Ambrogio Bongiovanni

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Ambrogio Bongiovanni, docente di Missiologia della Pontificia università Urbaniana
Il tema di questo incontro è «La mistica del dialogo. Sguardo sulle frontiere». Sono felice che sia
stato messo come sottotitolo l’espressione «Sguardo sulle frontiere» perché effettivamente, come
vedremo, il dialogo è una spiritualità di frontiera. Certo, oggi il termine «frontiera» è problematico
perché ci sono grandi difficoltà a porci sulle frontiere. Mentre il dialogo è una spiritualità di
frontiera: culturale, religiosa, spirituale. Il mio intervento è costruito su una serie di relazioni che ho
tenuto in passato, ma con contenuti che ritengo siano ancora validi. È quanto sento nel mio
profondo in questo momento storico e voglio condividerlo.
Prima di concentrarci sugli aspetti teologici e filosofici del dialogo interreligioso, mi pare
importante soffermarci su quanto è accaduto e sta accadendo. Stiamo vivendo un momento di
transizione caratterizzato da crisi istituzionali, conflitti, grandi flussi migratori. Questo pone uno
stato di ansia e incertezza nella società. Però io intravvedo anche la possibilità di sviluppi nuovi e
interessanti. È un tempo in cui, se si ha fede e fiducia, si possono vedere nuove prospettive e
opportunità che però vanno costruite impegnandosi a livello civile e religioso. A mio parere, il
diffuso pluralismo religioso e culturale rappresenta una delle opportunità più significative dello
sviluppo del genere umano. Per altri, la prossimità fisica di persone appartenenti ad altre culture e
ad altre religioni appare una minaccia. Una minaccia all’identità locali e nazionali, alla propria
condizione di benessere e di stabilità. Vivere in un contesto pluralista non rende automatico il
dialogo. Perché il dialogo non è qualcosa di automatico. L’antropologia culturale in questi decenni
nel descrivere la cultura ci mostra quanto è complesso e faticoso comprendere la diversità. In
particolare i rapporti con culture e religioni. Lo stiamo sperimentando sulla nostra pelle. Un conto è
parlare degli altri quando questi sono lontani, un altro è quando sono vicini. Le varie esperienze
religiose e culturali possono scontrarsi, incontrarsi o ignorarsi. Ignorarsi in una sorta di tolleranza, a
volte auspicata, che rappresenta un’insensibilità agli altri, una forma passiva di accettazione
dell’altro che lo riduce a qualcuno lontano e anonimo, una persona che ha diritto di esistere, ma che
non ci interessa e non ci stimola. Questa è la prospettiva relativista che viviamo oggi e che non
prende sul serio l’altro. Non lo considera per quello che è. Il multiculturalismo è accettato in
Europa, ma il passaggio da una realtà multiculturale a una interculturale è assai complesso. Non
voglio qui affrontare il tema dello scontro di civiltà tanto sostenuto da alcuni. Non per questo vorrei
dare l’impressione di essere ingenuo: lo scontro è possibile, in parte c’è ed è in corso. Lo scontro
però non nasce dalla incompatibilità delle culture e delle religioni, ma da interpretazioni «malate»
di queste culture e di queste religioni da parte di individui e di comunità che sono, a loro volta,
«malate» di etnocentrismo, assolutismo, fondamentalismo. Queste malattie portano alla
sopraffazione dell’altro fino alla sua eliminazione violenta. Il nostro tempo è pieno di queste
situazioni. Ci troviamo di fronte a una polarizzazione della realtà: da una parte c’è l’indifferenza e
l’intolleranza (si accetta la diversità, ma essa viene confinata in ghetti) e dall’altra, l’esclusione
dello straniero da parte di comunità o individui che assolutizzano le loro posizioni rispetto agli altri.
Ci troviamo, però, di fronte alla possibilità di un’altra strada che è quella del dialogo. Tutto ciò che
in questi anni abbiamo costruito a livello ecclesiale, basato sull’interdipendenza, e a livello sociale,
basato sulla globalizzazione, in questo momento è a un punto si svolta. L’interdipendenza, auspicata
dai documenti del Magistero, è una bella espressione che utilizzando la preposizione «inter»,
presuppone uno scambio e il fatto che siamo collegati uno all’altro (concetto ribadito dall’ultima
enciclica di Papa Francesco). La globalizzazione invece prometteva sviluppo, allargamento dei
diritti a tutti, ma non ci si rendeva conto che il sistema era costruito per i mercati e non sulle
persone. Ci si è dimenticati che, oltre alle merci, viaggiano le persone. Questi concetti sono entrati
in crisi di fronte alla realtà che stiamo vivendo. Il dialogo viene visto come uno strumento
importante e, a livello politico, religioso e civile, è considerato come «il risolutore» dei problemi. Il
dialogo è una pratica importante per il vivere in una società pluralista. Sappiamo bene che la
Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, ne ha fatto un elemento fondamentale della sua missione
nel mondo contemporaneo. È una parte fondamentale dell’agire della Chiesa, non solo a livello
istituzionale, ma anche come prassi ordinaria, cioè come vita dei cristiani (clero e laici). È
sorprendente come, negli ultimi mesi, io sia stato chiamato a difendere lo spirito del dialogo.
Ancora oggi, a diversi livelli, tra i cristiani il dialogo è visto con un certo sospetto. Viene
considerato come una ingenuità o una debolezza della fede che compromette la stessa identità
cristiana. Molti cristiani che vengono da altri continenti ci ripetono che il dialogo nei loro contesti è
impossibile. Io porto molto rispetto per chi vive in situazioni di conflitto perché prova sulla sua
pelle la violazione della libertà religiosa. Capisco le loro frustrazioni e io stesso non ho sempre
avuto la vita facile nel dialogo. Le preoccupazioni ci sono perché si teme che il dialogo
interreligioso possa sostituire, anche dal punto vista dottrinario, l’annuncio cristiano, posso
indebolire la forza della missione come se esso ci portasse a un sincretismo e di indifferentismo
religioso. Qualcuno dice che siamo troppo avanti e bisogna ridimensionare la portata del dialogo.
La situazione poi è complicata dai problemi dei flussi migratori e del fondamentalismo islamico che
risvegliano sentimenti più o meno aspri di rivendicazione identitaria. Tutto ciò provoca un
allontanamento di molti cristiani e dei cosiddetti «atei devoti» dalle linee sul tema espresse dal
magistero conciliare e post conciliare che sono costruite sul tema dell’altro e dell’alterità. Ci sono
stati approfondimenti teologici e pronunciamenti magisteriali sul tema del rapporto tra il dialogo e
l’annuncio. Qui non abbiamo il tempo di approfondire questo aspetto. In sintesi si può dire che
dialogo e missione sono strettamente interconnessi. Non sono sovrapponibili né intercambiabili, ma
sono strettamente legati tra loro. Diciamo che il dialogo interreligioso è parte integrante della
missione evangelizzatrice della Chiesa. Il dialogo non è una questione marginale da mettere a
latere: è parte integrante della missione. È innegabile però che dobbiamo lavorare affinché il
dialogo, come spiritualità, sia capito, sia maturato e sia vissuto all’interno della Chiesa. Perciò
dobbiamo capire da che cosa nasce questo sospetto verso il dialogo? Io ho individuato tre motivi.
1) Sia la base sia la leadership della Chiesa hanno forti carenze formative nell’ambito teologico e
missionario. Quanto la catechesi ordinaria tratta la teologia della missione? Quanto i nostri gruppi,
le nostre parrocchie, le nostre associazioni affrontano il tema del dialogo? C’è una formazione
missionaria? Su questo punto andrebbe fatta una profonda riflessione da parte dei vertici
ecclesiastici. A ciò si aggiunge la disinformazione mediatica che spesso alimenta una sorta di
opinione generale piena di stereotipi e pregiudizi.
2) Soprattutto in Occidente, il dialogo viene confinato ai rapporti islamocristiani. Siccome i rapporti
islamocristiani, si dice siano in crisi (cosa non vera), allora anche il concetto di dialogo in generale
diventa problematico. Ciò mette in ombra tutte le esperienze di dialogo con altre esperienze
religiose e che andrebbero considerate con maggiore attenzione per sviluppare e riflettere su una
teologia del dialogo e per un servizio migliore allo stesso dialogo islamocristiano.
3) Un altro problema è il dialogo istituzionale. Molte istituzioni hanno fatto proprio il dialogo
interreligioso mettendolo nelle loro agende e nelle loro priorità. Lo considerano essenziale per lo
sviluppo delle società stesse. Ciò è positivo. Però questo dialogo com’è costruito? Si crea un
confronto basato unicamente sul politicaly correct? Cioè una sorta di pragmatismo per raggiungere
l’obiettivo del controllo delle frontiere, della gestione dei rapporti tra comunità religiose, ecc.? Io
mi chiedo se c’è realmente la consapevolezza di che cosa sia il dialogo interreligioso, la sua
rilevanza, il suo spirito affinché si attui una vera prassi. Il rischio è che ci si trovi di fronte a parole
vuote e a retorica.
Ma allora che cosa intendiamo per dialogo? Il tema di questo incontro è la mistica del dialogo, cioè
il cuore della spiritualità del dialogo. Ed è ciò che interessa davvero perché è da questa spiritualità
che deriva la prassi del dialogo. Il dialogo interreligioso è un cammino verso la Verità nell’incontro
con una persona di un’altra tradizione religiosa. È un pellegrinaggio alle sorgenti della propria fede
e della fede dell’altro. Quindi presuppone un mettersi in punta dei piedi e non fare proclami. Quindi
il dialogo è possibile se insieme favoriamo un incontro esistenziale e profondo. Questo vuol dire
che il dialogo non è nulla di preconfezionato, non è una ricetta pronta all’uso. Il dialogo a livello
istituzionale è importante, ma a dialogare devono essere le persone. Persone che vengono cambiate
dal dialogo. È una sorta di miracolo. Ricordo di aver fatto un ritiro da giovane e in quella sede mi
colpì un’espressione: «Il deserto fiorirà». Il dialogo va posto in questa logica, in questa idea di
miracolo. È vero che la parola «dialogo» contiene il termine greco: «logos». In questo caso, però,
«logos» va oltre al significato di «logica» cui l’ha ridotto la modernità, dimenticando la sua
dimensione di coscienza. La logica va bene, ma con una coscienza. Il dialogo quindi non è una
conversazione, ma un incontro profondo tra pensieri e idee diverse, ma anche tra persone. Per noi
cristiani è facile pensare in questo modo perché per noi il logos non è unicamente un’idea, ma la
Parola è una persona. Nel riferirsi al dialogo come a un incontro tra persone siamo aiutati quindi da
Vangelo. Il dialogo quindi è un metavalore attraverso la visione di interdipendenza e universale.
Interreligioso, interculturale e interdipendenza è in questo «inter» che avviene il miracolo. Questi
concetti ci aiutano a superare il costrutto sociale che stiamo vivendo. Ci aiutano ad andare oltre al
pensiero monologico, etnocentrico, monolitico. La Chiesa in questo ci viene incontro con il suo
magistero. La Chiesa ha fatto proprio il dialogo interreligioso attraverso la «Nostra Aetate» che è
una dichiarazione sui rapporti con le persone di altre tradizioni religiose. È un documento
straordinario, una pietra miliare per relazioni rinnovate. Ci suggerisce come guardare in modo
totalmente diverso all’altro: musulmani, ebrei, hindu, buddhisti, ecc. Qualcuno direbbe che è un
documento «buonista» e sostiene che dal punto di vista dottrinale ha un tenore più basso perché è
un testo pastorale e offre quindi solo un’indicazione ai cristiani . È vero che questa è «solo» una
dichiarazione, ma è anche vero che questo documento è supportato da altri documenti, come la
Costituzione dogmatica «Lumen Gentium» che ribadisce l’importanza delle relazioni con gli altri e
le inquadra tra le missioni della Chiesa.
La spiritualità del dialogo è costruita su questa tensione verso l’altro. Di che cosa abbiamo bisogno
per questo? Di una conversione all’altro, di un superamento di pregiudizi e stereotipi. Consapevoli
che l’incontro con culture e religioni diverse non avviene senza conflitti e senza tensioni. Come si
può notare ho spostato l’asse dall’idea di un dialogo pratico a un’idea di dialogo relazionale,
fondata sulle persone. Noi crediamo in un Dio trinitario e credere nella Trinità significa credere in
un Dio relazionale. La natura intima di Dio nella relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo. La
tradizione cristiana ci presenta una visione di Dio trinitario, tre persone che sono distinte, ma in
relazione. Questo movimento è un movimento d’amore di una con l’altra. È una sorta di energia che
intercorre tra esse. L’identità stessa di Dio è relazione. La natura intima di Dio è relazionale. Ma
questa natura intima di Dio si manifesta anche verso l’esterno comunicandosi verso l’uomo. La
Trinità esce da se stessa e va incontro all’uomo. Il logos si fa carne. Lo Spirito agisce. L’amare gli
altri non è semplicemente una questione di fare la volontà di Dio, ma di condividere la volontà di
Dio. Su che cosa costruiamo quindi la mistica del dialogo? Su questo principio dialogico e su questa
natura relazionale di Dio. Dobbiamo relazionarci con il diverso. Sappiamo che Gesù si relazionava
con il diverso. Gesù esce dal gruppo dei suoi. Nei discorsi identitari distinguiamo sempre tra «noi»
e «loro», facendo un discorso di diversità incolmabili. Siamo troppo diversi. Il Papa ci ricorda in
questi giorni la casa comune che ridimensiona questa logica del «noi» e «loro». Ma non perché la
differenza non sia importante, ma la differenza dev’essere costruita sulla capacità di arricchimento
reciproco e non su una volontà di discriminazione, su un muro, su una divisione. Lavorare sulla
spiritualità del dialogo con l’altro, ci affacciamo a una realtà che è altra da me. Sono mondi diversi.
Ciascuno porta il suo mondo diverso che proviene da un contesto diverso. O questi due mondi non
si parlano oppure nell’incontro, su una base di reciprocità, si riconoscono in un cammino comune di
Verità, in un cammino liberante verso qualcuno che li trascende. È un cammino non
preconfezionato.
La pedagogia del Vangelo ci viene incontro. Il Vangelo può essere letto in modo interculturale. Che
cosa ha significato per Gesù uscire dal mondo dei suoi e incontrare il gruppo degli altri, quelli più
scomodi e problematici? Gesù non abbandona la sua posizione, ma si pone in una posizione di
frontiera. Il dialogo è un porsi in una situazione di frontiera senza mettere muri. Possiamo guardare
oltre alla frontiera. È un rischio? Certo che lo è. Gesù ha rischiato e ha pagato per le sue scelte.
Porsi sulla frontiera è un rischio.
Le conseguenze di questo principio dialogico sono due:
1) Il dialogo presuppone apertura all’alterità e, un po’ più difficile, alla verità dell’altro. Qui è il
problema perché il tema della verità è una delle categorie più difficili da esplorare perché impone il
confronto con la verità dell’altro. Una delle cose più difficili del dialogo è proprio questa. Se noi
facciamo riferimento a una verità assoluta e anche dall’altra parte si fa lo stesso, mi posso aprire
all’altro anche se non accetto passivamente tutto ciò che afferma. Significa prendere sul serio
quanto l’altro mi dice. La verità dell’altro non mette a rischio la mia identità, ma la rafforza. Il
confronto delle verità apre la strada alla verità dell’altro e a un lasciarsi interrogare alla sua verità
anche se la critichi. Ricettività significa ricevere in casa propria una realtà estranea e a ospitarla. Se
io accolgo uno straniero so che ricevo una persona diversa da me, ma lo ospito. E per ospitarla devo
capirla e mi devo fidare e quindi rischio.
2) La kenosis, l’annullamento. Il massimo della kenosis è la croce sulla quale è morto Gesù. Gesù
non considera questa uguaglianza con Dio qualcosa da chiudere in un cassetto, ma la rimette in
gioco. Questo modello è importante, ma scomodo. Chi si appella alla identità cristiana, anche
facendo riferimento al crocifisso per escludere l’altro, stanno strumentalizzando la croce e il
messaggio cristiano. La croce non mette barriere, ma ospita l’altro e accoglierlo fino alla morte.
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