Santo, della
Vergine, o di Cristo.
Venivano eseguiti durante la festa ricorrente , per devozione, da un gruppo di suonatori;
anticamente erano gli Orbi, più recentemente gruppi di due o tre suonatori, del popolo, che in
casa, per strada, davanti ad un’edicola addobbata, o davanti ad un altarino con l’immagine del
Santo, o davanti la porta di casa del devoto che chiama ad eseguire il trionfo, suonano il
violino, la chitarra, a cui recentemente si è unita la fisarmonica e il mandolino, ricevendo in
cambio del denaro. Il triunfo inizia con un brano allegro, poi racconta la vita del Santo, e si
conclude con la sunata a complimento, e l’abballu di li Virgini.
Anche in questo caso il devoto offre ai suonatori ed ai presenti, vino, dolci, favi a cunigghiu.
TRIUNFU DI S.RUSULIA
Una parte consistente del repertorio degli Orbi, arrivato fino ai giorni nostri, è costituita dal
Triunfu di Santa Rusulia, una forma rituale che scaturisce da sentimenti di gratitudine del
popolo di Palermo, per grazia ricevuta, e che inizia con un preludio musicale molto vivace,
seguito dalla narrazione della storia della vita di Santa Rosalia; la chiamata divina, la città
sconvolta dalla peste, il miracolo della guarigione dal flagello, sono i quadri che vengono
cantati; il triunfu si conclude con l’Abballu di li Virgini, una o più sunati a cumplimentu.
Rusulia santa Vergini amurusa
Gigghiu addivatu fusti all’acqui puri
La discinnenza tua fù priziusa
Di Carlo Magno Re imperaturi
Pi essiri a Diu la cilesti spusa
Di ncelu nterra ci detti st’onuri
Apposta nta stu munnu fù mannata
Pi essiri di Palermu l’avvocata
Essennu la Sicilia turmintata
D’indigni manigoldi e saracini
La santa liggi vineva discacciata
di chisti barbari indigni er assassini…
…sennu nata Santa Rusulia
triunfu fici la corti riali
tuttu lu populu gran festa ci facia
pi li biddizzi, nun c’eranu l’iguali
la matri assai la figghia stimava
la santa liggi ci misi a mparari
e la mparava cu n’affettu piu
e la Virginedda misi ad amari a Diu…etc…
….un certu jornu vosi pittinari
la cammarera a Santa Rusulia
di perli e gioie la misi a ntricciari
na li so beddi capiddi c’havia
ma pi cchiù megghiu falla ncapricciari
ccà c’è lu specchiu guardati ci dicia
mentri a lu specchiu si guardava fissu
ci accumpariu Gesù Crocifissu….etc…
Rosalia santa Vergine amorosa,
giglio sei stata, allevata alle acque pure
la tua discendenza fù preziosa,
da Carlo Magno, Re ed Imperatore..
per essere di Dio celeste sposa
dal cielo in terra le fù dato l'onore,
apposta in questo mondo fù mandata,
per essere di Palermo l'avvocata...
essendo la Sicilia tormentata
da indegni manigoldi e saraceni
la santa legge veniva disprezzata
da questi barbari indegni ed assassini...
essendo nata Santa Rosalia,
trionfo tenne la corte reale
tutto il popolo faceva festa
per la sua bellezza che non aveva uguali
la madre assai stimava la figlia
e la santa legge cominciò ad insegnarle
gliela insegnava con pio affetto
e la Verginella cominciò ad amare Dio...
Un certo giorno volle la cameriera
pettinare Santa Rosalia,
di perle e gioie mise ad intrecciare
quei bei capelli che lei aveva
Ma per meglio farla scapricciare,
- qui c'e' lo specchio, guardati...-diceva...
mentre allo specchio si guardava fisso
le comparve Gesù Crocifisso...etc...
I Canti della Settimana Santa
Il dolore come sentimento è rappresentato nei canti della Settimana Santa; canti,
lamintanzi, ladate, che accompagnano le processioni del Venerdì Santo, con rèpitu, chianti,
triulu, lamentu.
In quasi tutti i paesi si festeggia la Settimana Santa, un insieme di celebrazioni rituali con
processioni, alcune molto suggestive ed intense come a Trapani dove sono rappresentati i
"Misteri", con i "mortori, e le "scinnenze", o bizzarre come i giudei di S. Fratello o i
Diavuluna di Prizzi.
La musica di queste processioni è a carattere mesto e luttuoso, con le lamentanze, i lamenti, o
parti di la Simana Santa, cioè canti più voci o monodici di tradizione orale, di grande
importanza e varietà.
Questi lamenti per lo più vengono eseguiti il Venerdì Santo in forma polivocale, da parte di
squadre di cantori speciali detti lamentatori, con un cantore solista, ed un accompagnamento
vocale a più voci.
Il Miserere, lo Stabat Mater, il Gloria, Vexilla, il Magnificat, vengono proposti in libere
volgarizzazioni dal latino storpiato, in italiano ed in siciliano; a volte sono accompagnati dalle
traccole. I testi sono a carattere narrativo, raccontano la Passione di Gesù, il dolore di Maria.
Maria ittoni na vuci supra un scogghiu
Maria alzò la voce sugli scogli
Dicennu – mè riparu e mè cunsigghiu...
dicendo:-mio riparo e mio consiglio-,
dicennu – mè riparu e mè cunsigghiu
dicendo:-mio riparo e mio consiglio
Maria scuntrau na putia nova
Maria passò da una nuova bottega,
lu mastru d’ascia la cruci facia
il falegname faceva la croce
cu tri rispuntatissimi tri chiova.
con tre spuntatissimi tre chiodi:
Servinu pi lu figghiu di Maria.
servono per il figlio di Maria...
(Corpus Favara)
E figliu ca ti partisti o comu gigliu,
Figlio te ne sei andato come un giglio
Foto tratta dal sito Panormus di Carlo Di
Franco sui riti della pasqua a Palermo
ora ti trovu tuttu fragillatu...
ora ti trovo tutto flagellato...
Vitti viniri lu populu armatu,
Vidi venire la folla armata
cu Giuda avanzi traditori misu,
con Giuda davanti ai traditori
e Cristu a li Giudei vosi spiari
e Cristo agli Giudei volle chiedere
ci dissi a Giuda, chi vinisti a fari ?
e disse a Giuda,- che sei venuto a fare ?
Chianci, chianci Maria, povera donna,
Piange, piange, Maria, povera donna
chi avi lu figghiu so a la cunnanna.
che ha il figlio suo alla condanna...
Cunnanna un esti no, chi chiù nun torna,
condanna non è, no, da non farlo tornare,
e’ ncasa di Pilatu, ncasa torna...
è in casa di Pilato, perciò a casa torna..
Gli Strumenti della Musica Popolare
L’intervento strumentale negli antichi canti popolari, dominio della pura vocalità, in origine è
pressoché nullo in quanto la compiutezza melodica del canto, a giudizio del popolo non lo
richiede ; esso appare in un momento successivo, quando l’esecutore in circostanze speciali,
vuol fare mostra di particolare abilità o durante le feste.
Gli strumenti popolari siciliani rappresentano una componente essenziale nell’esecuzione della
musica popolare oltre che un valore storico, psicologico, magico-rituale, e socio-culturale; il
Pitrè ne fa una menzione nei giochi fanciulleschi e per certi ricorrenze religiose; il Salamone
Marino, fa un semplice accenno parlando del Carnevale dei contadini. Qualche notizia ci viene
dalla studiosa catanese Carmelina Naselli, che parlò nel 1949, di strumenti da suono della
musica siciliana.
Vi sono alcune testimonianze che si possono trovare nella letteratura demologia del secolo
scorso o nei resoconti dei viaggiatori stranieri in Sicilia, nel Settecento o nell’Ottocento che ci
parlano della presenza di strumenti musicali popolari :-Non ci sono feste senza musica, canti e
danze - scrive H’elèn Tuzet, riportando le note di viaggio di Barteìs,- i ballerini girano con
grazia e dignità… le danze sono accompagnate da flauti, cennamelle, ed altri strumenti a fiato…
Anche Alexandre Dumas, in viaggio in Sicilia, ci lascia una testimonianza di una festa
tradizionale briosa: - Si danza da soli, in due, in quattro. In otto, come si vuole, un uomo con
un altro, una donna con un’altra… l’orchestra si componeva di due soli musicisti, uno suonava il
flauto, l’altro una specie di mandolino.
Così scrive il Salamone Marino – due suonatori uno con il contrabbasso, l’altro con il violino, o
lo zufolo, non mancano mai: la domenica si piantano in una piazza, dove non appena hanno
dato l’aria a due note, veggonsi circondati da una folla di giovani villici…. Quei musici vi danno
un pezzo (caddozzu) di fasola, o di tarantella, tutte musiche popolari un tempo accompagnate
dal canto…
- Né difettano mai gli strambotti tradizionali, ed i fiori o gli stornelli, - scrive sempre il
Salamone Marino - quali sono cantati solitamente da giovani con accompagnamento di
scacciapensieri,(mariolu, ngannalarruni) o di zufolo, (friscalettu) strumenti che abitualmente
essi portano in tasca.
Gli strumenti più usati
(clicca sul link per la pagina dedicata al singolo strumenti)
•
•
•
A corde (cordofoni): si tratta di strumenti muniti di corde, di nylon o metallo o di
budella di ovini (minugia) che possono venire: pizzicate, strofinate, percosse
o
violino
o
violoncello
o
mandolino
o
liuto
o
chitarra
A fiato (aerofoni): detti comunemente strumenti a fiato, gli aerofoni sono corpi cavi a
forma di canna o tubo che producono il suono con la vibrazione della colonna d’aria in
essi sospinta: quanto più lunga ed ampia è questa colonna d’aria, tanto più gravi sono i
suoni che essa produce.
o
friscalettu (flauto di canna)
o
ciaramedda (zampogna)
o
bummulu
A percussione: sono strumenti adatti a sottolineare il ritmo di un brano musicale, ed
hanno anche un’importante funzione coloristica ed espressiva; sono distinti dal modo in
cui vengono posti in vibrazione a seconda che siano percossi, strofinati, sbattiti,
pizzicati, scossi etc…
o
mariolo (ngannalarruni, marranzano)
o
tammurinu tammureddu
o
circhettu,
o
timpanu
o
castagnette (scattagnetti, nacchere)
o
acciarinu
10-La Musica Popolare nel Gargano
Il Gargano viene indagato per la prima volta nel 1954. La prima raccolta è la 24 b: fu
effettuata da Alan Lomax e Diego Carpitella nell’ambito di una ricerca sistematica in tutta la
penisola, che li portò a registrare circa 3000 documenti sonori. La raccolta, che comprende 53
documenti sonori, con vari organici vocali e strumentali, registrati nei comuni di Sannicandro
Garganico, Cagnano Varano, Carpino e Monte Sant’Angelo), è tuttora conservata presso gli
Archivi di Etnomusicologia di Roma (è la denominazione che l'etnomusicologo Diego Carpitella
diede nel 1989 al Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare (CNSMP) dell'Accademia
Nazionale
di
Santa
Cecilia,
quando
fu
nominato
conservatore).
Nel 1958 viene effettuata la seconda campagna di registrazioni, a cura di Diego Carpitella ed
Ernesto
De
Martino.
E’
la
raccolta
43,
anch’essa
depositata
presso
gli
Archivi
di
Etnomusicologia, comprende 73 documenti registrati a Vico del Gargano, Ischitella, Peschici,
Sannicandro Garganico e Cagnano Varano. Nel 1966 Remigio de Cristofaro realizza la terza ed
ultima raccolta patrocinata da un ente pubblico. La raccolta 104, più estesa rispetto alle due
precedenti, comprende 95 documenti registrati a Vieste, Peschici, Monte Sant’Angelo,
Sannicandro Garganico, Vico del Gargano, Rodi Garganico, Ischitella, San Giovanni Rotondo,
Rignano Garganico, Manfredonia, Mattinata. La raccolta interessa 11 paesi del Gargano e fu
effettuata dall’etnomusicologo originario di Ischitella per conto della Rai con il mitico
registratore
“Geloso”.
Anch’essa
è
depositata
presso
gli
Archivi
di
Etnomusicologia.
Il 10 dicembre 1966 Diego Carpitella e Roberto Leydi, che stavano preparando uno spettacolo
a Milano con cantori e suonatori tradizionali, si recano a Carpino per effettuare una raccolta di
canti del paesino garganico. In quest’occasione registrarono la cosiddetta Tarantella del
Gargano, che tanto successo ebbe presso i gruppi di riproposta (fino ad oggi se ne contano più
di una trentina di versioni). In realtà era un sonetto (sunèttë) nella forma di tarantella alla
mundanarë. L’iniziatore di questa operazione fu Roberto De Simone nel 1972 con la Nuova
Compagnia
di
Canto
Popolare
(LP
lo
guarracino
,
Ricordi,
SMRL
6151,
1972).
Dal 1990, dopo la scomparsa di Carpitella, l'attività degli Archivi di Etnomusicologia è diretta
da un comitato scientifico che ha avviato un insieme di interventi di ampio raggio tra cui la
ricognizione, inventariazione e catalogazione informatizzata del patrimonio sonoro conservato
e la pubblicazione di scelte antologiche dalle più importanti raccolte. Insieme al lavoro di
ricognizione, dal 1993 è stata intrapresa la pubblicazione di un periodico, "EM - Rivista degli
Archivi di Etnomusicologia dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia", pubblicata dall'editore
Squilibri di Roma. L'archivio fotografico dell'Accademia di Santa Cecilia conserva preziose
immagini legate alla sua attività nel corso del Novecento. Si tratta di circa 12000 immagini. La
documentazione fotografica offre, inoltre, le splendide testimonianze dell'attività di ricerca
svolta dal Centro Nazionale di Studi sulla Musica Popolare, particolarmente negli anni
Cinquanta, immagini a supporto delle registrazioni oggi conservate nelle raccolte degli Archivi
di etnomusicologia. Bisognerebbe verificare se ci sono immagini scattate dagli etnomusicologi
che hanno raccolto i documenti sonori del Gargano. Padre Remigio de Cristofaro ha trascritto
recentemente i testi e le partiture dei “Canti del popolo di Ischitella”, da lui raccolti nella
“campagna” del 1966. Nel convegno sulle “Tradizioni popolari oggi ”, svoltosi a Monte
Sant’Angelo nell’agosto 2004, ha sottolineato che questo lavoro è ancora da avviare per tutti
gli altri 10 paesi del Gargano.
11-L Musica Popolare nel Lazio
La musica popolare del Lazio è più affine a quella della Toscana, fra le regioni limitrofe, che a
quella della Campania, questo sia per i comuni contatti con l'antico territorio etrusco, sia per
l'affinità
del
paesaggio
del
Lazio
con
quello
della
Maremma
Toscana.
I loro canti hanno lo stesso carattere grave e melanconico di quelli delle regioni desertiche e
pianeggianti.
Il canto popolare del Lazio appare, nelle sue espressioni più genuine, influenzato dal
gregoriano:
in
questo
è
da
vedere
la
sopravvivenza
dell'arte
greco-romana.
Una delle espressioni più tradizionali del canto popolare in genere è costituita dalla ninna
nanna, essa è molto presente nei canti romaneschi delle cui nenie con le quali le antiche madri
romane addormentavano i figliuoli ci sono rimaste espressioni tipo "lalla, lalla, lalla, aut dormi
aut lacta".
La forma più diffusa del canto popolare romanesco è costituita dallo stornello o ritornello,
simile a quello toscano, e chiamato così perché nel canto si ripete il primo verso. Esso si
distingue in stornello "col fiore" e "senza fiore". Gli stornelli romaneschi presentano di solito
una canzone piuttosto uniforme e sono meno agili di quelli toscani. Tra essi le "canzoni a
intenne " rivelano il carattere fiero dell'antico popolo del Lazio, presso il quale ricorrenti erano
le canzoni d'improperi e d'infamia. Esiste anche un tipo di stornello rustico e gioioso.
Tra le danze va ricordato il saltarello: fino al secolo scorso era accompagnato dalla cornamusa
e dal tamburello, oggi per lo più dalla fisarmonica ma il carattere ed il ritmo sono rimasti
tuttora immutati in tutta la campagna romana.
12-Il Canto con chitarra in Sardegna
Nel ricco e variegato repertorio della musica sarda il canto con chitarra
del Logudoro,
dell'Anglona e della Gallura è il più diffuso. Da circa un secolo trova la sua più alta
affermazione, con strutture e stili musicali ben definiti, nella "gara" tra i più bravi cantori.
La presenza della chitarra in Sardegna è attestata dalla fine del XVI secolo, ma le prime notizie
del suo abbinamento alla voce sono dell'Ottocento e risultano prive di elementi che possano
giustificare circostanziate congetture sulle forme musicali adottate. Siamo certi, però, che alle
radici di questa espressione belcantista c'è la ricca tradizione di canti monodici a voce sola che,
sino a circa vent'anni fà, era possibile udire soprattutto dalla bocca delle donne come
sopravvivenza di una pratica musicale molto diffusa. Ma i motivi elaborati nel canto con
chitarra, già allora, iniziavano a prevalere e venivano normalmente ripresi nei repertori
femminili domestici e del lavoro all'aperto, sino a soppiantare quasi del tutto le antiche
espressioni. Nonostante le imponenti trasformazioni sociali ed economiche delle comunità
agricole, il canto con chitarra continua a conservare i due livelli che lo hanno sempre
contraddistinto:
quello
della
comunicazione
sociale
di
puro
intrattenimento
e
quello
professionale. Il livello di comune attività canora è detto di su buttighinu (la bettola), sede
d'incontro ora sempre più rara e sostituita da luoghi privati, come le cantine o, specialmente in
città, i "circoli": stanzoni a pianoterra del
centro
storico
dove
gruppi
di
amici
si
riuniscono a bere e a cantare. A Sassari di
"circoli" se ne contano diversi e alcuni di essi
accolgono inurbati dal Logudoro con le stesse
funzioni
aggregative delle bettole di
città
(quasi del tutto scomparse) o di paese (in
molti casi ancora attive). Accanto alle bettole
si possono ancora trovare gli ultimi luoghi
stagionali
(zilleri)
di
mescita
di
vino
contrassegnati, come ovunque, da una frasca
fissata nell'architrave della porta d'ingresso. Bettola e zilleri possono ancora accogliere i
principianti o chi, per puro divertimento, si cimenta nel canto senza particolari ambizioni pur
dimostrando notevole abilità. Ma anche chi aspira a diventare un professionista trova in questo
ambiente l'opportunità di imparare tutte le forme di canto e di affinare lo stile sino al punto di
poter essere incoraggiato dagli amici ad esibirsi "in palco", cioè in pubblico. Altre occasioni per
eseguire informalmente i canti con chitarra sono i matrimoni, le feste, le sagre e gli incontri
conviviali in campagna, mentre l'uso gentile di usarli come pezzi da serenata risulta del tutto
tramontato.
Un aspetto niente affatto secondario è quello della scelta dei testi verbali. Quasi tutte le forme
di canto (ad eccezione del mutu ) si avvalgono di poesie dei più celebrati poeti in lingua sardologudorese e il bravo cantore si fa vanto di non ripetersi proponendo testi sempre nuovi e
rispettarne, pur nello sviluppo melismatico dei virtuosismi, gli accenti, la struttura metrica e il
contenuto. Si preferiscono i poeti classici, ma possono essere accolti anche testi contemporanei
purché incentrati sui temi consueti: l'amore e la natura. Nei canti di area gallurese, in parte
accolti nelle "gare", prevale l'anonimato della matrice popolare ma per alcune forme più nobili,
come la disispirata, si ricorre a poeti della tradizione locale, tra i quali spicca il settecentesco
Gavino Pes. Si può dire, anzi, che il canto con chitarra e, in Barbagia il canto a tenore ,
abbiano assolto al compito di dare larghissima diffusione a una letteratura in lingua sarda che,
se si valuta l'alto tasso di analfabetismo registrato sino alle soglie degli Anni Cinquanta,
sarebbe rimasta quasi del tutto sconosciuta.
Secondo l'opinione di Paolo Pillonca, il più
accreditato
studioso
di
poesia
sarda
improvvisata e di gare poetiche, la prima sfida
pubblica dei "poeti a braccio" ha avuto luogo a
Ozieri il 15 settembre 1896 in occasione della
festa della Madonna del Rimedio. Risulta da
interviste e testimonianze sparse che più o
meno negli stessi anni, ma in forma più
rudimentale, ebbero inizio le prime sfide di
canto con chitarra. Non si svolgevano ancora
sul palco, ma in una bettola o in piazza. In
ciascun paese si davano convegno i più noti
cantori del circondario e i giovani ancora
sconosciuti
per
confrontarsi
in
estenuanti
competizioni che duravano diverse ore e che
potevano coinvolgere sino a una decina di
sfidanti. Era una gara vera e al vincitore
(secondo una giuria designata dal comitato
della festa) andava un premio in denaro. Ma ben presto la qualità spettacolare di queste sfide
consigliò di scegliere un numero ristretto di cantori (da tre a quattro) e di portarli sullo stesso
palco che ospitava le gare poetiche. Prima dell'inizio della sfida tra i poeti, aveva dunque luogo
la "gara" di canto, ormai già intesa come confronto accademico poiché ai partecipanti veniva
riconosciuta pari ricompensa. L'abbinamento con la sfida tra i poeti spiega il diradarsi delle
gare di canto dal 1932 al 1938 quando, accogliendo lagnanze del clero e rimbrotti dei prefetti,
si decretò il divieto delle gare poetiche poiché i temi trattati e, soprattutto le argomentazioni in
ottava degli improvvisatori, contenevano concetti giudicati lesivi della religione o poco in linea
con il regime fascista. Nel 1938, con il Testo Unico di Pubblica Sicurezza, le gare poetiche
vennero nuovamente ammesse, sia pure sotto la stretta vigilanza delle autorità civili e
religiose. Ma intanto il canto con chitarra si era sviluppato enormemente, approdando anche ai
dischi 78 giri con alcuni dei più celebri cantanti di quegli anni, tra i quali spiccava Gavino De
Lunas, morto a Roma nella strage delle Fosse Ardeatine. La gara poetica e la gara di canto
diventarono dunque due eventi separati da collocare in serate distinte. Certo è che l'una e
l'altra esibizione, a partire dal secondo dopoguerra, divennero irrinunciabili in tutte le sagre di
paese.
La professionalità dei cantori si abbinava al ruolo crescente del chitarrista accompagnatore. Gli
Strumenti più diffusi sino alla seconda guerra erano di dimensioni ridotte: denominati "terzina"
molto raramente venivano costruiti da liutai sardi. Quasi tutte le chitarre infatti provenivano
dalla Sicilia (soprattutto da Catania) e si scelsero ben presto strumenti dalla cassa molto
grande, chiamati chitarre folk, ricchi di sonorità e adatti alle esecuzioni all'aperto. Sino agli
Anni Sessanta infatti solo raramente venivano usati impianti di amplificazione che però
divennero ben presto di uso comune in tutte le esibizioni, comprese quelle delle sfide dei poeti
a braccio. La sempre più ricca elaborazione dei canti e l'ampliamento del repertorio
(soprattutto con brani provenienti dalla Gallura) vedeva la fioritura di cantori professionisti che
abbinavano l'attività di cantante a quella di artigiano, o di lavoratore a giornata, per poter
disporre della più ampia possibilità di movimento nella stagione delle sagre, dalla fine
dell'estate
all'autunno,
e
negli
sporadici
appuntamenti di altri periodi dell'anno. La lista
di cantanti e di chitarristi che raggiunsero
notorietà
tutta
è
in
l'Isola
lunga
e
risulta
ampiamente
documentat
a
da
dischi
a
78
e
a
45
giri
e
da
musicassette.
La spettacolazione della gara di canto ha avuto forti
influenze sulla tecnica chitarristica. Quando si sente parlare
di stile "all'antica" si allude ad un accompagnamento
arpeggiato con due o tre dita (più il pollice per la corda
bassa), alternato ad accordi prodotti con leggerezza. Era la
tecnica più diffusa sino ai primi anni del dopoguerra e
continuò ad essere applicata anche in seguito soltanto dal finissimo strumentista Adolfo
Merella, da figlio Bruno e da pochi altri. Dopo si impose invece l'uso del plettro con Nicolino
Cabitza e il figlio Aldo: la sonorità più ricca, la brillantezza timbrica e gli interludi virtuosistici,
la
rudezza
degli
accordi
strappati
che
ormai
prevalevano
sui
ricami
melodici
che
contrappuntavano la linea del canto, ebbero la meglio perché al pubblico apparivano di gusto
più attuale. Lo strumento comunque ha sempre mantenuto un'accordatura più bassa di quella
consueta e ancora oggi l'esecutore non si attiene al diapason ufficiale ma si adatta alle
possibilità vocali e all'estensione dei cantori, assestati normalmente nella tessitura di un tenore
medio.
Nel ricco e variegato repertorio della musica sarda il canto con chitarra del Logudoro,
dell'Anglona e della Gallura è il più diffuso. Da circa un secolo trova la sua più alta
affermazione, con strutture e stili musicali ben definiti, nella "gara" tra i più bravi cantori,
organizzata nelle feste patronali dell'area settentrionale e in diverse località della provincia di
Nuoro. Anche nelle regioni meridionali dell'isola, seppure più raramente, la chitarra
accompagna il canto, ma con altre forme e, soprattutto, senza ricorrere alle "gare". La
competizione, secondo l'impianto tradizionale, consiste nel confronto tra due o tre cantori,
accompagnati da un chitarrista, che a turno ripetono lo stesso componimento musicale (ma
con testi verbali diversi) gareggiando in un crescendo di varianti melodiche e di fioriture
sempre più complesse. Si tratta, in sostanza, di una
gara di belcanto del tutto accademica poiché non
vengono assegnati premi. La "gara" inizia con un
preludio strumentale definito "invito" o "picchiata":
è l'occasione per il chitarrista di mettere in luce le
sue capacità; analogo ruolo ha la chiusura del pezzo
dopo l'alternanza delle voci. Nelle gare del passato
tra un'entrata e l'altra dei cantori al chitarrista
rimaneva lo spazio minimo di qualche accordo: con
l'uso del plettro e il nuovo protagonismo dei chitarristi
l'esibizione di ciascun cantore è separata d brevi
interludi.
Il
nuovo
modo
di
gareggiare
esclude
definitivamente il vecchio criterio di curare la continuità
del canto eludendo bruschi passaggi nella successione
delle entrate dei cantori, chiamati in qualche modo a
introdurre con gradualità un progressivo infittirsi delle
variazioni e dei virtuosismi. Nelle "gare" più riuscite si
ricava la percezione di un felice equilibrio tra lo spiccato protagonismo dei cantori e la cura
della compattezza del disegno musicale complessivo. La "gara" strutturata secondo un
programma che vede la successione di diverse forme di canto tra loro fortemente differenziate
per il materiale melodico e il carattere espressivo. Le forme classiche, ancora irrinunciabili,
sono la boghe in re , la nuoresa e il mutu; si possono aggiungere canti galluresi (denominati
anche "alla tiempesina", gradevoli ma di scarso impegno vocale, prima di passare a quelli che
vengono considerati il vero banco di prova della bravura del cantore: il mi e la (o "alla bosana"
e la disispirata. In alcuni casi si aggiungono il si bemolle e il fa diesis, brani di notevole
impegno vocale riservati ai cantori di una scuola. Nella comune pratica musicale le forme più
utilizzate sono le prime tre perché si adattano a gradi diversi di capacità dal principiante al
grande
professionista.
Attualmente le "gare" di canto vedono quasi sempre, per l'accompagnamento delle voci,
l'abbinamento della fisarmonica alla chitarra. Questa innovazione risale agli anni 60 e si deve
all'ansia di rinnovamento di Nicolino Cabitza e, soprattutto, del figlio Aldo, che iniziò a farsi
affiancare, nell'accompagnamento delle voci nelle "gare", dal fisarmonicista Peppino Pippia.
13-LA CORNAMUSA LOMBARDA " BAGHET "
Un'antica tradizione bergamasca
Nella Roma imperiale era presente, anche se in maniera marginale, uno strumento ad ancia munito
di sacco come riserva d'aria. Lo stesso Nerone era un suonatore di zampogna, secondo quanto
riferisce lo storico Svetonio: "Verso la fine della sua vita egli aveva pubblicamente promesso che se
avesse potuto conservare l' Impero, nei giochi per celebrare la sua vittoria si sarebbe esibito in una
esecuzione sull'organo idraulico, con la choraula e " l' utricularium"; con quest' ultimo termine si
indica un otre in cuoio, in sostanza una zampogna. Un altro storico coevo di Svetonio,
Dione Crisostorno, sempre di Nerone afferma: "Sapeva come sonare la canna e come comprimere
col braccio". La prima attestazione di zampogne medioevali risale al IX secolo. Fino al 1300 si
ritiene che queste fossero prive del bordone d'accompagnamento, anche se questo dato non era
generalizzabile. Le zampogne medioevali dell'Europa continentale erano generalmente costituite da
una canna per il canto e un bordone basso. Gli strumenti con due bordoni sono probabilmente
apparsi
dopo
quelli
con
un
bordone.
Sono
invece
post-medioevali
quelli
con
tre.
Un
diffuso stereotipo vuole le zampogne relegate unicamente al mondo pastorale ed alla novena di
Natale. In realta, pur non perdendo il loro carattere di strumenti popolari che li vuole da sempre
presenti nel carnevale, accompagnamento del ballo e del canto (e non riduttivamente solo nel
Natale) la loro presenza nella cultura occidentale è delle più varie. Nel XX secolo le zampogne
erano
adoperate
al
servizio
delle
corti
e
delle
libere
citta.
Il
musicista
raffigurato
nelle fonti iconografiche è spesso un giullare.
Riguardo la provincia di Bergamo diverse sono le attestazioni iconografiche e gli autori locali che
hanno più volte ritratto una cornamusa, documentandone sia la struttura che il contesto sociale in
cui questa veniva suonata.
L'area dove più radicata era la tradizione dei "baghet" tradizione sopravvissuta fino a qualche
decennio fa corrisponde alla media Val Seriana. Qui erano in uso due diversi tipi di strumenti, uno
per la Val Gandino e paesi limitrofi (Semonte, Gazzaniga) e uno per Cene. Trattandosi di due
strumenti diversi come struttura, anche se identici come denominazione, vengono trattati in due
diversi capitoli, iniziando dalla Val Gandino, dove più consistenti sono i dati raccolti. La tradizione
del
"baghèt"
è
sopravvissuta
in
loco
all'
incirca
fino
agli
anni
Trenta.
I
suonatori
appartenevano quasi tutti al mondo contadino, smentendo il luogo comune che vuole, anche per
l'area bergamasca, legare la zampogna alla condizione pastorale".
E'
mia
opinione
le
popolazioni
personale
celtiche
che
che
erano
il
baghet
presenti
possa
nelle
essere
Prealpi
messo
e
valle
in
relazione
Padana,
la
con
cui
influenza è stata notevole, lasciando tracce nella lingua e nei toponimi e con usi e costumi ancora
presenti nel nord. Il conforto a questa mia opinione lo trovo nel libro " I celti in Italia " autore
Gualtiero Ciola, Ed. Helvetia, dal quale cito : " La loro vita sociale è quella tipica dei popoli arii con
la consueta tripartizione in sacerdoti guerrieri e lavoratori ; il potere spirituale era in mano
alla casta sacerdotale ; i druidi amministravano il culto ; i vati svolgevano la funzione degli attuali
sociologi, storiografi, scienziati ; i bardi erano i loro poeti cantori di miti e leggende con
accompagnamento di cornamuse ed arpe. La cetra tirolese, l' alpehorn o corno delle alpi svizzere,
le cornamuse scozzesi, irlandesi e bretoni ecc. nonché la zampogna italica sono sicuramente
strumenti musicali derivati da quelli dei celti."
Il suono del "baghèt" doveva essere fine e potente. Fine e penetrante quello della "diana" potente e pieno quello dei
bordoni che non per niente erano detti "orghegn " (come fossero canne d' organo), tanto da far rimbombare la stalla. Il
suono era così vigoroso che permetteva ai "baghetér" di dialogare" anche a distanze considerevoli, come facevano il
vecchio "Seri"ed il Fiaì"- Era infatti consuetudine di quest' ultimo, quando aveva terminato la sua giornata di
contadino,
di prendere lo strumento e di suonare nel campo dal "Casteli" nell"Agher"di Casnigo. Subito in risposta iniziava il
"Seri"
dalla sua cascina, che però si trovava di là dal fiume, sulle prime pendici dell'altro versante della Val Seriana, a
Semonte.
Il "baghèt" è strumento solìsta. Provvede da solo ad eseguire melodia ed accompagnamento senza che altri sostengano
la parte del canto. Il repertorio, oltre ai brani canonici come la " pastorella "di Natale ed i balli tradizionali, traeva
liberamente
spunto da tutti quei canti popolari che per la loro estensione rientravano nelle possibilità dello strumento. Una delle
caratteristiche del "baghèt" era proprio quella di accompagnare il canto. Unico vincolo era il rispetto del periodo in cui
suonare. Con l'ultimo giorno di carnevale lo strumento andava riposto, per essere poi ripreso nell'inverno successivo.
Nella esecuzione si faceva spesso uso di acciaccature superiori e inferiori e di glissati. Tutto ciò concorreva a creare uno
stile melodico dove la tessitura musicale fosse"vicina" come esecuzione al canto. Gli informatori hanno concordemente e
insistentemente affermato che la " pia "doveva cantare, non avere un suono "sfacciato"da trombetta.
La diana, con sette fori sul davanti
più uno alto sul retro per il pollice,
ha l'estensíone di una ottava.
Chiudendo tutto si ottiene la
sensibile. La tonalità originale degli
strumenti della Val Gandino è il LA
maggiore. I due bordoni sono così
accordati: quello piccolo una
ottava sotto la tonica della diana,
quello grande due ottave sotto la
tonica.
Per suonare il baghèt si
tiene il sacco sotto
l'avambraccio sinistro, con
il bordone superiore sopra
la spalla sinistra e quello
minore sull'avambraccio
destro.
ALCUNI BALLI E MUSICHE ESEGUITI CON IL BAGHET
" LA PASTORELLA "
Si tratta di uno dei brani più significativi del
repertorio del "baghèt". Le pastorelle
venivano eseguite nel periodo
natalizio nei paesi di Gandino, Casnigo,
Semonte, dove vivevano i suonatori, ed anche
al Santuario della Trinità di
Casnigo.
" BAL DEL MORT "
Il "bal del mort"è un
ballo tradizionale,
conosciuto dai vecchi
"baghetér" ma che
aveva nei "Seiì"i più
importanti
esecutori. Nella
famiglia Maffeis era il
padre che suonava il
"baghèt", mentre i figli
Carlo e Piero
ballavano. Importante
momento
comunicativo della
cultura popolare,
carico di significati
magico rituali, era già
in crisi all' inizio del
secolo, tanto
che, come afferma il
Ruggeri, non erano
molte le persone che
avevano ballato o
anche solo visto, nelle
stalle, il "bal del
mort" Scomparsi poi
gli ultimi anziani
suonatori, questo
costume è andato
dimenticato quasi
totalmente.
" CIAMELA NDRE CHE LA BACIUCHINA "
Brano intitolato " Ciamela ndré chè la baciuchina " appartenente al repertorio dei vecchi "baghetér". Si tratta di un
brano prettamente musicale, in quanto il testo è di scarso significato nel contesto della sonata: Va ciàmela 'ndré chèla
baciuchina ciàmela 'ndrè ciàmela 'ndré va ciàmela 'ndre chèla baciuchina ciàmela 'ndré che la vegnerà. (Vai, chiamala
indietro quella ragazzina chiamala indietro chiamala indietro vai, chiamala indietro quella ragazzina , chiamala indietro
che lei verrà).
" LA LAVANDINA "
La lavandina , oggi non più in uso, è divisa in due parti. Nella parte A le donne mimano il lavare, utilizzando un fazzoletto,
inginocchiate ora su una gamba ora sull'altra, mentre gli uomini girano attorno seguendo il ritmo della musica. Nella parte
B le donne sceglievano i cavalieri. Il fazzoletto veniva tenuto in mano mentre la coppia eseguiva dei passi simili allo
scottisch, l' informatore parla di "marcia vecchia" con saltelli meno accentuati e pochi spostamenti. Succedeva spesso
che le donne fossero in numero inferiore agli uomini. A questi toccava rimanere in disparte fino a quando, seguendo il
ritmo e i movimenti del ballo, riuscivano a sfilare il fazzoletto alla coppia, acquisendo perciò il diritto di ballare con la
dama.
La parte B era eseguita tante volte quante decidevano i suonatori. Il ballo riprendeva poi con la parte A, dove si
riprendeva a mimare il lavare.
In un area compresa tra Albino e la Val Gandino è stata accertata la presenza di almeno tredici
suonatori operanti in questo secolo. Tutti questi baghetér possedevano strumenti simili tra
loro. Probabilmente diversi strumenti uscirono dalla stessa famiglia di costruttori, i Pezzera,
detti Pi-ù, di Rova (frazione di Gazzaniga). Suddividendo i suonatori per paese abbiamo:
Albino. A Merano (frazione di Albino) suonava Pietro Pezzera (1890-1972), secondo la
testimonianza del figlio Andrea (n. 1933) . Il padre, contadino, suonava anche quando
scendeva a Comenduno e smise in tempo di guerra, attomo al 1940. Aveva probabilmente
acquistato
lo
strumento
da
giovane
nel
1905
prima
di
sposarsi
dai
Pezzera
di
Rova, suoi cugini. Il figlio Andrea ha riconosciuto con certezza lo strumento secondo lui
identico a una copia del baghèt. Lo strumento dei padre differiva solo negli anelli di
abbellimento, costituiti nel suo caso da robusti anelli d'osso. Andrea Pezzera si ricorda ancora
oggi
come
era
costruita
l'ancia
doppia
per
la
diana,
in
quanto
il
padre
aveva più volte tentato di insegnargli il procedimento costruttivo. Tale ancia è identica a quelle
approntate da Giacomo Ruggeri e descritte alla tavola 25.
Rova (frazione di Gazzaniga) . Qui era presente la già menzionata famiglia dei Pezzera, Pi-ù,
suonatori e costruttori.
Semonte (frazione di Vertova). Originari di Semonte erano i Maffeis, Serì. Due erano i
suonatori: Michele Guerino, contadino, scomparso attorno al 1940 all'età di 72 anni, e il figlio
Piero, prima contadino e poi operaio, morto di silicosi nel 1959. Altro suonatore era Alessandro
"Pescerì" Pezzera (1905 - 1976)
Gandino. Qui suonava Valentino Savoldelli, contadino, detto Parécia (1859-1924), Quirino
Picinali (1880-1962), falegname. Batistì de Ca da Pozz, contadino. Di lui si ricorda Giuseppe
Loverini al quale, allora bambino, è rimasto impresso il fatto che Batistì suonasse tenendo il
sacco sotto il braccio destro, così che il bordone rimaneva penzolo. A questi va ad aggiungersi
Gabriele
Servalli,
detto
Bi-ili
le
Clapa,
scomparso
nel
1948,
che
terminò
di
suonare all' incirca prima della grandeguerra. Lo strumento del Servalli fu ritrovato dai figli
nascosto nel sottotetto, oramai però in completo disfacimento, e di conseguenza fu gettato via.
Casnigo. Nutrito era il gruppo di suonatorí di Casnigo. Troviamo il Cattaneo, detto Ruina,
falegname, scomparso attorno al 1970, i due Fiaì, Luigi Zilioli (deceduto nel 1923 all'età di 67
anni) ed il figlio Giacomo (1906-1974), entrambi contadini e infine Michele Imberti detto Nano
Magrì, anche lui contadino, morto nel 1929 all'età di 64 anni, il cui strumento passò al nipote
Giacomo
Ruggeri
detto
Fagòt
(1905-1990),
contadino
e
unico
suonatore
da
me conosciuto. Ben radicata era quindi la presenza di suonatori nella media Valle Seriana.
Quasi uniformemente questa comunità di musicisti smise di suonare attorno agli anni '40. Da
notare come la maggior parte fosse di estrazione contadina. I pochi che non lo erano facevano
di professione gli artigiani. Viene quindi smentito il luogo comune che vuole legare il baghèt
alla
dimensione
sociale
dei
pastori.
Contadini
erano
i
suonatori
e
contadina
era
la cultura che permeava l'espressività del baghèt, legato alle sere d' inverno trascorse nella
stalla. Così pure l'ambito temporale in cui si adoperava la piva era conseguentemente legato a
questo mondo. Si iniziava a suonare all' inizio dell' inverno, quando, con l' arrivo dei primi
freddi, il lavoro nei campi dava maggior respiro ai suonatori che potevano cosi, con pazienza,
provvedere a rimettere in funzione lo strumento dismesso l' anno prima e si continuava
asuonare fino a carnevale. Arrivata la primavera, con la ripresa dei lavori , la cornamusa era
poi di nuovo riposta, adeguatamente avvolta in un telo, in attesa del successivo inverno.