ITCS “Blaise Pascal” di Giaveno

I.T.C.S. “Blaise Pascal” di Giaveno
Area di Progetto
Sulle tracce di Augusto Monti nella
Valle dell’Armirolo
Classe IV H indirizzo scientifico
Anno scolastico 2005/06
La nostra classe è composta da:
Baratozzi
Bongiovanni
Borello
Cantino
Carelli
Carnino
Cicciarella
Ferro
Garino
Gennari Curlo
Gilli
Valentina
Barbara
Valentina
Roberta
Fabio
Francesca
Beatrice
Marco
Matteo
Giovanni
Emanuele
Mascarello
Montabone
Moroni
Mungo
Neirotti
Pramauro
Reviglio
Rubino
Strillacci
Viviani
Docenti coordinatori: Prof.sse Silvia Ajmerito
Angela Bruno
Maurizio
Erika
Marco
Eleonora
Ilaria
Erica
Sabrina
Letizia
Riccardo
Daniela
Indice
Presentazione del progetto .......................................................................... 1
Capitolo I (Val d’Armirolo)........................................................................ 4
Capitolo II (Escursione nella valle nel novembre 2005)............................. 7
Capitolo III (Storia ed economia) ............................................................. 12
Cenni storici sulla valle.............................................................................................. 12
Economia ................................................................................................................ 13
Pascolo e allevamento ............................................................................................... 14
I funghi ................................................................................................................... 17
Castagne e castagneti................................................................................................. 17
Carbonaie ................................................................................................................ 19
Le foglie .................................................................................................................. 21
L’acqua ................................................................................................................... 21
Capitolo IV (Cultura popolare) ................................................................. 23
Leggende ................................................................................................................. 23
Dialetto franco-provenzale ......................................................................................... 25
Educazione .............................................................................................................. 27
Capitolo V (Case e borgate alpine) ........................................................... 29
Capitolo V I Geografia del territorio......................................................... 32
I venti e il tempo................................................................................................... 32
Capitolo VII (La vegetazione) .................................................................. 36
Capitolo VIII (Gli animali) ....................................................................... 60
Riflessioni conclusive ............................................................................... 82
Bibliografia ............................................................................................... 84
Presentazione del progetto
Sono trascorsi quarant’anni dalla morte di Augusto Monti, docente, opinionista e
scrittore, convinto antifascista, importante punto di riferimento per i suoi studenti al
liceo D’Azeglio di Torino negli anni Venti dello scorso secolo.
In occasione dell’anniversario della sua morte, il CAI di Giaveno ha avviato un
progetto per ricordare una figura, rilevante nel panorama della cultura torinese e
italiana, di intellettuale che è stato non solo professore, ma soprattutto formatore di
generazioni.
Il CAI di Giaveno, in collaborazione con il Comune di Giaveno e la Provincia di
Torino, ha ripreso un’iniziativa risalente al 1994 che riguardava la riedizione di una
sua opera, “ Val d’Armirolo ultimo amore”, ambientata nelle località giavenesi da lui
frequentate, sia durante l’apprendistato didattico di inizio secolo, sia durante i ripetuti
soggiorni estivi che precedettero la Seconda Guerra Mondiale.
Il progetto rivolto agli istituti scolastici di Giaveno presenta una serie di tematiche
legate al percorso di vita e di pensiero montiano e ai suoi rapporti con la Valsangone.
Il nostro Istituto, in particolare le classi IV B, IV G, IV C e IV H, ha accolto la
proposta e ha intrapreso un lavoro all’inizio dell’a.s. 2005/06, che è stato attuato in
tre fasi.
Tutte le classi hanno assistito in Novembre ad una conferenza, presso il nostro
Istituto, tenuta dal Prof. Giovanni Tesio che ha seguito l’edizione delle opere di
Augusto Monti e ne ha curato un’importante biografia “ Attualità di un uomo
all’antica”, e dal Prof. Attilio Dughera, ricercatore presso l’Università di Torino e
autore di numerose opere scolastiche e di pubblicazioni su Cesare Pavese.
Durante l’incontro alcuni studenti della classe IV G sono intervenuti leggendo dei
passi tratti dalle “ Lettere a Luisotta”, opera in cui Monti descrive l’esperienza del
carcere alla figlia. Questo incontro e le lezioni di approfondimento sulla figura di
Monti, tenute nella nostra classe, IV H, dalla Professoressa di lettere Silvia Ajmerito,
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sono state utili per inquadrare il personaggio stesso nel suo contesto storico e per un
primo approccio organizzativo.
Dopo la prima parte teorica abbiamo affrontato l’aspetto pratico del progetto
iniziando con una passeggiata geografica-letteraria nei luoghi in cui Monti ha
ambientato la sua opera. In questa prima “ ricerca sul campo” siamo stati
accompagnati, oltre che dalle nostre Professoresse, Silvia Ajmerito, di lettere e
Angela Bruno, di scienze, anche da alcuni collaboratori della sezione del CAI di
Giaveno, come il Dr. Pane, geologo, e dal Sig. Mario Moschietto, abitante della
Borgata Tora, che ci hanno fornito ulteriori informazioni sul territorio stesso e sulle
trasformazioni avvenute nel corso degli anni.
In classe abbiamo così potuto procedere alla raccolta di materiale informativo e alla
divisione in gruppi di lavoro: uno con il compito di trattare le tematiche relative
all’ambiente e ai suoi mutamenti, l’altro relativo all’ambito economico e sociale. Al
fine di approfondire la materia, abbiamo pensato di creare ulteriori sottogruppi che si
occupavano
rispettivamente
di:
conformazione geografica del territorio e
trasformazioni subite dall’ambiente; economia dell’area montana e vita sociale nel
periodo narrato da Monti.
Il primo sottogruppo ha quindi esaminato la natura, terre, acque, venti, clima di cui
Monti ha fornito ampie descrizioni nelle sue opere. Il secondo ha rivolto l’attenzione
sull’evoluzione dell’ambiente, considerando la crescente influenza dell’uomo e lo
sfruttamento sempre più intenso delle risorse.
I restanti due sottogruppi hanno preso in esame l’economia del 1900 nella Val
d’Armirolo con precisi riferimenti ai testi letti di Monti relativamente
all’allevamento, alle carbonaie, alle foglie, ai prodotti coltivati e raccolti, come viti,
castagne e funghi, ad un bene prezioso, ora e a quel tempo: l’acqua. In collaborazione
con l’altro sottogruppo sono state descritte le modalità con cui la raccolta dei prodotti
veniva effettuata e gli strumenti utilizzati nel lavoro dei contadini. Quest’ultimo
gruppo ha introdotto uno scorcio storico per presentare l’epoca con le sue tradizioni
legate alla cultura del tempo, all’educazione, alle “conte” e ai proverbi.
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Questo nostro lavoro costituirà l’Area di progetto da presentare il prossimo anno
scolastico all’Esame di Stato, ma ha rappresentato per noi un’opportunità per
conoscere, attraverso le parole di un Maestro di scuola e di vita, un travagliato
periodo storico vissuto da lui stesso e dalla gente delle nostre montagne.
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Capitolo 1
Capitolo I Val d’Armirolo
“Val d’Armirolo è una nicchia dentro un’altra nicchia, una piccola ruga nella
grande conchiglia, compresa fra monti bassi compresi fra monti alti – i doppi vetri –
con la morena del Mollar a serrarla verso l’apertura più lontana della valle più
grande.”
Così Monti ci introduce nella Val d’Armirolo, che ricorda con affetto, descrivendo
qual era la realtà di questo suo rifugio, a circa trenta chilometri da Torino, dopo la
prima guerra mondiale.
Geograficamente la valle è ridotta: si estende dalle frazioni di Budin e della Merlera,
in linea d’aria poco distante dagli antichi Prati dell’Abate e dalle località di Perosa e
Cumiana, ma comprende anche Provonda, Mollar, i Morelli, frazioni situate dall’altra
sponda del torrente Armirolo.
Le prime due borgate sono collocate dietro le colline che cingono la valle, e Monti
ricorda che gli abitanti della zona ne parlavano come se fossero lontanissime da loro,
quasi all’altro capo del mondo.
La valle assume varie sfaccettature, molte voci, quelle delle persone e quelle prodotte
dallo stormire delle fronde, tuttavia è presente un suono che emerge quando tutte le
altre si affievoliscono, è una voce che parla e suscita sempre emozioni diverse, dotata
di fluire continuo e immutabile. Questa voce è definita da Monti come “ un sussurrar
continuo e ruscellante là in basso, che la gente a quando a quando porge l’orecchio
e dice ammiccando: l’armour, il rumore, e chi lo fa è l’Armireu il torrente, il
Rumoroso, l’Armirolo”.
In essa vige un senso ancora arcaico della vita e del lavoro: ogni stagione incide sui
comportamenti delle persone, ad esempio la ricerca di un lavoro all’ombra nei mesi
estivi oppure la raccolta dei funghi, a settembre, quando la terra è calda e l’aria umida
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Capitolo 1
e la popolazione si cimenta in inesauribili ricerche e camminate al fine di fare una
buona raccolta di funghi.
Inoltre nella valle gli agenti atmosferici come la grandine o la pioggia sono molto
studiati, attesi o temuti, per esempio il vento è uno spietato nemico, poiché rovina i
prodotti agricoli, soprattutto se si manifesta a novembre, quando non dovrebbe essere
stagione di venti.
Monti non manca di descrivere gli animali delle cascine, le vacche, preziosissime e
curate soprattutto durante il difficile momento del parto; le ovaiole livornesi o
padovane; i galli, animali molto apprezzati e amati, rappresentati nei loro
atteggiamenti superbi intorno alle galline; i falchi che solcano il cielo e che sono
riconoscibili per il loro ventaglio grigio e le ali bianche; infine i serpenti che incutono
timore a causa alle loro notevoli dimensioni e dei morsi velenosi.
Gli abitanti della valle non apprezzano particolarmente le piante che non sono da
frutta, poiché non producono nulla e ostacolano il passaggio della luce del sole,
fondamentale per la coltivazione. I pini, i faggi, le betulle, i roveri, gli ontani sono
guardati con ammirazione dal cittadino Monti per le loro chiome frondose d’estate,
ma anche per lo spettacolo che offrono d’autunno con la caduta delle foglie oppure,
d’inverno, quando i rami vigorosi ormai spogli appaiono ricoperti di brina lucente.
Invece i castagni sono graditi alla gente del posto, per la caduta a novembre dei
marroni e per la protezione che offrono ai funghi.
E poi monssu Monti descrive soprattutto gli uomini, tenaci lavoratori attaccati alla
loro terra che lasciano solo per miseria e disperazione, ma alla quale ritornano; le
donne semplici massaie, accorte e prudenti; i bambini, vivaci e giocherelloni come
quelli di tutti i tempi e di tutti i luoghi; i vecchi, spesso saggi di una saggezza d’altri
tempi, talvolta creduloni e abbruttiti dalla fatica e dal vino, ma sempre con qualcosa
da raccontare e da tramandare.
Ne emerge una comunità che esprime i propri giudizi sull’ambiente in funzione a
quanto questo abbia da offrire loro, sulla vita e sulla morte in base alle conoscenze
(poche), alle superstizioni, alle esperienze numerose accumulate nella loro valle.
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Capitolo 1
la frazione di Provonda
la Val d’Armirolo
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Capitolo II Escursione nella valle nel novembre 2005
Per conoscere personalmente i luoghi descritti da Monti e conosciuti tramite il suo
libro da ciascuno di noi, nel mese di novembre abbiamo fatto un’escursione che è
iniziata da Borgata Tora, dove siamo arrivati con il pullman passando dalle borgate di
Monterossino e del Fusero. Ad accompagnarci, assieme alle professoresse di italiano
e scienze, c’erano due volontari del C.A.I., una guardia forestale, un geologo ed un
anziano abitante della vecchia borgata Tora, il signor Mario Moschietto.
A fine novembre la valle era già ricoperta da uno spesso manto nevoso e la
temperatura era bassa anche per l’altitudine (mt.1007).
Da Tora abbiamo percorso una strada di terra battuta, coperta di neve, che era stata
aperta alcuni anni prima dallo stesso Moschietto per trasportare legna a valle,
facendo alcune fermate per osservare con più attenzione le caratteristiche del
territorio e delle piante. Attraverso le parole del signor Moschietto, che si è spesso
alternato agli specialisti nel descrivere le particolarità di luoghi e specie vegetali,
abbiamo compreso quanto, soltanto cinquant’anni fa, il rapporto tra la montagna ed i
suoi abitanti fosse profondamente diverso da quello attuale.
Siamo arrivati alle Prese Franza, dove sorgono i resti della vecchia borgata che
abbiamo visitato con attenzione, incuriositi dalle spiegazioni di Mario che ci
raccontava come un tempo, anche solo cinquant’anni fa, la montagna fosse ancora
abitata in modo stabile e le borgate costituissero centri di aggregazione e di vita per
l’intera comunità montana.
Le famiglie che l’abitavano erano legate da stretti rapporti di amicizia, sovente di
parentela tanto che, come ci è stato possibile osservare dalla struttura di alcuni edifici
ormai abbandonati, quando un figlio o una figlia si sposava, l’abitazione veniva
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Capitolo 2
allargata con l’aggiunta di una o due stanze, mantenendo l’originario nucleo familiare
solo più ampio.
In particolare, però, gli uomini che abitavano le borgate, attraverso i loro lavori,
garantivano protezione e tutela all’ambiente montano e ne ricevevano al tempo stesso
sostentamento e difesa.
Esisteva dunque un legame profondo tra uomo e natura, la quale svelava
generosamente i suoi misteri agli esseri umani che facevano uso di erbe e di elementi
naturali di vario tipo per risolvere problemi di salute o anche semplicemente per
rimediare a leggeri malesseri o ad inconvenienti legati all’esistenza quotidiana.
Certo la natura non era generosa né per il clima né per quanto riguarda
l’alimentazione, perché l’ambiente richiedeva grande impegno e grandi sforzi per
lavorare la terra: si tratta pur sempre di terreno di montagna, quindi povero e difficile
da dissodare. Tuttavia ci è stato spiegato che agli abitanti delle montagne non
mancavano gli elementi fondamentali per una nutrizione equilibrata, in quanto si
ottenevano dalla terra patate, castagne e, dall’allevamento, la carne, il latte e le uova.
Già alla fine dell’Ottocento la possibilità di una vita più facile nelle città ha indotto
coloro che vivevano delle risorse della montagna ad abbandonare il loro ambiente
d’origine e ciò ha causato la perdita di un patrimonio culturale fatto di conoscenza
delle proprietà di molti elementi naturali, della capacità di gestire l’ambiente montano
(ad esempio, liberare i boschi dal fogliame che impedisce la crescita del sottobosco,
ripulire i letti dei torrenti per evitare la tracimazione), ma anche di un patrimonio
culturale fatto di leggende, fiabe, poesie tramandate purtroppo oralmente di
generazione in generazione.
Si è perso soprattutto un patrimonio di valori, quelli di cui parla Monti in “Val
d’Armirolo ultimo amore”, valori come la solidarietà tra abitanti dello stesso luogo, il
rispetto per i forestieri, il senso profondo dell’unità familiare e dei legami di amicizia,
il concetto di lavoro come sacrificio finalizzato a una vita armonica per la collettività.
Di questo patrimonio comune faceva parte la capacità che tutti gli abitanti avevano di
costruire le abitazioni in perfetta armonia con l’ambiente, ad esempio esponendo al
8
Capitolo 2
sole determinate parti delle case, evitando di costruire in zone franose o esposte a
possibili inconvenienti di tipo naturale. I montanari, inoltre, erano esperti nella scelta
dei materiali da costruzione, come appare dall’uso delle “lose” con le quali venivano
ricoperti i tetti che diventavano così molto resistenti ed adatti a sostenere anche una
notevole quantità di neve.
Oggi l’uomo dimostra di non rispettare molto la natura ed evidenzia la propria
incompetenza nel costruire: lo abbiamo potuto osservare proprio alle Prese Franza
dove si distingueva, nettamente separata dalle altre, un’abitazione recente ancora in
fase di costruzione. Il tetto di mattoni e l’aspetto urbano di essa stonavano
vistosamente con le costruzioni più antiche che, pur essendo più piccole ed in parte
abbandonate, trasmettevano un maggiore senso di solidità ed apparivano decisamente
più gradevoli sul piano estetico.
In quel gruppo di case ci siamo fermati un po’, guardandoci attorno e frugando con lo
sguardo gli interni piccoli e quasi sempre spogli.
-Riuscireste a vivere qui?- ha domandato una guardia forestale ad alcuni di noi, fermi
sulla soglia di una baita abbandonata, ma ancora “ammobiliata”.
Abbiamo atteso qualche attimo prima di rispondere, il tempo che i nostri occhi si
abituassero alla semioscurità: un tavolo di legno con sopra qualche piatto, una
credenza non più capiente di quella per le bambole, una bacinella per lavarsi, un
semplice lettuccio per dormire.
Nessuna delle innumerevoli comodità che il progresso galoppante degli ultimi
cinquanta anni ha portato nelle nostre case, rendendo la nostra generazione così
lontana da quelle che ci hanno preceduto.
-Sarebbe impossibile- qualcuno ha detto.
Certo, sarebbe difficile: le comodità contemporanee sono le fondamenta della nostra
vita, ci permettono di essere rapidi, di svolgere più attività e di sezionare il tempo per
superarlo in velocità.
Ciò che questi frammenti di passato, come il gruppo di baite o i passi in cui Augusto
Monti descrive la vita in montagna, evocano in noi, non è solo il rispetto per la
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Capitolo 2
dignitosa fatica degli abitanti, ma anche la curiosità verso un modo diverso di
percepire il tempo.
Nei libri di Monti i paesaggi e le storie richiamano un tempo ancora lontano
dall’uomo e dalle sue manipolazioni, regolato solo dalla natura, dall’avvicendarsi
delle stagioni, dal freddo che lentamente sparisce mentre le foglie inverdiscono, le
stesse foglie che coloreranno d’oro l’autunno.
Abbandonate le case di Prese Franza, siamo risaliti per la montagna seguendo un
sentiero sempre più stretto che si è immesso nel bosco, dove erano visibili ancora le
tracce del disboscamento e di un incendio avvenuto alcuni anni prima.
Proseguendo per sentieri percorsi dai partigiani tra il ’43 e il ‘45, accompagnati dai
racconti storico-leggendari di Moschietto e dalle spiegazioni scientifiche degli esperti
del C.A.I., abbiamo potuto ammirare un bellissimo panorama aprirsi verso le due
vallate sottostanti, con abbondanza di torrentelli e ruscelli.
Raggiunti i casolari di Budin, abbiamo attraversato la valle e, seguendo un altro
sentiero, ci siamo diretti verso Tora, chiudendo l’anello della nostra escursione,
arricchiti di vecchie conoscenze e di una nuova esperienza.
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Capitolo 2
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Capitolo III Storia ed economia
Cenni storici sulla valle
I primi abitanti della Val Sangone appartenevano al ceppo Celto-Ligure, ed erano
cacciatori, raccoglitori, pastori e cercatori di pietre semipreziose, che poi si
stabilirono stanzialmente e coltivarono le terre.
Possiamo immaginare che anche nella piccola valle del Romarolo si formassero i
primi nuclei abitativi stabili solo intorno al 1300 i quali, col passare del tempo,
divennero borgate intorno ad un centro più grande: Giaveno. Gli abitanti
aumentarono di numero e furono governati sia da esponenti di famiglie locali, sia da
abati.
Vennero costruite case in pietra cinte da mura di discreta qualità; per soddisfare le
esigenze delle abbazie, delle famiglie locali più facoltose e dei nascenti centri della
pianura, si avviò il commercio delle eccedenze agricole, sorsero botteghe artigianali
per la produzione di tessuti di canapa, si costruirono i primi mulini ed anche l’attività
estrattiva e di lavorazione della pietra e del ferro assunse una certa rilevanza.
Ancora nell’Ottocento la realizzazione dei lavori avveniva completamente a mano,
con l’ausilio di pochi e semplici strumenti: la zappa, la vanga, la sampa, la trinca e la
gerla. L’uso dei buoi non era possibile a causa della natura montuosa, quello dei muli
neppure per la scarsità di foraggio ed era impensabile l’utilizzo degli inadeguati
macchinari conosciuti all’epoca.
Le zone d’alta quota furono disboscate per ricavarne pascoli. A causa della cronica
carenza di foraggio venivano allevati principalmente ovini, che fornivano lana per i
filati e che potevano essere portati al pascolo per la maggior parte dell’anno; molte
capre, che fornivano eccellenti quantità di latte e mangiavano poco fieno, seppure i
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Capitolo 3
regolamenti tendessero a disincentivarne l’allevamento, per evitare danneggiamenti ai
boschi.
I bovini, che consumavano una gran quantità di foraggio, verranno allevati solo in
epoche successive e mai in numero particolarmente elevato.
Un ricordo di questo periodo persiste nel detto: “La pecora ha l’oro, la capra ha
l’argento e dalla mucca si prende quello che rende”.
Seppure nella valle vi fosse un’elevata conflittualità tra le comunità per lo
sfruttamento dei pascoli, e non fossero infrequenti scorrerie, saccheggi e zuffe, la
situazione economica era caratterizza da uno stato di relativo benessere.
All’epoca della Prima Guerra Mondiale, invece, molti valligiani furono mandati nei
fronti lontani e dovettero così lasciare la terra e il lavoro più duro alle donne e ai
vecchi. Accadde di peggio tra il ’43 e il ’45, quando la zona fu occupata dai partigiani
e subì duri rastrellamenti da parte dei nazi-fascisti, che provocarono quasi un
centinaio di morti e la distruzione di intere borgate.
Lo spopolamento, che già era iniziato al termine del primo conflitto mondiale,
assunse aspetti devastanti: le distruzioni della guerra, il miraggio di un regime di vita
migliore in città e la chiusura di tanti stabilimenti nel fondovalle indussero i
montanari ad abbandonare i luoghi aviti.
Se l’esodo inizialmente aveva carattere stagionale, dalla montagna alla pianura per
tagliare le messi e per raccogliere i prodotti agricoli, successivamente esso si rivolse
alla Francia e divenne fisso, tanto che in diverse zone francesi si trovano cognomi di
origine provondina o di altre borgate giavenesi.
Chi rimaneva si dedicava, oltre che all’agricoltura e all’allevamento, ad attività un
po’ particolari, quali la produzione e il trasporto del carbone, la raccolta di funghi e
castagne per la vendita al mercato.
Economia
L’economia della valle si basava principalmente sulla coltura del castagno e sullo
sfruttamento dei prodotti silvani di cui i boschi erano ricchi (carbone di legna,
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Capitolo 3
legname, foglie e prodotti del sottobosco). Nelle zone di alta quota tramite il
disboscamento vennero ricavati pascoli soprattutto per ovini e caprini, pascolati per la
maggior parte dell’anno, da cui si ricavava lana, latte e formaggi.
A quote inferiori rilevanti erano l’allevamento bovino e la coltivazione del grano,
così come i frutteti (mele) e i vigneti, anche se considerati più difficili e onerosi da
curare.
“…e se tu contempli una di queste coste dal basso o di faccia che tu la possa un po’
comprendere d’uno sguardo, il bosco già tu lo vedi tutto mangiato agl’orli dalla
cancrena di quella terra da lavoro, ogni anno più addentro, e il verde butterato in
mezzo dal giallo di quel povero grano ancora non mietuto a mezzo agosto…”( A.
Monti, Val d’Armirolo Ultimo amore).
(“ E la vigna, quassù?! E’ una cosa di lusso quassù terreno da patate e da castagne:
verderame zolfo calce pompe spolveratore fil di ferro: tutta roba che tu devi
comprare a denaro sonante, e pagar cara…… vite d’inferno.)
Inoltre, per poter coltivare, era stato necessario realizzare i terrazzamenti, che si
vedono ancora adesso, e operare grossi riporti di terreno oppure bonificare zone
imbibite di acqua. Un lavoro impegnativo eseguito agli inizi del Novecento è stato
quello riguardante la canalizzazione dell’acqua che partiva dal Romarolo, nei pressi
della borgata Galet, e scendeva giù fino al Mollar dei Franchi.
In ogni caso gli insediamenti urbani erano piccoli e tali sono rimasti attraverso il
tempo per non togliere spazio alle coltivazioni.
Pascolo e allevamento
Da aprile ad ottobre si portavano gli animali (bovini) al pascolo: si sfruttavano gli
erbai per lo più di trifoglio, cercando di risparmiare l’erba dei prati per poterla
falciare e trasformare in fieno per l’inverno. Si pascolava al mattino e nel tardo
pomeriggio portando le “erbaiole”, le giovani manze, le giovenche ed i piccoli
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Capitolo 3
maschi castrati; invece non venivano mai condotti al pascolo i tori e gli animali da
ingrasso.
Erano generalmente donne e ragazzi ad “andè an pastura”, e, mentre le une spesso
sferruzzavano a maglia, gli altri si divertivano a rubare l’uva nelle vigne o la frutta
nei campi altrui. D’altra parte il lavoro era molto duro, e spesso i ragazzi andavano a
servizio per custodire mucche sin dall’età di cinque o sei anni, dal mattino all’alba,
sino al tramonto per almeno nove mesi all’anno: come paga ricevevano cibo, ad
esempio un sacco di grano o qualche moneta. Durante questo periodo ovviamente i
bambini non frequentavano la scuola, e solitamente rimanevano analfabeti: tre mesi
di istruzione all’anno erano effettivamente pochi, ma spesso il loro lavoro rendeva
meno drammatiche le situazioni finanziarie di certe famiglie, in quanto un figlio che
lavorava rappresentava sempre una bocca in meno da sfamare.
Un tempo il centro propulsore della vita contadina era rappresentato dalla stalla: nella
struttura tradizionale dell’abitazione, essa era collocata a fianco della casa vera e
propria, con la quale solitamente comunicava tramite un apposito uscio di legno
(“uss”), onde permettere il passaggio senza uscire all’aperto. Al suo interno, lungo il
muro volto a mezzogiorno, era situato il “gherpion”, costruzione in mattoni con uno
scivolo sovrastante, che lo metteva in comunicazione con il fienile, “fnera”,
attraverso una botola dalla quale si buttava nel “gherpion” la quantità di fieno
necessaria per il sostentamento del bestiame.
Il fieno veniva sistemato sul “rastel dla grupia”, una specie di scala posta
orizzontalmente, dalla quale l’animale traeva il foraggio necessario.
Su questo lato della stanza venivano generalmente posti i vitellini, “bocin”, che
rappresentavano una risorsa nell’economia contadina, sia che essi fossero destinati
all’ingrasso, sia che fossero allevati all’interno della cascina.
Importante, quindi, era il momento del parto delle mucche, perché dal buon esito di
esso dipendeva la possibilità di un guadagno.
“…La Bionda, regina della stalla, aspetta l’erede e qui non si parla d’altro…Intanto,
su questo i tre si trovano d’accordo: svegliar la bambina, la Pierina su, e toglierle di
15
Capitolo 3
sotto il saccone di foglie di faggio e svuotarlo sotto alla Bionda: per lettiera; è roba
che rinfresca; per stanotte…poi si vedrà”(“Val d’Armirolo ultimo amore”di A.
Monti).
I vitellini erano legati alle greppie, “gherpia”, attraverso corde poste intorno al collo
o catene di ferro dette “caden-e”. Da piccoli, appena nati, erano tuttavia lasciati liberi
dentro le “garbagne”, caratteristiche costruzioni fatte in salici aventi la forma di
gabbia.
Nella parte settentrionale della stalla erano tenute le mucche, “vache”, legati alle
greppie da catene. Gli animali riposavano sul nudo terreno, su un letto di paglia,
“giass”, nella “posta” situata ad un livello inferiore alla “caminà” (il piano di
calpestio); in questo modo si facilitava la fermentazione dello stallatico (“drugia”)
che era tenuta a contatto con l’urina degli animali, poiché raramente questa veniva
fatta defluire attraverso appositi canaletti verso pozzi esterni.
Al mattino presto e nel tardo pomeriggio si procedeva alla mungitura delle vacche: il
lavoro era solitamente riservato alle donne, mentre nelle cascine di maggiori
dimensioni era incombenza dei “marghè”. Prima di tutto si pulivano sommariamente
le mammelle strofinandole con una manciata di paglia, oppure con acqua tiepida o
con i primi spruzzi di latte, poi si procedeva alla mungitura. Riempito il secchio di
latte lo si versava facendolo filtrare attraverso un colino a maglie fitte, “colin” per
trattenere eventuali impurità (mosche o piccoli detriti di sterco secco) nel bidone,
recipiente in latta usato per il trasporto di latte. Una parte naturalmente veniva
utilizzato per il fabbisogno famigliare, mentre il “lait sfiorà” serviva a preparare
formaggi usando il caglio, “quaj”, e il burro si ricavava dalla panna ottenuta dalla
“sfioratura”.
Terminata la mungitura, si provvedeva solitamente a far poppare i vitellini che si
volevano fare ingrassare velocemente per venderli all’età di dodici- tredici mesi e gli
si forniva giornalmente un uovo crudo, e a volte un beverone di crusca e semolino.
Dopo questa operazione si rinnovava la lettiera di paglia e si ripulivano gli animali
con ruvide spazzole denominate “brossa” o “strija”.
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Capitolo 3
Sempre all’interno della stalla avveniva la tradizionale veglia invernale dei contadini
(la “vija”) usanza comune a tutte le civiltà contadine di pianura montana, alla luce
fioca dei primitivi mezzi di illuminazione (“lum a euli” di bronzo o ottone, poi
sostituiti dai “lum a petreuli”).
I funghi
La raccolta dei funghi veniva praticata per integrare l’alimentazione ed avviare un
piccolo commercio. Nella stagione autunnale essi si trovavano prevalentemente ai
piedi del faggio, del castagno e del rovere, nascosti dell’erica o dall’umido muschio.
Venivano raccolte diverse specie di fungo: il mutun (Polyporus frondosus), la ceura
(Leccinum), il bruvel (Polyporus pes caprae), la manina rosa (Clavaria Botrytis), la
garitula (Cantharellus cibarius), la famiola (Armillaria mellea), dandarin (Clitocibe
cinerascens) e poi i boli (“Boletus edulis”), il porcino, il re di tutti i funghi.
“…a settembre, stagion dei funghi: la terra era calda, l’aria umida, dappertutto nei
posti buoni la promessa di un raccolto d’oro, una di quelle inesauribili fungate che
cominciano con la luna nuova di settembre e ne trovi magari ancora col loro berretto
di neve in capo dopo Santa Caterina…”(A. Monti, “Val d’Armirolo ultimo amore).
Nella raccolta dei funghi venivano coinvolti anche i bambini a cui gli anziani
insegnavano dove si trovavano le bulajere (luoghi dove crescono più i funghi).
Si iniziava la ricerca al mattino presto e si proseguiva fino al pomeriggio percorrendo
grandi distanze e faticando molto tanto che a riguardo c’era il detto: “ non c’è un
buon bulajur sensa l’asma e i dulur”.
Castagne e castagneti
Le castagne erano una risorsa molto importante in quanto nei periodi di crisi
venivano anche usate per integrare i cereali nella panificazione.
Le qualità più comuni erano: le pertinenche, generalmente consumate bollite, le
sarenche che servivano per la preparazione di zuppe o di una specie di frittella
17
Capitolo 3
rosolata sulla stufa o potevano essere macinate per ricavarne farina destinata al
consumo animale, le cipaluse che venivano utilizzate per le caldarroste; le gropaluse
che essendo le più grosse, venivano commerciate.
Le castagne piccole, guaste o semivuote, servivano per nutrire gli animali.
La cura dei castagneti era particolarmente attenta: si ripuliva il sottobosco, venivano
sfrondati i rami secchi, alla base degli alberi si ammucchiavano i ricci che fungevano
da concime e, se il terreno era in forte pendenza, si costruivano muretti a secco, anche
al fine di facilitare il drenaggio e la penetrazione dell’acqua. I ricci, accuratamente
essiccati, venivano anche utilizzati per accendere il fuoco.
Nella stagione della raccolta, si provvedeva all’abbacchiatura; le castagne si
raccoglievano con i ricci ed erano riposte in mucchi di foglie costantemente
inumidite; nel periodo invernale si procedeva a dischiuderle dal loro involucro,
trattandole con arnesi in legno: inizialmente con il batur e poi con una molla ed un
martello. I frutti potevano essere conservati per lungo tempo in strati alternati con
muschio o foglie di noce.
Sappiamo che delle castagne si utilizzava tutto, secondo il principio economico dello
sfruttamento integrale delle risorse: le foglie servivano per la lettiera degli animali, il
legno veniva generalmente scorticato e, essendo ricco di tannino, veniva venduto alle
concerie, mentre era mediocre per ardere, ma in tal caso era spaccato, accatastato e
lasciato almeno per un anno alle intemperie. Più pregiato invece era il legno della
varietà selvatica, largamente usato per fabbricare botti, pali della luce o mobili rustici,
mentre i polloni servivano in agricoltura per eseguire legature in sostituzione del
salice.
All’inizio del ventesimo secolo i castagni delle quote più basse patirono di una
malattia (localmente detta dell’ingiost) che li distrusse in buona parte. Alle quote più
elevate tale coltura si protrasse per alcuni decenni, ma le scarse cure praticate e
l’inquinamento sempre più pesante hanno ridotto gli alberi superstiti in cattivo stato o
alla selvaticità, anche se noi li abbiamo ammirati sui versanti soleggiati della valle
fino a circa mille metri di altezza.
18
Capitolo 3
“…Manco male che al castagno ora viene il mal dell’inchiostro, che se ne vanno un
dopo l’altro a dozzine…così è gioco forza abbatterli, spiantarli, e in loro vece, se
appena il terreno non è a precipizio, patate ci si mette, segale:fai della terra
insomma, che produce.
Salvo poi quando il male che n’ha distrutta una sort, un gruppo, e la terra ricavatane
si rivela trista ed avara, rimpiangere i bei castagni di una volta, e come ti riparavan
dal vento, e le foglie per lo strame, e i frutti sopra e i funghi sotto e i mirtilli e la bella
ombra fresca…” ( da “Val d’Armirolo, ultimo amore” Augusto Monti)
Carbonaie
La produzione del carbone di legna fu per molto tempo importante fonte di reddito
per le popolazioni delle vallate alpine e appenniniche.
La carbonella permetteva di conservare inalterato il potere calorifero della legna,
riducendo il peso ad un settimo, per cui con tale trasformazione si conseguivano
notevoli vantaggi per il trasporto. La produzione ed il commercio di tale prodotto
veniva gestita da impresari locali.
Il metodo della carbonaia consisteva nell’ottenere la combustione controllata di
diversi tipi di legno all’interno di cataste di forma conica ricoperte da uno strato di
terra e foglie. Preferibilmente venivano utilizzati rami o tronchi di diametro inferiore
ai dieci centimetri perché, in caso contrario, il legno non “coceva” completamente ed
era necessario spaccarlo, quindi necessitava di maggiore manodopera. Di
conseguenza i tagli dei boschi avvenivano in tempi abbastanza ravvicinati (5-6 anni),
a vantaggio dei proprietari dei terreni che potevano contare su introiti abbastanza
sicuri e ricorrenti.
Ogni tipo di legno aveva particolari virtù: il carbone di nocciolo era particolarmente
adatto alla produzione della polvere da sparo e dei filtri per la depurazione
dell’acqua; quello di castagno veniva utilizzato nelle fucine per la tempra degli
utensili di ferro, il carbone ottenuto dal rovere e dal faggio era ideale per gli usi
domestici.
19
Capitolo 3
Le carbonaie venivano preparate maggiormente nel periodo primaverile, in apposite
piazzole nei boschi (aie o carbonili, “airi” in dialetto) tuttora visibili nelle nostre
valli. Una croce propiziatoria ricoperta di terra veniva posta al centro della piazzola e
tre pali verticali che indicavano il camino della carbonaia. Attorno ad essi venivano
accatastati pezzi di legno di diversa lunghezza al fine di ottenere una armoniosa
struttura conica, coronata generalmente da due file di pali più lunghi appoggiati su di
essa con disposizione radiale. La catasta veniva ricoperta partendo dalla base con
terra e foglie non troppo umide.La combustione veniva avviata introducendo dall’alto
attraverso il camino brace e pezzi di legno sminuzzato.
La “cottura” del carbone si protraeva per alcuni giorni, durante i quali la carbonaia
doveva essere sorvegliata anche durante le ore notturne: quindi c’erano sempre
uomini che la presidiavano. Occorreva tappare con terra le fessure che il calore apriva
sui fianchi della struttura e insieme regolare la combustione costruendo degli
sfiatatoi, in genere disposti su due o tre file. Al fine di ottimizzare l’utilizzo della
manodopera, si avviavano diverse carbonaie contemporaneamente. Ultimata la
cottura si lasciavano raffreddare ed in tale occasione era uso organizzare una festa
campestre.
Quando il prodotto era ancora abbastanza caldo, veniva deposto in sacchi di juta da
circa 50 kg e portata a valle, generalmente a spalle nei garbin (i purtandin), negli
ultimi tempi anche a dorso di mulo.
Per secoli questa attività fu un’importante fonte di reddito per i montanari, destinata a
scomparire in seguito all’introduzione di altri combustibili e allo spopolamento della
montagna: nella valle del Romarolo le carbonaie “fumarono per l’ultima volta nel
1948”, ma numerosi termini legati a questa antica attività sono rimasti nella
toponomastica locale: “Airi d’pulet, airi du praiet, airi du rantan, airi d’pian
tramagnun, airi du Bastian, airi d’Ciarbuneri”.
20
Capitolo 3
Le foglie
Le foglie, in particolare quelle secche, erano un’importante risorsa del territorio
montano in quanto venivano utilizzate in diversi modi: con esse si riempivano dei
sacconi di stoffa utilizzati poi come materassi; venivano disposte per fare le lettiere
degli animali oppure venivano bruciate. L’ottimizzazione di questo tipo di risorsa
faceva sì che i boschi rimanessero sempre puliti.
“…a dormirci sopra, per le aie da coprirle che non si abbia a nuotar nel fango, e
per le stalle soprattutto a far strane ché qui di paglia perciò neanche discorrerne, e
guai se ti mancan le foglie, ché allora addio concime, addio erba nei prati, addio
patate nei campi, ché tutto in campagna ci viene di lì…”
( da “ Val d’Armirolo ultimo amore” Augusto Monti)
L’acqua
L’acqua era una risorsa molto importante: “...l’acqua è vita è tutto. Ogni stilla vi è
curata, captata, raccolta, derivata: dov’è un molliccio vi scavano e fanno una pozza,
un gorgo, come dicono qui; alle fontane, e ogni borgata ci ha la sua, fanno vasche di
cemento e ripari; quelle nascoste tra i boschi le visitano, le nettano, le rendono
reperibili e agevoli ai viandanti: mentre le liti più fiere son per le acque e per i
diritti…”(A.Monti Val d’Armirolo ultimo amore).
L’acqua utilizzata a scopo potabile derivava dai pozzi o veniva attinta direttamente
dalle sorgenti, mentre per l’abbeveraggio del bestiame ed altri usi veniva utilizzata
l’acqua presente nel fitto reticolo di canali che a quel tempo caratterizzavano il
territorio.
“Parin, che non disprezza il vino, l’acqua veramente l’adora. Ha nelle terre che
possiede, ed ama ,tutto un sistema di gorghi, ben suoi e solamente suoi, che egli ha
raccordati mediante certi cataletti coi prati dell’Indritto, i più erti e percossi dal sole
21
Capitolo 3
e assetati. E ogni dì al finir della giornata il suo lavoro è quello: svuotar quei gorghi
per darne l’acqua al prato; s’è assicurato prima che di quelle vene ognuna sia ben
rimondata e netta, che non sasso o zolla o viluppo di foglie faccia intoppo all’acqua,
che fra poco vi traboccherà dal gorgo al levar della losa ,la lastra di pietra che vifa
da cateratta,piano piano nell’eseguir l’operazione,con garbo, che neanche una
goccia se ne sperperi;l’acqua s’immette nel “gorgo di Mulina”, il più ampio, passa
sotto la cinta della vigna piccola, lenta lenta che qui il tratto è piano, ma poi
corrente giù per la ripa che fiancheggia la strada …”(da “Val d’Armirolo ultimo
amore” Augusto Monti ).
22
Capitolo IV Cultura popolare
Leggende
Fino agli anni cinquanta del secolo passato in questa valle, come in tante altre del
Piemonte e dell’Italia, vi era l’abitudine della “vijà”, la veglia serale nel lungo
crepuscolo invernale, nelle stalle ove si radunavano le famiglie della borgata per
commentare i fatti accaduti, spettegolare o eseguire, le donne lavori di cucito, gli
uomini a riparare gli attrezzi agricoli. Spesso gli anziani intrattenevano i bambini, ma
anche gli adulti, raccontando loro storie di un tempo lontano ed indefinito.
Lo “Spiri Fulèt” era il principe delle “cunte”: un essere bislacco, molto simile
all’uomo selvatico, oppure al Servant ed al Fajos delle valli vicine.
A questo proposito ci viene in mente Puck, lo spiritello che aveva introdotto
Shakespeare nel “Sogno di una notte di mezza estate”. Anche lui si divertiva a
giocare tiri mancini alla popolazione come far andare di traverso la birra alle comari,
sporcare i panni stesi o rubare le mele dai barili. Gente dei Dalmassi che l’aveva visto
affermava che fosse un bimbo biondo vestito di rosso. Appariva dal nulla, era facile
trovarlo al Pian delle Mate (vicino al Romarolo) o al Roc du Previ. Faceva ogni sorta
di dispetti, era l’artefice di tutte le cose strambe che potevano capitare, insidiava le
ragazze virtuose, annodava le code degli animali; a volte dopo il bucato metteva ad
asciugare i panni di forma e colore bizzarri; in una stalla della Maddalena c’erano due
mucche: una gli era simpatica, per cui la strigliava, la puliva e la pasceva con erba
prelibata, mentre l’altra, che gli era antipatica, la fece crepare di botte e di stenti.
Naturalmente, c’erano anche le streghe (masche): non si sapeva bene cosa facessero,
ma di sicuro erano tante, brutte e malvagie. Nelle notti di luna piena a cavallo di un
bastone volavano al “Pian d’la Bala” (Maddalena) o alla “Loij d’ Tambürnin”
(Mollar), dove ballavano, schiamazzavano e operavano oscuri malefici.Nelle rocce
23
Capitolo 4
stazionavano i giartë, gnomi dispettosissimi, mentre “lu fë du tet” era un fuoco fatuo
che inseguiva i viandanti nella notte.
Anche il diavolo, simile ad un caprone, compariva spesso in questi luoghi, o almeno
nei racconti; alcuni l’avevano visto scendere dalla “Cara d’Mulaman” con un carro
infuocato carico di anime di dannati, tra gran fragore di catene.
Si raccontava anche di preti, streghe e maghi che praticavano la “Fisica”. Di notte
provocavano rumori strani, facevano muovere gli oggetti, si trasformavano in alberi o
animali, spaventavano la gente, ma di solito venivano smascherati dalle vittime, che
colpivano, ferivano o legavano quegli esseri incantati ed il giorno dopo trovavano gli
autori dei misfatti feriti o legati.
C’era anche un libro che insegnava sia i sortilegi sia la difesa contro di essi e, ad ogni
buon conto, ad Avigliana operavano dei maghi buoni che sapevano trattare il fuoco e
l’acqua e riuscivano ad annullare almeno in parte gli aspetti nefasti della “Fisica”.
In queste leggende si narrava inoltre di lupi ululanti nella notte, vipere crestate, “lu
ciat mainum”, la civetta, il gufo reale (düca), il “dau” (un animale simile al camoscio,
con gli arti simmetricamente sproporzionati e quindi condannato a vagare per le
montagne sempre nella stessa direzione di marcia) che spaventavano le popolazioni
locali.
Nella borgata Giai si raccontava di un eroico cane che, dopo aver ucciso un lupo nella
notte, venne abbattuto per un’incomprensione dal padrone.
Non mancavano racconti di amori romantici e impossibili, efferati delitti, vicende
edificanti, feste memorabili, famiglie in miseria, filtri, persone scomparse nel nulla.
Sopra la Maddalena miracolosamente sgorgò una fontana, nel rio di Büdin nelle notti
di luna piena risuona ancora il rullo disperato del tamburo di un soldato francese
ucciso e, per chi vuole andarlo a cercare a “Roc Furà”, nel punto in cui si vedono
sette campanili, è ben celato uno stivale pieno di monete d’oro.
E’ chiaro che con tutti questi fatti, specialmente la notte era meglio rifugiarsi
all’interno della comunità, della borgata e diffidare sempre degli sconosciuti; prestare
molta attenzione ai pericoli nascosti all’interno della valle e dei monti, non
24
Capitolo 4
sottovalutare la natura che da una parte offriva i suoi prodotti, dall’altra poteva far del
male. Pertanto le “cunte” erano un modo per trasmettere gli insegnamenti e i valori
più importanti in quelle piccole società, rappresentavano inoltre un legame tra le
generazioni: i vecchi, gli adulti e i bambini. Ora non si sentono più di raccontare
queste semplici e poetiche leggende: il mondo che rappresentavano è venuto meno.
Dialetto franco-provenzale
Per "franco-provenzale" si intende un gruppo di dialetti estremamente differenziati tra
loro, dotati di alcuni tratti fonetici e morfologici unitari, che li distinguono dalle
vicine parlate di tipo occitanico e francese. Oltre che in Italia, il franco-provenzale
(per lo più in forte regresso) è diffuso nella Svizzera Romanza, in Savoia e in una
zona dai confini estremamente incerti che comprende una parte del Lionese, del
Delfinato e della Franca Contea. Dialetti di tipo francoprovenzale si parlano in Valle
d’Aosta e in provincia di Torino nella val Sangone, nella media e bassa val di Susa,
in val Cenischia e nelle valli di Lanzo, dell’Orco e Soana. Di tipo francoprovenzale è
pure il dialetto dei due comuni di Faeto e Celle San Vito, in provincia di Foggia, ove
la parlata fu probabilmente importata da immigrati valdesi nel corso del sec. XV.
Resta estremamente difficile stabilire dei limiti esatti nella definizione del territorio di
parlata francoprovenzale. Solo in Valle d’Aosta esso può farsi coincidere
convenzionalmente con la regione amministrativa. Non va dimenticato che il
fondovalle di questa regione è storicamente interessato dalla presenza del piemontese
(oggi in forte regresso), e che l’italiano e il francese, che convivono nella regione
come lingue ufficiali e di cultura, hanno contribuito a emarginare la pratica viva del
patois, circoscritta soprattutto nelle alte valli e nei centri meno esposti al contatto.
Nelle valli della provincia di Torino il progredire del piemontese ha eroso
abbondantemente il territorio di parlata franco-provenzale, che in passato doveva
essere assai più esteso verso la pianura. Tuttavia, nella Val Sangone e nella piccola
valle del Romarolo, un po’ nascoste e rimaste per tanto tempo separate dai grandi
centri urbani, permane un dialetto ancora molto legato al franco-provenzale, ricco di
25
Capitolo 4
termini diversi sia dal piemontese sia dall’italiano, che danno alla parlata locale una
cadenza e un sapore particolare. Lo abbiamo potuto constatare sentendo il signor
Moschietto parlarci della sua vita, delle antiche attività lavorative, della flora e fauna
locali, degli strumenti utilizzati, usando delle parole in un patois che neppure i
giavenesi che erano tra noi capivano completamente.
Nel racconto di Augusto Monti vi sono varie espressioni dialettiche tipiche:
¾
uno dei protagonisti, Parín (Padrino), non viene mai chiamato con il suo vero
nome, tuttavia veniva soprannominato così per la sua età avanzata.
¾
un altro personaggio della storia, Tofu Ramentô, non verrà mai chiamato con il
suo vero nome, perché aveva l’abitudine di imprecare dicendo “Cristôfô
Giuramentu” e questo intercalare gli era rimasto come soprannome.
¾
un’altra parola dialettale spesso utilizzata era Mônssù (signore) e si rivolgeva a
signori importanti, come lo stesso Augusto Monti.
Questo per quanto riguarda persone, ma numerosissime sono le parole che derivano
dal francoprovenzale a cominciare dal nome stesso della valle: Armirolo, Romarolo
da “rameur”, il rumore prodotto dallo scorrere dell’acqua. In un lavoro sull’ambiente
montano realizzato dal Distretto scolastico 35 di Giaveno nel 2001, abbiamo trovato
una serie di termini dialettali collegati alla valle, classificati secondo la loro origine.
Abbiamo constatato che molti di essi sono ancora usati e lo erano nel periodo della
villeggiatura montana. Ne riportiamo alcuni.
¾
Fitotopomi: nomi che derivano da piante, arbusti, vegetali in genere: “Col du
Bes, Col Cersera, Funtana du Sambus, Roch du Genevru, Paschirò”.
¾
Zootoponimi: nomi di località derivanti dalla presenza di animali: “Ri e Funtana
dl’urs, Roch dl’aghia, Roch du bec, Cuculeri, Prese Levra.”.
¾
Idrotoponimi: nomi derivanti dalla presenza di acqua, ruscelli, torrenti, fontane,
sorgenti: “Ampiuvè, Provunda, Funtena dl’muias”.
26
Capitolo 4
¾
Antropotoponimi: nomi che si collegano all’uomo, a mestieri, cognomi,
soprannomi: “Pra dl’Abà, Loja du Fransè, Roche e Funtana du Previ, Truc d’
Tita”.
¾
Geotoponimi: nomi che riprendono le forme del terreno, come alture, colli,
canaloni, grotte, pietre e rocce, zone pianeggianti: “Ri d’la truna, Barma du roch,
Cava d’loze, Roch da grota, Cumba di geirin”.
Educazione
Nei secoli scorsi in queste valli lo studio era sostanzialmente considerato “una perdita
di tempo”, poiché sottraeva braccia valide di ragazzi e ragazze al lavoro quotidiano.
Inoltre, fin dai secoli bui delle persecuzioni religiose, si era imparato che l’essere
analfabeta metteva al riparo dal sospetto di eresia per l’incapacità di leggere e
commentare la bibbia.
Nel periodo successivo all’unità, vennero istituite in tutta Italia scuole urbane e rurali:
anche nelle borgate del territorio che noi esaminiamo, nacquero scuole talvolta
improvvisate in un locale di fortuna, come per esempio in una stalla o un magazzino.
Tuttavia quasi sempre essa aveva un proprio spazio, costituito da un’unica stanza
arredata di banchi con panca incorporata, con lavagna e stufa a legna che gli alunni
dovevano alimentare portandosi da casa ogni giorno un ceppo stagionato.
Nei primi decenni del Novecento le “maestre” addette all’istruzione erano le donne
del posto che occupavano un ruolo rilevante socialmente o che possedevano
particolari conoscenze, come la madre del prete o la sorella del sagrestano o la
levatrice.
Negli anni Trenta iniziarono ad arrivare le prime insegnati diplomate da Torino o da
altri centri urbani. La maestra era una figura stimata e rispettata da tutti. La gente del
posto si attivava per farle trovare una scuola comoda ed accogliente; spesso accanto
all’aula vera e propria vi era una stanza dove all’occorrenza potesse alloggiare. Se
questa era isolata, o poco confortevole, c’era sempre qualche famiglia che ospitava la
maestra a casa propria.
27
Capitolo 4
Per quanto riguarda l’equipaggiamento degli allievi del tempo, possiamo dire che era
veramente scarso: un solo quaderno per la classe prima o seconda, un quaderno a
quadretti e uno a righe per le classi successive; il libro era unico e comprendeva
esercizi di lettura, grammatica ed aritmetica.
Allora si scriveva con il pennino che veniva intinto nell’inchiostro versato con
parsimonia dalla maestra nell’apposito calamaio posto all’angolo di ogni banco. Nei
racconti dei più anziani c’è chi ricorda l’uso della penna di gallina come strumento
per scrivere. Tutto l’occorrente si metteva dentro ad una sacca di stoffa (la tasci)
cucita in casa e munita di una bretella per portarla a tracolla.
Si andava a scuola due volte al giorno, dalle nove alle dodici e poi dalle quattordici
alle sedici. Il giovedì era giorno di vacanza, mentre il sabato l’orario era completo.
L’obbligo scolastico era di soli tre anni nei primi decenni del secolo, nessuno però
controllava che la frequenza avvenisse regolarmente. Intorno gli anni Quaranta si
diffuse la scuola fino alla classe quinta, e chi era “bravo” o meglio, chi ne aveva la
possibilità, proseguiva per un anno facendo la “storica” sesta.
28
Capitolo V Case e borgate alpine
Gli aspetti più tipici dell’architettura rurale delle valli del Romarolo e del Tauneri
sono ancora riconoscibili in vecchie borgate vicine a Giaveno, raggiungibili con
strade carrozzabili, dove sono stati realizzati interventi di ristrutturazione spesso non
corrispondenti all’architettura originaria.
Se nelle epoche più antiche le case erano costruite di legno, paglia e fango, per cui
non ne rimane traccia, le prime case in pietra risalgono al Seicento.
Come in ogni luogo di montagna, la tipologia costruttiva delle abitazioni
corrispondeva a precise esigenze funzionali dei proprietari (allevatori, agricoltori o
boscaioli), per cui aveva caratteristiche diverse e risentiva pesantemente delle risorse
a disposizione. Poiché in Val Sangone vi era scarsità di legname da lavoro, ma vasta
disponibilità di pietra di buona qualità, le abitazioni furono costruite con questo
materiale e con maggiore perizia rispetto a quelle del fondovalle, a dispetto delle
minori riserve economiche.
Inoltre per gli insediamenti venivano scelte località situate a mezza costa o su ripiani
che a tratti interrompono l’asprezza dei crinali, con un’esposizione solare favorevole
e la vicinanza di rifornimento idrico: spesso le borgate erano cinte da siepi di bosso
che assicuravano protezione contro gli incendi e a monte vi era il “culur”, un largo
fossato che preveniva dalle frane e dalle inondazioni. Il signor Moschietto da noi
intervistato ci ha detto che il sito delle borgate veniva scelto attentamente dagli
anziani: era sempre protetto dagli enormi castani dal vento, ai piedi di un dosso,
vicino ad una sorgente, ma soprattutto, nascosta dalla strada principale. I giovani
invece avrebbero voluto costruirsi la casa in un posto più aperto per essere più vicini
alla vita del paese, ma poi si sarebbero pentiti, dicevano i vecchi, perché il sole
d’estate li avrebbe bruciati e il freddo dell’inverno li avrebbe “gelati”.
29
Capitolo 5
L’architettura era funzionale e povera, per cui non è possibile stabilire un modello di
abitazione riscontabile in tutti gli insediamenti permanenti-temporanei situati nella
fascia di altitudine compresa tra i 700 e i 1300 metri; alcuni elementi erano però
comuni, come abbiamo potuto osservare nella nostra escursione a Borgata Tora con i
volontari del C.A.I. e l’anziano montanaro che ha vissuto gran parte della sua vita in
questa valle isolata.
Il pianterreno, addossato al pendio, era occupato dalla stalla (strabi) e da locali
freschi e bui destinati alla conservazione delle derrate deperibili (crote). Per la
copertura di questi vani si ricorreva spesso alla volta in muratura del tipo “a botte”.
Una scala in pietra, che costituiva una specie di avancorpo dell’abitazione, conduceva
ai balconi in legno (lobie) e ai piani superiori, dove vi erano locali chiusi destinati ad
uso abitativo, alla conservazione dei prodotti della terra (frutta e cereali) e trovavano
collocazione locali semiaperti adibiti a fienile (cias), il cui accesso era spesso
possibile anche attraverso rampe in pietra o legno poste sul retro delle abitazioni,
sfruttando l’inclinazione dei pendii cui le stesse erano addossate.
I locali abitativi erano stretti e bassi, spesso intonacati con calce e sempre anneriti dal
fumo, poiché si cucinava sul fuoco del camino sia d’inverno sia d’estate; porte e
finestre avevano un’apertura assai ridotta per difendersi dal freddo. Sui tetti delle case
più vecchie si nota l’assenza dei comignoli, in quanto il fumo filtrava attraverso le
lose.
Le strutture verticali come muri portanti e pilastri erano fatte in pietra a secco, con
ricorso all’argilla tra gli interstizi, invece della calce. Molto diffuso come materiale
da costruzione era lo gneiss, dalla caratteristica scistosità, che ne determina lo
sfaldamento in blocchi e lastre regolari in diversi spessori, da cui ricavare buone
pietre angolari, solidi stipiti e grandi lose per la copertura dei tetti.
Le strutture orizzontali erano realizzate in legno per lo più di castagno o di larice.
Ovviamente l’utilizzo di questi materiali (pareti di pietra, lose sul tetto, legno
all’interno) determina e condiziona un particolare aspetto del territorio dal punto di
vista paesaggistico.
30
Capitolo 5
Come venivano arredate queste abitazioni?
Da quel che abbiamo potuto ricostruire, i mobili erano pochi e rustici: una
cassapanca, in cui si mettevano i vestiti e la biancheria, qualche mensola di legno, un
tavolo, poche sedie, soprattutto per gli uomini, in quanto, fino all’inizio del secolo
scorso, solo i maschi adulti della famiglia mangiavano seduti a tavola, mentre le
donne consumavano i pasti attorno alla pietra del focolare dove continuavano a
controllare la cottura dei cibi e i bambini venivano invitati a “ girare l’Italia” e
andavano in qualche angolo della casa a consumare la ciotola del cibo.
Attorno alle abitazioni si trovavano la catasta di legno (tësè), il basso edificio
semiaperto per immagazzinare le foglie (fujè), il gabinetto (cagrel), la concimaia
(liamè), il pollaio (giuc) e la pergola (topia). I cortili erano comuni e le proprietà non
erano recintate.
Nella parte bassa della Val Romarolo, sono frequenti i piloni: rustiche strutture exvoto (dell’Ottocento) con dipinti affrescati da modesti artisti itineranti, rappresentanti
Santi, Madonne, Sacre Famiglie.
Erano rare le strutture di uso collettivo: per lungo tempo vi fu solo la chiesa (gesia),
la fontana e i lavatoi (gurc, dalle strutture essenziali e mai coperti). Poi vennero
costruite le scuole rurali e aperte alcune osterie nelle borgate più importanti. Sempre
rari i mulini e i forni.
Il sistema di viabilità era scadente: i sentieri erano stretti, spesso ripidi, quasi mai
lastricati; più ampie le mulattiere acciottolate per far scivolare le “lese” cariche.
Scarsi i ponti, a volte sostituiti da guadi; i pochi esistenti sono però di pregevole
fattura, come quello di Can Galet, nella Valle del Romarolo.
In compenso, per l’esiguità del suolo coltivabile, si attuò un esteso sistema di
terrazzamenti che ritroviamo ancora oggi nel paesaggio.
31
Capitolo VI Geografia del territorio
I venti e il tempo
“ Ma la Val d’Armirolo non è che un filo della frangia di quella parte della parte
della Val di Po, che non senza perché fu chiamata, come si chiama, Piemonte. E tutto
il Piemonte è fatto perché il vento non venga a fargli male aperto com’è solo dalla
parte di Levante verso un mare lontano, l’Adriatico. A Ponente e a Nord venti di
terra; a Sud venti di mare; e il Piemonte riparato in quei tre punti dai monti di cui
giace al piede coi venti si può dire che non abbia mai briga. Aperto solo a Levante,
verso l’Adriatico e là in fondo c’è il Carso, e sul Carso si riversa a tratti venendo
dalle terre del freddo il mordente della bora. Ma Adriatico e Carso son lontani da
quest’intimo angolo della grande pianura e la bora arriva qui ch’è già stanca e per
Veneto e Lombardia s’è fatta più umana.
Piemonte posto al sicuro dal vento. Eppure il vento è aria che si muove; e l’aria è
come l’acqua che il minimo spiraglio, se lo trova e vi penetra, t’inonda.”(“Val
d’Armirolo ultimo amore” di A. Monti).
La stessa conformazione privilegiata si può ritrovare nella orografia della val
Sangone racchiusa dal Monte Ciabergia (1178 m) dal Monte Presa Vecchia (1291 m),
dalla Rocca Corba (1484 m), dal Monte Salancia (2088 m), dal Monte Pian Real
(2617 m), e dal Monte Rocciavrè (2778 m, per la precisione la sua anticima a q. 2719
m); lungo lo spartiacque con la Val Chisone vi sono il Monte Robinet (2679 m), la
Punta del Lago (2527 m), e il Monte Bocciarda (2213 m), la Punta dell'Aquila (2115
m) e il Monte Freidour (1445 m).
Grazie a questa imponente cerchia di monti, la val d’Armirolo è protetta da alcuni
venti che solo occasionalmente la attraversano. Questi sono principalmente:
32
Capitolo 6
¾
Maestrale: (da maestro, inteso come principale). Vento da nord-ovest.
¾
Tramontana: (dal latino transmontanus, al di là dei monti) vento freddo, spesso
violento, che spira da nord, in inverno.
¾
Ponente: vento costante che soffia tutto l’anno sempre nella stessa direzione e
nello stesso senso. Vento che spira fra i 35° e i 60°, in corrispondenza delle zone
temperate da sud-ovest a nord-est.
¾
Libeccio: (da Libycos proveniente dalla Libia) vento caldo da ovest o da sudovest, violento in tutte le stagioni
¾
Scirocco: (dall’arabo shulùq, vento di mezzogiorno) vento caldo che nasce nel
deserto del Sahara;procedendo da sud-ovest verso nord, si carica di umidità sul
Mediterraneo, e raggiunge umido e violento l’Europa, portando la pioggia.
¾
Fohn o Favonio: (dal latino favonius da favere, far crescere) vento caldo e secco
che soffia prevalentemente in primavera e in autunno nelle vallate alpine.
Importanti, non meno dei venti sono le brezze, venti moderati a periodo diurno che si
dividono in: brezze di monte e brezze di valle. Esse soffiano durante il dì dalla valle
alla montagna, durante la notte dalla montagna alla valle. Quando il Sole sorge,
riscalda le rocce delle vette aumentando la temperatura e creando una bassa pressione
dalla quale nasce la brezza di valle più fredda. Eguagliata la temperatura, si ha una
situazione di stasi. Tramontato il Sole, per la differenza di altitudine la vetta tende a
raffreddarsi più velocemente, creando una zona di alta pressione dalla quale si muove
la brezza di monte. Di notte la temperatura si stabilizza creando nuovamente staticità.
“il vento è un temuto nemico che punti i pascoli eran verdi, i campi soffici, tutto era
una promessa: il vento, allez, è venuto il vento di notte come un ladro, il mattino
sotto le piante una stesa di pomi, una pietà, e quelli rimasti sulla pianta contusi,
ammaccati, perduti. E’ peggio a settembre, stagion dei funghi: la terra era calda,
l’aria umida, dappertutto nei posti buoni la promessa di un raccolto d’oro, una di
33
Capitolo 6
quelle inesauribili fungate che comincian con la luna nuova di settembre e ne trovi
magari ancora col loro berretto di neve in capo dopo Santa Caterina, “ almeno
quest’anno ci andrà bene. Macchè! Cielo azzurro lucido, nuvole bianche tese come
lame, il birbante è qui: basta che soffi un’ora; la terra fa crosta, niente buca più,
tutto quel bendiddio resta chiuso là sotto, sotterrato; accidenti anche al vento. Il
povero campagnolo col naso per aria a astrologar sul tempo”(“Val d’Armirolo
ultimo amore” di A. Monti).
All’odierna meteorologia, anni addietro, si preferiva la saggezza popolare, le
credenze racchiuse in brevi aforismi appresi a memoria, utilizzati per la previsione
necessaria del tempo:
¾
Santa Lussia cèra, tuti ij mèis as vëdd për tèra.
Letteralmente. Santa Lucia chiara, tutti i mesi si vede la terra.
Immancabile proverbio meteorologico, risalente ad un tempo in cui in Piemonte
nevicava abbondantemente. Se il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, è una bella
giornata, nevicherà poco, al punto che ogni mese sarà possibile veder spuntare la terra
da sotto la neve.
¾
Se a fiòca an sla feuja, l'invern a dà pòca neuja.
Letteralmente. Se nevica sulla foglia, l'inverno da poca noia.
Altro proverbio metereologico. Se nevica presto, prima che siano cadute tutte le
foglie, sarà un inverno mite.
¾
S'a pieuv a San Gorgoni tutt l'autun a l'è 'n gran demoni.
Letteralmente. Se piove a san Gorgonio tutto l'autunno è un gran demonio.
Farà sempre brutto tempo in autunno, se piove nel giorno dedicato a questo santo
poco conosciuto.
¾
Sut l’aqua fam e sut la fioca pan.
Letteralmente. Sotto l’acqua fame, sotto la neve pane.
34
Capitolo 6
La neve con il suo manto copre il terreno e protegge i semi, mentre l’acqua li dilava e
li trascina via.
¾ A la Madona Candlora d’l’invern a sôma fora
Letteralmente. Alla Madonna della Candelora, dall’inverno siamo fuori.
Ai primi di febbraio si pensa di essere già fuori dall’inverno.
¾ Bel vener brúta duminica
Letteralmente. Venerdì bello domenica brutta.
Se fa bel tempo il venerdì, alla domenica è brutto.
¾ La raserenà dla noit a dura gnanca fin che l’gal a le coit
Letteralmente. La rasserenata notturna non dura neanche fino a mezzogiorno,
quando il gallo è cotto. Cioè quando è pronto il pranzo.
35
Capitolo VII La vegetazione
Nell’ultimo secolo nella valle del Romarolo, come in molte altre valli alpine, si sono
verificati l’abbandono delle terre meno produttive e lo spopolamento delle zone
montane. Durante la camminata fatta quest’inverno, risalendo il torrente o vagando
lungo i sentieri che lo percorrono, ci siamo accorti di come il “selvatico” abbia preso
il sopravvento su quella che un tempo era una valle densamente abitata.
Accanto alle borgate si trovavano ciliegi, meli, noci, fichi, peri e, nelle zone più
favorevoli, anche vigne e pesci: una valle chiusa in cui le risorse sono sempre state
sfruttate fino al limite. Emigrazioni temporanee, in occasione di lavori stagionali in
pianura, o appena oltralpe, o definitive spesso all’estero, hanno contribuito
all’abbandono di questo splendido territorio.
Purtroppo la val d’Armirolo è stata anche duramente colpita dal gigantesco incendio
che bruciò i boschi giavenesi nel 1990. Frane, alluvioni, incendi sono gli eventi
naturali che spesso l’incuria dell’uomo favorisce.
Tuttavia, nelle nostre escursioni in essa, abbiamo potuto rilevare piante ed animali
tipici delle zone alpine, presenti ancora in numero abbondante, grazie soprattutto alla
creazione di aree protette, agli interventi di membri dei C.A.I e delle guardie forestali.
Qui di seguito elenchiamo la vegetazione caratteristica della valle.
36
Capitolo 7
¾
QUERCIA
Nome Comune: Farnia
Specie: Quercus pedunculata
Famiglia: Fagaceae
Descrizione: è un albero alto circa fino a 35 metri, ma esemplari isolati possono
raggiungere anche i 40 metri. La farnia è una pianta molto longeva che raggiunge e
supera i 500 anni. La chioma è irregolarmente ovale, globosa e molto ampia, con
macchie dense di foglie che si interrompono, lasciando penetrare la luce. E’ per
questo motivo che nei boschi di farnie cresce sempre un sottobosco, ricco di arbusti.
Il tronco è robusto e ramoso con rametti glabri. La corteccia è grigio-verde e liscia da
giovane, spessa, solcata, con lunghe fessure longitudinali da vecchia. Il tronco
produce un legname pregiato; la quercia viene anche usata come ornamento nei
giardini. Sui rametti, sulle foglie o sulle gemme delle querce può capitare di trovare
delle galle, cioè escrescenze di aspetto legnoso che hanno forme diverse: a sfera, a
cappellino, a stella. Le galle sono reazioni che la pianta ha quando viene punta da
certi insetti.
37
Capitolo 7
Foglie: le foglie sono semplici, obovate, lobate, di 10 cm circa, a superficie ondulata,
strette alla base con due orecchiette; hanno un picciolo brevissimo (0,5 – 1 cm),
glabro; l’inserzione è alterna. Sono coriacee e di consistenza pergamenacea, da
giovani sono pubescenti, poi la superficie superiore diventa glabra mentre quella
inferiore rimane coperta da piccoli peli stellati.
Fiori: sono separati ma sulla stessa pianta; quelli maschili sono inseriti su amenti
penduli, hanno un involucro diviso in 5 lobi lineari e 8 stami con antere giallo-brune;
i femminili, in numero di 2-5, sono anch’essi inseriti su un peduncolo pendulo e sono
formati da numerose brattee che avvolgono l’ovario.
Frutti: il frutto è un achenio detto ghianda, ovale–oblungo, racchiuso alla base delle
brattee del fiore che, accrescendosi, formano una coppetta, detta cupola. Le ghiande
sono riunite in gruppetti da due a quattro, hanno un lungo peduncolo da 2 a 4 cm di
lunghezza (da cui il nome di peduncolata); quando matura da verde diventa marrone e
cade a terra.
Origine: Europa, Caucaso.
Habitat: la quercia ha bisogno di terreno profondo che può essere più o meno ricco
di sali, sabbioso o argilloso, ma comunque sempre piuttosto umido. Esige
temperature estive elevate, mentre è tollerante nei confronti del gelo invernale.
Frequente nella Europa centrale dove forma dei boschi, la Farnia è diffusa in tutta
l’Europa fino al Caucaso. La Farnia è una pianta tipica della Pianura Padana ed è
diffusa in Italia, soprattutto nelle regioni settentrionali dove cresce dal mare alla zona
montana. Forma boschi da sola o mista ad altre specie. Ormai dei boschi originari
restano tre aree protette: il Bosco della Mesola, vicino al delta del PO, il Bosco della
Fontana (MN) e i boschi del Parco Regionale del Ticino (PV).
Usi locali e generali: il legno della farnia, peso specifico 0,82, è molto pregiato, di
colore bruno chiaro, duro e leggero, noto con il nome di Rovere di Slovenia. E’ un
legno forte, durevole, facilmente sagomabile. Spesso confuso con quello di rovere,
38
Capitolo 7
veniva usato largamente nelle costruzioni delle navi da pesca e, soprattutto con il
legno di alcune varietà, per costruire botti dove conservare i distillati alcolici; solo in
botti di questo tipo il Cognac assume il caratteristico bouquet. La Pianura Padana, per
esempio, ospitava molti secoli fa immense foreste di farnie, che sono state
progressivamente abbattute per farne legname da costruzione. Il legno è utilizzato per
mobili di pregio, botti, per produrre carbone di qualità e come combustibile. Nella
corteccia c’è il tannino che viene utilizzato per conciare pelli. Le ghiande sono un
ottimo alimento per i suini. In epoca medievale i contadini allevavano in modo
massiccio i suini; i servi della gleba avevano permesso di portarli a pascolare nei
boschi del feudatario dove potevano cibarsi delle ghiande cadute al suolo. Questo uso
era tanto importante che si arrivò a valutare il valore di un bosco in base al numero di
suini che riusciva a nutrire. Ancora oggi con le ghiande tostate e macinate si prepara
un surrogato del caffè. Le galle, ridotte in polvere, sono usate per le ferite e le
bruciature in quanto cicatrizzanti. Si usano anche per fare inchiostri e conciare pelli.
Con le foglie si prepara una specie di the astringente che è efficiente per le
infiammazioni delle vie urinarie. Per fare il decotto di corteccia si usa un pezzo di
questa essiccata e frantumata in un mezzo litro d’acqua e si fa bollire per 10 minuti.
E’ molto utile per gargarismi nelle infiammazioni della bocca e della gola, contro gli
avvelenamenti da sostanze vegetali.
Particolarità: nei miti e nelle tradizioni la quercia dava l’idea di forza. Il termine
Quercus deriva dall’antico celtico che significava "bell’albero"; robur significa "
forza " perché questo albero è difficile da abbattere senza strumenti adeguati. Robin
Hood, ad esempio, viveva nella foresta di Sherwood, una foresta formata da querce
che ricopre ancora oggi gran parte della contea di Nottingham. I Druidi per ottenere
l’acqua lustrale raccoglievano il vischio sotto le fronde delle querce con un falcetto
d’oro. I Greci e i Romani consideravano la quercia sacra: Zeus aveva la quercia come
simbolo accanto al fulmine e all’aquila. Inoltre si dice che Zeus abbia sposato Era in
un querceto. Si narra che la prua dell’Argo, la nave degli Argonauti, fosse fatta con
un pezzo di quercia sacra tagliata dalla dea Atena. Il colle di Roma, il Campidoglio,
39
Capitolo 7
consacrato a Giove, pare fosse ricoperto di querceti. I nati il 21 Marzo sono protetti,
secondo l’oroscopo celtico, dalla quercia e le loro carte vincenti saranno le qualità
intuitive.
¾
IPPOCASTANO
Nome Comune: Ippocastano - Castagno d’India
Specie: Aesculus hippocastanum
Famiglia: Hippocastanaceae
Descrizione: è un albero che può raggiungere i 30- 35 metri di altezza, ha una
chioma allungata molto ampia e densa con rami arcuati che di solito tendono verso il
basso alle estremità. Il tronco è robusto, eretto e la corteccia di colore bruno-grigio è
ruvida con piccole placche. Le gemme sono ricoperte da una resina collosa.
Foglie: caduche composte, lunghe anche 20 cm, palmatosette a 5-7 foglioline sessili
e spesse, obovate, dal margine doppiamente seghettato. Le foglie hanno un picciolo
40
Capitolo 7
lungo 20 cm e l’inserzione sul ramo è opposta. In autunno assumono una tipica
colorazione gialla-rossastra.
Fiori: infiorescenza a pannocchia eretta, abbastanza densa, lunga 20-30 cm, situata
sui rami in posizione terminale. I fiori a cinque petali sono bianchi maculati di rosa o
giallo, con stami sporgenti; hanno un buon profumo.
Frutti: i frutti sono capsule spinose, più o meno globose di 3-5 cm di diametro e di
consistenza coriacea. Di colore verde, contengono dai 2 ai 4 grossi semi, simili a
castagne, ricoperte da un tegumento liscio di colore bruno-rossastro.
Origine: spontaneo in Europa orientale, è stato introdotto nell’Europa occidentale nel
XVI secolo.
Habitat: albero molto rustico e frugale, si adatta ai suoli e alle condizioni ambientali
più diverse. Preferisce terreni profondi e ricchi. Teme invece i forti inquinamenti
atmosferici.
Particolarità: i frutti non sono utilizzabili per l’alimentazione umana perché
contengono una sostanza amara e astringente: l’esculina. La farina ricavata da questi
frutti era utilizzata per l’alimentazione di maiali e pecore e, con moderazione, per
cavalli e bovini poiché può avere effetti tossici. I cervi si nutrono volentieri di tali
castagne. La polpa dei semi è invece pericolosa per l’uomo perché contiene una
saponina irritante, la escina, che fa morire le mucose gastriche. La farina dei semi
imbianca, ammorbidisce le mani e combatte le tumefazioni reumatiche e gottose. Il
nome significa castagno dei cavalli, poiché un tempo, in Turchia, era abitudine curare
con questa pianta i cavalli con difficoltà respiratorie. Il frutto si usa anche in
cosmetica e in medicina in numerosi preparati, dato il contenuto elevato di sostanze
tanniche, di saponine e di fecola. Nella floroterapia, un metodo di cura naturale per
ristabilire un salutare equilibrio tra il corpo e la mente, vengono utilizzate le gemme
di ippocastano per rimedi contro la distrazione e la lentezza di apprendimento. Dalla
corteccia si estraggono principi tintori gialli e neri per tessuti. Il legno tenero, poco
41
Capitolo 7
resistente, leggero, di color crema pallido, è utilizzato per la fabbricazione di
giocattoli, imballaggi e, essendo molto assorbente, per cassette da frutta. L’albero è
spesso utilizzato a scopo ornamentale, per alberature di parchi e giardini. Si tende ad
eliminarlo dai viali perché la caduta dei grossi semi può colpire i passanti.
¾
NOCE
Nome Comune: Noce
Specie: Juglans regia
Famiglia: Juglandaceae
Descrizione: è un albero maestoso, alto dai 10 ai 25 metri; la chioma è a forma di
cupola globosa; il tronco è eretto, ramoso, con rami giovani verdi e glabri, cioè senza
peli. La corteccia è di colore grigio-biancastro, liscia negli alberi giovani, diventa con
l’età rugosa. E’ un albero longevo che può raggiungere i 200 anni di età.
Foglie: caduche, composte da 5-9 foglioline ellittiche, imparipennate, lunghe 20-25
cm, con margine liscio e fogliolina apicale più grande, hanno inserzione alterna. Le
foglie sono vellutate da giovani, di un bel colore verde sulla pagina superiore, più
42
Capitolo 7
chiaro su quella inferiore. Vi sono dei ciuffetti di peli all’attaccatura delle nervature
secondarie sulla nervatura principale. Hanno un profumo debolmente aromatico.
Fiori: sono a sessi separati sulla stessa pianta e poco appariscenti. Le infiorescenze
femminili, raccolte in gruppi di 2-5 fiori verdi, ciascuno di un centimetro, si trovano
alle estremità dei rametti nuovi. I fiori maschili, che sono riuniti in amenti di 5-10
centimetri di colore bruno-verdastro, si trovano in posizione ascellare sui rametti
dell’anno precedente.
Frutti: i frutti del noce sono drupe verdi, a forma ovoidale-globosa di 4-5 cm di
diametro; hanno una parte carnosa, detta mallo, e una interna o legnosa che contiene
il seme, gheriglio, diviso in quattro spicchi irregolari e rugosi. Il frutto è edule e di
ottimo sapore.
Origine: non si conosce con sicurezza il luogo di origine del noce; probabilmente
proviene dalle regioni dell’Asia Minore. Sicuramente coltivato già nell’età della
pietra, fu importato a Roma dai Greci verso il 100 a.C. e di lì si diffuse nel resto
d’Europa. I Greci lo chiamavano "Noce reale" o "Noce persico" a significare le sue
origini o la sua importanza. Negli scavi di Pompei sono state trovate noci
carbonizzate con le caratteristiche di quelle oggi coltivate a Sorrento.
Habitat: predilige terreni freschi e asciutti, teme sia il ristagno idrico sia l’eccessiva
aridità. Non sopporta molto il gelo e neanche il caldo eccessivi. Vive da solo, o in
piccoli gruppi, nelle radure, nei boschi in posizioni ben esposte, nei piani collinari e
montani, fino a 1000 metri di altitudine.
Usi locali e generali: nel nostro paese il noce è coltivato per i frutti e soprattutto per
il legno omogeneo, pesante ma al tempo stesso facile da lavorare; è molto apprezzato
da ebanisti, scultori e falegnami, per mobili, arredamenti, intarsi, torniture e
impiallacciature. Il legno, tra l’altro, ha il pregio di non deformarsi con il passare del
tempo, questo lo rende ideale per la produzione di calci da fucile e stecche da
biliardo. Il legno ha peso specifico di 0,7 kg/dm³, è di colore bruno più o meno scuro
43
Capitolo 7
ed è resistente agli agenti atmosferici. E’ utilizzato come ornamento nei parchi per il
suo portamento maestoso. Il noce inizia a produrre frutti in modo consistente dopo
circa 10 anni e produce annualmente dagli 8 ai 12 chili di noci sgusciate. Nelle annate
successive, fino al 25° anno, il raccolto aumenta fino a raggiungere i 30-40
chilogrammi. A partire da questa età, fino ad oltre i 50 anni la produzione si blocca
dai 50 ai 70 chilogrammi. Noci e pane sono un alimento dinamogeno, cioè che
sviluppa energia. Il mallo è molto ricco di vitamina C e di tannini e veniva usato
come una primitiva tintura per capelli. Il noce è molto famoso per il nocino, un
liquore dolce e aromatico che viene prodotto in Italia e in altri paesi dell’Europa. La
tradizione lega la preparazione di questo liquore al primo giorno d’estate, epoca in
cui i frutti sono ancora verdi e immaturi. Si tratta di una ricetta antica che prescrive
l’uso di 33 noci, 1 litro d’alcool, 1 chilo di zucchero, 5 chiodi di garofano, 2 bicchieri
d’acqua e qualche bastoncino di cannella. Il procedimento consiste nel mettere il tutto
in un recipiente chiuso da lasciare al sole per 50 giorni. Dopo questo periodo si deve
colare e mettere nelle bottiglie il liquore così ottenuto. Le foglie del noce contengono
un olio (lo yugolone) particolarmente efficace nella cura della malattia della pelle.
Anche il gheriglio possiede olio in abbondanza che talvolta è preferito a quello
d’oliva, anche se perde in poco tempo le sue virtù alimentari; si consiglia contro i
vermi intestinali e per curare le bruciature da sole. E’ impiegato anche per la
produzione di colori a olio e di cosmetici. Dalla corteccia si estraggono tannini per la
concia delle pelli.
Particolarità: nel 7° secolo d.C. fuori dalle mura di Benevento cresceva un noce
sacro alla popolazione. Il noce era ornato da una serpe a due teste d’oro e in
occasione del solstizio d’estate, sotto le sue fronde, si celebrava una grande festa. La
chiesa riteneva questo un rito pagano e vedeva il noce come un luogo di incontro
delle streghe. Nel 663 i signori di Benevento dovettero chiedere aiuto alla chiesa, ma
per averlo dovettero abbattere il vecchio noce. Nel medioevo la somiglianza del
gheriglio col cervello umano portò alla convinzione che la noce potesse curare le
infermità mentali. Si consigliava, ad esempio, di applicare gherigli sulle tempie
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Capitolo 7
contro il mal di testa. Il Manzoni dedica a questo albero alcune pagine dei "Promessi
Sposi" in cui fa narrare a Fra Galdino il miracolo delle noci. Tra l’altro si fa cenno nel
romanzo alla produzione di olio di noci nel convento.
¾
BETULLA
Nome comune: Betulla
Specie: Betula pendula
Famiglia: Betulaceae
Descrizione: la betulla si presenta con un fusto elegante, eretto, con corteccia liscia
bianco argentea ricoperta da lunghe lenticelle orizzontali che tendono a staccarsi in
liste sottili trasversali, arrotolate su se stesse. I rami giovani sono esili, sottili,
incurvati, rosso bruni e rugosi. Può arrivare ad un’altezza dai 5 ai 25 m e il diametro
del fusto può raggiungere 70 cm. La chioma è molto leggera, quasi rada, ovale e
irregolare; il tronco, che s’innalza sino alla sommità della chioma, presenta un legno
duro, elastico e tenace. Alla base del tronco è presente una scorza nerastra con
solcature reticolate. Ha un sistema radicale debole, una crescita rapida ed una
45
Capitolo 7
longevità di 100 anni circa. Si diffonde per disseminazione e raggiunge l’altezza
massima intorno ai 50 anni d’età.
Foglie: sono caduche, alterne, di forma romboidale con punta ben distinta e con
nervature penninervie; il margine presenta una doppia seghettatura regolare; la pagina
inferiore è più pallida. Sono lunghe 4-7 cm e hanno un picciolo di circa 3 cm. Le
foglie giovani sono di colore verde chiaro, lisce e senza peli; la lamina inferiore è
ricca di ghiandole.
Fiori: la betulla è una pianta monoica, ovvero entrambi i fiori, maschili e femminili,
sono presenti sullo stesso individuo. Le infiorescenze unisessuali sono amenti
(raggruppamento di fiori di forma allungata): quelli maschili sono lunghi 3-6 cm,
sessili e giallo brunastri; quelli femminili sono peduncolati, più corti e tozzi, di colore
verdastro. Fioritura: aprile-maggio, prima della foliazione.
Frutti: i frutti sono dei piccoli acheni contenuti in infruttescenze a forma di cono. Gli
acheni (frutti che giunti a maturità non si aprono per lasciare uscire l’unico seme
contenuto), sono strutture ovoidali circondate da due ali membranacee che vengono
facilmente trasportate dal vento allorché, a maturità, vengono rilasciati dagli amenti.
La maturazione avviene in giugno-agosto.
Origine: è diffusa in tutta Europa ad eccezione della Scandinavia.
Habitat: la betulla è una pianta adatta a vivere in boschi radi di latifoglie, aghifoglie
o misti, in torbiere, brughiere e prati magri; si associa al faggio, alle conifere e agli
ontani, ma forma anche boschi puri. Vegeta sia in suoli aridi, sia umidi,
moderatamente ricchi di sali nutritivi, piuttosto acidi, sabbiosi e pietrosi. Agisce da
pianta pioniera, radicante a poca profondità, in radure e in terreni incolti. Vegeta nelle
pianure e fino a 1900 m sulle Alpi; esige molta luce, è resistente alle alte temperature
e ai grandi freddi, alla siccità, alle gelate e alle atmosfere inquinate delle città.
Usi locali e generali: Il suo legno viene utilizzato per la fabbricazione di mobili, sci,
timoni, scale a pioli, tavoli, sedie, zoccoli e mollette da bucato. Serve inoltre per
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Capitolo 7
produrre assicelle e compensati; costituisce anche un buon combustibile. Dalla
corteccia, usata in antichità dai pellirosse per rivestire le canoe e dai lapponi per
coprire le capanne, si ricava il catrame di betulla, buon disinfettante e antiparassitario,
dal cui distillato si produce un olio ottimo per ingrassare il cuoio. Il carbone, ottenuto
dalla combustione del legno e finemente polverizzato, ha un elevato potere
assorbente e viene usato nella cura delle affezioni intestinali.
Particolarità: La betulla è simbolo di bellezza, ma anche di vita, di giovinezza e
fecondità per i popoli nord europei. Rappresenta inoltre l'emblema del rinnovarsi
della natura e del suo rivivere dopo la lunga morte invernale.
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Capitolo 7
¾
CASTAGNO
Nome comune: Castagno
Specie: Castanea sativa
Famiglia: Fagaceae
Descrizione: è un albero caducifoglio con ampia chioma, alto fino a 30 m, con
diametro fino a 4-5 m, tronco eretto, robusto, ma molto ramificato. La corteccia scura
e di colore bruno-grigio, è fessurata longitudinalmente negli esemplari adulti, mentre
è liscia di colore grigio–nocciola in quelli giovani. I nuovi rami sono glabri, di colore
verde olivastro e con numerose lenticelle. Le gemme di svernamento sono ovate,
appuntite, lunghe 7–8 mm; manca una gemma terminale.
Foglie: sono lunghe fino a 15-30 cm e larghe 5-8 cm, alterne, caduche, semplici, con
piccioli di 2 cm e lamina lanceolata. La nervatura principale e quella secondaria sono
nettamente rilevate; il margine è seghettato e l’apice è appuntito. La pagina superiore
è di colore verde scuro, lucida e glabra; quella inferiore è verde chiaro, opaca,
percorsa da 10-20 paia di nervature in rilievo.
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Capitolo 7
Fiori: pianta monoica con fiori unisessuali riuniti in infiorescenze. Le infiorescenze
maschili sono spighe lunghe 10-20 cm, di colore giallastro e pendule; quelle
femminili sono costituite da fiori singoli riuniti in gruppi di 2 o 3, posti alla base delle
infiorescenze maschili in un caratteristico involucro squamoso che, dopo la
fecondazione, da origine ad un riccio che racchiude i frutti. La fioritura avviene in
giugno-luglio.
Frutti: i frutti, commestibili e ricchi d’amido, sono le caratteristiche castagne, ornate
alla base da un’ampia cicatrice chiamata ilo e all’apice da una torcia; sono racchiuse
in un involucro verde e spinoso detto riccio, rivestito di peli irti e pungenti, che si
apre a maturazione in ottobre.
Origine: il castagno vive nell’Europa meridionale e nell’Asia occidentale, nel nord
Africa e nel nord America.
Habitat: in Italia si trova tra i 200 e i 1000 m e raggiunge i 1500 m sull’Etna. È
presente in boschi misti di latifoglie su un suolo in genere siliceo, decalcificato, ma
ricco di sali nutritivi e di basi, profondo, in genere limoso o sabbioso. Predilige
ambienti luminosi e sufficientemente umidi.
Usi locali e generali: i suoi frutti sono largamente usati nella confezione dei marrons
glacés, per le tradizionali caldarroste e per la produzione del castagnaccio. Il legno e
la corteccia sono ricchi di tannino, sostanza che serve per conciare cuoio e pelli; il
legno, inoltre, essendo consistente, serve in falegnameria.
Particolarità: secondo alcuni ricercatori il suo nome deriverebbe da Kastanis, città
del Ponto dove era particolarmente abbondante.
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Capitolo 7
¾
ABETE ROSSO
Nome comune: Abete Rosso
Specie: Coniferae
Famiglia: Pinaceae
Descrizione: pianta a portamento conico-piramidale, regolare. Raggiunge altezze di
40-50 m. Il tronco è diritto, colonnare, largo alla base fino a 2 m, con scorza da
brunastra a grigiastra.
Foglie: le foglie aghiformi sono lunghe 1-3 cm inserite sul ramo secondo linee
spirali.
Fiori: I coni si sviluppano in primavera; quelli maschili gialli si trovano all’ascella
degli aghi laterali, i coni femminili in posizione terminale di un rosso-violaceo,
inizialmente eretti; dopo l'impollinazione diventano penduli, si allungano fino a 15
cm e a maturità sono di colore bruno chiaro quasi lucente
Frutti: pigne di varie dimensioni.
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Capitolo 7
Origine: l' abete rosso o Peccio è originario delle zone di clima boreale dell'Europa,
dalle Alpi Marittime attraverso l'Europa centro-settentrionale fino agli Urali.
Habitat: si sviluppano soprattutto nelle pinete e in boschi estesi di regioni fredde e
non eccessivamente umide. Non crescendo in pianura devono essere importati
artificialmente.
Usi locali e generali: il suo legno di ottima qualità, bianco-giallastro, tenero, viene
utilizzato soprattutto nel settore edilizio. Grazie alle sue eccezionali proprietà di
risonanza, viene impiegato in liuteria per la costruzione di tavole e casse armoniche
per strumenti musicali.
Dalla resina si ricava la trementina impiegata nell'industria di vernici e in cosmetica.
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Capitolo 7
¾
ONTANO NERO
Nome comune: Ontano nero
Specie: Alnus glutinosa
Famiglia: Betulaceae
Descrizione: albero con fogliame deciduo alto fino a 20 metri, con chioma ovata,
piramidale di colore prima verde-vivo, ma presto verde-cupo, con riflesso brunastro;
tronco eretto, spesso ramificato alla base, corteccia grigio-brunastra, con parecchie
lenticelle, fessurata, rami giovani vischiosi.
Foglie: le foglie sono alterne arrotondate e talvolta smarginate all’apice, verde-scuro
sulla pagina superiore, dello stesso colore su quello inferiore, inserzione alterna.
Fiori: infiorescenze maschili in amenti giallo-brunastri, infiorescenze femminili ovali
a gruppi di 3-5 sullo stesso peduncolo, portati sulla stessa pianta. Fiorisce in febbraioaprile.
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Capitolo 7
Frutti: strobili ovali legnosi marroni, lunghi circa 2 cm; che a maturazione liberano
dei semi alati.
Origine: la pianta dell’ontano è diffusa in tutta Europa, in Siberia e nel nord
America.
Habitat: pianta tipica delle rive dei fiumi, torrenti, stagni e zone paludose, dove
forma boschi e cespuglietti con Salici e Pioppi, fino a 1000-1100 metri; in Italia è
comune su tutto il territorio, ma in certi luoghi montagnosi viene sostituito dalla
specie dell’ Ontano bianco (Alnus Incana).
Usi locali e generali: il suo legno è estremamente resistente all’acqua, a contatto
della quale diventa durissimo e si presta quindi a tutte le opere che sono immerse
nell’acqua, come piloni per le barche e palafitte.
Particolarità: l’Ontano nero ha radici che contengono batteri in grado di utilizzare
l’azoto dell’aria e fissarlo, migliorando così la carenza di azoto che di solito si
riscontra nei terreni molto umidi, deve probabilmente il suo nome al precoce
invecchiamento delle foglie, che danno perciò un aspetto cupo a tutta la pianta, si
distingue dagli altri Ontani per le foglie rotondeggianti con base cuneata e apice
inciso, e per la mancanza evidente di peluria grigio argentata sulla pagina inferiore.
53
Capitolo 7
¾
LARICE
Nome comune: Larice
Specie: Larix decidua
Famiglia: Pinaceae
Descrizione: pianta a foglie decidue alta fino a 40 m, di colore verde chiaro in
primavera e giallo dorato in autunno, a forma di cono con punta allargata; tronco
colonnare con corteccia di colore brunastro-rossiccia divisa in placche profondamente
solcate; rami principali arcuati verso l’alto e rami secondari sottili e penduli.
Foglie: aghiformi sottili,lunghi fino a 3 cm,di colore verde chiaro, portati
singolarmente sui giovani rametti e a gruppi di 20-30.
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Capitolo 7
Fiori: i fiori maschili sono gialli globosi e penduli quelli femminili eretti, di 2-2,5cm
di colore porpora, molto appariscenti. Fiorisce in aprile-maggio.
Frutti: piccoli coni che si trovano tutt’intorno al rametto. Sono ovali, con grosse
squame, e rimangono sull’albero per diversi anni dopo che il seme è caduto.
Origine: le zone di massima diffusione del larice sono le Alpi, le zone boschive
dell’Europa centrale; specie affini si trovano nel nord America e nell’Asia orientale.
Habitat: boschi montani e subalpini, compresi tra 800 e 2.400 m.
Usi locali e generali: il suo legno è di grande resistenza tanto che se ne confezionano
botti di durata praticamente eterna, alberature per natanti e condutture per l’acqua.
Questa indistruttibilità deriva dalla ricchezza delle sue resine, che lo rendono
impermeabile ai liquidi e all’aria.
Particolarità: Plinio il Vecchio narra che l’imperatore Tiberio fece trasportare a
Roma una trave ricavata da un larice la cui circonferenza di base misurava 6m.
Spesso forma boschi in associazione con Abeti, ma vegeta anche ad altitudine più
elevate dove si trova spesso in boschi puri.
E’ la sola conifera spontanea che perde le foglie in inverno, e per questa caratteristica
è facilmente distinguibile in tutti i periodi dell’anno; brunastro in primavera per il
colore dei giovani getti, verde chiaro in estate e giallo dorato in autunno.
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Capitolo 7
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FAGGIO
Nome comune: Faggio
Specie: Fagus sylvatica
Famiglia: Fagaceae
Descrizione: il faggio è un albero a fogliame deciduo, alto fino a 30-60 metri, con
chioma globosa espansa, densa, di colore verde-chiaro. Tronco cilindrico, robusto a
volte molto lungo, altre subito diviso in grosse branche, corteccia grigia, liscia.
Foglie: le foglie hanno una lamina coriacea, ellittica o ovata, con apice appuntito e
margine cigliato, spesso increspato; di colore verde lucente nella pagina superiore,
più chiare e con ciuffi di peli rossastri agli angoli delle nervature nella pagina
inferiore; inserzione alterna.
Fiori: quelli maschili in numerosi amenti penduli gialli con un lungo peduncolo, i
femminili verdastri all’estremità dei nuovi getti Fiorisce in aprile-maggio.
Frutti: piccoli noci (faggiole) racchiuse da 2 a 3 in una cupola legnosa, ricoperta da
aculei non pungenti che a maturità si apre in quattro valve.
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Capitolo 7
Origine: zone boschive e montagnose di tutta Europa.
Habitat: la pianta del faggio si trova in boschi e foreste di montagna 1000-2000
metri con preferenza per terreni calcari.
Usi locali e generali: il legno di faggio, facilmente lavorabile e tinteggiabile, è molto
impiegato per la fabbricazione di mobili o piccoli attrezzi. E’ ottimo come legna da
ardere.
In Piemonte esistono circa 100.000 ettari di faggete, in passato quasi tutte governate a
ceduo; se ne ricavava legna da ardere e soprattutto carbone per l’industria. Ancora
oggi sono facilmente individuabili nei boschi le piazzole destinate alla
carbonizzazione.
Particolarità: il faggio è il componente principale dei boschi di latifoglie in
montagna, dove forma boschi puri in unione con altre latifoglie, quali Aceri, Olmi,
Frassini, Sorbi, Carpini, ma spesse volte in unione con Abeti rossi e bianchi. E’ una
pianta di grande importanza forestale per il legno piuttosto duro e compatto, che
tuttavia si può piegare facilmente a vapore, e per questo è particolarmente duttile.
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Capitolo 7
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ROVERE
Nome comune: Rovere
Specie: Quercus robur
Famiglia: Fagaceae
Desccrizione: è una specie strettamente imparentata con la farnia, con la quale forma
spesso boschi misti. La sua chioma è globosa, il tronco è eretto, slanciato; i ramuli
sono glabri e la corteccia è di color grigio,solcata e fessurata.
Foglie: sono semplici, obovato-lobate di 8-12 cm, con picciolo di 1-3 cm; inserzione
alterna. Fiori: possiede infiorescenze unisessuali; quelle maschili in amenti penduli
lunghi 5-8 cm, con fiori distanziati a stami gialli; quelle femminili solitarie o a 2-6,
ascellari, sessili sui ramuli; singoli fiori sferici, con stimma rosso; fioritura da aprile a
maggio.
Frutti: produce ghiande ovali di 1,5-3 cm a gruppi di 2-6, sessili o appena
peduncolate, aventi cupula a squame compresse che copre 1/3 della ghianda.
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Capitolo 7
Origine: Europa, regioni mediterranee.
Habitat: benché presente spesso nei boschi di montagna, il rovere predilige ambienti
più caldi e meno umidi rispetto alla farnia, tanto che lo si trova anche in Sicilia e in
Sardegna, dove invece la quercia è assente.
Usi locali e generali: da sempre è stato uno dei legni più largamente utilizzati in tutti
i settori di applicazione. Da quello navale alle costruzioni civili, per lavori da
carradore, ai mobili; sia come massiccio che come tranciato. Come paleria, anche
immerso in acqua, per botti, listoni da pavimento, traversine ferroviarie ecc. Unioni
con chiodi e viti tengono bene anche se si consiglia la preforatura delle sedi. Si lavora
con facilità, si lascia tinteggiare e verniciare senza particolari problemi. Molti begli
esempi di usi strutturali, in falegnameria e nella decorazione, si possono ammirare in
edifici storici. Oggi è ancora un importante legno strutturale quando si richiedono
aspetto tradizionale o robustezza e durevolezza. È usato per la costruzione di barche,
specialmente di barche da pesca, e per portoni e paleria. È un importante legno da
mobili ed è usato per falegnameria, pannellature e pavimenti di abitazioni; un uso
speciale è quello per doghe da botti da whisky e barili da sherry.
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Capitolo VIII Gli animali
La fauna presenta le specie tipiche delle zone alpine, mammiferi e uccelli, che
insieme agli animali domestici sono nominati nel libro di Augusto Monti:
“… uno di quei galletti americani belli e ben fatti, ma grossi come un pugno, che se
lo vedi solo in giro per l’aia, coda bargigli superbia, è proprio un vero gallo sul
serio. Ma se ha d’attorno le galline nostrane livornesi o padovane, allora ti meravigli
tanto è piccino, ti par un giocattolo.”
(Da Val d’Armirolo ultimo amore)
“La Bionda, regina della stalla, aspetta l’erede e qui non si parla d’altro…. .Le altre
vacche sdraiate a ruminare: solo la Bionda in piedi, le mandibole inchiodate.”
“Uuh i falchi! Bassi bassi sulla casa. In cielo nel sol, che sfioran le vette dei
castagni. Cinque uccellacci volan rotando attorno attorno e non si diparton da quel
punto. Rotan lenti lenti- facendo l’olio, come dicon qui – visibili tanto che ne
distinguiamo il ventaglio grigio nell’inclinarsi che fanno e bianco nell’ali: giran e
giran sempre là guatando in basso:”!
“Alla Corderia col discorso dei serpenti quando cominciavano non la finivano
più…Il re dei serpi il Parin l’ha visto, Ciisin l’ha sentito: grosso come un bambino in
fasce, non tanto lungo, con la cresta come d’un gallo e canta. Ccide un cristiano solo
a guardarlo, ma lo si può ammazzare, però bisogna sparargli con lo schioppo ad
avancarica, di quelli con la bacchetta, e lo stoppaccio che sia fatto del biglietto della
comunione.”
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La volpe
La volpe è un animale di specie carnivora, della famiglia dei canidi, di genere vulpes.
Ha il corpo allungato, gli arti brevi e la sua coda è lunga e folta; ha la fronte bassa, il
naso aguzzo e la dentatura tagliente caratterizzata da un grande sviluppo dei canini.
Lo stesso nome è usato anche per indicare animali appartenenti ad altri generi della
stessa famiglia, come la volpe bianca e argentata, ma assenti nella Val Sangone.
Le volpi sono fra i più pregiati animali da pelliccia, anche se a quelle con pelo rosso
tipiche della nostra zona vengono preferite le specie dei paesi nordici e dell’America.
E’ cacciata per la preziosa pelliccia e per eliminare la “cacciatrice e sterminatrice dei
pollai”.
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La marmotta
La marmotta, animale erbivoro, appartiene alla classe dei roditori simplicidentati, in
particolare alla sezione degli scoiattoliformi, e alla sottofamiglia marmotinae. Le
marmotte sono animali di media grandezza, lunghi dai 60 agli 80 centimetri
comprendendo la coda. Hanno forme tarchiate, una testa relativamente grandi rispetto
alle dimensioni del corpo, occhi e orecchie piccole, un collo corto e ampio, arti corti e
pelame folto e ricco.
E’ un animale sociale seppur molto sospettoso, dai sensi sviluppati e caratterizzato da
un notevole coraggio, inoltre vivono in frotte, sotto sorveglianza di sentinelle.
Scavano tane profonde dove trascorrono in letargo i mesi invernali.
Vi sono circa 45 specie e sottospecie, distribuite nell’Europa centrale, in Asia e
nell’America settentrionale e in Val Sangone in alto, sopra i pascoli.
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La lepre
La lepre appartiene al genere dei roditori duplicidentati della famiglia leporini;
distinto dagli altri congeneri per la maggiore lunghezza delle orecchie e degli arti
posteriori.
E’ diffuso in tutto il mondo, è un animale di abitudini prevalentemente notturne, di
indole paurosa, sebbene con udito finissimo e buona vista e olfatto; inoltre è molto
veloce e assai resistente.
E’ uno dei capi di selvaggina più diffusi e comuni e quindi viene facilmente ricercato
dai cacciatori, anche perché è una delle più pregiate e gustose tra le carni della
selvaggina da pelo.
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Il tasso
Il tasso proviene dal genere dei carnivori mustelidi, è un rappresentante della
sottofamiglia melinae.
Ha un corpo tozzo, lungo circa 60 cm, con arti bassi e robusti; è dotato di unghie
scavatrici, presenta sugli arti e sulle parti ventrali pelame nero, mentre sul dorso il
pelame è chiaro seppur con due strisce nere ai lati del muso e della testa, che si
prolunga in un grosso naso.
I tassi usano costruirsi tane, dotate di più uscite, che abbandonano quasi sempre di
notte per andare a procurarsi cibo.
Inoltre nella tana trascorrono un periodo di letargo durante l’inverno.
Sono apparentemente lenti nei movimenti, tuttavia possono all’occorrenza diventare
agilissimi saltatori e arrampicatori.
Si cibano di vermi, molluschi, larve di insetti, ratti, rettili, talpe e anche di vegetali.
Il genere diffuso in circa 25 specie nell’Europa e nell’Asia.
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Lo scoiattolo
Lo scoiattolo è il genere rappresentativo della sottofamiglia sciurinae.
E’ un animale molto vivace, dai sensi acuti, con occhi e orecchie grandi, dagli arti
anteriori brevi, mentre quelli posteriori sono lunghi e robusti, dotati di unghie forti ad
artiglio; inoltre possiede una coda lunga e folta.
Si nutre di noci, ghiande, semi, frutta, germogli e cortecce di alberi.
Costruiscono numerosi nidi sugli alberi, per diversi usi e non cadono mai in letargo.
Sono diffusi in tutta la regione olartica e geotropica, e nel Borneo.
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¾
La talpa
Appartiene al genere degli insettivori, che dà il nome alla rispettiva famiglia delle
talpidae.)
La talpa ha le dimensioni simili a quelle del ratto, con il corpo tozzo, il collo corto ed
il muso lungo e appuntito; gli occhi piccolissimi sono spesso ricoperti dalla pelle,
mentre risulta assente il padiglione delle orecchie.
Gli arti sono brevi ma forniti di cinque dita, armate di robuste unghie, pelame fitto e
morbido di colore grigio-cupo o nerastro.
Sono per lo più ottime scavatrici, grazie al lavoro delle zampe anteriori.
Molto voraci, le talpe si nutrono di lombrichi, larve, adulti di insetti e piccoli anfibi e
rettili.
Vi sono circa 20 specie e sottospecie di talpe, abitanti in tutta l’Europa e nell’Asia
settentrionale e centrale.
La sua pelliccia si presenta come lucida, rasata e spesso tinta di nero.
66
¾
Il ghiro
Il ghiro appartiene al genere dei roditori topiformi.
Assomiglia allo scoiattolo ma ha la testa e il muso stretti, orecchie quasi nudi e
intestino cieco assente, il pelame folto e grigio-argento, bianco inferiormente, con la
coda pennata.
È diffuso in tutta l’Europa e l’Asia minore; nei paesi freddi subiscono lunghi letarghi
invernali.
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Il cinghiale
Il cinghiale appartiene al genere dei mammiferi e alla sottofamiglia dei suini.
È tarchiato, con la testa lunga e stretta, orecchie erette, con rivestimento brizzolato di
nero e grigio-giallastro.
Vive nei branchi soprattutto nelle ore notturne e preferisce vivere in luoghi umidi.
È diffuso soprattutto nel Belgio, nella Francia e nella Germania; in Italia si trova nella
zona settentrionale-occidentale.
Tra le varie specie ricordiamo il cinghiale barbato, il cinghiale di Celebes, il cinghiale
maremmano e quello verrucoso.
La sua carne è molto apprezzata e la pelle è usata per la fabbricazione di oggetti di
uso comune.
68
¾
Il cervo
Il cervo appartiene al genere dei ruminanti e alla famiglia dei cervidi, sottofamiglia
dei cervini.
È caratterizzato da una cospicua mole, ha la coda corta, i palchi alti e provvisti di
pugnali, la colorazione è uniforme nell’adulto e macchiata nel giovane.
È diffuso nell’Europa, nell’Africa Settentrionale e in Asia a sud dell’Himalaya,
seppur si caratterizza in varie sottospecie.
In Italia il cervo è diffuso in particolar modo in Sardegna, dove si sviluppa come
indigeno e selvatico; quello americano si differenzia dalle altre sottospecie perché
soltanto l’esemplare maschio possiede le corna.
I cervo sono oggetto di caccia e, se in Italia i capi erano in quantità limitata, ora dopo
i ripopolamenti in numerosi parchi montani, il loro numero è notevolmente
aumentato.
69
¾
La faina
La faina deriva dalla specie dei carnivori mustelidi e in particolare dalla sottofamiglia
delle mustele.
Si presenta come leggermente più piccola della martora, con pelame grigio-bruno con
fondo chiaro e lunghi peli setolosi, mentre sulla parte anteriore del collo il pelame è
biancastro.
Vive in molte regioni d’Europa e d’Asia, tuttavia in Italia non è presente nelle isole,
ma è diffusa notevolmente nel continente.
E’ predatrice, specialmente di volatili.
La pelliccia di faina, come quella del furetto e della puzzola, è fra le più comuni tra i
mustelidi europei ed è pregiata per la sua gradazione biondo-scura.
70
¾
Il riccio
Il riccio appartiene al genere degli insettivori della famiglia dei ricciformi o
erinaceidei; sono animali lunghi al massimo 25 cm, dal corpo tozzo e rotondeggiante,
con arti corti, muniti anteriormente di cinque dita a posteriormente di quattro o
cinque dita.
La sua coda è molto corta, il muso allungato, gli occhi piccoli e le orecchie di varie
dimensioni.
Sono rivestiti nella parte superiore del corpo da aculei corti, duri e fitti; inferiormente
posseggono pelame scarso e morbido.
Animali poco socievoli, di abitudini crepuscolari e notturne, costituiscono 77 specie e
sottospecie diffuse in Africa, Asia ed Europa.
71
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Il capriolo
Il capriolo appartiene al genere dei cervi telemetacarpali.
Presenta una corporatura leggera, una coda rudimentale, palchi piuttosto bassi,
zoccoli stretti e a punta.
La pelliccia del capriolo assume una colorazione uniforme rossa in estate, grigiobruna in inverno.
Il capriolo ama i boschi con ricca vegetazione.
Si dirama in 14 specie e sottospecie diffuse in Europa centrale e meridionale, ovvero
nella Gran Bretagna e in Scandinavia, fino ad estendersi in Asia e a nord
dell’Himalaya; mentre in Italia lo troviamo nelle Alpi, nella Maremma toscana, nel
Lazio, in Calabria e nel Gargano; ora molto abbondante in Val Sangone.
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Il camoscio
Il camoscio appartiene alla specie delle antilopi, in particolare al genere camoscio e
alla famiglia dei mammiferi bovidi.
Il camoscio presenta pelame ruvido e ricco, bruno-rossastro chiaro in estate, brunonerastro in inverno.
E’ alto 80 cm e raggiunge il peso di 45 kg.
Vive in mandrie di circa 20-30 femmine e giovani guidate da un’adulta nei boschi,
seppur si adatti alla vita sulle rocce presso le nevi perenni.
Infatti è un abile arrampicatore e slittatore.
I maschi stanno in genere isolati, tranne in autunno all’epoca degli amori.
E’ diffuso nell’Europa centrale e meridio0nale, ma anche in Asia minore.
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Lo stambecco
Lo stambecco appartiene al genere aegoceros e alla sottofamiglia dei caprovini o
caprini;
ha le corna a scimitarra, nodose sul margine antero-superiore.
Si distingue in tre specie: lo stambecco delle Alpi, lo stambecco dell’Asia centrale e
quello dell’Arabia.
Il maschio ha le corna più lunghe della femmina ed ha lunghi ciuffi sotto il mento.
La lunghezza e la colorazione del pelame variano a seconda delle stagioni; di inverno
è più soffice, scuro e nel maschio meno rossastro.
Questi pascolano solitamente all’alba e al tramonto, nutrendosi di erbe e germogli in
estate e di licheni ed erbe secche in inverno.
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L’ermellino
L’ermellino è un carnivoro della famiglia dei mustelidi, sottofamiglia delle mustele.
E’ rosso-bruno nel periodo invernale e bianco-giallastro nelle stagioni calde.
E’ anche un agilissimo arrampicatore e nuotatore, che di giorno riposa e al crepuscolo
esce dalla tana per andare a caccia di prede.
E’ diffuso in tutta l’Europa e l’Asia settentrionale; in Italia è presente nelle regioni
alpine della Lombardia e del Piemonte.
E’ oggetto di caccia e di allevamento perché è munito di una pelliccia molto pregiata.
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La lince
La lince appartiene al genere dei felini.
Si distingue dai gatti per gli arti lunghi e robusti, inoltre ha la coda breve e le orecchie
con un ciuffetto di peli all’apice.
Vi sono tre sottogeneri della lince, quella del deserto, quella delle paludi e la lince
nota con il nome di “lupo cerviero”; quest’ultima si presenta più grande, con pelo
morbido macchiettato e basette sulle guance, ed è diffusa particolarmente in Asia e in
America settentrionale.
In Europa è molto rara ed è presente solo nei paesi nordici, infatti in Italia è pressoché
estinta, sebbene associazioni animaliste stiano tentando di ridiffonderne la specie.
76
Il gallo cedrone
Il gallo cedrone è un uccello grande e maestoso, dell’ordine dei gallinacei, della
famiglia dei fasianidi.
Si presenta con la coda rotonda e le ali rispettivamente lunghe circa 300 mm.
Il maschio è color grigio-lavagna, con finissime strisce trasversali nerastre.
Abita le foreste alpestri al disopra dei 1800 m e si ciba di vegetali.
Le carni degli adulti sono coriacee, a differenza di quelle dei giovani che sono tenere
e saporite.
Il gallo cedrone vive stazionario sulle Alpi, ed è in grande diminuzione.
77
¾
Il falco pellegrino
Il falco pellegrino è un uccello di preda diurno dell’ordine accipitres.
I falchi costituiscono una sottofamiglia della famiglia falconidae.
Ha un becco fortemente arcuato, unghie acute, possenti e adunche; il suo carattere è
fiero e vivace e possiede occhi vivi e acuti.
Le femmine hanno una statura maggiore rispetto ai maschi e depongono uova
macchiate senza costruire alcun nido.
Le specie principali sono il falco reale, il falco siberiano e il falcone di Barberia; le
specie meno diffuse sono il falco della regina, il falco cuculo e il falco grillaio.
78
¾
L’aquila
L’aquila appartiene al genere degli uccelli rapaci, della sottofamiglia aquilinae,
famiglia che comprende altri numerosi uccelli rapaci, quali la poiana, l’albanella, lo
sparviero, l’astore ( molto diffusi in Val Sangone) e l’avvoltoio.
La specie d’aquila più nota è quella reale, di color bruno-cioccolata, con la testa fulva
e con le ali lunghe rispettivamente dai 610 ai 720 mm, tuttavia in Italia è molto rara.
Le aquile sono tra gli uccelli più potenti, si nutrono di prede viventi e sono assai
dannosi alla selvaggina di montagna.
Durante il volo è visibile la loro agilità, la loro eleganza e l’imponenza.
Vi sono altre specie di aquile, diffuse sia in Europa (Orientale e Occidentale) che in
Asia.
79
¾
Il corvo
Il corvo appartiene al genere degli uccelli passeracei, della famiglia dei corvidi.
Le specie italiane sono di statura diversa; la grandezza massima si raggiunge con il
corvo imperiale, la cui ala è di 395-440 mm: esso è un uccello in diminuzione,
stazionario, nidificante.
La statura minima appartiene al corvo comune, avente ala lunga 290-330 mm: uccello
soprattutto invernale, nidificante, anch’esso in diminuzione.
Il corvo presenta colore generalmente nerastro e lo si distingue dalla cornacchia nera
per la sua mandibola superiore, che è diritta.
80
¾
La gazza
La gazza è un uccello di media statura dell’ordine dei passeracei, famiglia della
corvidae, di piumaggio bianco e nero vellutato, coda assai lunga e molto graduata e
con l’ala lunga circa 190 mm.
Abita le località molto alberate, fa il nido a cupola sugli alberi; si ciba di grani,
insetti, uova di uccelli.
Ha l’istinto di “rubare” e viene attirata particolarmente dagli oggetti luccicanti.
In Italia è un uccello stazionario, ma talvolta erratico; manca in Sardegna e nell’isola
d’Elba.
Come verso ha un aspro cicaleccio.
81
Riflessioni conclusive
Con tale progetto abbiamo inteso recuperare la memoria storica di un uomo di
pensiero, quale Augusto Monti, nel 40° anniversario della morte, ridestando la valle
che lo ospitò durante la villeggiatura estiva. Sono così tornati alla luce le borgate, gli
antichi lavori e l’aspetto di una valle trasformata dal tempo, grazie alla testimonianza
lasciata nelle pagine de “Val d’Armirolo ultimo amore”.
Nell’ultimo secolo nella valle del Romarolo, come in altre valli alpine, si sono
verificati l’abbandono delle terre meno produttive e lo spopolamento delle zone
montane dovuto a:
¾ La ricerca di fortuna all’estero, spesso in America Latina (Argentina) per la
costruzione di ferrovie, in Nord America e in Germania.
¾ L’industrializzazione di Giaveno, in particolare con la manifattura tessile e
cartaria.
¾ Le emigrazioni temporanee, in occasione di lavori stagionali in pianura, o
appena oltralpe, specie in autunno per la vendemmia, talvolta trasformatesi in
definitive a causa di nuovi incontri amorosi.
“E per tutta la nostra montagna è così… non dico solo di questa nostra valle
disgraziata, frazioni frazioni si svuotan così: la Francia, il Giuè di sotto, ma anche là
oltre per andar verso Perosa, il Gran Dobbione per esempio: era un paese di 4000
anime:… file di case sfondate e crollanti, vigne…”
Infatti la val d’Armirolo non fiorì, anzi rimase quasi un’appendice dimenticata di
Giaveno perché, a detta di Augusto Monti :
“Val d’Armirolo sarebbe morta da sé, piano piano per forza di cose: due fatti sono
accaduti in questi trent’anni che l’han fatta morir prima, fuori dal suo letto lo fo per
dire di morte violenta. Ed i due fatti sono stati quei diciannove mesi di guerra
partigiana e quei sette metri e mezzo in largo di stradone camionabile dal piano su a
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Provonda nel fianco di ponente. Due cose- due ciose, come dicono qui nel loro
patuà- di cui, belle o brutte che siano state, buone o cattive, i pochi rimasti qui ad
abitare in valle- quattro vecchi e un matto- neanche i più vogliono sentir parlare
intorno a sé.”.
Eppure ci fu un tempo in cui la valle era densamente popolata. Accanto alle borgate
si trovavano ciliegi, meli, noci, fichi, peri e nelle zone più favorevoli anche vigne e
peschi. Il sito delle borgate veniva scelto accuratamente: protetto dal vento, ai piedi di
un dosso o vicino a una sorgente. Il bosco veniva tenuto pulito, poiché inteso come
risorsa economica.
Purtroppo oggi le cose sono cambiate; camminando tra i luoghi citati si è osservata
una natura in declino, non curata, fortemente distrutta dall’incendio del 1990. Frane,
alluvioni, incendi sono gli eventi naturali che spesso l’incuria dell’uomo ha facilitato.
Con la realizzazione nella valle di un percorso dedicato allo scrittore, speriamo in un
recupero almeno di una sezione di essa, come altrettanto auspichiamo che il nostro
lavoro specifico e la nostra attenzione produca un maggior coinvolgimento di
popolazione d amministratori al fine di un ritorno (o quasi) ai luoghi “naturali”
descritti con tanto amore da Augusto Monti.
83
Bibliografia
¾ AA.VV. “Il Pinerolese pedemontano”, Editore Alzani, Pinerolo, 2001.
¾ Club Alpino Italiano Sezione di Giaveno, “I monti di Giaveno”, Tipografia
Commerciale, Giaveno, 2002.
¾ Distretto Scolastico 35 di Giaveno, “L’ambiente siamo noi”, Giaveno, 1996.
¾ Distretto scolastico 35 di Giaveno, “Radici della Valsangone”,Giaveno, 2001.
¾ Fornaca Remo, “Introduzione a Il mestiere di insegnare”, Araba Fenice,
Cuneo, 1994.
¾ Mila Massimo, “Augusto Monti, educatore e scrittore”, Il Ponte, Agostosettembre 1949.
¾ Mola Aldo, “Introduzione a Il mestiere di insegnare”, Araba Fenice, Cuneo,
1994.
¾ Monti Augusto, “I Sanssossì”, capitolo XXVI La scarlattina, Araba Fenice,
Cuneo, 1993.
¾ Monti Augusto, “La corona sulle ventitrè”, capitoli VI, VII, XII, da “Vietato
pentirsi e altre storie”, Araba Fenice, Cuneo, 1993.
¾ Monti Augusto, “Val d’Armirolo, ultimo amore” da “Vietato pentirsi e altre
storie”, Araba Fenice, Cuneo, 1993.
¾ Tesio Giovanni, “Augusto Monti nel centenario della nascita”, Atti del
convegno di studio del 9-10 maggio 1981, Centro di Studi Piemontesi.
¾ Tesio Giovanni, “Introduzione alla Corona sulle ventitré”, Araba Fenice,
Cuneo, 1996.
Siti internet:
¾ http://www.icnovellara.it/
¾ http://www.comune.monasterobormida.at.it
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