L'industria e la finanza europea
nella competizione internazionale >,
ROMANO PRODI
1.
Con l'Unione Economica e Monetaria (UEM), i nostri stati sovrani abbandonano spontaneamente le loro monete per costruire
un'unica valuta.
La portata rivoluzionaria del progetto è esaltata dall'importanza
delle economie che fanno parte dell'area dell'UEM e dal potenziale
effetto sui paesi contigui.
Questo processo è quindi destinato a essere il fattore più importante dei prossimi anni in tre diversi ambiti: la posizione dell'Europa
nel mondo, la natura del capitalismo nel Vecchio Continente, gli as- ·
setti del sistema monetario internazionale.
2.
In questi anni stiamo assistendo alla fine di un grande ciclo storico apertosi alla fine del XVIII secolo con la "rivoluzione industriale",
ciclo che faceva sostanzialmente coincidere l'economia mondiale con
quella occidentale. Solo per fare un esempio: dopo aver vissuto un periodo di assoluta preminenza durato duecentocinquant'anni, la grandezza relativa dell'economia europea rispetto a quella mondiale sta
tornando ai livelli del 1750.
Questo processo non è dovuto affatto a manchevolezze dell'economia europea, che sembra vivere, al contrario, una seconda giovinezza, ma a un genuino processo di mondializzazione del mercato
che ha favorito un rapido sviluppo dei paesi emergenti. Questo fenomeno è stato interrotto solo temporaneamente dalla recente "crisi
asiatica" e possiamo ragionevolmente prevedere per i prossimi decenni
una decisa convergenza nei livelli di sviluppo.
o Presidente del Consiglio dei Ministri, Roma .
• Il saggio qui pubblicato riproduce il testo della "Jean Monnet Lecture" tenuta
dall'Autore presso l'Istituto Universitario Europeo il 20 marzo 1998.
Moneta e Credito, n. 202, giugno 1998.
138
Moneta e Credito
L'UEM pone il sigillo su questa trasformazione. Essa prende infatti atto che le singole economie europee non sono più un punto di
riferimento come lo erano un tempo.
È dunque necessario oggi costruire una zona economica dotata
di una "massa critica" adatta al nuovo ambiente internazionale.
Un tempo i termini di paragone per la maggior parte delle
aziende europee erano i loro concorrenti negli altri paesi europei. Oggi sempre più i confronti hanno una dimensione globale e le imprese
europee trovano controparti molto agguerrite, soprattutto nelle imprese americane e giapponesi. La competizione all'interno dell'Europa
non costituisce più quindi quell'esclusivo motore di sviluppo che è
stato in passato. Oggi bisogna muoversi in un orizzonte più ampio:
quello nel quale la competizione assume un'ottica davvero mondiale.
Questo è quindi un grande sforzo di razionalizzazione e di semplificazione dell'economia mondiale che apre la strada a una più piena
espansione del capitalismo concorrenziale. La creazione di una grande
area monetaria in Europa fornisce, infatti, alle economie europee quei
benefici di scala che permettono loro di competere apertamente e a
testa alta nel mercato internazionale.
Non penso però che questo processo condurrà l'Europa a uno
scontro protezionistico con le altre grandi zone economiche in Nord
America e in Asia Orientale. Al contrario, ritengo che esso porrà le
imprese europee nella condizione di trarre pienamente beheficio
dall'abbassamento delle barriere doganali sancito dalla conclusione
dell'Uruguay Round e proseguito dall'Organizzazione Mondiale per
il Commercio. I trading bloes saranno quindi building bio es piuttosto
che stumbling bloes sulla via della liberalizzazione globale.
Del resto, il processo di unificazione monetaria - ancor prima di
3.
venire completato - ha già dato frutti consistenti nella lotta contro
l'inflazione e nell'azione per rafforzare il sistema monetario internazionale, dopo che l'instabilità degli anni '70 e dei primi anni '80 aveva
indebolito l'economia occidentale.
Come dimostra l'esperienza storica del Gold Standard e del periodo di Bretton Woods, la stabilità monetaria è un prerequisito necessario a una duratura crescita dell'economia e dei commerci. Quando questa stabilità è venuta a mancare, come nel periodo delle due
guerre o nel periodo degli shock petroliferi, la fragilità dell'economia internazionale è venuta tragicamente a galla.
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139
Questo non significa però che il progetto di integrazione europea si debba limitare alle questioni monetarie. Il patrimonio culturale
ed economico del "capitalismo europeo" - o, per essere più accurati,
della varietà dei capitalismi che in Europa convivono - dev'essere infatti rivisto e aggiornato.
La grande spinta della liberalizzazione progressiva dell'Europa,
che ha portato ai grandi benefici derivanti da una crescita sostanziale
delle esportazioni, si sta infatti compiendo con la realizzazione del
progetto di Unione Monetaria. Per aumentare le loro esportazioni, le
imprese europee dovranno e potranno dunque sempre più guardare a
.,
un mercato plU vasto.
4.
L'unificazione monetaria esalterà inoltre l'importanza delle riforme sociali e strutturali del nostro capitalismo.
In un momento in cui la politica monetaria non sarà più sotto il
controllo degli stati, e anche la politica fiscale sarà limitata dalla necessità di adattare le economie nazionali a un'unica moneta, i mercati europei potranno crescere e acquistare competitività solo attraverso una
profonda riforma dell'ambiente nel quale operano.
Il ruolo dello stato sarà dunque più "leggero". Ma non per questo sarà meno importante. A esso spetterà assicurare grandi investimenti sul capitale umano ~ intellettuale, garanzie per la concorrenza e
per i consumatori e una struttura normativa semplice e innovativa per
incentivare gli investimenti e favorire quei servizi essenziali per lo sviluppo ,imprenditoriale.
E ora il momento di riprendere, uno a uno, i temi sollevati in
questa introduzione, cominciando dall'avvio dell'UEM.
5.
L'UEM è un atto di fiducia nell'Europa, ed è il coronamento del
cammino iniziato tanti anni fa con la costruzione, prima, del Mercato
Comune Europeo e, poi, del Mercato Unico ove vi è completa libertà
di circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Ma l'UEM rappresenta anche una sfida nel più ampio contesto dell'economia mondiale.
Muovendo dai risultati conseguiti sul terreno della "convergenza", si tende a considerare l'ipotesi di un'UEM composta da 11
paesi come la più probabile. Ebbene, una zona euro così composta offre un'adeguata base di partenza per un confronto con gli Stati Uniti,
il paese verso cui la sfida sui mercati internazionali sarà più intensa
con la nascita dell'euro.
140
Moneta e Credito
Nella proiezione al 1999 il prodotto interno lordo della zona euro sarà pari a circa 1'80% del Pil statunitense, che a sua volta sarà di
circa 9.000 miliardi di dollari. Peraltro il PiI dell'intera Europa dei
Quindici paesi diventerebbe dimensionalmente superiore anche a
quello degli stessi Stati Uniti.
Se dall'analisi aggregata passiamo a un confronto più approfondito, quali sono le differenze che emergono fra la zona euro e gii Stati
Uniti?
1) La prima differenza consiste nella diversa dimensione della
domanda interna per consumi, investimenti e scorte, rispetto al Pil,
ovvero nel diverso peso per le due aree dell'interscambio estero; il che
si traduce in un saldo della bilancia dei pagamenti in conto corrente
attivo per circa il 2% del PiI per la zona euro, passivo per più dell'l %
per gli Stati Uniti.
L'interscambio delle merci tra le due aree, ritornato in attivo dal
1996 per la zona euro e in progressivo aumento negli anni successivi,
dovrebbe essere sostenuto soprattutto dai surplus di Germania e Italia.
2) L'andamento dei disavanzi pubblici è un altro elemento di
diversità tra le due aree.
Gli Stati Uniti già a partire dal 1998 dovrebbero segnare un pareggio dei conti pubblici, mentre la zona euro avrà un disavanzo pubblico in percentuale del PiI inferiore al 3%, destinato a diminuire ulteriormente nei prossimi anni, come risultato del processo di convergenza imposto, dopo il Trattato di Maastricht, dal Patto di stabilità e
di crescita. Anche il peso del debito pubblico in rapporto al Pil sarà
maggiore per l'area europea: circa il 74,5% del PiI, rispetto al 60% circa di quello americano. Questo fenomeno ha però una doppia valenza: se da una parte costituisce un vincolo per le politiche di bilancio
nell'area europea, dall'altra la dimensione dei titoli pubblici europei in
circolazione tenderà a eguagliare quella dei titoli pubblici americani,
contribuendo a formare un mercato estremamente ampio, liquido e
attraente per gli investitori internazionali.
3) La maggiore differenza sarà però ancora al 1999 il dato relativo al tasso di disoccupazione, che per la zona euro difficilmeIlte potrà scendere sotto 1'11%, mentre quello americano permarrà altorno
al 5%.
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141
6.
Il ritorno dell'economia europea su un sentiero di forte e prolungata crescita economica diviene così l'obiettivo fondamentale.
Al riguardo, l'eredità di questi anni - la stabilizzazione macroeconomica - è preziosa. Il Trattato di Maastricht è stato un grande atto di giustizia verso le giovani generazioni e verso il futuro.
Ponendo un argine all'indebitamento pubblico si è evitato che i
governi nazionali continuassero a scaricare i debiti sulle generazioni
successive. La lotta all'inflazione e la fortissima diminuzione dei tassi
d'interesse che ne è seguita hanno ricreato le condizioni per un nuovo
ciclo di investimenti. La stabilità dei tassi di cambio ha dato certezze
agli operatori economici e ha esaltato i valori e gli effetti di una vera
competizione fra imprese.
L'esperienza di questi anni dimostra che non vi è distinzione
temporale fra una "fase uno" e una "fase due" della politica economIca.
Con l'azione di risanamento del bilancio si sono poste in tutta
l'Europa le condizioni necessarie per una ripresa non solamente congiunturale. Contemporaneamente, già da un anno, sono partite all'interno dei singoli paesi le azioni rivolte allo sviluppo.
Nel caso dell'Italia, penso alla riforma della pubblica amministrazione, alla riforma fiscale, alla riforma del mercato del lavoro e al
riordino dei cicli scolastici, alla riforma delle regole per il governo societario (corpora te governance), e così via.
Dopo il Trattato di Maastricht, anche il Patto di stabilità e di
crescita - firmato a Dublino nel dicembre 1996 - si muove nella stessa
direzione. Esso pone infatti i limiti assai stringenti alla possibilità che i
singoli stati membri hanno di ricorrere all'indebitamento, e dunque
obbliga tutti gli stati ad adottare politiche strutturali virtuose.
Vi è, credo, un principio generale che informa di sé la Nuova
Europa, ed è un principio che possiamo riassumere così: rimettiamo
l'Europa al lavoro.
Nell'Europa della moneta unica, come è noto, la politica monetaria sarà unica e sarà trasferita al livello sovranazionale. Sarà altresì
limitata la possibilità di ricorrere a politiche fiscali espansive, dati i
vincoli sulla finanza pubblica.
Ne esce così fortemente rafforzato il ruolo delle politiche microeconomiche di stimolo all'iniziativa economica privata, in un quadro di crescente liberalizzazione dell'economia europea e, in termini
più generali, dell'economia mondiale.
1
Moneta e Credito
142
7.
Quest'ultima - come si accennava all'inizio - sta vivendo una
fase di straordinari mutamenti.
In realtà, l'Occidente non è più l'unico protagonista di primaria
grandezza sullo scacchiere mondiale. Sebbene il confronto fra
l'Unione Europea e gli Stati Uniti d'America conservi intatta la sua
validità, è necessario allargare lo sguardo, anzitutto, in direzione
dell'Asia e dell'America Latina.
Un recente studio dell'OCSE 1 disegna due possibili scenari di
crescita dell'economia mondiale da oggi al 2020, chiamati rispettivamente high performance (il migliore) e business-as-usual (il peggiore).
Ebbene, al di là di tutte le ipotesi quantitative sulle quali sono
stati costruiti i due scenari, la loro differenza principale riguarda le
previsioni di maggiore o minore progresso nelle riforme di struttura
che i singoli paesi saranno in grado di compiere. Si pensi, per esempio,
alla maggiore o minore liberalizzazione del commercio e degli investimenti; si pensi all'aggiustamento fiscale e alle riforme dei mercati
del lavoro_
In tale luce, fra le tante indicazioni di prospettiva, soffermiamoci
sulle seguenti:
1) È in atto una convergenza, a livello mondiale, dei livelli di
2
reddito.
Ancora nel 1995, gli USA davano origine al 20% del Pii mondiale (pari a 32 trilioni di dollari), l'Europa al 22%, il Giappone all'8%.
Nel 2020, con una "torta" della ricchezza mondiale che, nello scenario
più favorevole, sarà pari a 106 trilioni di dollari, la quota degli USA
scenderà all'l1%, quella dell'Europa al 12%, quella del Giappone al
5%, mentre ammonterà al 35% quella dei Big Five (Russia, Cina,
compresa Hong Kong, Indonesia, India, Brasile) non aderenti alI'OCSE. Si pensi che nel 1995 la quota di questi ultimi paesi era pari al
21 % del PiI mondiale_
2) Gettando uno sguardo più da vicino ai paesi dell'OCSE, è la
crescita della produttività - rispetto all'accumulazione del capitale e
all'incremento delle forze lavoro - a essere vista come la principale determ inante della crescita del Pil nel lungo andare.
Cfr. OECD, The World in 2020. Toward a New Global Age, Paris, 1997
, Per ragioni di omogeneità, i calcoli sono eseguiti facendo riferimento ai valori
del Pii in dollari 1992 e usando tassi di cambio a parità di potere d'acquisto.
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L'industria e la fin anza europea nella competizione internazionale
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Il risultato non è sorprendente data la diversa dinamica demografica fra l'Europa e le altre aree mondiali, e dato il ruolo sempre più
centrale che il progresso tecnologico riveste nella determinazione della
ricchezza delle nazioni. Sempre a giudizio dell'OCSE, quattro sono i
principali fattori capaci di rafforzare la crescita della produttività: le
riforme nella regolamentazione e nelle altre leggi di stimolo alla concorrenza, una più veloce liberalizzazione degli scambi, un più veloce
ritmo nell'introduzione del progresso tecnologico, un crescente investimento in capitale umano.
3) È in atto un profondo mutamento nella composizione
dell'output mondiale, conseguenza della crescente specializzazione internazionale.
La grande distinzione tracciata dall'OCSE è quella fra Agriculture/Food processing e Consumer goods da un lato, e Skill intensive capitaI
goods dall'altro.
La quota della produzione agricola mondiale dei paesi nonOCSE supererà la metà nel 2020, mantenendosi così in linea con la
crescita della domanda interna. Nel caso poi dei beni di consumo, la
quota della produzione mondiale dei paesi non-OCSE sarà associata
con le loro crescenti esportazioni, rendendo così possibile il finanziamento delle loro crescenti importazioni di beni di investimento.
Di conseguenza, nei paesi OCSE sarà proprio la produzione di
beni di investimento skill-intensive ad acquisire centrale importanza,
con il relativo declino dei settori labour-intensive: nel 2020 i paesi
OCSE saranno responsabili della produzione dei due terzi dell'output
mondiale dei beni di investimento.
Questi dati vanno poi completati tenendo conto della sempre
crescente importanza assunta dai servizi nella produzione della ricchezza: nel 2020 la loro quota sarà superiore al 70% nei paesi OCSE e
raggiungerà circa il 60% negli altri paesi.
8.
Naturalmente, la competizione fra i paesi più industrializzati del
mondo e quelli in via di sviluppo è un primo livello a cui guardare_
Un secondo livello è dato dalla competizione che si va svolgendo all'interno dei paesi OCSE, principalmente fra Unione Europea,
Stati Uniti e Giappone: la cosiddetta Triade. È su questo che, ora, ci
. soffermeremo_
144
Moneta e Credito
Una vasta letteratura di taglio economico-sociale ha esaminato,
soprattutto nei primi anni Novanta, la competizione fra queste tre diverse aree dello sviluppo economico mondiale, ponendone in evidenza le differenti performances in termini di crescita economica e di coesione sociale.
Da parte mia, in una recente prolusione alla London School of
Economics (26 gennaio 1998), ho dato ampio spazio al modello di wel·
fare che i paesi dell'Europa occidentale hanno edificato lungo questi
decenni. Da un lato, ho sottolineato il ruolo che essi hanno giocato e continueranno a giocare - nel favorire una sempre maggiore coesione sociale che, in ultima analisi, significa anche una maggiore crescita
dell'economia. Dall'altro, ho posto in rilievo le riforme di cui necessita questo nostro modello di welfare.
Vi è infatti una duplice compatibilità da ricercare. La prima è
quella eminentemente macroeconomica (i vincoli posti al deficit e
all'indebitamento dello stato rendono necessario ricondurre ta dinamica della spesa sociale entro un sentiero di crescita sostenibile). La
seconda compatibilità ha invece a che fare con le nuove dinamiche sociali e del mercato del lavoro in particolare: la crescente necessità di
una forza lavoro ben addestrata e la crescente mobilità richiesta ai
giovani rendono necessario rafforzare le istituzioni collettive dedicate
alla formazione.
Quando Albert, Dahrendorf, Dore, Thurow - solo per citare alcuni fra i più autorevoli autori - hanno portato in primo piano il dibattito sulla "dinamica dei modelli di capitalismo", hanno inteso riferirsi a questa più ampia visione delle nostre società industrializzate:
una visione in cui ogni peculiare modello di capitalismo non solo dà
conto degli aspetti "produttivi", ma si spinge anche ad abbracciare
quelli di carattere più squisitamente sociale e più legati alla convivenza
civile.
9.
L'enfasi su questa ampia accezione di modello di capitalismo
non deve però far dimenticare che la forza di un modello rispetto a un
altrQ poggia primariamente sul suo sistema industriale e sul suo sistema finanziario.
Quello che più colpisce del modello americano è la sua straordinaria capacità nella creazione di nuove imprese e di nuovi posti di lavoro. Quello che più preoccupa della nostra Europa è, al contrario, la
sua elevata disoccupazione, in specie fra i giovani.
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Questo non riassume tutte le differenti perfonnances di Stati
Uniti e Unione Europea, che sono naturalmente dense di sfaccettature. L'esempio vale però a dare il senso di marcia, l'obiettivo a cui
guardare. Continuo a credere che la valorizzazione dei "talenti" dei
nostri giovani sia il più grande di tutti.
10. Nella seconda metà degli anni Ottanta, un gruppo di autorevoli
economisti del MIT coordinati da Solow condusse un progetto di ricerca pubblicato con l'evocativo titolo Made in America - Regaining
the Productive Edge (MIT, Cambridge, Mass., 1989).
Alla metà degli anni Ottanta, l'America si trovava in un periodo
nel quale "l'economia di carta" trionfava, L'industria - la manifattura,
se vogliamo - perdeva la sua tradizionale centralità e la sua superiorità
tecnologica. Negli stessi anni il Giappone si affermava quale potenza
economico-industriale di rilievo mondiale, e la Comunità Europea
avviava il programma "Mercato Unico" che tanti buoni risultati doveva portare.
Dieci anni dopo, il quadro dell'economia mondiale - anche riferendosi solamente alla "Triade" - appare molto diverso: vi è la riconquistata leadership tecnologica degli Stati Uniti; vi è la crisi del Giappone (e, più in generale, del Sud Est Asiatico); vi sono le luci e le ombre dell'economia europea. Non per caso, oggi è un rapporto pubblicato sotto gli auspici della Commissione Europea a intitolarsi Made in
Europe. J
Lo stesso Robert Solow scrive però nella sua introduzione al
rapporto che «l'Europa nel 1998 non è l'America nel 1989», perché
molti sono gli sviluppi che hanno avuto luogo nei sistemi produttivi
lungo questi dieci anni, su tutti la crescente interconnessione fra manifattura e servizi alla produzione, e il sempre maggior ricorso da parte
delle imprese a strategie di outsourcing al di là dei confini nazionali per
cogliere i vantaggi di siti produttivi a basso costo del lavoro.
Se è vero che questo parallelo storico-economico va valutato con
una qualche cautela, è altrettanto innegabile l'opinione di Solow
quando scrive che <<le imprese nei paesi avanzati non possono competere con i paesi più poveri in aspetti della produzione dominati da unJ
Cfr. The Institute for Prospective Technological Studies (IPTS) Rl?fJort, Special Is-
sue: Made in Europe, June 1997, Seville.
146
Moneta e Credito
skilled labour». Ed è questo il motivo per cui è così difficile sfuggire
alla necessità di una specializzazione dell'industria europea - una delle
tre aree più avanzate del mondo, appunto - in produzioni a elevato
contenuto tecnologico, a elevato valore aggiunto, ove elevate sono le
abilità richieste a tutta la forza lavoro.
Sotto questo profilo, qual è il punto in cui oggi si colloca
l'industria europea? in quali produzioni mostra un'eccellenza tecnologica e in quali, al contrario, soffre la supremazia americana e giapponese?
Nell'analisi che segue traccerò un sintetico quadro della struttura dell'industria europea, per poi passare ad alcune conseguenti indicazioni di politica economica, nel più ampio contesto di un'Europa
con la moneta unica (un potente fattore per l'attrazione di investimenti finanziari internazionali) e con un quadro macroeconomico
stabile (il "dividendo di Maastricht").
Gli aspetti di maggior rilievo sulla struttura dell'industria europea emergono dall'analisi dei settori di specializzazione delle esportazioni - ove è riflessa la fortissima rete di PMI che caratterizza tutti i paesi
europei - così come dall'analisi delle maggiori imprese.
Cominciamo col dire che le PMI formano l'ossatura dei 16 milioni di imprese esistenti nell'UE: 4 più del 90% impiegano meno di 10
persone, e moltissime sono le imprese individuali. Caratteristica davvero distintiva è il loro essere organizzate, molto spesso, nei celebri
"distretti industriali", nei quali le economie di scala vengono conseguite a livello di sistema, anziché di singola impresa.
Le PMI operano in pressoché tutti i settori di attività, sebbene le
industrie appartenenti al cosiddetto "sistema moda" (abbigliamento,
calzature, ecc.), da un lato, e le industrie facenti capo alla meccanica
strumentale, dall'altro, siano i campi di attività per eccellenza. È in
queste industrie, infatti, che il ciclo produttivo può essere scomposto
fra più imprese: quelle appunto che danno vita al distretto.
L'attenzione che a questo modello delle PMI e dei distretti industriali - una vera e propria innovazione sociale - è stata dedicata nel
corso degli ultimi vertici internazionali, sia in ambito G7/G8 che europeo, non ha precedenti. L'Italia dei distretti industriali - possiamo
11.
• Cfr: Eurostat, Les entreprises en Europe. Quatrième Rapport, Bruxelles, 1996.
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L'industria e la finanza europea nella competizione internazionale
147
dirlo con orgoglio - è un'Italia dove non solo l'industria è efficiente e
il mercato del lavoro è di fatto alla piena occupazione: è un'Italia dove
forte è la coesione sociale.
Ritornando alla descrizione della struttura dell'industria europea, un secondo aspetto importante emerge dall'analisi delle più grandi imprese: l'enfasi sulle PMI non deve infatti mettere in ombra la loro numerosità e la loro importanza, soprattutto in determinati settori
industriali.
Se prendiamo la graduatoria dei 200 maggiori gruppi industriali
del mondo così come si presentava alla metà degli anni Novanta,5 69
di questi erano europei, 64 statunitensi, 53 giapponesi e 14 di altri paesi. I gruppi europei realizzavano ottime performances in settori quali la
chimica, la farmaceutica, l'alimentare e la raffinazione del petrolio.
Dominavano i gruppi americani e giapponesi nell'elettronica e
nell'informatica. Infine, una situazione di co·leadership esisteva nell"'industria delle industrie", quella automobilistica: GeneraI Motors,
Ford, Toyota, Daimler-Benz occupavano le prime posizioni della graduatoria.
Se dalle specializzazioni e dai punti di forza passiamo ad analizzare le debolezze del nostro sistema industriale europeo, la considerazione fondamentale attiene alla sua insufficiente capacità innovativa,
soprattutto se raffrontata a quella dell'industria americana. Delle attuali 25 più grandi aziende americane, 19 non esistevano o erano piccolissime prima del 1960 (all'epoca non esistevano - per fare due celebri esempi - né la Microsoft né la Intel). Al contrario, dall'esame delle
25 più grandi imprese europee, emerge che nessuna è nuova, in quanto tutte esistono da oltre 30 anni.
Siamo così giunti al "paradosso europeo", e con questa annotazione concludiamo l'esame della specializzazione industriale.
Perché esiste un paradosso europeo? forse solo perché l'Europa
non vanta alcuna posizione di leadership nelle fondamentali industrie
della microelettronica e delle tecnologie dell'informazione, e continua
a dominare il panorama mondiale nei vecchi settori industriali, quali
la chimica?
Certo, questa è una debolezza nei confronti degli Stati Uniti e
dell'altra grande potenza economica mondiale, il Giappone; ma il pa5 Cfr. European Commission, Panorama oJ EU Industry '97, Bruxelles, 1997 (si
veda in particolare "The world's largest industriaI groups").
148
Moneta e Credito
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radosso nasce da una considerazione più generale. La gran parte degli
indicatori della "produzione" scientifica e tecnologica (pensiamo al
numero dei brevetti, alle pubblicazioni scientifiche di rilievo internazionale, e cosÌ via) mostrano una performance europea sostanzialmente
in linea con quella di Stati Uniti e Giappone (sebbene sia più basso
l'altro fondamentale indicatore, dato dal rapporto fra investimenti in
R&S e Pil). La vera debolezza europea risiede nell'insufficiente capacità di trasformare la conoscenza tecnologica e scientifica europea - che
è di buon livello - in effettive opportunità imprenditoriali.
Molti fattori sono dunque chiamati in causa per migliorare la
collaborazione fra mondo della ricerca e mondo dell'industria al fine
di stimolare la nascita di nuove imprese e il consolidamento di quelle
esistenti in settori innovativi, ad alto contenuto tecnologico (penso sÌ
all'elettronica e all'informatica, ma anche alle biotecnologie), quei settori - come si è già detto - in cui i paesi avanzati possono mantenere,
in prospettiva, un vantaggio competitivo sui paesi in via di sviluppo.
12. Le piccole e medie imprese europee devono crescere, di numero
e di dimensione. Fino a oggi, è stato il primo di questi due assi di sviluppo ad aver ricevuto in Europa la maggiore attenzione.
Favorire la creazione di nuove imprese è certamente molto importante, poiché esse sono il vivaio delle càpacità imprenditoriali, portano un fondamentale contributo allo sviluppo dell'occupai ione e soprattutto nei settori a più alto tasso di innovazione - sono il canale
naturale perché il progresso tecnologico dispieghi con tutta la sua potenza i propri effetti.
La creazione di nuove imprese è però solo parte della risposta al
problema dello sviluppo produttivo: alle molte nascite corrispondono
molte morti, e il beneficio netto occupazionale è spesso risultato inferiore alle attese. Deve esistere in realtà un processo continuo di nascita
e di crescita. Le piccole imprese - o quantomeno una parte di esse devono diventare medie e poi grandi: questa è la miglior garanzia che,
nel lungo periodo, su mercati globali di dimensioni enormi l'econo.
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mIa europea nmanga competItIva.
Per le politiche di crescita dimensionale non è stato fatto probabilmente abbastanza, anche se la situazione è molto differenziata da
paese a paese: secondo uno studio recente citato da Business Week sulle
piccole società europee che hanno avuto i più alti tassi di crescita nel
periodo 1991-96, 15 delle prime 50 sono localizzate in Gran Bretagna,
9 in Germania, 6 in Francia, 5 in Spagna e solo 4 in Italia.
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Queste differenze tra paesi riflettono vari fattori, ma due di questi devono essere sottolineati con forza: 1) il quadro normativa, con
particolare riferimento ai suoi aspetti fiscali e del lavoro; 2) l'efficienza
dei mercati finanziari.
Sotto il primo profilo, molte cose stanno cambiando nei nostri
paesi. Le idee che in Italia stiamo portando avanti sono quelle di un
sistema fiscale più semplice ed equo che faciliti il finanziamento delle
imprese con capitale proprio. E sono quelle di un mercato del lavoro
in cui le diverse tipologie di impiego (dipendente e indipendente) abbiano uguale dignità. Occorre infatti assicurare una tutela adeguata a
qualsiasi forma di lavoro, ma nel contempo garantire alle imprese i
necessari margini di flessibilità nella gestione delle risorse umane.
Per rendere più facile la crescita, occorrerà anche gradualmente
introdurre strumenti di politica industriale più orientati a promuovere processi di nascita e di crescita attraverso una diversa tassazione dei
capitaI gains.
Al di là di questi aspetti, l'efficienza dei mercati finanziari è però
la condizione fondamentale per la promozione dei processi di crescita
dimensionale.
Dobbiamo chiederci, in Europa, se i processi di crescita accelerata, che negli USA hanno creato in pochi anni società di dimensione e
rilevanza planetaria, si sarebbero potuti verificare nel nostro continente. La risposta è negativa, e credo che la scarsa concorrenza nei
mercati finanziari, la presenza insufficiente di intermediari di dimensioni adeguate, lo scarso orientamento alla crescita del sistema fiscale,
la frammentazione valutaria e normativa dei mercati siano da additare, in Europa, come le cause fondamentali.
Per assicurare il futuro dell'industria europea occorre dunque
cambiare la finanza europea. Alcuni passi avanti sono stati fatti, con
processi non trascurabili di acquisizioni e fusioni internazionali, ma le
grandi operazioni cross·border che potrebbero innalzare significativamente il livello di competitività dell'Europa sono ancora poche: a esse, ancora, si frappongono le resistenze e le asimmetrie derivanti dai
residui nazionalismi.
Nel consolidamento dell'oligopolio europeo un ruolo importante è naturalmente quello giocato dalle grandi imprese. Se guardiamo
alla distribuzione delle più grandi imprese del mondo per macro aree
geografiche, il peso dell'Europa - come in precedenza annotato - è
ragguardevole. Ma quest'analisi, se collocata in prospettiva, nasconde
Monela e CredilO
150
in verità due problemi delle grandi imprese europee: la loro capacità
di crescita (che è inferiore a quella delle grandi imprese americane) e la
loro specializzazione settoriale (che è maggiormente orientafa ai settori tradizionali rispetto a quelli high tech).
:
Come sappiamo, la crescente competizione internazionale implica molti fenomeni nei sistemi economici dei paesi industrializzati,
ma essa è fondamentalmente un enorme aumento nella dimensione del
mercato.
In secondo luogo, le tecnologie dell 'informazione alimentano la
ricerca e l'innovazione su una scala che non ha precedenti. In molti
casi, anche se certamente non in tutti, ciò si traduce in un aumento
nella dimensione minima che le imprese devono avere per sopportarne i costi relativi.
Mercati più grandi e costi fissi più elevati portano a una maggiore concentrazione, e come ho detto le imprese europee sono troppo
piccole. In molti settori esse stanno diventando anzi più piccole in
termini relativi, perché in altre aree la creazione di players di dimensioni globali è più rapida.
Muoversi in questa direzione è tuttavia indispensabile se vogliamo che l'Europa abbia aziende in grado di competere sui mercati globali in settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo, e ad alta intensità
di economie di scala.
A questo fine è in primo luogo necessario rendere più facile la
crescita delle aziende europee attraverso processi di fusione e acquisizione. Anche se questi processi si sono rafforzati, essi sono in Europa
ancora in notevole ritardo, se confrontati con gli Stati Uniti, sia sotto
il profilo della frequenza che sotto quello delle dimensioni delle ope-
. .
raZIOnI .
Per tutto il progresso che l'Europa ha fatto sotto il profilo dei
mercati finanziari, essi sono ancora eccessivamente nazionalistici nei
loro orientamenti e, insieme alle barriere normative cui ci siamo già
riferiti, rendono difficile che si verifichino processi di acquisizione e
fusione importanti attraverso le frontiere dei paesi dell'Unione Europea.
Nondimeno, alcuni recenti sviluppi europei rappresentano
un'importante novità. Penso, soprattutto, all'industria aerospaziale e a
quella dell'elettronica per la difosa, ove è in atto un'azione volta a promuoverne la ristrutturazione e l'integrazione su scala europea. Credo
che questa sia la direzione giusta, essendo tramontato il tempo dei
L'industria e la finanza europea nella competizione internazionale
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"campioni nazionali". Oggi è il tempo dei "progetti integrati", con
tutto il loro seguito di fusioni e acquisizioni, ai quali i singoli paesi
devono destinare le risorse necessarie. Che poi questo stia avvenendo
nell'industria militare è particolarmente significativo, trattandosi di
un campo finora rimasto legato alla tradizione nazionale.
Da questi fenomeni che attengono alla sfera che si è soliti chiamare dell'economia reale possiamo trarre, una volta di più, una lezione: l'UEM è di per sé un forte fattore di omogeneizzazione delle strutture collettive di un paese; l'euro è capace di esercitare una forza trainante che dagli aspetti squisitamente monetari e finanziari finisce col
coinvolgere quelli produttivi.
Abbiamo più sopra soffermato la nostra attenzione sulla dimensione d'impresa - piccola, media, o grande che sia; ma oltre a ciò, una
riflessione conclusiva va fatta anche sulle grandi reti europee.
È necessario riprendere l'iniziativa, abbandonata dopo la fase
successiva al Rapporto Bangemann, per la creazione di grandi infrastrutture a rete. Sotto questo profilo l'Europa sta infatti accumulando
un ritardo significativo e preoccupante rispetto alle altre principali
aree del globo. Quelle che in passato erano meno sviluppate godono
in pieno del "vantaggio di arrivare per ultime", e stanno ponendo in
essere infrastrutture energetiche e di telecomunicazione basate sulle
ultime generazioni della tecnologia.
Anche gli Stati Uniti stanno sviluppando possenti infrastrutture,
soprattutto nel campo delle comunicazioni, grazie ai processi competitivi che sono stati posti in essere dai processi di liberalizzazione.
L'Europa invece si è arrestata: certamente in questo ritardo hanno giocato i forti vincoli di bilancio che gli stati nazionali e le stesse
strutture comunitarie hanno dovuto rispettare per convergere verso la
moneta umca.
D'altro lato, realizzata l'unione monetaria, i processi di aggiustamento reale non potranno che essere più rapidi e più efficaci, sotto
il profilo della produzione e dell'occupazione, se potranno godere di
reti adeguate. Comunicazioni, trasporti, energia sono sistemi fondamentali per procedere all'integrazione produttiva dell'Unione Europea e in questa direzione occorre andare avanti, superando anche sotto
questo profilo i nazionalismi - spesso particolarmente rafforzati da un
passato e da un presente di proprietà pubblica - e procedendo verso
una rapida integrazione dei mercati dei servizi pubblici a livello europeo.
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Moneta e Credilo
La creazione di grandi infrastrutture a rete va collocata nel più
ampio contesto dell'aLLargamento verso Est dell'Unione Europea, l'altro fondamentale obiettivo che, assieme alla moneta unica, ci siamo
dati. Non è un mistero: gli assi di comunicazione prevalenti sono
sempre stati quelli Nord-Sud; oggi sono quelli Est-Ovest che vanno
sviluppati. Dobbiamo infatti riedificare, anche fisicamente, questi legami europei che tanta parte hanno avuto nella storia.
L'allargamento dell'Europa è, in particolare per noi italiani, un
obiettivo primario. L'Italia è, al pari della Germania, proiettata per la
sua natura e I?er la sua storia verso l'Est e non può tirarsi indietro da
questa sfida. E una sfida che porterà cambiamenti, e anche problemi:
si pensi che gli 11 paesi che hanno presentato la domanda di ammissione all'UE aggiungeranno circa il 30% al territorio, il 29% al numero degli abitanti, ma meno del 10% al reddito. Deriveranno da ciò
adattamenti alla politica agricola, alle politiche regionali di coesione, e
cosÌ via; ma è una sfida che, assieme agli altri europei, dobbiamo affrontare, con la consapevolezza che questa è la nuova Europa.
13. L'eredità preziosa della stabilizzazione macroeconomica che
l'UE ha conseguito è il punto da cui qualsiasi indicazione di politica
economica deve partire.
Le decisioni di investimento potranno essere adeguatamente sostenute grazie a: 1) la forte riduzione dei tassi d'interesse, resa possibile dall'azione di risanamento dei conti pubblici che gli stati membri
hanno in questi anni perseguito; 2) le ulteriori riduzioni che in molti
paesi ancora ci attendiamo; 3) il massiccio afflusso di fondi verso il
"capitale di rischio" che si determinerà in seguito all'adozione di queste politiche virtuose.
Il processo di crescita riprenderà e sarà sostenuto anche dalla fine dell'incertezza macroeconomica. Ma vi è di più: un'economia europea forte costituirà anche un fattore di attrazione per i capitali
mondiali e una sollecitazione implicita per le economie in transizione
dell'Est europeo a farne uno strumento di riserva internazionale.
Forte di questo contesto macroeconomico, l'Europa ha davanti
a sé la possibilità di portare avanti quell'insieme di riforme microeconomiche, capaci di liberalizzare l'economia (in particolare, i settori
ancora oggi protetti) e di stimolare pienamente la concorrenza.
La strada tracciata, alcuni anni or sono, dal programma per il
Mercato Unico (quello che tutti ricordiamo come programma "1992")
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L'industria e la finanza europea nella competizione internazionale
153
si è rivelata una strada utile. A ben vedere, si è trattato di un organico
e ambizioso progetto di supply-side economics, volto a rimuovere le rigidità nei vari mercati, nonché le barriere alla mobilità.
Da esso ebbe origine una fase di crescita dell'economia europea e
di miglioramento delle aspettative degli operatori economici, che la
Commissione così riassumeva: una crescente concorrenza fra imprese
sia nella manifattura che nei servizi; l'accelerazione del processo di ristrutturazione industriale, caratterizzato dall'esplosione di un'ondata
di fusioni e acquisizioni; la diminuzione dei prezzi, soprattutto nei
servizi di pubblica utilità in via di liberalizzazione (pensiamo ai trasporti, ai servizi finanziari, alle telecomunicazioni); un aumento del
reddito dell'UE compreso fra 1'1,1% e 1'1,5% nel periodo 1987-93; una
sempre maggiore coesione fra le differenti regioni europee.
Su questa strada è ora necessario proseguire, spingendo ulteriormente in avanti il processo riformatore nelle direzioni, già accennate, della costruzione di uno stato leggero, di un welfare state compatibile, di un mercato del lavoro in cui vi sia eguaglianza di opportunità
per tutti i cittadini. E di un mercato in cui la concorrenza dispieghi
pienamente i suoi effetti, col completamento dei processI di privatizzazione (così importanti per creare nuovi protagonisti economici), e
con la caduta di ogni residua posizione di monopolio.
Mentre stiamo per lanciare l'avventura della moneta unica non
dimentichiamo la lezione impartita dai padri fondatori. L'Europa, che
ha saputo diventare protagonista dell'economia mondiale, nasce da un
progetto politico. I successi economici, di cui possiamo giustamente
dirci fieri e dei quali abbiamo passato in rassegna le tappe più significative, vanno inscritti all 'interno di un disegno che ha sempre avuto
come obiettivo ultimo l'integrazione politica. Quell 'intuizione straordinaria conserva ancora oggi la propria vitalità e a essa intendiamo
ispirarci nell'azione politica quotidiana.
Che senso avrebbe, del resto, mettere insieme le nostre monete
se non come parte di un progetto finalizzato al rafforzamento delle
politiche comuni in tutti i settori? Tale impegno è reso ancora più attuale dalla doppia sfida dell'ampliamento e della "richiesta" di Europa
che ci viene da più parti: dal Mediterraneo ai Balcani, dall'Asia all'America Latina, per non parlare dell'Africa.
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Moneta e Credito
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A tutti questi partner dobbiamo risposte in termini di capacità
di azione e di visibilità. Non è più comprensibile all'esterno come
un'Unione Europea in grado di esprimere una moneta che si accinge
ad assumere la funzione di valuta di riserva per stati sovrani e di mezzo di pagamento internazionale non sia al contempo capace di presentare una politica estera comune.
Troppe volte, ancora nel recente passato, tensioni internazionali
e crisi regionali, alcune delle quali prodottesi alle nostre porte, hanno
evidenziato la nostra difficoltà di presentare il volto politico di
un'Europa la cui bandiera è vista come portatrice di democrazia e benessere. L'impegno umanitario, del quale andiamo giustamente fieri,
non si è accompagnato molto spesso alla capacità di giocare quel ruolo
politico attivo che ci viene richiesto.
L'Europa nasce del resto come progetto aperto sul mondo al
quale sono estranei concetti di steccati o grandi muraglie che ci dividono dall'esterno o che alimentano quei "conflitti di civiltà" di cui
parla Samuel Huntington. 6 La nostra stessa storia si è forgiata attraverso l'incontro di culture e civiltà capaci di assimilare gli apporti più
diversi e di dialogare con le aree a noi limitrofe. La nostra visione della competizione internazionale, a cui questa lezione è dedicata, è ispirata alla collaborazione e alla composizione di interessi, non certo a
una visione di conflitto.
Per tali ragioni la domanda d'Europa non può più rimanere inevasa. Lo dobbiamo ai nostri cittadini, che non comprenderebbero il
valore di un'Europa ridotta a semplice effigie di una moneta; e a tutti
coloro che, alle nostre porte, guardano al nostro progetto coh speranza e fiducia.
6 s. Huntington, Tbe Clasb of Civilizations and tbe Remaking of World Order,
Simon & Schuster, New York, 1996.
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