PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 04/2012 L’altra faccia della moneta Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria L'altra faccia della moneta Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 04/2012 Antarès, Prospettive Antimoderne RIVISTA TRIMESTRALE GRATUITA Direttore editoriale: Andrea Scarabelli Direttore responsabile: Gianfranco de Turris Redazione: Rita Catania Marrone, Emanuele Guarnieri Hanno scritto: Davide Balzano, Andrea Baranes, Claudio Bartolini, Mattia Carbone, Rita Catania Marrone, Giulio Maria Chiodi, Domenico de Simone, Stefano di Ludovico, Luca Gallesi, Nino Galloni, Mitsuharu Hirose, Luigi Iannone, Gianpiero Mattanza, Simone Paliaga, Maurizio Pallante, Costanzo Preve, Andrea Scarabelli, Luca Siniscalco, Antonio Venier Illustrazioni di: Alessandro Colombo, Irene Pessino Progetto grafico e AD: panaro design Impaginazione: Studio Caio Robi Silvestro Edizioni Bietti - Società della Critica srl, Sede legale: C.so Venezia 50, Milano www.edizionibietti.it In attesa di registrazione presso il Tribunale di Milano Stampa: ProntoStampa srl, Via Redipuglia 150, Fara Gera d’Adda (BG) [email protected] www.antaresrivista.it Antarès è anche su Facebook, alla pagina “Antarès Rivista”. pag. 2 Economia oltre l’economia di Giulio M. Chiodi pag. 4 Editoriale: cronache di inizio millennio a cura della Redazione pag. 6 pag. 9 pag. 12 pag. 17 pag. 20 pag. 23 pag. 27 Saggi: Lo stato delle crisi di Claudio Bartolini L’enigma della moneta di Mattia Carbone Il MAUSS e l’economia del dono di Stefano di Ludovico Ezra Pound: poeta economista? di Luca Gallesi La sovranità sul debito di Luigi Iannone Demondializziamoci! di Simone Paliaga Effetto “boomerang” del libero scambio di Antonio Venier pag. 30 pag. 34 pag. 36 pag. 38 pag. 42 Interviste: Nino Galloni: “Il naufragio del libero mercato” Costanzo Preve: “Filosofia della crisi” Maurizio Pallante: “Crescita infelice, decrescita felice” Domenico de Simone: “La moneta-debito e le crisi economiche” Andrea Baranes: “Per un’etica della pratica bancaria” pag. 45 pag. 47 Recensioni: Ernst Jünger: Maxima minima di Andrea Scarabelli Alain de Benoist: Sull’orlo del baratro di Luca Siniscalco pag. 50 Segnalazioni n. 04/2012 Economia oltre l’economia di Giulio M. Chiodi L attraversando una crisi epocale che la condurrà alle sue fasi conclusive. Quel pessimismo varia solo di intensità. Qualcuno cerca rimedi, grazie ad interventi mirati a contenere gli aspetti più negativi, proponendo, per esempio, di orientare le disponibilità finanziarie verso investimenti atti a tutelare tanto l’ambiente naturale quanto un certo grado di equità distributiva della ricchezza circolante. Ma incontriamo anche valutazioni molto meno incoraggianti che dubitano delle possibilità, o comunque non ne intravedono affatto, di trovare una via d’uscita da un collasso dell’intero sistema socioeconomico, scorgendo una vera e propria autodistruzione del sistema liberoscambista e del neoliberalismo che lo sostiene. Non mancano poi le contrastanti vedute di chi suggerisce l’opportunità di contrarre l’espansione economica e ridurre gradualmente i consumi inutili e di chi, al contrario, sostiene l’importanza di un’intensificazione della produttività, in quanto capace di garantire nuove prospettive di crescita; nell’uno e nell’altro caso, però, si indicano vie opposte, quelle che invocano un più consistente intervento dei governi nelle dinamiche dell’economia e quelle che preferiscono un maggiore contenimento di qualsiasi intervento pubblico. Le proposte di superamento delle difficoltà strutturali o congiunturali o, almeno, di rettificazione di percorso, lette in queste chiavi, richiedono probabilmente risoluzioni non omogenee, ma confacenti alle differenze di risorse e di esigenze delle singole aree, purché si abbia l’accortezza di non ignorare che viviamo in una geo-economia dei flussi e dell’interscambio e non circoscritta in circuiti autosufficienti. Con riferimento, a grandi linee, alle condizioni europee, e con tutte le differenze socio-territoriali che vi incontriamo, le soluzioni di tipo economico non possono essere cercate che nell’ambito di un’intesa abbastanza ampia tra diverse aree autogestibili, che parta soprattutto da quelle più limitrofe. Per sottrarsi alla spirale delle logiche attrattive esercitate dagli accentramenti economico-finanziari, è altresì ovvio che, se vi a autoregolazione del mercato si fonda su valori solo economici e monetizzabili. Altri, che potrebbero incidere in generale sull’ofelimità, il noto termine preferito da Vilfredo Pareto, vengono assorbiti dal valore economico potenzialmente calcolabile. Ma se questo è determinato dal mercato e il mercato a sua volta dall’economia, si entra nel risaputo circolo vizioso, per il quale il valore di scambio monetario soffoca completamente il valore d’uso. Non occorre scomodare vecchie tesi marxiane, che su questo punto non avevano tutti i torti, per concludere che il valore delle cose, appena entra nel suddetto circolo, finisce per dipendere soltanto dal loro prezzo. Il denaro diventa in tal modo il valore collettivo ed universale per eccellenza, col risultato che l’economia viene sostituita dalla finanza e la banca subentra alla fabbrica, all’azienda, al lavoro, alle cose stesse e alle persone, quali che esse siano. È per questo motivo che i luoghi prestigiosi delle nostre città, occupati un tempo dalle cattedrali e dalle chiese, o da palazzi storici e da edifici celebrativi e pubblicamente significativi, oggi lo sono da banche e da istituti di credito o da centri commerciali. Schematicamente, diciamo che la finanza tende a crescere con ritmi superiori a quelli sostenuti dalla crescita delle effettive risorse economiche, immettendo nel mercato plusvalenze e capitali vuoti o fittizi, che in realtà non fanno altro che incrementare i costi. I problemi sociali, politici e culturali che ne derivano sono attualmente all’ordine del giorno. Credo perfino che non si vada molto lontano dalla realtà quando si sostiene che è una specie di mito della finanza quello che ha voluto costruire un’Europa unita proprio a partire dalla moneta unica, l’euro, prima ancora che da altri fattori culturali aggreganti. Gli effetti distruttivi di questa realtà si incominciano oggi a pagare pesantemente. Analisti di varie tendenze, infatti, condividono una visione alquanto pessimistica delle condizioni prodotte dall’andamento economico generale del pianeta. È sempre più diffusa l’opinione, per molti decisa convinzione, che la civiltà occidentale stia 2 n. 04/2012 natura non è monetizzabile. Sono risorse naturali, ambientali, culturali, tradizionali, artistiche, creative, religiose, che convergono a formare un patrimonio sociale e civile, tuttora ancora disponibile alla intelligenza e al sentimento comune ed idoneo ad essere vissuto indipendentemente dal suo mero sfruttamento economico (semmai, nelle debite misure, congiuntamente a quest’ultimo). La scelta dipende solo dalla mentalità, dal costume, dalla formazione, dal senso di sé e del mondo, nonché dalla vitalità interiore che sanno animare la coscienza e la volontà dei singoli individui, a che siano poi trasmessi nei contesti di relazione e di comune socialità. È questa una sfida certamente titanica per la psiche di chi è assuefatto alle passive ricettività del puro consumatore; richiede sacrificio e convinzione, fede in ideali e solidi sentimenti di appartenenza, vissuti come energie irrinunciabili della propria indole. C’è in gioco la dignità di chi non vuole finire ridotto ad una qualunque merce. Occorre vincere l’indolenza dello spirito, esausto e conformista, bandire quelle ingenue e illuministiche idee che naufragano nel mito del progresso materiale in quanto tale, dove il bene morale è sinonimo di beni più materiali. È un mito che sa riconoscere che ogni conquista ha i suoi costi, e che quindi comporta una perdita da altra parte, ma poi se ne ricorda solo quando riguarda la fatica dei singoli che producono, e curiosamente se ne dimentica di nuovo quando pensa alla crescita globale, che presa nel suo complesso sarebbe esente da negatività. L’uomo dei soli consumi materiali è in realtà homo vorans che alla fine si scopre homo voratus, l’uomo dei diritti e non dei doveri. “Le dottrine puramente economiche devono necessariamente condurre al cannibalismo”, scriveva Ernst Jünger (Irradiazioni, Parma 1993, p. 230) negli anni Quaranta. Conosciamo diverse concezioni della temporalità storica. La dominante è certamente quella lineare e cumulativa, per la quale non si dà retroattività. Ma la storia nel suo divenire non è vincolata dalla necessità naturale. Questo significa che il futuro non deve essere immaginato secondo un percorso unilaterale, come ha voluto la scolastica marxista (e su questo punto ha molti torti); sono possibili più direzioni, perché esse dipendono anche dalla libertà delle nostre scelte. Se ci ritenessimo tutti predeterminati da una storia guidata fatalisticamente solo da forze materiali e socialmente organizzate a noi estranee, senza possibilità decisionale alcuna, allora cancelleremmo dal nostro lessico operativo le parole libertà, fantasia, ideale, volontà. Se abbiamo alle nostre spalle un solo passato, davanti a noi ci sono più possibili futuri. In quale di questi finiremo per vivere dipende, anche se non in toto, in grandissima parte dalle nostre decisioni e dai comportamenti che vorremo assumere. L’economia non può renderci fatalisti, nel significato deterministico della parola. La rassegnazione, che appartiene alle anime stracche, non è mai d’aiuto quando occorre reagire e il futuro, lo si deve sempre ricordare, è molto più dentro di noi che davanti a noi. sono soluzioni ai mali più gravi, queste vanno ricercate in direzioni che non si facciano catturare dai meccanismi autoriproduttivi delle condizioni in atto. Condivido pienamente le preoccupazioni del momento, imputabili sì alle difficoltà economiche, ma a mio avviso bisogna pensare a cause ancora più radicali di costume e di incuria civile: occorre trarre le conseguenze dalla convinzione che i problemi economici non nascono solo dall’economia e nemmeno si risolvono soltanto con essa; e ciò vale, naturalmente, anche per la finanza. Senza sottovalutare l’importanza dell’una e dell’altra, nella vita sociale è altrove che dobbiamo guardare, se vogliamo disporre di criteri fondati per affrontare anche i problemi che esse sollevano. Il quadro che osserviamo, quanto più impostato a risolvere l’economia con l’economia, ci mostra un mondo che vive contemporaneamente sulla miseria più assoluta e sull’opulenza più sfacciata. Nella storia non si è mai assistito in ugual misura a tanto divario tra chi muore letteralmente di fame e chi dispone di una ricchezza che non sa nemmeno come utilizzare; forse mai si è visto convivere nelle attuali proporzioni, l’uno accanto all’altra, lo spreco più frivolo e la miseria più desolante. Si distruggono tonnellate di risorse alimentari, mentre a poca distanza le stesse si vendono a prezzi assolutamente insostenibili per molte famiglie disagiate. Si producono oggetti ed attrezzature, di uso tanto industriale quanto comune, di durata sempre più limitata, secondo la logica dell’“usa e butta”, che non fa che incrementare rifiuti, sempre più difficili da smaltire, sì che gli ambienti naturali si convertono in discariche permanenti, anche altamente nocive. Impera, a favore del bene quantificabile, la quasi totale disattenzione alla qualità intrinseca delle cose, e con questo anche alla loro cura; anzi, il senso delle cose e delle persone, che ne esprime valenze e significati e che valorizza le proprietà dei nostri rapporti, viene completamente cancellato, facendo posto solo ad entità indifferenti ed inerti. È la perdita della realtà nei suoi sensi affettivi, estetici, morali, ideali, accomunanti, identitari, in una parola “simbolici”. Se si riflette sulla enorme disponibilità di mezzi tecnologici altamente sofisticati (il mondo digitale è solo un esempio alla portata di tutti), di fronte alla più deprimente carenza di risorse spirituali, di cui soffrono i suoi fruitori, ci si rende conto degli effetti devastanti su esseri umani ridotti a semplici utenti, passivi, psicodipendenti e seriali, da una téchne sempre più priva di qualsiasi epistéme. Il nostro compito, in primo luogo, è di rivolgere l’attenzione alla conservazione, o al perseguimento, di obbiettivi culturali e sociali e di prestare cura a taluni valori individuali e collettivi, che per loro stessa natura non sono né costituiti, né acquisibili, né fruibili per via economica (o, tutt’al più, per coltivare i quali l’economia rivestirebbe un ruolo soltanto strumentale e non già autoriproduttivo). Si tratta di saper guardare a quanto per sua “ Vincere l'indolenza di uno spirito esausto e conformista ” 3 n. 04/2012 Editoriale: cronache di inizio millennio a cura della Redazione C nomista come John Kenneth Galbraith, recentemente ricordato da Luca Gallesi: “Noi economisti ci proteggiamo dal mondo esterno adottando un nostro linguaggio specifico e amiamo vederci come una classe sacerdotale con un sapere o una mistica inaccessibili all’uomo comune. E se un economista ti chiede di accettare le sue opinioni come Vangelo perché poggiano sulla sua sapienza, non credere a una parola di quello che dice” (C’era una volta... l’economia, Bietti, Milano 2012, p. 35). Che dire? Più chiaro di così... In passato, gli alchimisti, per comunicare tra loro, utilizzavano un linguaggio cifrato, esoterico, le cui espressioni solo loro conoscevano. Un “profano” guardava i loro trattati e non ci capiva un’acca. Lo scritto arrivava poi in mano ad un altro alchimista, che, in possesso delle chiavi di lettura giuste, lo decifrava. Lo stesso accade oggi, con i moderni alchimisti del denaro. Ma se l’oro degli antichi corrispondeva ad una realizzazione interiore, era un oro solare, quello di oggi, volgare, nero (petrolifero) o virtuale (finanziario), annuncia lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – altro che realizzazione! Questo numero si muove in direzione contraria. La persuasione che lo anima è fornire elementi per comprendere l’economia che siano semplici e chiari. Non è diretto agli specialisti, ma a tutti coloro – come chi scrive, d’altra parte – che non sono “iniziati” ai moderni misteri dell’economia. Di un’economia, per la precisione, la nostra. Poiché è anche di questo che si tratta. Non è crollata l’Economia né la Politica ma una economia e una politica fra tante. Per ogni civiltà ce n’è una, come c’è una matematica, una filosofia, una numismatica, e via dicendo. Sono tante quante sono le civiltà. Usare le maiuscole è fare pessime astrazioni: l’economia non è separata dal resto della realtà ma obbedisce alle leggi della civiltà che – volente o (come spesso accade) nolente – l’ha adottata. L’essenza dell’economia non è crematistica (monetaria, finanziaria o virtuale che sia) ma culturale, antropologica. È crollata l’economia della modernità, e solo essa. Quale il suo nome, che i tecnocrati hanno paura di menzionare? Il Capitale. Esso ha dichiarato bancarotta. La presente crisi, come tutte le altre, non rappresenta alcunché di imprevedibile ma è implicita nelle premesse del capitalismo, come lo stesso Karl Marx aveva già denunciato. La globalizzazione del mercato, la riduzione di qualsiasi attività, relazione ed essere umano alla natura di merce, operatasi sotto il segno del denaro livellatore: questo già venne indicato dal filosofo di Treviri quale rischio congenito del capitalismo. Eppure, nonostante il nome di Marx venga spesso e volentieri citato – sovente a sproposito, anche da taluni che volentieri strizzano l'occhio al capitalismo – continuiamo a ripeterci che non eravamo preparati a tanto. Il volto della modernità, a seguito del suo ingresso in questo circuito suicida, è intanto profondamente mutato. Una mondializzazione realizzata sui presupposti del liberismo più sfrenato – oggi risi. Tutti ne parlano, ovunque sentiamo questa parola: dai telegiornali alle pagine dei quotidiani, dai talk-show alle conversazioni al bar. La crisi. Chi l’avrebbe mai detto? Pare il suo avvento sia stato imprevedibile. Non c’è dubbio: ci ha colti di sorpresa. Ed ognuno pensa a come sopravvivere ad essa, a come potersi permettere il lusso di una fine settimana al mare, l’ultimo modello di televisore, cellulare o automobile: come a poter fingere che in fondo, sì, la vita continua. Quando va bene; altrimenti, la realtà è di chi, a causa del comportamento iniquo di una finanza irresponsabile e di una politica accondiscendente, arranca fino alla fine del mese per ripetere l’esperienza in quello successivo. Certo è che la priorità assoluta, questo è poco ma sicuro, è ora come ora uscirne. Così ci dicono. Stringere i denti e resistere, di modo che, una volta superata, noi si possa (o forse solo chi ci ha condotto in questo baratro?) continuare come prima. Ma probabilmente non è sufficiente. Per presentare il conto a chi ci ha fatto arrivare sin qui bisogna prima comprendere la crisi sino in fondo, capire da dove e da cosa è stata generata. Imparare a dialogare con essa, insomma. Ogni crisi ci insegna qualcosa di più su noi stessi, rivela la presenza di un volto notturno del presente, che i periodi di “salute” spesso nascondono. Dispone di una sua sapienza, ha da impartirci una lezione sua e solo sua che occorre imparare, sia per attraversarla, sia per non compiere in futuro i medesimi errori che l’hanno generata. Si tratta di un’occasione, insomma, per capire qualcosa di più su chi tiene le redini del nostro presente – basta riconoscerla come tale e il gioco è fatto. Prima di cercare di attraversarla, occorre pertanto domandarsi: cosa è entrato in crisi? Di che modello si tratta? Non è forse un tipo di sistema che richiede periodici momenti di criticità come sua possibilità di evoluzione? In altre parole: la crisi che stiamo attraversando è episodica – dipende cioè da circostanze esterne e imprevedibili – oppure strutturale, implicita nelle premesse? Abbiamo posto queste domande ad una serie di economisti e filosofi dell’economia, cercando di donare attraverso le loro risposte – assai diversificate, data l’eterogeneità – un affresco del nostro tempo, che ne restituisca la complessità e le intime contraddizioni. A queste conversazioni sono affiancati brevi saggi, atti ad illustrare differenti paradigmi economici, modi alternativi di interpretare il rapporto tra l’uomo e il denaro rispetto a quello che si è imposto ai nostri giorni. Quando Ezra Pound si trovò a dirigere il Supplemento letterario del Mare di Rapallo, come esergo ai fascicoli pose una frase di Carducci: “Chi dice in dieci parole quello che può dire in due è capace di uccidere suo padre”. Una citazione assai emblematica, scelta da un poeta che sempre denunciò chi mischia volutamente le carte in tavola per rendere complicato agli occhi dei popoli ciò che in realtà non lo è. Anche questa è una strategia del potere. Mai fidarsi di chi ci dice che la situazione è complicata o di chi si esprime consapevolmente con terminologie oscure. È quanto sostiene un grande eco- 4 n. 04/2012 pubblico, tutti al comando dell’usurocrazia”. Secondo toni analoghi, in un altro suo scritto (Jefferson e/o Mussolini, Il Falco, Milano 1981, p. 134), il poeta americano – che già aveva processato gli istituti di credito per la creazione del denaro dal nulla, ex nihilo – notava: “«Nessuno possiede un diritto innato alla funzione di prestatore di moneta, tranne chi ha denaro da prestare». Così ovvio, così semplice, così prevedibile anche dal lettore profano, da rappresentare anche oggi un reale stato di fatto, e nello stesso tempo un impedimento così rovinoso per le illecite pratiche bancarie come è abituale in tutto l’arco della nostra vita presente”. E il romanziere Robert Heinlein? In uno dei suoi due romanzi ispirati al Credito Sociale (A noi vivi, Urania, n. 1505, p. 193), scriveva, in merito al rapporto tra potere pubblico e privato: “Alle banche non doveva essere affatto permesso di creare denaro, poiché esse, di necessità, sono interessate soltanto ai profitti. Inflazioneranno o deflazioneranno la valuta per fare profitti, senza riguardi per i bisogni monetari della nazione”. Subordinare la gestione della cosa pubblica a privati comporta numerosi rischi. Può capitare, infatti, che questi ultimi decidano di non agire per conto di tutti ma solo per se stessi. Così elementare... E sul valore del denaro e il suo rapporto con le merci, ennesimo tema – molto antico – riproposto da questa crisi? Tra gli eretici del pensiero economico ricordiamo anche che il Maggiore Douglas (I principi del credito sociale, in A. R. Orage, Il lavoro debilita l’uomo, Greco&Greco, Milano 2008, pp. 82-83) sottolineò, con notevole anticipo, che “il denaro non ha alcuna realtà intrinseca (…). La cosa che lo rende denaro, di qualsiasi cosa sia fatto, è puramente psicologica, e di conseguenza non c’è limite alla quantità totale di denaro, tranne che un limite psicologico”. Il denaro è una risorsa simbolica: rimanda sempre ad altro. Sottomettere i popoli alla sua autorità è tanto insensato come, parafrasando un detto famoso, affermare che non si possono costruire strade perché mancano i chilometri. Non eravamo forse stati avvisati? Chi, alla luce di queste testimonianze, alle quali potremmo aggiungere quelle di Jünger, Carlyle, Simmel, Sombart, Ruskin, Schmitt, Morris, Anders e tanti altri, può ancora fingersi sorpreso? Esse convergono verso un nocciolo centrale, sul quale bisogna soffermarsi e meditare, non solo perché questa crisi sia superata, ma anche affinché non sia seguita da altre, ancora più terribili, come è prassi comune in quelle regioni sottomesse ai Diktat del Capitale. La si può oltrepassare solo discutendo le basi stesse del capitalismo, moderno Caronte che ci ha traghettati verso la nostra fine. Non scendere a patti con esso, come vorrebbero molti dei cosiddetti “contestatori” o “indignati”, ma ridiscuterne interamente le basi, sterrare le sue radici per coglierne i presupposti, e salvare così quella terra che la sua dittatura ha fatto avvizzire. Affinché questa operazione vada a buon fine, non inganniamoci ulteriormente: non è di revisione che occorre parlare, ma di rivoluzione, nel senso etimologico del termine, ossia distruzione dell’errore e reintegrazione. Ma, si badi!, senza per questo cadere in assurdi primitivismi, che propongono il ritorno ad una realtà preindustriale, basandosi sull’assurdità della “bontà naturale dell’uomo” al di fuori della società. Si tratta di rifondare un modus vivendi alieno da una modernità usurocratica e sanguinaria, luogotenente di un progresso sempre meno sostenibile e di una globalizzazione intesa come imposizione totalitaria di un solo paradigma, quello occidentale, che sta ora dichiarando pubblicamente, in prima serata, il suo fallimento. Questo l’insegnamento della fase storica che stiamo vivendo; questo il vantaggio più grande che possiamo trarre da quella crisi di cui, più o meno seriamente, andiamo blaterando da anni. dogma non passibile di discussione alcuna, come sottolineato da Antonio Venier nel suo contributo – le delocalizzazioni che prosciugano le risorse lavorative dei popoli, un capitalismo selvaggio che, come intuì profeticamente sempre Marx, considera ogni limite come ostacolo alla sua realizzazione totalitaria, una dittatura finanziaria avversa a qualsiasi controllo da parte dei poteri politici, i piani intrapresi per salvare quelle stesse banche che ci hanno fatto precipitare nel baratro. Questi i fenomeni del nostro tempo, che non possono che rivelarne il carattere parossistico. Da qui occorre prendere le mosse a che questa impasse sia superata. A ciò va aggiungendosi una gestione biopolitica – per dirla con Foucault – a carattere planetario delle risorse umane. Lo smistamento e smembramento delle comunità segue le maree dei flussi di denaro che, in ogni istante, si spostano fulmineamente da una parte all’altra del globo. Da qui un’immigrazione selvaggia il cui fine, come ha scritto recentemente Alain de Benoist, ben lungi dall’essere la solidarietà e l’umanitarismo, si risolve nel controllo dei salari, affinché rimangano i più bassi possibile. Un terrorismo umanitario realizzato su scala globale. Le “truppe di rincalzo del capitale” vengono accolte da una parte da una xenofobia retrograda e dall’altra da un ipocrita umanitarismo da sradicati. Pochi si sono resi conto che i flussi migratori sono consustanziali al capitale, alla sua vecchia idea di sopprimere le frontiere nazionali per una “libera” circolazione della merci. E la merce umana viene sottoposta alla medesima formula. Questa crisi ha riportato alla ribalta anche la vecchia questione dei rapporti tra politica ed economia. Ci ha rivelato l’essenza apolide del denaro, naturale nemico del limite, anche politico. Il suo potere svuota le democrazie, le relega ad essere braccio secolare della finanza, come intuì Giano Accame negli anni Novanta. Ma non fu certo l’unico. Inutile ricordare le voci di tutti coloro che rivendicarono il primato della politica sull’economia, facendosi profeti della catastrofe delle tecnocrazie al potere e dei vangeli delle austerity. Il ricordo di taluni di questi critici può forse dimostrare che, anche in tempi non sospetti, qualcuno – regolarmente inascoltato – ci ha messo all’erta innanzi ai pericoli di una economia scatenata. Così, ad esempio, Oswald Spengler (Forme della politica mondiale, Ar, Padova 1994, pp. 79-80) ebbe a scrivere: “Qualsiasi vita economica priva di una giusta guida politica del Paese è destinata alla rovina. Questo è ciò che l’orgoglio del dirigente economico non vuole accettare. Egli nutre l’accentuata tendenza a rifiutare l’operato e il modo di agire del politico come dettati da eccessiva arroganza e nocività, per poi chiamare immediatamente in soccorso la politica quando e fintanto che crede di poterla usare per i propri interessi (…). Anche se oggi questa è la regola in tutto il mondo, si tratta ugualmente di un atteggiamento meschino, superficiale e sbagliato, che diventa una sciagura quando la politica stessa è debole e malata, priva di fini propri e senza orgoglio, esposta così agli interventi dell’economia, concepiti in modo disordinato, estemporaneo, e privo di lungimiranza. La vita economica di una nazione necessita di una guida politica sempre sovraordinata, non di una politica subordinata e accondiscendente”. Un’autentica profezia di quanto sta succedendo, che il filosofo colse nella sua forma aurorale negli anni Trenta. Sarebbe sufficiente leggere certi libri, invece che metterli all’indice, come spesso accade. Potremmo così evitare di fare spallucce e dichiararci “impreparati”. Per poi non parlare del già citato Ezra Pound (Lavoro e usura, Scheiwiller, Milano 1996, p. 82), che vide nell’asservimento del potere politico alle banche una modernissima schiavitù: “Il sistema democratico è di questa natura: due o più partiti si presentano al 5 n. 04/2012 Lo stato delle crisi di Claudio Bartolini S rispondendo alle crisi che ha dovuto affrontare con altrettanti rilanci, tesi a evitare l’arresto di un ingranaggio facile da mantenere in moto, più difficile da rimettere in funzione dopo un collasso. E proprio da un collasso ha origine il viaggio verso i cambiamenti di stato dell’economia statunitense, che nel Novecento ha conosciuto il secolo evolutivamente più significativo della sua storia. 1929, Grande Depressione: la nazione è devastata da un terremoto economico senza precedenti, che mette in ginocchio l’industria e i redditi di milioni di cittadini. 1933, New Deal: Franklin Delano Roosevelt vara un piano di riforme economiche destinato a durare fino al 1937 e a risollevare le sorti degli States, consegnandoli in piena efficienza alla Seconda Guerra Mondiale. Sono anni di rinascita, di entusiasmi e interrogativi che trovano ovvio riscontro nelle coeve espressioni creative. Il cinema, giovane arte in grado di riflettere sulla realtà in movimento, elegge Charlie Chaplin a illustratore della contem- olido, liquido, gassoso. Questione di stati della materia, del tempo, delle cose. Questione di stati di un progresso che, scaldando le sue molecole, le induce a evaporare e assumere connotati nuovi, indefiniti e sfuggenti. A ogni stato corrisponde una crisi, un punto di rottura degli equilibri che porta inevitabilmente al cambiamento di oggetti, procedimenti e logiche di comprensione. Che ottengono infine un nuovo equilibrio, prima di un ulteriore scarto. This is economy: un rito di incessante evoluzione che mutua le proprie forme da quelle della contemporaneità in cui è immerso e, nel corso della storia, ha esibito dinamiche tanto lontane nelle modalità espressive, quanto vicine in quelle contenutistiche. Dal baratto al lavoro subordinato, dalla borsa al cybercapitale, l’economia gira intorno agli assi delle logiche di scambio, del potere d’acquisto e della sottomissione del più debole. Il sistema capitalista americano si è (da) sempre posto come modello socio/economico privilegiato per le realtà occidentali, 6 n. 04/2012 poraneità Usa e l’autore risponde mettendo in scena Modern Times (Tempi moderni, 1936), spaccato di vita individuale e industriale capace di rispecchiare e problematicizzare la situazione generale. A story of industry, of individual enterprise recita il cartello che apre la pellicola, felice mescolanza di muto e sonoro che, a partire dalla dichiarazione di intenti, non nasconde le proprie ambizioni sovracinematografiche. Chaplin è un cineasta e un comico e, inevitabilmente, utilizza il codice della risata (tragica) come chiave di accesso a un testo da interpretare scavando oltre la superficie, alla ricerca del reale oggetto narrativo: la mappatura, sull’asse sociale delle ordinate (alto/basso), di un sistema capitalista alla ricerca di stabilità. Il film si apre con un montaggio delle attrazioni che pone in parallelo una mandria di maiali e un gruppo di operai che si reca in fabbrica, tanto per mettere a nudo in partenza una tra le disfunzionalità dell’imperante filosofia del lavoro. L’autore inquadra l’universo di riferimento nelle prime sequenze, passando in pochi secondi da un totale in esterni della fabbrica a un campo lungo in interni della stessa, fino a riprese in dettaglio dei macchinari sui quali gli operai sono intenti a lavorare. Dal presidente nullafacente ai subordinati vessati dai capireparto, dal cartellino da timbrare anche per andare al bagno a un viaggio tra gli ingranaggi delle macchine, Tempi moderni è un testo profondamente contemporaneo, tra i pochi ad affrontare lo stato delle cose negli anni, appunto, della modernità. Stato solido, dunque, espresso dalla pesantezza degli oggetti, dal sudore fisico che olia i meccanismi di un Moloch legato indissolubilmente ai propri referenti materiali. L’opulenza del New Deal va a braccetto con la spinta tecnologica, messa a tema da Chaplin nelle sequenze della catena di montaggio e del “pranzo automatico”, in cui l’operaio protagonista viene costretto a testare la validità di una nuova creazione meccanica. Sotto il registro grottesco – materializzato nel volto dello stesso Chaplin inondato di cibo – alberga l’incertezza circa la liceità e l’effettiva bontà del progresso. Il “cameriere sintetico” si inceppa, il suo motore va a fuoco: è davvero tempo di resurrezioni? Il cineasta inglese risponde nella seconda parte della pellicola, affrescando la vita al di fuori della fabbrica in seguito al licenziamento del personaggio principale. Al di là dell’intreccio sentimentale e dei reiterati momenti comici, il film procede sulla linea retta dei propri obiettivi, allargando lo sguardo dalla sola industria (A story of industry) al viaggio dell’individuo moderno nell’universo capitalista (of individual enterprise). La disoccupazione e la povertà dei ceti meno abbienti da una parte; i centri commerciali, lo stupore della rinascita, le continue opportunità di ascesa dall’altra. L’America di Chaplin vive un’esistenza bipolare, in bilico tra spinta evoluzionistica e malfunzionamenti strutturali. Crisi e risalite si alternano tanto nell’economia del singolo (continue assunzioni e altrettanto continui licenziamenti) quanto in quella generale (chiusura e riapertura delle fabbriche), trovando nella messa in scena innumerevoli espedienti di rappresentazione. Nell’America della rinascita e, successivamente, in quella del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, il cinema configura la riflessione contestuale in immagini dotate di referenti chiari, materiali e profondamente contemporanei. Il concetto di denaro si incarna nell’inquadratura di una banconota e quello di lavoro nel dettaglio di un macchinario, secondo le regole dell’immediatezza di un mondo solido. Interi generi della Hollywood classica (su tutti il gangster, il noir e il melodramma) faranno dei soldi – intesi nel loro simulacro cartaceo – il motore drammaturgico primario, messo in scena senza sconti come protagonista della vita micro e macro americana. Mentre due milioni di dollari in contanti volano nel vento sul finale di The Killing (Rapina a mano armata, Stanley Kubrick, 1956) i tempi moderni si apprestano a cambiare per sempre. Scaldata dalla fiamma del progresso (del peccato?), la modernità si scioglie e diviene fluida, scorrevole. Diviene postmodernità, nodo teorico ben teorizzato da Zygmunt Bauman e Serge Latouche in saggi di rara potenza intellettuale. Materia liquida in cui nuotano rampanti squali in abiti eleganti, cresciuti nelle business school e pronti a tutto pur di fare soldi. Speculatori azionari svincolati dai supporti oggettivi, le cui relazioni con l’industria si esprimono soltanto attraverso movimenti di denaro ideale. Gli anni Ottanta delle bolle economiche e del benessere effimero trovano in Oliver Stone l’interprete ideale e nel suo Wall Street (1987) il testo chiave per comprenderne il funzionamento. Il mondo della speculazione azionaria (gli uffici di brokeraggio e la Borsa) è limitato e localizzato, ma i suoi referenti (il denaro reale, l’industria produttiva) sono distanti e sfuggenti. In coerenza con il mondo rappresentato, il regista newyorchese attinge a svariati espedienti di regia (steadicam, carrelli, panoramiche, zoom) per configurare il primo, mentre lascia nel fuoricampo i secondi, in quanto componenti non determinanti per il funzionamento del nuovo contesto capitalista. I suoi protagonisti non sono più operai o capicantiere – e nemmeno padroni di aziende – bensì archetipi di un sistema profondamente problematico e ben lontano da quello cui si riferiva Charlie Chaplin. Gordon Gekko e Bud Fox – interpretati rispettivamente da Michael Douglas e Charlie Sheen – sono disfunzioni in carne e ossa, soggetti senza scrupoli destinati a subire le oscillazioni del sistema di cui sono dirette emanazioni. Gekko, in particolare, è il self-made man del libero mercato, l’esponente di punta della contemporaneità che creerà le basi per la futura crisi globale. «L’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America» afferma, educando i giovani yuppies ai nuovi flussi di soldi immateriali. Capitano di un vascello che naviga a vista nel liquido dei suoi tempi, è consapevole dello stato delle cose: «Il denaro c’è ma non si vede: qualcuno vince, qualcuno perde. Il denaro di per sé non si crea né si distrugge. Semplicemente si trasferisce da una intuizione a un’altra, magicamente». Ma il vascello è pieno di falle e non tarderà a imbarcare acqua, affondando. Stone mette in crisi il nuovo capitalismo e ne delinea le potenzialità distruttive, procedendo sui binari paralleli dell’individuo e della finanza. Se l’animo del giovane Bud Fox viene irrimediabilmente corrotto dai precetti deviati del suo mentore («Serve gente povera, furba e affamata. Senza sentimenti»), i meccanismi economici incastreranno Gekko, trascinandolo fino al baratro della galera. Specchio della contemporaneità, Wall Street volge il proprio sguardo alla testa del sistema evitando, come detto, di considerare le ripercussioni dei modelli economici sulla realtà quotidiana dell’uomo medio americano. A questo aspetto pensa invece John Carpenter l’anno successivo, con They Live (Essi vivono, 1988), saggio cine-economico “dal basso” narrato dal punto di vista della gente comune. Carpenter metaforizza l’imperante pratica del consumismo in un contesto sci-fi, nel quale una Los Angeles colonizzata da- 7 n. 04/2012 canadese adotta un linguaggio criptico, verboso, nel quale le parole e i monitor sostituiscono le azioni e gli uffici. Campi e controcampi invece che steadicam e panoramiche; dialoghi (in)interrotti e straniamenti all’interno di un’automobile in perenne isolamento acustico. L’opera più estrema dell’autore porta alle estreme conseguenze simboliche e visive la logica economica attuale, configurando l’affarista 2.0 come una variazione spersonalizzata del suo predecessore. L’atrofia emozionale di Eric Packer, (s)oggetto misterioso e totalmente estraneo alla realtà, è lontana dalle pulsioni cannibali di Gordon Gekko, archetipo di impossibile riattualizzazione, come dimostra l’anacronistico Wall Street: Money Never Sleeps (Wall Street. Il denaro non dorme mai, Oliver Stone, 2010), sequel di Wall Street che mette in scena lo stato liquido (ampiamente superato) delle cose. Il fattore umano, nel cybercapitalismo, è sterilizzato dall’inconsistenza dei dati, che fluttuano su schermi da guardare svogliatamente. La distorta ricchezza della gabbia dorata di Packer, però, viaggia verso l’autodistruzione assieme alla sua limousine, senza che il protagonista possa fare niente per impedirlo. Anzi, è Packer stesso a incoraggiare (inconsapevolmente?) l’annientamento del sistema che presiede, portato alla rovina proprio a causa di una mancata considerazione dell’elemento umano, dell’imprevedibile fattore naturale rappresentato tanto dalle oscillazioni inspiegabili dello Yen quanto da una metaforica asimmetria alla prostata della quale il protagonista non ha mai compreso le ragioni. E se nel capitalismo gassoso del terzo millennio le ragioni della crisi sono incomprensibili persino agli occhi dei loro responsabili, è ben chiaro quanto il comune cittadino americano (mondiale) sia distante da ogni logica finanziaria, tagliato fuori da un mondo che, di fatto, nemmeno esiste. Estrema e complessa, la pellicola di Cronenberg rende conto dell’endemica disfunzione alla radice dei collassi globali e chiude la prospettiva su nuovi, (im)possibili scenari, spalancando le porte del baratro. È il neozelandese Andrew Niccol, autore da sempre in anticipo sui tempi, a prefigurare un ulteriore scarto futuro nel suo In Time (2011), ambientato alla fine del XXI secolo in un mondo in cui la logica economica odierna, ormai completamente naufragata, avrà lasciato il posto al tempo come unità monetaria di scambio. Ma anche questo sistema postapocalittico, ancora una volta a matrice capitalista, sarà destinato all’inevitabile implosione, provocata dai giochi di potere dei nuovi Gordon Gekko temporali. Solido, liquido, gassoso, immateriale: semplice questione di stati della materia, del tempo, delle cose. Questione totalmente ininfluente, nella rotta suicida verso la prossima crisi. gli alieni invia messaggi subliminali, visibili soltanto attraverso particolari occhiali rivelatori, ai suoi cittadini. Le figure aliene ben simboleggiano la distanza – espressa ugualmente, ma in modo diverso, da Stone – che intercorre tra i piani alti e bassi di un sistema economico inintelligibile, i cui ordini sono eseguiti auto(no)ma(tica)mente da individui ignari. «Consuma», «Obbedisci», «Segui i consigli per gli acquisti», «Guarda molta Tv»: questi gli input, celati dai comuni cartelloni pubblicitari con cui l’economia postmoderna condiziona le menti dei suoi sudditi. Essi vivono si pone nei confronti della mente assuefatta al modus pensandi televisivo esattamente come gli occhiali speciali permettono di vedere oltre. Invita lo spettatore contemporaneo a stare molto attento a ciò che lo circonda e in lui si insinua, mascherandosi da cellula sana. Nei testi di Carpenter e Stone, sospesi tra cinema, sociologia dei consumi e della finanza, emergono abissi di profetica attualità che si spalancheranno definitivamente con la crisi del 2008, diretta emanazione dello yuppismo anni Ottanta come ben esplicitato dal documentario su speculazioni immobiliari e bolle economiche Inside Job (Charles Ferguson, 2010). Gli scenari borsistici di fine XX secolo subiscono gli stessi surriscaldamenti che avevano reso liquida la solidità di inizio Novecento. La materia postmoderna varia, di nuovo, evaporando allo stato gassoso. Il XXI secolo diventa il regno dell’intangibile, della virtualità e della rivoluzione dei rapporti spazio/temporali, riconfigurati sulla base delle sdoganate dinamiche di rete. L’economia americana, come sempre, è tra i territori simbolici più flessibili ai mutamenti, sempre pronta a ricollocare l’istanza capitalista nei nuovi scenari disponibili. Il cybercapitale diviene aleatoria e completa astrazione di denaro. Non solo manca il corrispettivo materiale (la banconota, sostituita del tutto, o quasi, dalla carta di credito) ma passano in secondo piano anche i luoghi deputati a operazioni di alta e media finanza (la Borsa, gli uffici di brokeraggio). L’immaginario contemporaneo si svincola dalla geografia reale, a beneficio di un’inedita mappatura immateriale. La crisi del 2008 non impedisce al nuovo stadio evolutivo di affermarsi con decisione, tuttavia ne mina i presupposti aprendo possibili scenari fallimentari. Come sempre, i cineasti più attenti alle dinamiche del loro tempo sono in prima linea nel restituirle, deformandole fino a scoprirne i nervi e i punti deboli. Adattando lo spiazzante romanzo omonimo di Don De Lillo, David Cronenberg realizza Cosmopolis (2012), testo di punta per comprendere – per quanto possibile – le logiche di un sistema votato all’azzeramento del fattore umano. Il regista “ Le ragioni della crisi sono risultate incomprensibili persino agli occhi dei responsabili ” 8 L'enigma della moneta P di Mattia Carbone er introdurre l’uditorio al suo pensiero, Massimo Amato tira fuori una banconota dal suo portafogli e la mostra ai presenti. Poi chiede cos’ha in mano e, senza farsi troppo desiderare, risponde: nulla. Perché la moneta non rappresenta nulla, o meglio: rappresenta il nulla. E il nulla non si mangia. Potrebbe sembrare un gioco di parole, neanche troppo generoso di senso. Ma dietro alla boutade si cela un pensiero che ha fatto propria la missione di un ripensamento radicale della contingenza storica del nostro tempo, un tentativo coraggioso di sondare la situazione economica di oggi alla luce della storia del concetto di moneta. Amato porta avanti il suo insegnamento di storico del pensiero economico nel girone dei bocconiani, tra tanti sapienti di dogmatica capitalista, incarnando con disinvoltura una figura classicamente eretica, che ha saputo portare avanti una critica serrata alle basi (o ai baratri, direbbe lui) su cui si fonda il capitalismo di oggi e di ieri. 9 n. 04/2012 una manifestazione nel campo dell’economico di quella perdita della differenza ontologica che, secondo il filosofo tedesco, è all’origine dell’ingresso della storia occidentale nell’epoca del nichilismo. Con l’oblio della differenza, nella lettura heideggeriana, inaugurato da Platone, l’Occidente ha imboccato la strada del nichilismo perdendo di vista la dimensione dell’essere. La moneta di Amato (più propriamente: il fenomeno originario della moneta) condivide molte affinità con quegli istituti originari e sacri (come il linguaggio o l’arte) che nella lettura di Heidegger sono i luoghi di manifestazione dell’essere: essa infatti si presenta come un ente sottratto per convenzione (nòmoi in Aristotele) alla catena infinita degli enti semplicementepresenti, posto al di sopra di questi (nel momento che Aristotele definisce analoghìa) affinché, grazie ad esso e in esso, possano venire alla luce. In modo analogo, Heidegger intende la dimensione dell’essere come condizione d’esistenza degli enti non in senso causalistico ma in quanto luogo aperto al loro manifestarsi. La perdita della differenza ontologica inaugura un’epoca in cui può accadere che la moneta precipiti dalla sua condizione di ente esemplare al semplice utilizzabile, ridotta a “cosa tra le cose” (e quindi “merce tra le merci”) in vista della sua accumulazione e inevitabile trasformazione in capitale. E non è forse un caso che il momento culminante di questa svolta storica si abbia nello stesso secolo in cui l’oblio della differenza trova la sua più piena realizzazione, con la nascita del pensiero scientifico: è il Seicento di Cartesio, ma anche del capitalismo olandese. Il ragionamento è paradossalmente più semplice da capire che da accettare, per il fatto che siamo condizionati da una visione della moneta standardizzata dalla vulgata economica odierna, che innalza l’esistente a condizione di esistenza, privando la moneta della sua dimensione storica. Anche perché il pensiero di Amato perviene a conclusioni a dir poco destabilizzanti, che andrebbero dunque indagate a fondo. Ad esempio, negando la validità del tratto di riserva di valore, si nega l’attendibilità del prestito a interesse, e quindi l’intero sistema su cui riposano la finanza, gli istituti di credito e i progetti del cittadino qualunque, pecchia industriosa che confida nella magra certezza della rendita annua del proprio conto in banca. Addentrandosi più a fondo nel passo aristotelico sulla moneta, la sua lettura ermeneutica perviene a guadagni concettuali che sembrano indicare una possibile dimensione etica dell’economico. Affrontando di petto un luogo comune, a tal punto radicato nel nostro pensiero da porsi addirittura come vero e proprio fondamento dell’economia odierna, Amato afferma decisamente che il possesso di moneta non rappresenta una ricchezza. Il compito non è dei più semplici, ma certo è necessario ed imminente: le periodiche crisi del capitalismo possono leggersi come un fisiologico calo di tensione del sistema più perfetto al mondo o come i segnali di un malfunzionamento congenito che, forse, testimonia di un errore fondamentale, la cui questione è stata trascurata e quindi obliata. Questo errore sta, secondo Amato, nella concezione odierna e corrente di moneta. Per molti versi la sua si potrebbe definire un’istòria della moneta, in senso greco: una storia, certo, ma soprattutto un’indagine che fa appello agli strumenti del pensiero fenomenologico del secolo scorso (Heidegger), un’interrogazione che vuole accedere al fenomeno originario della moneta, fatto libero dalle successive strutturazioni storiche e teoriche. Il suo libro più interessante in questo senso è L’enigma della moneta, uscito appena due anni fa. Qui l’autore tenta un ripensamento basato sulla meditazione di Keynes circa i tre tratti caratteristici della moneta nei tempi: unità di conto per la misurazione del valore delle merci, mezzo di scambio e riserva di valore. Di queste tre componenti, indaga soprattutto quella di riserva di valore, che è il tratto fondamentale della moneta capitalista: la disponibilità, cioè, ad essere accumulata e scambiata in quanto capitale. Questa possibilità, ben concreta e solidamente realizzata nell’economia di oggi, non sarebbe un tratto naturale ma il risultato di una deviazione originaria, di un sentiero imboccato dall’economico a una certa soglia della storia e da allora mai più abbandonato. L’ingresso in questo “sentiero di mancina” avrebbe permesso al denaro di configurarsi come riserva di valore e quindi prendere posto tra le altre merci come possibile oggetto degli scambi: da qui l’economia finanziaria. La moneta originaria è indagata da Amato con gli strumenti della fenomenologia heideggeriana applicata, tra l’altro, a un fondamentale passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele (1). Il risultato di queste letture è un ripensamento che presenta la moneta come un ente esemplare, irriducibile e incomparabile agli altri proprio per il fatto di essere incaricato della verità degli enti stessi: in senso greco (e heideggeriano), del loro svelamento. “La moneta come istituzione è quell’ente messo in opera affinché, in esso e grazie a esso, una verità sia” (2). In quanto tale è fondamentalmente inappropriabile, “per la ragione assai semplice che ciò che apre la dimensione dello scambio non può a sua volta divenire oggetto di scambio, pena una radicale perdita di rapporto con la misura”. Se questa condizione di inappropriabilità della moneta viene meno, si apre la strada alla sua trasformazione in merce e quindi all’economia finanziaria. Rileggendo quindi Keynes alla luce di Heidegger, Amato traduce il fenomeno della riduzione del denaro a merce come “ Ogni nuova economia dovrà prendere le mosse dal fenomeno originario della moneta ” 10 n. 04/2012 francese di Nantes. Costruito come una rete di aziende e privati che consensualmente accettano di ricevere una parte dei pagamenti in valuta complementare, il progetto affascina perché la valuta di Nantes, il bonùs, è strutturata in modo da non ammettere la funzione di riserva di valore, e quindi la possibilità di accumulo. Come è possibile? Presto detto: la somma depositata in bonùs sul conto corrente, se non è spesa entro un certo lasso di tempo, è diminuita di una percentuale. Il valore di un conto corrente immobile diminuisce progressivamente: un procedimento esattamente antitetico a quello odierno, per cui il denaro depositato guadagna interesse nel tempo. Questo dovrebbe ingenerare, all’interno del circuito locale, un flusso virtuoso di circolazione monetaria inteso a risolvere il problema di quelle periodiche crisi di liquidità che sono all’origine delle condizioni paradossali in cui versano oggi i mercati. Infatti, la circolazione coatta del denaro indotta dalla certezza del suo progressivo discioglimento in un nulla di valore sarà anche garanzia di un ritorno di liquidità per chi si separa malvolentieri dal gruzzolo: se non c’è possibilità di accumulo, banalmente, non ci sarà incetta e il denaro dovrà inevitabilmente girare, abbassando così la pressione dei mercati (7). Il funzionamento del progetto sarebbe un passo importante per le coscienze e per la nostra vita quotidiana d’inizio Millennio. Guadagneremmo a un tempo un concreto progetto di rifondazione del sistema monetario vigente e un ripensamento dell’economia su basi etiche. In Amato possiamo vedere un isolato, grandioso tentativo di mettere in pratica l’invito rivolto da Heidegger ai figli dell’Era della Tecnica a rimettersi all’ascolto dell’essere, per trovare l’anello che non tiene nella catena del nichilismo; oppure il folle intento di un reazionario che vuole riportare il mondo all’età del baratto. La storia ci dirà chi ha vinto. Se ne potrebbe parlare: ne converrebbe anche chi si sforzasse solo di adocchiare più attentamente la situazione di una classe di ricchi i cui capitali immobilizzati dalla paura e dalla religione dell’investimento sembrano sottrarsi alla fruizione privata, per consacrarsi a un più metafisico altare della “crescita” – uno degli ormai tanti miraggi contemporanei che sempre più manifesta la sua natura di non-fine, di vuoto anelito a se stesso. Ma c’è una ragione più profonda e non banale se Amato identifica la moneta non con la ricchezza ma con la più vera povertà. Ce lo spiega ancora una volta Aristotele: “Questa in verità è la mancanza (chrèia) che tiene unite tutte le cose: se infatti non avessero bisogno di nulla, o se non avessero bisogno in modo simile, lo scambio non vi sarebbe, o non sarebbe lo stesso; intendo che un sostituto della mancanza è diventata per noi la moneta, di comune accordo, e questo ha il nome di moneta (nòmisma) perché non è per natura, ma per convenzione (nòmoi), e dipende da noi modificarla o porla fuori corso” (3). La moneta originaria non è quindi un segno della ricchezza di chi la possiede bensì un’attestazione della mancanza costitutiva che ha spinto originariamente gli uomini a unirsi in società e ad aprire la dimensione dello scambio, così da compensare le reciproche mancanze; e con questo è anche recuperata al senso l’etimologia della parola stessa oikonomìa: dal greco oikéo, “abitare” e nòmos, “norma”, l’economia è quindi “norma dell’abitare”, possibilità e al tempo stesso necessità della convivenza basata sul comune riconoscimento della mancanza come tratto costitutivo dell’umano. Difficile non orecchiare in questa riflessione il presupposto della fenomenologia esistenzialista, che vede l’esserci come manque-a-être, ente non pienamente compiuto ma sempre incaricato del suo essere, ancora una volta sotto il magistero di Heidegger (4). È qui che viene in luce la portata etica del pensiero di Amato. Se la moneta nasce come “fondo ipotecario della mancanza”, bisogna riconoscere che in essa non si manifesta tanto la dimensione del valore e della potenza (come la devianza nichilista della moneta capitalista vorrebbe), quanto quella della povertà e del bisogno che spinge gli individui a unirsi in società e inaugurare lo scambio come possibilità di una coabitazione rispettosa della Terra. È una sconfessione esplicita del sogno di potenza che accompagna il possesso di denaro, e quindi anche della società per come noi tutti la concepiamo, come campo sterile su cui si danno battaglia i titani della finanza, sotto gli sguardi ammutoliti dei sommersi. In questo senso il denaro è un nulla, come si diceva, in quanto simbolo del nulla. E solo alla deriva nichilista e alla perdita della differenza ontologica si può riferire l’attuale concezione della moneta come simbolo di valore, avviata nel solco della volontà di potenza. La perfetta formulazione della questione della moneta, alla luce della riflessione di Heidegger e del pensiero della volontà di potenza, si trova nelle ultime pagine: “Ciò che si mostra già compiutamente con Bentham e che continua a compiersi sotto i nostri occhi è, a tutti gli effetti, una sostituzione radicale di senso: la mancanza come tratto costitutivo della moneta è sostituita dal valore come tratto costitutivo di tutto ciò che è” (5). Amato non è tuttavia solo un uomo di pensiero. Di recente, assieme a Luca Fantacci, suo collaboratore specializzato nel pensiero di Keynes (6), ha avviato un progetto di moneta complementare, simile a quello ispirato alle teorie di Silvio Gesell sulla moneta prescrittibile del Wir di Basilea, nella cittadina (1) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, 1132b 20-1133b 29, pp. 189-195. (2) M. Amato, L’enigma della moneta, et al., Milano 2010, p. 14. (3) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 193. Ho tentato di mediare tra la versione franca e obiettiva di Natali, scarsamente interessata agli aspetti economici della traduzione, e la lettura ermeneutica di Amato, onestamente impenetrabile a meno di non seguire tutta la trattazione per esteso. Si rimanda a M. Amato, L’enigma della moneta, cit., pp. 197-239. (4) Si è parlato molto di “equivoco esistenzialista” contestualmente a certe interpretazioni dello Heidegger di Essere e tempo. Se non nelle conseguenze, però, è certo che Heidegger non disapprovò, almeno nei presupposti, il lavoro del suo primo e più elogiato interprete, Sartre. Si veda la lettera di Heidegger a Sartre, cit. in R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, traduzione di N. Curcio, TEA, Milano 1996, p. 422: “La sua [di Sartre] opera è retta da una comprensione così immediata della mia filosofia quale mai finora mi era capitato di incontrare”. (5) M. Amato, L’enigma della moneta, cit., p. 257. (6) Con Fantacci, Amato ha scritto un libro altrettanto interessante, dal titolo profetico: M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza, Donzelli, Roma 2009. (7) Si veda anche l’esposizione audiovisiva dello stesso Amato sul sito internet di Repubblica. 11 n. 04/2012 Il MAUSS e l'economia del dono di Stefano di Ludovico N el 1980 nasce in Francia, per iniziativa di un gruppo di economisti e sociologi tra cui spiccano i nomi di Alain Caillé e Serge Latouche, il MAUSS, Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali, scuola di pensiero che, come suggerito esplicitamente anche dal nome adottato e dal relativo acronimo, intende richiamarsi, nei suoi propositi di rinnovamento dell’indagine socio-economica, al fondamentale insegnamento del grande antropologo Marcel Mauss, la cui opera, in particolare il celebre Saggio sul dono (1924-25), ha segnato una svolta nello studio delle società cosiddette primitive e nella ricerca antropologica in genere. In quel testo lo studioso francese evidenziava come l’atto del “dono”, articolato nel triplice obbligo di dare, ricevere e ricambiare, rappresenti il fondamento del legame sociale delle società arcaiche, dove esigenze ed intenti di natura essenzialmente relazionale e simbolica appaiono prioritari rispetto a finalità esclusivamente materiali ed economiche, pur in rapporto a contesti che in ogni caso assolvono pienamente la funzione di garantire il soddisfacimento dei bisogni primari della collettività (1). 12 n. 04/2012 antropologo francese la sua autentica valenza, è possibile mettere in discussione, nella loro complessità, i parametri sui quali continuano a fondarsi attualmente le scienze sociali – quelli secondo cui, in ultima analisi, sono sempre e soltanto gli interessi economici a muovere ed indirizzare le azioni umane – per un’intrapresa che, lungi dall’interessare le sole diatribe accademiche di pochi addetti ai lavori, va a sovvertire la comune Weltanschauung dominante ed i modelli stessi di socialità che regolano l’odierno consorzio umano. È dal pregiudizio economicistico tipico della modernità che quindi l’immaginario collettivo deve essere liberato, da quel “martello economico” che ci batte in testa – per usare una celebre espressione di Latouche – e non ci consente di vedere e valorizzare altra dimensione dell’esistenza umana che non sia quella relativa al soddisfacimento delle necessità e degli interessi materiali. Più che limitarsi a proporre un semplice modello economico alternativo a quello imperante da due secoli a questa parte, il MAUSS intende evidenziare come i consessi umani, sulla base di quanto dimostrato dallo studio delle società primitive fondate sul dono, possano basarsi su presupposti “altri”, non necessariamente economici ed utilitaristici, senza per questo eludere la necessità di soddisfare anche i bisogni primari dell’uomo; necessità che di fronte all’attuale crisi del modello di sviluppo occidentale, incapace di mantenere le sue stesse promesse di benessere illimitato, si dimostrano sempre più impellenti. La riflessione del MAUSS muove dalla critica al cosiddetto “primo paradigma” delle scienze sociali, definito anche “individualismo metodologico”, che guida gran parte degli studi e delle analisi contemporanee: in base a tale criterio, erede della tradizione classica liberale e giusnaturalista, la società è vista come una semplice giustapposizione di singoli individui, ciascuno volto al perseguimento del proprio interesse materiale, e l’uomo come mero homo oeconomicus, il cui agire è mosso esclusivamente dalla ricerca L’obiettivo che il Movimento anti-utilitarista si è innanzi tutto prefissato è quello di valorizzare – riattualizzandola – la lezione di Mauss, a partire dalla carica innovatrice e per molti aspetti rivoluzionaria che presenta non solo in campo teorico, relativamente allo studio delle realtà “primitive” come della società in genere, ma anche in merito ai possibili risvolti nell’ambito della prassi e quindi alla possibilità di incidere operativamente sulla contemporaneità stessa. Non a caso uno dei fondatori, Serge Latouche, è anche il principale animatore della corrente della “decrescita”, uno dei più interessanti ed originali movimenti di critica al modello di sviluppo occidentale sorto negli ultimi anni e che, per molti versi, può essere visto come la trasposizione a livello di proposta “politica” di ciò che il MAUSS è andato elaborando sul piano più strettamente teorico (2). Secondo il Movimento antiutilitarista, il carattere dirompente dell’opera di Mauss non sempre è stato colto ed evidenziato dalla stessa tradizione di studi antropologici che pur di essa si dichiara erede, tradizione che il più delle volte non ha saputo liberarsi dal peso se non dal vero e proprio pregiudizio della mentalità moderna, quello di leggere ed interpretare il passato con le lenti del presente, attribuendo a contesti e civiltà “altre” i modi di pensare e di vedere tipici del tempo attuale. In base a quest’ottica anche il dono non rappresenterebbe che una delle tante modalità o varianti in cui lo scambio economico, il “mercato”, si è andato configurando nel corso della storia e che gli uomini hanno istituito per garantirsi il possesso dei beni materiali, in base a quella visione economicista ed utilitarista che per gli apologeti della modernità caratterizzerebbe e regolerebbe universalmente i rapporti umani. È proprio il superamento di tale pregiudizio, che ha finito per distorcere e minimizzare anche il significato innovatore dell’opera di Mauss, a rappresentare il manifesto del Movimento anti-utilitarista: restituendo alla lezione del grande “ L’obiettivo che il movimento anti-utilitarista si è prefissato è di valorizzare la lezione di Mauss, a partire dalla carica innovatrice e per molti aspetti rivoluzionaria che presenta, non solo in campo teorico ” 13 n. 04/2012 come vuole la logica mercantilistica. Ed essendo la relazione un bisogno connaturato all’uomo, attraverso il dono questa viene sentita come un qualcosa di “buono” in sé, di “disinteressato”, e non quale strumento utile al conseguimento di qualcos’altro, ovvero il bene o il guadagno materiale, come pretende il paradigma individualistico. Con tutta evidenza, l’equivoco in cui esso cade nel collocare anche il dono all’interno dell’ottica utilitaristica dipende in ultima istanza dalla “ragione strumentale” che guida le analisi dei suoi esponenti, espressione di quella “logica dell’avere” tipica della modernità che altra dimensione dell’agire umano non sa concepire se non quella di natura pragmatica. In alternativa, il MAUSS intende recuperare invece la “logica dell’essere” e della “ragione finalistica”, secondo cui a caratterizzare l’essere umano è anche e soprattutto l’agire fine a se stesso, motivato da valori riconosciuti come beni in sé, indipendentemente da ogni secondo fine o interesse. Parlare di azioni fine a se stesse o di atti disinteressati non ci deve però far cadere nell’equivoco opposto, ovvero di considerare quella del MAUSS come una prospettiva di tipo moralistico o caritatevole, da contrapporre alla presunta “immoralità” della logica di mercato, quasi che il dono si risolvesse in un gesto altruistico da far valere contro l’“egoismo” del sistema liberistico. Cadere in questo equivoco significherebbe avere una visione del dono alquanto astratta ed irenistica, improponibile sia in ambito di ricerca sia in prospettiva politica, fino a confonderlo con quella che più propriamente sarebbe opportuno chiamare “donazione”, ovvero l’atto di amore gratuito ed incondizionato che nulla attende in cambio. In tal caso però ci troveremmo appunto in ambito puramente etico, se non addirittura religioso, mentre l’orizzonte socio-politico nel quale il MAUSS intende collocarsi vede nel dono un atto che presuppone di per sé la reciprocità, quindi l’aspettativa di accettazione e di contraccambio, sempre che questa, come sottolineato, sia intesa nella sua valenza sociale e simbolica e non meramente economica e materiale. Ciò che quindi agli esponenti del MAUSS preme soprattutto sottolineare è che solo ad una visione riduttiva e superficiale il meccanismo del dono può apparire come una variante dello scambio utilitaristico o, per contro, una sorta di pratica di beneficenza – in ogni caso, un mero sistema di distribuzione economica più o meno alternativo a quello di mercato. Il dono instaura in realtà una relazione di cui la dimensione economica è solo uno degli aspetti conseguenti, per ciò stesso subordinati e vincolati a quelli di altra natura, in tal modo capovolgendo ciò che avviene nella moderna società di mercato, dove al contrario sono i rapporti economici a fondare quelli umani. In una società incentrata sul dono sono le relazioni tra le persone ad essere privilegiate rispetto a quelle tra le persone e le cose, secondo quanto aveva già evidenziato un altro eminente antropologo francese “controcorrente”, allievo diretto di Marcel Mauss, Louis Dumont, in merito alla contrapposizione tra società tradizionale e società moderna, in cui l’economia, resasi progressivamente autonoma da ogni ordinamento sociale, politico e religioso, ha finito per fagocitare questi ultimi mercificando ogni aspetto della vita (3). In tal senso la riflessione del MAUSS ci riporta alla lezione del grande economista “eretico” e in parte ancor oggi mi- del massimo profitto, secondo una logica di costi-benefici a partire dalla generale precarietà delle risorse disponibili. Ed è, questa, una visione considerata valida per ogni tempo e luogo, sorta di “archetipo” universale che rende intelligibile qualsivoglia contesto storico-sociale, sia la moderna economia di mercato siano le economie arcaiche e premoderne, dove lo stesso meccanismo del dono viene ricompreso all’interno della logica dell’interesse e dello scambio volto al perseguimento di un utile materiale. E poiché ad ogni teoria che si rispetti si affianca sempre una prassi conseguente, il paradigma “individualistico” da semplice parametro di ricerca diventa criterio stesso per l’azione, norma di riferimento delle condotte umane e sociali, prescrivendo ed esaltando politiche volte a valorizzare la competizione e il perseguimento dell’utile personale, da cui, grazie al prodigioso quanto ineffabile intervento della “mano invisibile”, scaturiranno poi l’utile ed il benessere collettivi. Se l’homo oeconomicus spiega l’intera realtà storica e sociale, a tale modello è bene che ciascun soggetto si ispiri e si adegui per il buon funzionamento e la prosperità dell’intera società. Ed è per questo che, come detto, la riflessione del MAUSS, mettendo in discussione i parametri teorici delle odierne scienze sociali, è indirizzata altresì a delineare nuovi modelli di interazione umana e di azione politica che si presentino come alternativi a quelli dominanti, in nome di una diversa visione dell’uomo e della società. Tale persuasione trova il suo fondamento in un nuovo paradigma, quello del dono, che come può offrire nuovi e più adeguati parametri di lettura del fatto sociale, così può stimolare altre forme di prassi stessa. Imperniata com’è sul reciproco obbligo di dare, ricevere e ricambiare, questa dinamica inserisce gli individui in una rete di relazioni stabile e vincolante che prescinde da interessi e vantaggi materiali, quanto meno diretti ed immediati. È la stessa antropologia economicista sottesa all’individualismo ad essere messa in crisi: come già le analisi di Mauss avevano evidenziato in relazione alle società primitive – e il discorso potrebbe estendersi alle economie dell’India antica come del feudalesimo europeo, anch’esse assimilabili a tale sistema – attraverso il dono i membri di una data comunità non si scambiano propriamente beni materiali, bensì, innanzi tutto, “beni simbolici”; ovvero non sono mossi dalla ricerca della mera utilità economica, ma dalla volontà di fissare relazioni, il cui mantenimento dà sostanza concreta a quei valori etici, politici e religiosi che reggono quella data comunità e di cui lo scambio di beni materiali rappresenta soltanto lo strumento. Quello che la sociologia radicata nell’immagine dell’homo oeconomicus non riesce a vedere è proprio questo: nel dono il primus, ovvero il fine dell’agire sociale, è la relazione – e con essa i valori simbolici che questa vivifica – costituendo il bene materiale oggetto dello scambio solo un mezzo, un medium per il legame sociale. In considerazione di ciò, il dono è sì un meccanismo che garantisce il soddisfacimento di bisogni, instaurando un legame di tipo economico, ma all’interno di un contesto che è innanzi tutto relazionale e si presenta come sovraordinato. Allo stesso tempo, se è innegabile che dietro il desiderio di donare vi sia un “interesse”, in questo caso si tratta però dell’intenzione di stabilire o rinsaldare un legame, una relazione, e non ad ottenere un’utilità o un vantaggio economico, 14 n. 04/2012 all’interno della logica utilitarista, quello olistico – non sfuggendo da par suo alla tendenza “totalizzante” propria della modernità di leggere qualsiasi fenomeno tramite le sue particolari lenti – vede in esso null’altro che il riprodursi a livello dei singoli di meccanismi redistributivi decisi e dettati dall’alto, negando così agli atti del dare, ricevere e ricambiare ogni valenza autonoma e considerandoli alla stregua di semplici comportamenti rituali e consuetudinari, ai quali del resto per una simile prospettiva qualsivoglia azione individuale si ritrova ad essere ridotta. Il MAUSS, al contrario, intende sottolineare proprio il carattere libero e spontaneo del dono, quale espressione dell’autonoma e consapevole determinazione dei diversi soggetti coinvolti nello scambio: il legame sociale che esso va ad instaurare vincola sì gli individui, ma non in base a modelli e sistemi preordinati, bensì a schemi e forme di interazione dove le preferenze, le scelte di ciascuno, nonché l’imprevisto e l’insolito, svolgono gioco forza un ruolo essenziale e decisivo. Pur consapevoli del peso importante che la consuetudine, e quindi il contesto oggettivo, rivestono nell’ambito delle società tradizionali, gli esponenti del MAUSS tendono ad evidenziare le potenzialità libertarie del donare, senza che queste vadano però a confondersi con l’individualismo proprio alla logica di mercato, esaltando parallelamente la sua chiara dimensione comunitaria. Il dono, paradossalmente, può essere considerato al tempo stesso obbligato e libero: obbligato, perché sono pur sempre i valori ed i principi che regolano quella data comunità a fissare il significato che esso assume per i suoi membri; libero, perché non vi è alcuna garanzia certa in merito all’aspettativa che in esso si ripone, se non la scommessa sulla fiducia e la lealtà della controparte, da conquistare e rinnovare continuamente. Esaltando la sua peculiarità sia rispetto al modello individualistico sia a quello olistico, il MAUSS ha buon gioco così nel definire il dono come “terzo paradigma”, il quale, più che presentarsi come alternativo ai primi due, li supera dialetticamente, valorizzando la libertà del singolo e la co- sconosciuto Karl Polanyi, il quale nelle sue opere aveva non a caso collocato le economie premoderne fondate sul dono tra quelle in cui la sfera economica era embedded, vale a dire “inserita” nella società, ovvero nelle sue istituzioni come nel suo immaginario “simbolico”, fino a confondersi con essa ed a rendersi quasi irriconoscibile, anziché incorporare in sé tutte le altre istituzioni come accade con l’economia di mercato propria del mondo moderno (4). Polanyi spiegava così un fenomeno a prima vista incomprensibile agli occhi dell’uomo contemporaneo, intriso del pregiudizio economicistico: non solo le società premoderne hanno sempre collocato l’economia all’ultimo posto della loro scala di valori, ma, essendo questa intrecciata e confusa con le altre dimensioni dell’esistenza, risultava impossibile per quelle società concepirla come una disciplina autonoma; per cui, se per altri rami del sapere le civiltà del passato ci hanno lasciato grandiose testimonianze del loro genio, per la nascita della “scienza economica” come oggi la intendiamo dobbiamo aspettare Adam Smith, ovvero l’Inghilterra del Settecento (5), dove l’economia di mercato ha conosciuto il suo primo trionfo! La rivoluzionaria logica del dono permette altresì di superare le incongruenze ed i limiti insiti nell’altro modello spesso adottato dalle scienze sociali contemporanee in alternativa a quello individualistico dominante, il cosiddetto paradigma “olistico” o “secondo paradigma”, che invece di erigere il singolo e la sua utilità a strumenti euristici del fatto sociale, pone l’accento, secondo una logica opposta ma per molti versi speculare alla prima, sull’organismo, sul tutto anziché sulle parti, essendo il primo a determinare e condizionare l’azione e l’immaginario delle seconde. È una prospettiva, questa, che trova il suo risvolto “politico” negli orientamenti statalisti e dirigisti di scuola socialista, che svalorizzano la libera iniziativa del singolo a favore di un più decisivo intervento pubblico, in opposizione alla prassi liberista che, come sottolineato, trova invece il suo riferimento ideologico nel paradigma individualistico. E come quest’ultimo arriva a ricomprendere anche il dono “ Il MAUSS intende sottolineare il carattere spontaneo del dono, inteso quale espressione dell'autonoma e consapevole determinazione dei soggetti coinvolti nello scambio ” 15 n. 04/2012 di esaltare il “privato” o il “pubblico” li comprende entrambi in una visione di tipo “comunitarista”. Così, scendendo nel campo della proposta politica più mirata, sono diverse le battaglie che da decenni ormai vedono impegnato il MAUSS come il movimento della “decrescita” e che, sempre sulla base di quell’ottica partecipativa e comunitaria che le ispira, riguardano in generale la messa in discussione delle politiche globaliste perseguite dalle istituzioni economiche internazionali (FMI, Banca Mondiale, WTO) a favore del ripristino di forme locali e decentrate di produzione e scambio, per arrivare nel particolare a proposte quali la riduzione dell’orario di lavoro o l’introduzione di un reddito minimo di cittadinanza (6). Sono battaglie che, al di là degli specifici ambiti e settori a cui si riferiscono, sono da ricollocarsi sempre all’interno dell’obiettivo di fondo, ben più ambizioso e decisivo, che il pensiero anti-utilitarista in ultima analisi persegue, ovvero quello di “decolonizzare l’immaginario” economicista dell’uomo moderno e di andare oltre l’“economia” stessa, perché l’uomo si riappropri della sua vera natura e – sempre per usare celebri “parole d’ordine” della “decrescita” – sappia pensare “altri mondi, altre menti, altrimenti” (7). esione sociale, secondo una logica di “rete” che, basandosi sugli obblighi reciproci che i singoli liberamente assumono, supera le istanze unilaterali – l’esasperato individualismo, il rigido dirigismo – proprie degli altri due. Partendo da tali presupposti questo modus vivendi può offrire tutta una serie di risposte anche politiche agli urgenti problemi dei nostri tempi, di fronte alla crisi in cui i tradizionali approcci sia liberisti sia assistenzialisti sembrano fatalmente versare. E che il dono riporti per sua stessa natura ad una logica eminentemente politica lo dimostra proprio la dimensione “comunitaria” che esso instaura attraverso la mediazione tra singolo e collettività che si viene a realizzare. Per usare le celebri metafore schmittiane, esso, basandosi sulla fiducia e quindi sull’“alleanza” che ciascuno ha deciso di contrarre con l’altro, permette di discriminare tra “amico” e “nemico”, riportandoci all’essenza stessa del “politico”. In altre parole, segna il passaggio dallo “stato di natura” – da una situazione “a-politica” – allo “stato civile”, quindi alla condizione specificatamente politica; passaggio che, nel suo essere medium sociale per eccellenza, esso riesce ad esplicare coerentemente di fronte alla miopia del “contrattualismo” di tradizione liberale, che pretende di fondare il fatto sociale su di un atto di semplice natura economica. In tal senso questa logica si presenta altresì come espressamente “democratica”, se per democrazia si voglia intendere l’effettiva “partecipazione” della comunità dei cittadini al governo della cosa pubblica e quindi identificarla con il concetto originario stesso di “politica” quale politeía. Così, se il paradigma individualistico trova la forma corrispondente nella democrazia “rappresentativa”, dove governanti e governati sono legati da un rapporto puramente contrattuale come riflesso delle relazioni antagonistiche di tipo soltanto economico che vigono nella società, il dono favorisce forme di democrazia “partecipativa”, ovvero di comunità dove “tutti si danno a tutti”, dove ognuno “dona” se stesso agli altri, superando quella frattura tra “società politica” e “società civile” che oggi viene denunciata da più parti come uno dei mali principali degli Stati liberali, sempre più distanti dalle reali necessità dei cittadini ed incapaci di interpretarne adeguatamente gli effettivi bisogni di socialità e partecipazione. D’altronde, pur in riferimento agli attuali contesti istituzionali, il modello partecipativo trova il suo naturale terreno di adozione proprio nell’ambito della società civile, nel mondo del cosiddetto “terzo settore”, ovvero dell’associazionismo e delle società no-profit che, come noto, di fronte alle difficoltà sempre maggiori che in merito incontrano sia il mercato sia l’intervento pubblico, assolvono oggi decisivi compiti di tutela dei diritti dei cittadini relativamente alla sfera materiale ma anche a quella sociale in genere. E la logica che ispira tale settore è proprio quella del dono, fondata com’è sulla mediazione tra le libere scelte dei suoi associati e l’interesse collettivo che va a soddisfare, superando così la prospettiva unilaterale e del mercato, che ha in vista solo la libertà individuale tramite la ricerca dell’utile personale, e dello Stato, che ha di mira solo l’interesse generale tramite la costrizione pubblica. Una società che voglia ispirarsi alla logica del dono sa quindi lasciarsi alle spalle la tradizionale querelle tra libero mercato o intervento pubblico e che di fronte alle sfide che il mondo oggi ci pone sa offrire nuove alternative, di natura appunto “associazionistica”, che invece (1) Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 1965. (2) Per un’introduzione generale al pensiero del MAUSS, vedi soprattutto A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino 1991 e S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010; in relazione al movimento della “decrescita”, S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007 e Breve trattato sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Sullo specifico tema del dono, vedi in particolare A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998. (3) Di Louis Dumont (1911-1998) vedi soprattutto le due fondamentali opere Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Adelphi, Milano 1991 e Homo Aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi, Milano 1984. (4) Di Karl Polanyi (1886-1964) vedi in particolare La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, La sussistenza dell’uomo: il ruolo dell’economia nelle società antiche, Einaudi, Torino 1977 e Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino 1980. (5) È in tal senso che Serge Latouche arriva a definire l’economia un’“invenzione” moderna, da cui il titolo della sua nota opera, sopra richiamata, L’invenzione dell’economia. Ovviamente ciò che era assente nelle civiltà premoderne era la concettualizzazione dell’economia, non certo l’economia stessa. (6) Sulle concrete proposte politiche del MAUSS e del movimento della “decrescita”, oltre alle già citate opere, vedi anche S. Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società altrenativa, Bollati Boringhieri, Torino 2005 e Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e decorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011. (7) Queste “parole d’ordine” danno anche il titolo a due opere di Serge Latouche, per l’appunto Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, EMI, Bologna 2004 e Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. 16 n. 04/2012 Ezra Pound: poeta economista? di Luca Gallesi Q uella del poeta svagato, con la testa tra le nuvole e lontano dalle preoccupazioni quotidiane è un’immagine tanto comune quanto errata, poiché i poeti veri, quelli che con le parole non ci giocano ma costruiscono visioni del mondo, hanno i piedi ben saldi e la mente assai lucida. Già, perché poeti furono, tanto per fare qualche esempio, Omero e Virgilio, Dante e Leopardi, Goethe e Hölderlin, Yeats e Baudelaire, Eliot e Pound; personaggi divisi da epoche e luoghi diversi, ma accomunati dalla forte determinazione di usare il linguaggio nel miglior modo possibile per descrivere sinceramente la realtà. Il poeta è tale, di solito, per la sua grande sensibilità, che lo porta inevitabilmente ad analizzare il mondo per scoprirne i difetti e cercare di migliorarlo; questo è esattamente ciò che ha fatto Ezra Pound, un grande poeta che oggi però viene ricordato più per la sua forza morale e le sue scelte di campo che per i suoi componimenti letterari – anche se tra le due cose non c’è una sostanziale differenza. 17 n. 04/2012 che quello ghildista, di cui Orage era stato promotore, non avevano minimamente riscosso l’interesse di Ezra. Attenzione che resta viva fino alla fine degli anni Dieci, per poi affievolirsi e infine riaccendersi e divampare all’inizio degli anni Trenta, dopo che la crisi del 1929 ha trascinato il vecchio mondo nella polvere. Molto, fino a un recente passato, è stato scritto per relegare il pensiero economico di Pound nello sgabuzzino delle idee screditate, tipiche del genio sregolato di un poeta e quindi prive di solidità scientifica; il suo pensiero sociale è stato separato dall’opera poetica, minimizzato e quindi condannato come ingenuo, superficiale e soprattutto politicamente scorretto, e quindi inappellabile. Dagli anni Novanta del secolo scorso, invece, la comunità scientifica ha cominciato a ragionare sia sulle scelte politiche di Pound, a partire dall’ineludibile saggio di Tim Redman sulla sua adesione al fascismo (1), per continuare con la trilogia di Leon Surette, da Eleusi al Purgatorio passando per l’occulto (2), fino all’essenziale raccolta dell’allieva di Surette, Roxanna Preda, che ha curato pochi anni fa la corrispondenza di argomento economico del poeta americano, mettendone in evidenza la coerenza e l’importanza (3). In Italia, ai curatori dell’opera poundiana, come Mary de Rachewiltz e il mai troppo lodato editore Vanni Scheiwiller, e agli studiosi accademici, come Massimo Bacigalupo, si affianca la produzione di un brillante scrittore e giornalista come Giano Accame, che analizza e affronta senza pregiudizi le idee economiche di Ezra Pound pubblicando libri (4), articoli e anche realizzando per RaiTre un originale documentario della serie Intelligenze scomode del Novecento. Il tabù si è così finalmente rotto e, tra mille distinguo e con mille diffidenze, anche le idee politiche di Pound, incentrate sul suo ideale di giustizia sociale, cominciano a essere prese in considerazione seriamente. La prima sorpresa viene dalla scoperta che Pound non era né il primo né l’unico artista o letterato a battersi contro la speculazione ma si inseriva a pieno titolo in un filone di pensiero e azione politica, tanto britannica quanto americana, più che Nato a Hailey, Idaho, nel 1885, Pound muore nel 1972 a Venezia, e tra queste due date e questi due mondi c’è racchiusa tutta la sua opera, che ha unito il Vecchio e il Nuovo Mondo, attraversando le passioni, gli entusiasmi, le tragedie e i drammi del Ventesimo secolo. Nei Cantos, l’opera incompiuta a cui ha dedicato tutta la vita, il poeta ha riversato la sua incessante ricerca del bello, che è anche il giusto, il vero e il buono. Poema epico, i Cantos sono intrisi di economia, esattamente come la Divina Commedia lo è di teologia; l’economia è il motore della modernità, così come la teologia lo fu per l’età di mezzo, e il suo primato caratterizza la politica e la storia degli ultimi duecento anni. Come si può vedere dai componimenti giovanili, all’inizio della sua carriera letteraria Pound è un romantico estetizzante, figlio del lungo crepuscolo dell’Ottocento, ma la Grande Guerra gli fa rapidamente cambiare idea: nel poemetto Hugh Selwyn Mauberley dà l’addio alle “dolciastre confessioni” per denunciare gli orrori di un’inutile strage che “ne ha fatti morire una miriade / e dei migliori, fra tutti gli altri, / per una cagna sdentata, /per una civiltà rappezzata”. Tra le vittime si contano molti suoi cari amici, come il filosofo Thomas Ernest Hulme e lo scultore Henri Gaudier-Brzeska, che aggiungono al dolore per il lutto la rabbia per il loro insensato e inutile sacrificio, che ha contribuito a distruggere ulteriormente la civiltà europea, arricchendo gli speculatori. Bisogna fare qualcosa, impegnandosi innanzitutto a capire le cause della guerra, per poi neutralizzarle. Ad aiutarlo nella comprensione arriva, nella redazione di The New Age, rivista della quale era uno dei più assidui collaboratori, un bizzarro personaggio, il “Maggiore” Douglas, ovvero l’ingegnere Clifford Hugh Douglas, maggiore della riserva della R.A.F., che convince il direttore del periodico Alfred Richard Orage ad abbracciare le sue teorie economiche, note come Social Credit (Credito Sociale), che vengono pubblicate sul New Age e poi raccolte in più volumi, a cura di Orage stesso. Questo è il primo incontro di Pound con l’economia; esso lo coinvolge, perché, fino ad allora, sia il socialismo fabiano “ Il pensiero economico di Pound è stato separato dalla sua poetica, minimizzato e condannato come ingenuo, superficiale e soprattutto politicamente scorretto, quindi inappellabile ” 18 n. 04/2012 per l’Italia, dove si era stabilito dal 1924, e che sembrava reggere meglio della sua patria americana i problemi economici; da allora fino al 1945, riempie anche la sua produzione poetica di teorie economiche e I Cantos, da poema epico, diventano – anche – un’opera ricca di economia. Questa conversione non è piaciuta a molti studiosi e accademici che hanno cercato di separare nettamente la letteratura di Pound dalle sue idee politiche e dalle teorie economiche, ma l’impresa è risultata impossibile: recentemente, forse a causa della crisi da lui profetizzata con largo anticipo, anche le sue idee economiche sono state ammesse nei salotti buoni, seppure con riserva. Il citato volume di corrispondenza economica dimostra che Pound non era né pazzo né, e questo è il dato più interessante, un bizzarro genio isolato e incompreso. Pound fu “un intellettuale integrato in un movimento per la riforma del capitalismo”(8) che si è sviluppato tra le due guerre e ha avuto dignità intellettuale e solidità scientifica. Tra i primi numi tutelari scelti da Pound ci sono Douglas e Orage, teorici del Credito Sociale, seguiti a partire dall’inizio degli anni Trenta da un altro eretico, Silvio Gesell, le cui teorie sul denaro prescrittibile erano state brevemente adottate dal borgomastro di Woergl, un paesino tirolese (9). Il poeta tenta invano di creare una sintesi tra le due teorie, ma si trova contro i seguaci di Douglas, tra cui Gorham Munson e John Hargrave, e quelli di Gesell, tra cui Hugo Fack, Irving Fisher e Eugene Sydney Woodward. Pound non si lascia scoraggiare e inizia a tessere, più o meno pazientemente, una fitta rete di rapporti tra studiosi e politici di tutto il mondo e di svariati orientamenti, proponendo, ascoltando o semplicemente segnalando a tutti l’esistenza degli altri, per rendere più efficace la sua battaglia contro la speculazione e lo sfruttamento del lavoro dell’uomo. Il sogno si infrange con lo scoppio della guerra, da Pound inutilmente avversata – il risveglio definitivo e tragico avviene nel 1945, in una gabbia per gorilla. dignitoso e ricco di talenti. La parte americana toccava il poeta nella sua storia personale e affondava le radici nel populismo USA che ha caratterizzato politicamente, con il People’s Party, la fine dell’Ottocento ma che si riallaccia nitidamente alla tradizione, prima jeffersoniana e poi jacksoniana, di critica e lotta contro gli speculatori dell’economia finanziaria, a fianco dei produttori di quella reale, vale a dire soprattutto i contadini. Quello che diverrà il titolo di un suo polemico libello pubblicato direttamente in italiano, Oro e Lavoro, inquadra e definisce chiaramente i termini della questione: o si sta con i lavoratori, che svolgono qualsiasi tipo di lavoro, compreso quello intellettuale e artistico, o ci si schiera con gli usurai, che si arricchiscono come parassiti sulla fatica altrui. Il filone britannico è invece composto da quella nutrita pattuglia di scrittori che hanno visto e criticato gli orrori della Rivoluzione industriale, cercando una soluzione in una visione “spirituale” della vita che disprezzava il materialismo di Marx. A partire dall’antiutilitarismo di Carlyle, passando per l’economia politica di Ruskin e arrivando al socialismo medievaleggiante di William Morris, sono tanti i critici della modernità che, più o meno direttamente, hanno avuto influenza su Pound. Del resto, basta rileggere qualche brano di Ruskin per notare la straordinaria affinità con il pensiero poundiano: “La moneta in se stessa non è altro che un documento trasferibile, in uso nelle comunità umane, che dà diritto, a vista, a certi precisi benefici o vantaggi, normalmente a una certa parte dei beni reali disponibili. Essa è genuina solo in quanto i beni cui dà diritto sono reali, o i vantaggi certi; altrimenti è «fasulla», e può essere considerata un falso, sia che venga emessa da un governo o da una banca, che da un individuo”(5). E ancora: “Una nazione fondata sul lavoro, e che abbia cura dei frutti del proprio lavoro, sarebbe prospera e felice anche se in tutto l’universo non vi fosse un solo grammo d’oro. E una nazione oziosa e incline a dissipare il prodotto del proprio lavoro, qualunque esso sia, sarebbe povera e miserevole anche se le sue montagne fossero d’oro massiccio, e le sue conche ricolme di diamanti anziché di ghiaccio” (6). Il pensiero, che potremmo indicare – un po’ cacofonicamente – come “antiusurocratico”, a cui Pound attingerà ha orizzonti vastissimi anche tra i suoi contemporanei, che lui stesso ci indica in un articolo pubblicato in italiano nel 1937 sul numero di maggio-giugno di Rassegna Monetaria, intitolato Verso un’economia ortologica, in cui ne traccia una rapida mappa: “È naturale purtroppo che nelle pubblicazioni economiche regni la confusione dato che lo studio dell’economia attualmente viene fatta da empirici, da uomini che mancano di una seria preparazione terminologica. Vediamo per esempio nel mondo anglo-sassone quali sono gli scrittori onesti e seri che hanno costruito la scienza economica viva. Soddy, premio Nobel per la fisica; Douglas, ingegnere capo del Westinghouse in India; Larranaga, ingegnere stradale; Orage, giornalista convertito da Douglas; Kitson, inventore della lampada Kitson; Gesell, commerciante; ecc. Tutti uomini pratici!” (7). E, da uomo pratico qual era anche Pound, dal 1931 al 1936 si rimette a studiare economia per cercare una soluzione alla crisi mondiale iniziata nel 1929. Riprende le teorie del Credito Sociale che lo avevano incuriosito una dozzina di anni prima e ne ricava una sintesi da aggiungere e mischiare ad altre teorie eterodosse che gli sembrano additare una via di uscita dal tunnel della recessione globale, con un occhio di riguardo (1) Cfr. T. Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Press, Cambridge 1991. (2) Cfr. L. Surette, A Light from Eleusis, Clarendon Press, Oxford 1979; The Birth of Modernism, Mc Gill-Queen’s University Press, Montreal 1993; Pound in Purgatory, University of Illinois Press, Urbana and Chicago 1999. (3) Cfr. Ezra Pound’s Economic Correspondence, 1933-1940, a cura di R. Preda, University Press of Florida, Gainesville 2007. (4) Cfr. G. Accame, Ezra Pound economista, Settimo Sigillo, Roma 1995. (5) J. Ruskin, Economia politica dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 141-142. (6) Ivi, p. 144. (7) E. Pound, Verso un'economia ortologica, in Lavoro e usura, prefazione di P. Savona, All'Insegna del pesce d'oro, Milano 1996, p. 128. (8) Ezra Pound’s Economic Correspondence, cit., p. 1. (9) Cfr. E. Pound, Carta da Visita, a cura di L. Gallesi, Bietti, Milano 2012, pp. 55-56. 19 n. 04/2012 La sovranità sul debito di Luigi Iannone L a globalizzazione è fenomeno antico. Hirst e Thompson la collocano tra il 1870 e il 1914 e Wallerstein all’epoca delle scoperte geografiche (1). Ma in un contesto come quello attuale, dove la capacità di coinvolgimento dei cittadini che partecipano ad una socialità comune tende sempre più a scemare, vengono evidenziate – come mai era accaduto nella storia dell’uomo e in tutta la loro pericolosità – le relazioni asimmetriche tra politica ed economia. Ed è evidente la dissonanza tra il quadro ermeneutico che il pensiero dominante ci propina e i fenomeni empirici sui quali quotidianamente ci misuriamo. Tali relazioni rappresentano solo un aspetto, necessario ma tutt’altro che sufficiente, per comprendere come i processi della governance mondiale siano radicalmente mutati e come la validità teorica della moderna globalizzazione vada sottoposta a verifiche non approssimative per non incorrere nell’errore, già segnalato da Giorgio Agamben, di porre la più oscura e irrazionale delle religioni, quella del denaro, al centro di ogni ragionamento oltre che di ogni azione. 20 n. 04/2012 Questo capitalismo deterritorializzato può mettere in disparte l’economia reale, senza che la mano invisibile regoli più nulla (3), ha la forza di imporre sui mercati di scambio contrattazioni del valore di svariate volte il PIL mondiale e mobilita le masse affinché si favorisca la crescita attraverso il consumo. Alla luce di questi elementi è chiaro che la centralità e l’influenza dei mercati finanziari a livello globale sono smisurate. Un capitalismo finanziario che dà conto del suo operato solo agli azionisti e dove quasi il 70% dei flussi è controllato da una dozzina di banche e SIM. Tutto ciò non va decontestualizzato, altrimenti ci si nasconde furbescamente dietro lo spettro dell’eccezionalità: questa è la sua logica di fondo, che si regge anche sul tentativo di un deterioramento antropologico sotterraneo, durevole ma evidente. È quanto mai arduo fornire una topografia esaustiva dei problemi ma la mobilitazione instilla dosi crescenti di paura grazie a previsioni sempre più pessimistiche, che obbligano a restringere ancora di più i diritti, le sicurezze sociali e le condizioni di lavoro. Nel suo percorso di trasformazione collettiva determina diseguaglianze crescenti che si evidenziano soprattutto attraverso canali conosciuti: riduzione del welfare e riassorbimento della capillare rete di garanzie previste dal diritto del lavoro, disoccupazione, delocalizzazioni (il che permette di privare anche i sindacati nazionali di capacità contrattuale), deindustrializzazione con guadagni speculativi, riduzione dei salari (che, come in un circolo vizioso che si auto-alimenta, indurrà le famiglie ad indebitarsi), precarizzazione del lavoro e contestuale sostegno a politiche di immigrazione per favorire il basso costo della manodopera, innalzamento dell’età pensionabile, eccetera. Perpetuando il proprio asservimento alla ricerca illimitata della ricchezza si provoca quel deterioramento antropologico di cui sopra e un radicalizzarsi delle tendenze narcisistiche. Cristopher Lasch le ha tratteggiate nel suo libro più famoso, del 1979, in cui descrive questa nuova narrazione su base nichilista, dove il soggetto si afferma grazie all’accumulo di beni per distinguersi dalla massa, dalla società e dalla famiglia (4). Di grave c’è che ora questa mobilitazione individuale modella anche lo spazio pubblico: l’essere individui e non società si associa ad una ossessione per la sicurezza e si traduce in un pregiudizio per la dialettica politica e per le scelte di carattere collettivo. Una volta che questo processo è giunto a compimento, affermazioni come quella di Margareth Thatcher, “non esiste la società, esistono solo gli individui”, possono essere contrabbandate come uniche verità. In più, proprio perché c’è questo rinchiudersi in una sorta di solitudine solipsistica, tende a scemare l’aspirazione al futuro che aveva alimentato i processi democratici nella seconda parte del Novecento e rinvigorito il dibattito pubblico. È un capitalismo che ha “pulsioni autodistruttive” perché non vuole più nessun interlocutore sociale o politico (5), peraltro – diversamente dal passato – sostenuto da una forza titanica come la Tecnica e in perfetta simbiosi con essa. Le ricchezze si muovono a velocità vertiginosa da un capo all’altro della terra come mai era avvenuto, e contestualmente si smantellano diritti giuridici con la stessa facilità con cui si vendono e comprano titoli azionari. La tecnologia velocizza infatti in maniera impressionante le operazioni ed è moltiplicatrice degli investimenti. Più del 50% degli scambi di Wall Street sono definiti high frequency trading, cioè gestiti da computer e dai loro algoritmi e si basano sulla duplice pretesa con- Le vicende degli ultimi anni forniscono abbondante materiale per non cadere in questa tentazione e se si mantiene una linea di oggettività si scopre una situazione assai diversa da quella descritta dai media. Infatti, dalla globalizzazione economica emerge, da un lato, un quadro inclusivo senza dubbio positivo contrassegnato dalla interdipendenza, dalla fluidità delle comunicazioni e degli scambi commerciali e dalla mobilità delle persone; dall’altro, come questi stessi elementi, se incrementati all’ennesima potenza, debbano essere indisgiungibili da una riflessione che li segnali anche come moltiplicatori di diseguaglianze sociali. La ricerca empirica mostra che nell’interpretare la moderna mentalità capitalistica è perciò utile non aderire ad una logica catastrofista e, per un altro verso, in maniera complementare, raccogliere la sfida facendo appello a motivazioni che appartengono sia alla sfera degli interessi particolari e privati sia ai valori comunitari, perché la questione riguarda l’incapacità della politica nel riformare un modello di società che contrappone Stato e mercato e assolutizza il momento individuale rispetto a quello collettivo. Tale mentalità trova tuttavia corrispondenze nel quotidiano, sovrastando ogni aspetto del vivere civile, e si impone come una delle questioni centrali del nostro tempo. Che si sia affermato un modello di tal genere, accompagnandosi ad una naturalizzazione del disagio sociale che tende a rendere croniche le condizioni di marginalità, e quanto siano distanti un’etica sociale dalla moderna etica economica ridotta a crematistica, è sotto gli occhi di tutti. La crisi divampata in tutta la sua furia in questo primo scorcio di terzo millennio ha molte cause, solo in parte riconducibili al passato: “Il vocabolo crisi – scriveva Ivan Illich nel 1978 – indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici. Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: ‘Guidatore dacci dentro!’ Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale” (2). La causa più evidente è intrinseca al modello economico ed al fatto che i rapporti con la politica si siano diametralmente capovolti. È proprio partendo da tali presupposti che le pretese morali di volta in volta sollevate dall’azione politica paiono non avere più alcun senso. All’inizio, come in un incendio che si propaga lentamente e poi diventa devastante, il mondo aveva accolto supinamente le prime avvisaglie e questa crisi era vista come un momento di transizione, dato che riguardava essenzialmente l’indebitamento delle famiglie americane; in breve tempo si è passati alla crisi dei subprimes, cioè i prestiti ipotecari ad alto rischio, ed infine al sovraindebitamento degli stati nazionali che quando si appesantiscono con prestiti a lungo termine sanno di dover pagare interessi assurdi. Non secondario è il ruolo della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale che garantiscono dei tassi più abbordabili ma come contropartita pretendono un rigore economico che, se portato alle estreme conseguenze, ha effetti devastanti sulla vita dei cittadini. Ora, la riduzione della economia reale a scapito della finanza, l’aumento del debito pubblico ed una guerra dichiarata apertamente tra ciò che resta degli stati nazionali e gli speculatori ha fatto esplodere una economia di indebitamento che dà in pegno il futuro. 21 n. 04/2012 scelte fatte da altri, e quindi opti per l’integrale adesione a tale modello, agendo solo per “tranquillizzare i mercati”. Questo incontro alchemico viene portato a termine tramite l’assunto per cui la politica agisce solo localmente mentre il capitalismo opera globalmente e con strategie di lungo periodo. Quest’ultimo infatti sembra non più capace di autoregolamentarsi, dando così sfogo alla sua teoria palingenetica di salvezza e, quindi, temi come la rappresentanza popolare, la democrazia e la solidarietà vengono ritenuti solo utili grimaldelli ideologici con la conseguenza, del tutto dimostrabile, di non essere mai concretamente connessi con il mondo reale. Da questo punto di vista, se gli Stati non sono più vantaggiosi per alcun tipo di interesse è difficile prevedere che la sovranità, così come si è andata costruendo negli ultimi due decenni, possa sopravvivere, soprattutto se il vero potere si muove beneficiando delle massime libertà e franchigie. Già da adesso gli Stati operano da cuscinetto, nella misura in cui si comportano quasi esclusivamente come negoziatori tra interessi sovranazionali e transnazionali e interessi particolari interni e quindi la politica, nel tentativo di modellare un nuovo rapporto tra capitalismo e democrazia, dovrebbe intercettare meccanismi in grado di controllare i movimenti del capitale finanziario e non solo di rilevarne le incongruenze ed imporre alla Borsa di fare quello che aveva sempre fatto, cioè finanziare le aziende. Come emerge assai nitidamente dalla situazione attuale, servono soluzioni politiche globali affiancate da forme partecipate a livello locale e più penetranti di democrazia diretta. Ciò sarebbe già un buon punto di partenza. In realtà, sarebbe necessaria una radicale correzione delle posizioni teoriche di fondo. Il fatto che, per esempio, la popolazione continui ad aumentare a dismisura, le risorse siano limitate e si invochi lo sviluppo infinito (quasi a rendere illimitato ciò che per sua natura non lo è) evidenzia un corto circuito ideologico “e soltanto una fede tenace e irrazionale può spiegare il fatto che gli economisti e i loro adepti continuino a non capirlo” (7). In definitiva, nessuno vede come soluzione un ritorno a forme precapitalistiche ma è altrettanto sbagliato pensare che la condizione attuale si possa imporre come affermazione storica definitiva di una “metafisica capitalistica”. traddittoria di garantire nella stessa misura profitti e sviluppo sociale, interessi di parte e bene comune. Si aggiunga che questo apparato nichilistico che slega completamente l’economia finanziaria da quella reale, anche se non viene riconosciuto nella sua concreta configurazione, assume la forma di una totalità strutturata difficilmente scalfibile. E ciò ha contribuito alla rimozione di ogni residuo trascendente, che ormai si realizza solo nella dimensione privata. Ne era stato acuto osservatore Augusto Del Noce, quando ne Il problema dell’ateismo affermò che pure il processo delineato dallo storicismo marxista sarebbe stato riassorbito dalla concezione nichilistica del capitalismo. Si è arrivati, negli ultimi decenni, alla globalizzazione come processo sempre in fieri e al suo carattere intrinsecamente ideologico in cui si tende a sopravvalutare oltre ogni misura l’efficienza dei meccanismi di produzione e consumo, accompagnandoli con definizioni moraleggianti universalmente valide (democrazia, diritti umani, libertà economiche, eccetera) ma in una prospettiva diametralmente opposta all’antica idea di globalità, che garantiva le identità pur nell’ottica di scambi commerciali e mobilità di persone e culture (6). Questo nucleo di valori si inserisce in una cornice di filosofia della storia nella quale, per dirla con Fukuyama, essi vengono definiti universalistici ma solo in quanto occidentali e perciò esportati come fossero delle merci. La conseguenza è che gli “altri” sono implicitamente accusati di ritardare la fine della storia, di essere d’intralcio all’affermazione e al consolidamento di una nuova politica che si fonda sul primato dell’economia, la retorica dei diritti e l’esaltazione dell’individualismo. Questo capitalismo totalitario può esercitare prerogative sovrane perché ci avviamo in un mondo unificato dalla economia e cristallizzato nello scenario disincantato delle merci, e l’idea non più peregrina di uno Stato planetario rappresenta il consolidamento finale di un nòmos che dovrebbe passare attraverso momenti intermedi di cui già intravediamo gli albori. Facendo infatti maturare l’esperienza di un modello multipolare che aiuterà a rendere standard preferenze e scelte individuali, tutti i processi potranno prima o poi essere ricondotti alla specificità occidentale. In un contesto di questo tipo aumentano le diseguaglianze sia tra i Paesi sia all’interno di ciascuno di essi (ciò va letto in parallelo con quanto accade in Asia, in specie in Stati come la Cina, dove si cresce grazie a strumenti di sfruttamento della forza-lavoro e vengono sperimentate forme “spurie” di capitalismo, mentre, al contrario, solo l’Africa continua ad impoverirsi nonostante il neo-colonialismo delle multinazionali). Un ulteriore elemento negativo è rappresentato dal fatto che il capitale finanziario elude il controllo degli Stati ai quali non resta che “la sovranità sul debito”. Il rigore economico, infatti, oltre ad aver chiarito che la sovranità monetaria non appartiene più ai singoli Stati, pone al centro di ogni politica la questione del debito. Le banche (ma anche le multinazionali, le società d’affari e quant’altro) sono per loro natura impolitiche ed è quindi illusorio pensare che possano avere un benché minimo afflato verso l’interesse nazionale. Fino a qualche anno fa chiedevano agli Stati di essere aiutate – pena il fallimento – ora invece incamerano profitti enormi e si muovono con l’abituale spregiudicatezza. Non deve perciò essere trascurato il fatto che la politica non governi i processi in corso ed in una sorta di accettazione passiva dell’esistente appaia succube di (1) Cfr. P. Hirst, G. Thompson, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna 1997. (2) I. Illich, Disoccupazione creativa, Boroli, Milano 2005, p. 95. (3) Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1977, pp. 442-444. Contestualmente andrebbe ricordato anche Teoria dei sentimenti morali, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995, p. 660. (4) Cfr. C. Lasch, The culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations, Warner Books, New York 1979. (5) Cfr. L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005, p. 258. (6) Cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999, pp. 22-27. (7) S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. IX. 22 n. 04/2012 Demondializziamoci! di Simone Paliaga S embra una boutade e in Italia la voce ha appena fatto capolino. Eppure altrove, intorno a essa, ci hanno addirittura costruito una campagna elettorale. La scorsa primavera, le pagine dei giornali francesi rigurgitavano del neologismo. Arnaud Montebourg, uno degli aspiranti candidati socialisti alle presidenziali, in occasione delle primarie del suo partito si è scagliato contro i cantori della globalizzazione e i fautori dell’austerità, dichiarando apertamente che, per uscire dalla crisi e restituire dignità ai francesi, sarebbe occorso avviare un processo di demondializzazione, come ricorda nel suo libro, diventato poi il suo programma politico: Votez pour la démondialisation! (Flammarion, 2011). Solo uscendo dal circolo vizioso della deregulation dei mercati e restituendo sovranità economica al popolo, secondo il candidato, sarebbe possibile relegare nel passato la crisi che sta attanagliando la Francia e il continente europeo. Prima di sbarcare però nell’agone politico, la parola ha avuto una gestazione intellettuale, anche se ha faticato ad attirare l’attenzione dei media prima di passare sotto il vaglio degli spin doctor del candidato socialista. 23 n. 04/2012 Per riassumere, nel senso corrente, la mondializzazione (o globalizzazione, secondo il calco dall’inglese) definisce la situazione in cui si è trovata l’economia mondiale dopo il fallimento delle economie socialiste in Europa orientale, alla fine degli anni Ottanta. Il suo consolidarsi va di pari passo con il diffondersi del pensiero neoliberale, persuaso dell’onnipotenza e onnipresenza della logica mercantile, e l’esplosione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In una ventina d’anni la mondializzazione ha provocato un duplice effetto: da un lato un movimento di omologazione delle culture sul modello americano, dall’altro delle forme di reazione identitaria. Di fronte a questo fenomeno, gli anni Novanta hanno visto dividersi gli animi e l’apparire di numerosi movimenti di contestazione. Gli antimondialisti da una parte, che si opponevano al processo di mondializzazione da intendersi nel senso letterale del termine (vale a dire l’estendersi su tutto il pianeta di una medesima idea, di una stessa organizzazione, ecc.), alla sua natura, al suo metodo e ai suoi effetti. E gli altermondialisti dall’altra, che non vi si contrapponevano, reputandolo in sé positivo e fonte di occasioni emancipatrici, ma ne criticavano soltanto l’evoluzione neoliberale. È nel 2002 però, grazie alla penna del pensatore filippino Walden Bello, che appare il concetto di demondializzazione e prende posto nel dibattito internazionale. Nel testo Deglobalizzazione. Idee per una nuova economia mondiale (Dalai, 2004), l’autore spiega che la mondializzazione s’è costruita a spese dei paesi del Sud del pianeta. Appellandosi alla necessità di un controllo politico dei sistemi economici, Bello denuncia i rischi nascosti dall’esaltazione della mondializzazione in corso. Il processo avviatosi con il crollo del muro di Berlino autonomizza le pratiche economiche dalla società, rendendole insensibili alle esigenze degli uomini e della comunità. Propone, per uscire dai pericoli imposti dalla liberalizzazione dei mercati, uno smantellamento delle istituzioni finanziarie internazionali (in particolare Banca mondiale, FMI, OMC) e si pronuncia a favore di una rilocalizzazione delle attività economiche. E se per lungo tempo le ricette di Bello sono rimaste confinate alle pagine del suo libro, in un contesto di crisi economica come l’attuale i suoi propositi hanno trovato numerose eco sia presso altri autori (tutti europei) sia presso uomini politici. Ripercorrere il dibattito sulla demondializzazione, in corso particolarmente Oltralpe, permette di chiarire le diverse accezioni con cui questa idea è stata usata. Nel suo ultimo libro, La via. Per l’avvenire dell’umanità (Cortina, 2012), il teorico della complessità Edgar Morin sposa le tesi sviluppate da Bello e spiega che “la demondializzazione darebbe una nuova vivacità all’economia locale e regionale. (…) Significa egualmente il ritorno all’autorità degli Stati e costituisce un antagonismo necessario, vale a dire complementare, alla mondializzazione”. Prima però di finire nell’agenda politica dei candidati francesi, e al di là di questa concezione conforme a quella partorita dall’autore asiatico, la demondializzazione ha trovato altri difensori, che, a seconda della propria formazione, ne hanno evidenziato un aspetto piuttosto che un altro. Parecchie sfumature diverse ma complementari emergono quindi nel panorama culturale francese, che si è dimostrato più sensibile al fascino di questa visione alternativa: col procedere del dibattito, accanto Quando, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, trascinati dagli entusiasmi per la fine della Guerra Fredda e l’esaltazione del liberalismo, si è cominciato a ipotizzare una nuova era, si pensava che questa sarebbe fiorita sotto il segno della globalizzazione. La nuova epoca non avrebbe avuto nulla di artificiale, questo si voleva far credere. Sarebbe stata, una volta schiantato il comunismo, un processo naturale di consolidamento dei mercati. Lasciandoli liberi da interferenze esterne essi avrebbero dato origine a una armonica fusione planetaria che avrebbe garantito benessere e libertà a tutti. L’unico (l’ultimo) intervento richiesto agli Stati sarebbe stato il varo di leggi atte a promuovere la definitiva deregulation dei mercati: libertà di transito transfrontaliero per merci, informazioni, capitali e uomini. Ora, però, a distanza di più di quattro lustri, il sogno si appanna e quello che era stato il mito della globalizzazione si incrina: la crisi che sta travolgendo l’Europa e provocando un impoverimento crescente della sua popolazione ha risvegliato gli animi e le energie per cercare delle soluzioni alternative al degrado sociale che è sul punto di irrompere nel Vecchio Continente. Sempre di più, ormai, gli scettici fanno capolino. E si scopre che la mondializzazione non è stato un movimento “spontaneo” della storia, ma un progetto umano codificato e preparato con una lunga serie di accordi e incontri internazionali. Affinché l’unificazione del pianeta attraverso i mercati vedesse la luce è stato necessario l’intervento di Stati e istituzioni: però, ora che la crisi sembra acuirsi, si rafforza il fronte di chi pensa sia giunto il momento di indicare altri orizzonti oltre la mondializzazione. Così almeno la pensano coloro che ritengono che a queste politiche globali sia imputabile la crisi che attanaglia il pianeta. Da qui la proposta di Montebourg di usare l’idea di demondializzazione come cavallo di battaglia alle primarie dello scorso anno, per portare a casa la sua candidatura alle presidenziali francesi. I dibattiti sulla demondializzazione rafforzano l’idea che un nuovo clivage ideologico stia ristrutturando lo spazio politico europeo. La distinzione classica tra destra e sinistra presenta dei tratti residuali in grado di agitare ancora le menti ma non di infiammarle e, soprattutto, è sempre meno capace di mobilitare entusiasmi politici ed elettorali. Sta invece progressivamente prendendo piede l’ipotesi del politologo Pascal Perrineau: lo spazio politico, nei prossimi anni, non sarà più strutturato lungo i crinali ideologici del secolo passato ma si vedrà plasmato dalle nozioni di chiusura o apertura dinanzi alla mondializzazione. E se in Italia, intrappolata nella sterile polemica elettorale tra berlusconismo e antiberlusconismo, l’idea di demondializzazione fatica a emergere, in Francia più di qualcuno ha pensato di agitarla. Al di là di Montebourg, proprio nella recente contesa elettorale ne hanno fatto sfoggio le ali opposte del paesaggio elettorale: da Jean-Luc Mélanchon a Marine Le Pen, numerose sono state le personalità politiche che hanno cercato di accreditarsi tra gli apostoli della demondializzazione. E la stessa sorte è capitata a numerose figure intellettuali. Il primo passo da compiere per comprendere questa nuova idea consiste nel cogliere il significato della parola che la veicola. E se essa è formata da un prefisso e da un suffisso occorre muovere i primi passi dalla comprensione di quest’ultimo. La demondializzazione è un neologismo che si oppone alla parola sulla quale è costruito. 24 n. 04/2012 Secondo il teorico della demondializzazione, Keynes era un “partigiano della cooperazione internazionale” ma anche un “accanito avversario dei meccanismi sovranazionali che privano i governi della loro sovranità”. Questa preoccupazione è onnipresente in Sapir, che ricorda senza indugi che “il fallimento del FMI nella crisi asiatica del 1997 ha restituito una rilevante vitalità alle politiche nazionali” dei paesi che vi erano stati coinvolti. Ma ciò non è bastato a risolvere il problema. Infatti, le scelte messe poi in atto da questi, e in particolare dalla Cina, per sottrarsi ai tentacoli della crisi d’allora, li ha portati a optare per audaci strategie di esportazione comprimendo di conseguenza violentemente il mercato interno. La scelta di questa politica economica alla fine ha causato quegli eccessi di budget che erano già finiti nel bersaglio di Keynes e l’emergere di fondi sovrani, che costituiscono oggi una parte del problema. Le conseguenze di queste audaci politiche si sono cominciate a vedere con la crisi greca che, accanto a quella commerciale, ha portato in primo piano anche le difficoltà di ordine monetario. Secondo Sapir, nel prosieguo del suo lavoro di ricerca, Bisogna uscire dall’euro? (Ombre Corte, 2012), la soluzione per sfuggire ai tentacoli della crisi nata dalla mondializzazione consisterebbe nell’abbandono dell’euro. La valuta continentale non avrebbe mai potuto avere la forza del dollaro se non a condizione di essere sostenuta da un’Europa-potenza e di mettere fine alla divergenza tra strategie economiche dei paesi che appartengono alla zona euro. Ma, a differenza di altri difensori della demondializzazione, Sapir, pur opponendosi alla moneta unica, è favorevole a una moneta comune valida come mezzo di scambio al di fuori dei confini dell’Unione Europea. Diverse sono invece le posizioni di altri autori. Emmanuel Todd, celebre demografo e “futurologo”, nella prefazione preparata per il libro di Montebourg, pensa che l’innalzamento delle barriere doganali sia indispensabile durante le fasi di guerra economica come quella in atto. Ma, a differenza di molti altri, tra cui Sapir, ritiene che le politiche protezioniste, per essere efficaci, debbano essere attuate a livello europeo e non nazionale. È interessante notare come proprio in questi autori avvenga il capovolgimento della logica che ha ispirato il lavoro di Walden Bello: men- alla concezione commerciale della demondializzazione, finiscono per spuntarne anche una monetaria e una finanziaria, prossime ma sensibilmente diverse dalla prima. Per l’economista eterodosso Jacques Sapir, il suo teorico più acuto e profondo, La démondialisation (per citare il titolo del suo libro apparso lo scorso anno da Seuil) passa in primo luogo per una rinazionalizzazione delle politiche commerciali. Questa sua prospettiva lo ha fatto diventare, suo malgrado, uno dei difensori del cosiddetto “patriottismo economico” e uno dei più acerrimi sostenitori della sovranità degli Stati, vista da sinistra però. La demondializzazione, come confessa nella parte conclusiva del suo testo, non è ancora diventata una strategia dai contorni ben definiti. Il suo approccio è quello di un ricercatore e di uno studioso di economia che distingue tra una mondializzazione mercantile, attraverso cui “il processo è cominciato”, e una finanziaria, che diventa tale quando è sul punto di attingere la massima diffusione, fino a diventare un fenomeno politicamente e socialmente insostenibile. Discutendo della prima fase, Sapir contesta, cifre alla mano, ciò che è stato presentato dai neoliberali e dai loro sostenitori come il suo principale merito: il successo del libero scambio e la globalizzazione non hanno indotto, a partire dagli anni Ottanta, la forte crescita profetizzata agli inizi dai suoi promotori. L’impatto sui paesi più poveri è stato negativo. E soprattutto, osservazione estremamente importante per il seguito dell’argomentazione dell’economista, i soli casi in cui si è assistito a una concomitanza di globalizzazione e sviluppo economico sono quei paesi dove sono state messe in atto “potenti politiche nazionali”. Questa conclusone porta Sapir a sostenere che “in un mondo vieppiù deregolamentato, questo tipo di politiche si dimostrano indispensabili”. A cosa serve allora la globalizzazione commerciale? Lungi dal risultare proficua per i paesi poveri (come sostiene invece l’OMC), essa ha permesso invece la “crescita delle grandi industrie” e “la controrivoluzione sociale che si ha avuto modo di conoscere in tutti i paesi, benché a livelli diversi, a partire dagli anni Settanta”. Per limitare i guasti della globalizzazione, l’economista francese auspicherebbe una nuova Bretton Woods e la ripresa di numerose idee di Keynes (tra cui quella di penalizzare i deficit ma anche gli eccessi nella bilancia dei pagamenti). “ Per limitare i guasti della globalizzazione, Sapir auspica la ripresa delle idee di Keynes, la penalizzazione dei deficit e degli eccessi nei pagamenti ” 25 n. 04/2012 tare la Francia di una politica anti-dumping per contrastare la concorrenza dei paesi di recente sviluppo e imporre una gabella doganale ai prodotti provenienti dai Paesi che non rispettano i protocolli di Kyoto. Dopo il suo fallimento alle primarie e la candidatura di François Hollande, la sua idea è stata accolta da altri contendenti lo scranno presidenziale, che sono così diventati portavoce dell’idea, regalandole altre occasioni di visibilità: a sventolarne il vessillo ci hanno pensato il capofila del Parti de Gauche, Jean-Luc Mélanchon, il gollista di sinistra Jean-Pierre Chevènement e, dall’altro lato dello scacchiere politico, Marine Le Pen, leader del Front National. Che a usare l’idea di demondializzazione fossero avversari di diversa formazione politica conferma ancora una volta che un’epoca è finita e la vecchia distinzione tra destra e sinistra, fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo sta scricchiolando ed è sul punto di eclissarsi. Detto ciò, però, stiamo per sfiorare un altro punto, che solo pochi teorici della demondializzazione hanno toccato. Essa, oltre a essere una teoria, sta diventando, a seguito della crisi delle politiche tradizionali che sembra inarrestabile, un dato di fatto. Per Jacques Sapir la mondializzazione finanziaria avrebbe ormai raggiunto il suo apice. Dietro l’angolo ci sarebbe la sua fine: ma occorre capire con quante vittime. Ciò significa che la demondializzazione sta diventando una realtà oggettiva oltre che un progetto. Essa sarebbe dunque già in marcia, come aveva intuito nel 2010 l’annuario francese di politica internazionale L’État du monde. E la fine della mondializzazione, sia per l’annuario d’Oltralpe sia per Sapir, si può constatare dal fallimento dei negoziati di Doha, dal rifiuto della Cina di assumersi le responsabilità monetarie che le si volevano imporre e, più in generale, dal massiccio ritorno in auge del protagonismo degli stati sovrani con politiche che ricordano più le dinamiche dell’Ottocento che i furori ideologici del Novecento. La Machtpolitik è ormai dietro l’angolo, come ricorda Alessandro Colombo nell’unico libro italiano che cerca di registrare il cambiamento di paradigma in atto in questi ultimi anni: si approssima il ritorno a La disunità del mondo (Feltrinelli, 2010) ignorata ancora oggi dalle anime belle per le quali, ancora una volta, l’uscita dalla crisi passerebbe attraverso un’ulteriore accentuazione delle politiche neoliberali e dunque attraverso un’ulteriore dose di mondializzazione. tre nel caso del pensatore filippino le politiche di demondializzazione dovrebbero servire a proteggere i Paesi del Sud da quelli del Nord del mondo, il dibattito scoppiato in Francia propone una soluzione simile ma che si muove in direzione opposta. Essa dovrebbe tutelare i Paesi del Nord da logiche che eccedono la loro sovranità nazionale, dall’aggressività economica e dal dumping sociale messi in atto dai membri di quello che un tempo si definiva Terzo Mondo e oggi rappresentato bene dalla vivacità economica dei paesi “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Ma non finiscono qui le idee di demondializzazione. Altre ancora sono le prospettive da cui è stata auspicata. Alcuni economisti infatti la pensano come un espediente per regolare semplicemente l’anarchia dei flussi finanziari. È il caso di Frédéric Lordon, ricercatore del CNRS e membro fondatore del Mouvement des économistes atterrés, che esorta a una rinazionalizzazione dei debiti pubblici degli Stati, considerandola mossa indispensabile per frenare la speculazione in atto nelle piazze finanziarie. Tuttavia non sono mancati dissensi tra gli oppositori della mondializzazione. Ad alimentare il fuoco sono stati in particolare gli altermondialisti, vale a dire gli avversari moderati dell’unificazione del mondo attraverso i mercati. Prima della campagna di Montebourg, nel giugno del 2011, sul sito Mediapart un gruppo di economisti legati ad ATTAC, la celebre associazione altermondialista, hanno titolato un dibattito: La démondialisation: un concept superficiel et simpliste, intorbidendo ulteriormente la già scarsa chiarezza del concetto ma assicurandogli ulteriore visibilità presso il grande pubblico. Come si vede solo da questi pochi cenni, questa idea ha ricevuto numerose interpretazioni in ambito ideologico, prima del suo ingresso sulla scena politica, lo scorso anno. Tuttavia la vera fortuna le ha arriso nel momento in cui ha abbandonato il campo delle discussioni politico-culturali per essere usata come strumento di battaglia politica. Quando nel dibattito delle primarie irrompe lo slogan Votez pour la démondialisation pochi sapevano di cosa si trattasse. Eppure ha attirato l’attenzione della stampa e di una parte dell’elettorato socialista, benché alla fine il suo promotore non sia stato baciato dalla fortuna elettorale. Nel suo progetto politico e nel suo libro, Montebourg proponeva di sostituire la mondializzazione e quindi la deregulation di tutti i mercati con un sistema di preferenze commerciali realizzato attraverso la stipula di trattati bilaterali tra gli Stati, di do- “ Quando nel dibattito sulle primarie irrompe lo slogan “votez pour la démondialisation” pochi sapevano di cosa si trattasse ” 26 n. 04/2012 Effetto “boomerang” del libero scambio di Antonio Venier O rmai da molto tempo è diventata convinzione quasi generale, che il libero scambio di ogni sorta di merci e servizi fra le diverse nazioni sia ottima cosa per lo sviluppo dell’economia, anzi indiscutibile fattore di prosperità per tutti. Questa convinzione generale è stata ottenuta attraverso il controllo e l’utilizzo dei mezzi di informazione, con l’opportuno sostegno di studiosi ed esperti. In questo modo è stato fatto credere al pubblico che una qualsiasi forma di protezionismo, anche se moderata e selettiva, deve essere respinta senza necessità di analisi o discussione. Le voci isolate di quelli che mettevano in dubbio tali benefici effetti, e che consideravano invece possibile un rapporto fra libero scambio ed impoverimento, sono state opportunamente smorzate, in quanto non conformi alla ideologia politico-economica ormai dominante. 27 n. 04/2012 I dati statistici disponibili circa dal 1830 in poi per i paesi europei e gli Stati Uniti dimostrano costantemente la coincidenza dei periodi di forte crescita economica con quelli di politica protezionista, ed al contrario, di crescita debole nei periodi libero scambisti (per dati, rif. Bairoch, Miti e paradossi della storia economica, ed. 1996). In particolare, vanno messi in evidenza il forte sviluppo industriale tedesco dal 1885 in poi, e soprattutto quello degli Stati Uniti, rigidamente protezionisti dal 1870 alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ben più di qualsiasi paese europeo. 7. Ovviamente questa coincidenza statistica non può far concludere semplicisticamente, che la prosperità possa ottenersi soltanto con la protezione dei prodotti nazionali, industriali ed agricoli. Tuttavia, dovrebbe essere ampiamente sufficiente per dimostrare la inconsistenza, anzi la falsità, della affermazione contraria, che il libero scambio senza limiti sia fattore positivo per tutti i paesi, anziché vantaggioso per alcuni e dannoso per molti. In realtà, il libero scambio è stato causa di prosperità soltanto in casi particolari, e per periodi limitati nel tempo. Il caso più tipico è quello di un paese industriale in condizioni di grande superiorità tecnica e produttiva, esportatore senza concorrenti in settori di grande importanza, quale è stata l’Inghilterra fino oltre la metà dell’Ottocento per macchinari, ferrovie, costruzioni navali, etc. La formazione nel secolo XIX di una consistente struttura industriale è stata possibile soltanto in quei paesi che hanno efficacemente protetto le loro industrie nella fase di sviluppo, quando non potevano essere competitive con i prodotti britannici. Non dissimile appare la situazione degli Stati Uniti, diventati libero-scambisti dopo la Seconda Guerra Mondiale, appunto dopo avere raggiunto una condizione di superiorità tecnologia nei settori industriali più avanzati, quali tipicamente sono ora gli aviogetti civili, il nucleare, la grande elettronica ed in generale i sistemi d’arma complessi. In entrambi i casi citati, la Gran Bretagna del secolo XIX e gli Stati Uniti d’ora, il libero scambio protegge efficacemente le condizioni di superiorità acquisite, ed impedisce lo sviluppo di nuovi concorrenti. Paradossale risultato, che dovrebbe far riflettere i sostenitori intransigenti della libera concorrenza senza interferenze statali, o almeno quelli in buona fede. 8. L’argomento forte portato a sostegno del libero scambio è quello dei benefici della libera concorrenza, capace di fornire ai consumatori merci e servizi al prezzo più basso. Si tratta di argomento solo apparentemente forte, ma che si rivela molto meno consistente se esaminato più seriamente. Rimanendo nell’ambito dell’economia di un paese industrializzato come il nostro, conviene tenere presente che oltre i consumatori esistono anche i produttori, anzi spesso coincidenti nelle stesse persone. La concorrenza, necessariamente basata sui prezzi più bassi, riduce od elimina le possibilità di autofinanziamento delle imprese, ed anzi conduce necessariamente verso il produttore unico attraverso la progressiva eliminazione di quelli meno efficienti. Quindi il vantaggio per il consumatore risulta necessariamente transitorio, e non certo permanente. Per inciso, a scanso di malintesi ed incomprensioni, è opportuno sapere che le riduzioni nei prezzi e nei costi dei pro- 2. L’accettazione generale della dottrina libero-scambista da parte dei paesi industrializzati europei è infatti strettamente connessa, anzi ne è parte integrante fondamentale, con l’affermazione delle teorie così dette “neo-liberiste”, ormai più o meno da tutti considerate come evidenti ed indiscutibili leggi di natura. Come è ben noto, queste teorie neo-liberiste sostengono la fede nel libero mercato di tutto quanto come distributore ottimale delle risorse; il rifiuto di ogni intervento statale per sostegno e regolazione delle attività economiche; ed appunto lo scambio libero da qualsiasi limite ad ostacolo, interno ed internazionale, di tutto quanto possa considerarsi scambiabile; prodotti industriali ed agricoli, materie prime, capitali ed investimenti, etc. 3. Ricordiamo che la dottrina del libero scambio, come quella più generale neo-liberista, che la include, trova origine nelle rudimentali teorie economiche elaborate circa due secoli fa dai così detti grandi economisti classici inglesi. Teorie economiche che sono sopravvissute e si sono anzi diffuse, a dispetto della loro inconsistenza largamente dimostrata dalla esperienza storica; sopravvivenza e successo attribuibile da un lato alla loro rozza semplicità, che le rendeva facile oggetto d’insegnamento e comprensibili ai più sprovveduti lettori e commentatori. Dall’altro, probabilmente più consistente, poiché queste teorie erano ben funzionali agli interessi economici britannici nel secolo XIX. 4. Ritornando al tempo presente, bisogna ricordare che almeno da due decenni od anche più, il libero scambio è sostenuto energicamente dalle grandi organizzazioni finanziarie internazionali, dal FMI alla Banca Mondiale, oltre che dall’organismo appositamente costituito per la liberazione totale del commercio internazionale GATT, diventato dal 1955 “Organizzazione mondiale del Commercio” (OMC). Neppure si può dimenticare l’azione della Commissione Europea di Bruxelles, che arriva al paradosso di utilizzare fondi e strumenti politici (le “direttive” accettate dai governi europei) per liberalizzare a forza gli scambi commerciali, a costo di danneggiare seriamente l’attività economica in alcuni paesi della Comunità Europea, fra i quali ovviamente soprattutto il nostro, che si distingue per sottomissione e obbedienza. 5. La diffusione generalizzata del libero scambio, sostenuta energicamente – come abbiamo detto – dalla totalità dei mezzi di informazione e soprattutto dalle potenti organizzazioni finanziarie internazionali, non è però stata accompagnata da un aumento della prosperità. Questo dato di fatto appare evidente confrontando l’incremento degli scambi con quello della produzione di beni e servizi. Per fornire un riferimento quantitativo, nel periodo dal 1981 al 1996 (secondo dati di fonte GATT/OMC), il commercio mondiale è più che raddoppiato in termini reali, mentre l’incremento del PIL (sempre in termini reali, cioè, di volume) è cresciuto circa del 50 %. Queste cifre riguardano la produzione e l’interscambio di beni e servizi. Nello stesso periodo enormemente maggiore è stato l’incremento del movimento dei capitali, riconducibile però solo in minima parte all’interscambio commerciale. 6. Il collegamento negativo fra il libero scambio e il progresso economico non è certo un caso anomalo di questi ultimi anni. 28 n. 04/2012 essere molto vario. Infatti alcuni paesi dotati di consistente produzione d’alta tecnologia possono sopportare senza inconvenienti, ed anzi talvolta trarre vantaggio dall’entrata nel mercato internazionale dei prodotti di basso costo, tipicamente beni di consumo a basso contenuto tecnologico. Ben diverso è il caso dei paesi privi di un forte settore d’industrie ad alta tecnologia, in quanto tali al riparo della concorrenza proveniente dai paesi con bassi costi salariali. Questo è il caso dell’Italia, dove la massima parte della produzione industriale riguarda prodotti con medio o basso contenuto tecnologico, e pertanto esposti e sensibili a tale concorrenza. 12. Di fronte a questo problema, le proposte dei governanti, banchieri diversi ed industriali, sono state le più primitive e le meno ragionevoli: bassi salari, così detta flessibilità e tagli alla protezione sociale. Dovrebbe essere evidente a tutti, che riduzioni nei costi salariali e previdenziali dell’ordine del 5 % o del 20 % non servono a nulla, quando gli stessi prodotti sono fabbricati altrove con costi salariali infimi, oltre ad altri vantaggi. Invece queste primitive proposte, profondamente sbagliate, se applicate possono avere un effetto molto dannoso sul nostro sistema economico contribuendo efficacemente all’impoverimento generale dell’Italia. Osserviamo che i bassi salari e l’eliminazione di una protezione sociale decente sono raccomandate al nostro Paese anche dagli organismi internazionali, quali Commissione europea, FMI e simili, oltre che dai più autorevoli “esperti”. Seguendo questi autorevoli raccomandazioni e consigli, l’Italia potrà in breve tempo assumere la funzione di serbatoio di lavoro mediamente qualificato a basso costo nel quadro dell’Unione Europea. 13. Una prospettiva di questo genere, che comporta una prevedibile riduzione dell’attuale livello di vita (peraltro, già peggiorato a quello di un decennio fa) richiederebbe una efficace azione per contrastarla, che peraltro finora appare lontanissima dai pensieri dei governanti, industriali, etc. dotti industriali sono sempre state dovute a motivi tecnici, progresso scientifico e produttività industriale, e non certo alla mitizzata libera concorrenza. Progresso tecnico e produttivo che presuppone appunto per le industrie una consistente capacità di autofinanziamento, oppure di sostegno pubblico. 9. Soltanto poche parole merita uno degli argomenti dei sostenitori del libero mercato e della benefica concorrenza. Si tratta della possibilità, per una impresa espulsa dal mercato come perdente nella concorrenza, di dedicarsi ad altro settore di attività con migliori risultati. Questa è una evidente sciocchezza, poiché ovviamente qualsiasi nuova attività non può essere né efficiente né competitiva nella sua fase iniziale, ed inoltre richiede conoscenze tecniche diverse dalle precedenti normalmente non acquisite. La conversione di una industria a una nuova attività non è certamente cosa impossibile, ma per essere realizzata richiede sia consistenti spese “a fondo perduto” che la protezione del prodotto, cioè in sostanza quell’azione di sostegno pubblico rifiutata appunto dai fautori della libera concorrenza. 10. Il problema della concorrenza e del libero scambio fra sistemi produttivi fra di lor molto diversi per livelli salariali, protezione sociale e fiscalità è diventato da qualche tempo di grande importanza. Osserviamo che in questo caso sono da considerare le caratteristiche specifiche dei diversi sistemi economici, ben più che l’efficienza delle industrie produttrici, come invece è nella concorrenza all’interno di uno stesso paese. Consideriamo infatti l’enorme differenza dei costi, fra prodotti simili fabbricati per esempio in Italia oppure in un paese dell’Asia sud-orientale o dell’Europa orientale. Il molto minore costo del prodotto esterno non è dovuto affatto a una migliore efficienza produttiva, che generalmente anzi non esiste. Invece è dovuto quasi del tutto ai rapporti di scambio fra le diverse monete, che alterano enormemente i costi salariali rispetto a quelli europei, anche in rapporto 1 a 10 o più. A questo si aggiungono importanti diversità nelle condizioni di fiscalità e protezione sociale. 11. L’effetto sull’economia dei paesi industriali avanzati dovuto a questo tipo di concorrenza internazionale può “ Di fronte alla crisi, le proposte dei governanti sono state primitive e irragionevoli: bassi salari, flessibilità e tagli alla protezione sociale” Riportiamo questo articolo di Antonio Venier, apparso su Critica Sociale (n. 5, 1998), ancora attualissimo dopo quasi quindici anni dalla sua stesura originale. Ringraziamo l’autore per aver messo a disposizione questo scritto. 29 n. 04/2012 Il naufragio del libero mercato A colloquio con Nino Galloni, direttore generale al Ministero del Lavoro Questo si collega all’abbandono del modello stabilito dagli accordi di Bretton Woods nel ’44 (che fungerà un anno dopo da traccia per la conferenza un di Yalta), nell’ambito dei quali i Paesi che dovevano dotarsi di un apparato industriale e, conseguentemente, erano costretti a importare, mettendo le proprie bilance commerciali in disavanzo, venivano aiutati dal nuovo Fondo Monetario Internazionale. In realtà poi questo programma non venne rispettato e il nuovo FMI diventò un modo per finanziare qualunque disavanzo dei Paesi, purché fossero allineati agli Stati Uniti d’America. Negli anni ’80, si ha un’ulteriore svolta e viene stabilito che ciascun Paese è responsabile della propria bilancia commerciale. Se questa non è in equilibrio ci sono tre possibilità: nel caso che sia in avanzo deve rivalutare la propria moneta; nel caso in cui sia in disavanzo la deve svalutare; nel caso in cui ci siano i cambi fissi (ovvero la moneta unica) deve importare capitali e quindi trovare l’equilibrio attraverso la bilancia dei pagamenti. Per importare i capitali li deve invogliare e, per fare ciò, deve far crescere i propri tassi di interesse interni (oggi c’è lo spread ma ieri il problema era lo stesso, in realtà non è cambiato molto). Ma che cosa succede, a questo punto? Che quando un Paese è già debole e in disavanzo commerciale, cioè non riesce ad esportare ed importa troppo, fa crescere i propri tassi di interesse e si indebolisce ancora di più. Quindi questo sistema di libero mercato, che è naufragato alla fine dell’anno scorso, è insostenibile dal lato dell’economia reale, perché non tutti i Paesi potevano essere stabili, dato che l’equilibrio di un Paese debole era perseguito indebolendolo ancora di più; tant’è che la crisi monetaria del ’92 fu causata da questa situazione in condizione di cambi fissi all’interno dello SME (Sistema Monetario Europeo). D. Quali sono state, secondo Lei, le cause della crisi attuale? Si tratta di cause episodiche oppure possiamo considerarle strutturali, cioè implicite nel sistema stesso? R. Per comprendere le cause di questa crisi, nata dall’economia reale, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e capire ciò che lega la cultura economica ai sistemi di governo e di produzione. Fino agli anni ’70, la realtà era caratterizzata prevalentemente da economie di scala e, quindi, da costi decrescenti. In questa situazione c’era spazio per l’aumento dei salari, la tenuta dei profitti e l’introduzione di tecnologie sempre più avanzate. Vi era spazio anche per la crescita delle piante organiche e delle piante industriali, il che comportava continue economie di scala, quindi riduzioni dei costi e, conseguentemente, anche benefici sul piano dei prezzi. Con la controrivoluzione liberistica degli anni successivi, dall’inizio degli anni ‘80 in poi, si è avuta una cultura economica di tutt’altro genere che, in nome del libero mercato, quindi per ripristinare una condizione di accesso di tutti a questo mercato, si basava su una logica di costi crescenti. I lavoratori dovevano essere pagati sempre di meno, l’ambiente non doveva essere rispettato, e le tasse stesse erano soprattutto un costo dal punto di vista dei singoli. Si è quindi passati da una logica macroeconomica dei decenni precedenti, che avevano conosciuto un certo sviluppo, ad una in cui prevalevano le esigenze di microeconomia e, conseguentemente, ad una cultura da bassi salari, flessibilità che diventava precarietà, contraffazione delle regole; questo perché la globalizzazione (quella che abbiamo chiamato così ma che, in realtà, non è che una competizione sfrenata a livello internazionale) premiava il produttore peggiore, quello cioè che era competitivo perché riusciva legalmente o illegalmente a pagare di meno la mano d’opera, a non rispettare l’ambiente e le normative (anche quelle internazionali). 30 n. 04/2012 famiglie e delle imprese (anche criminali): di qui la crisi di liquidità anche perché il “sistema bancario” era stato rimosso e le singole banche sapevano che il vicino versava in condizioni di illiquidità simili alle proprie. Il mercato interbancario era fottuto. Questa montagna di derivati è solo una parte dei cosiddetti titoli tossici, i quali ammontano invece a tre-quattro milioni di miliardi (quadrilioni) di dollari. È una situazione, da un punto di vista finanziario, insostenibile, ingestibile. Con la illiquidità prima descritta, gli unici soggetti regolatori sono le banche centrali; ma queste ultime non hanno possibilità pari al 10% dei titoli tossici, vale a dire 6/7 volte il PIL mondiale. Dunque cosa si inventano l’estate scorsa? La illimitatezza del sostegno alle esigenze di liquidità delle banche: non si cerca una modalità per frenare i loro comportamenti, soprattutto dividendo nettamente i soggetti che fanno attività speculative da quelli che devono dare credito all’economia; infatti, non ci può essere ripresa laddove non vi sia credito all’economia, se è tutto bloccato dal lato delle spese pubbliche, se calano i consumi, se i privati non fanno investimenti perché non vedono la ripresa. Sarebbe necessario che ognuno facesse la sua parte, cosa di cui nessuno invece si preoccupa. La FED dispone questo tipo di sostegno il 15 settembre del 2011 e la BCE, dopo alcuni tentennamenti, nel novembre del 2011 si adegua anche lei, con l’approvazione di Mario Draghi. Sostegno illimitato alle esigenze di liquidità delle banche. Senza nessuna contropartita. Ciò che è scandaloso non è che le banche centrali forniscano illimitatamente liquidità alle banche, ma il fatto che non dicano loro di smetterla. Per cui i derivati stanno ricominciando a crescere e le esigenze di liquidità cresceranno parimenti perché la ripresa nel frattempo non inizia. Ecco la situazione nella quale ci siamo trovati. Dopodiché, si è arrivati alla moneta unica che, diciamolo, è stata una forzatura perché in genere prima si trova una certa unione politica, poi si fa la moneta. Invece, qui si è creata la moneta e poi ci si è accorti che non c’era nessuna unione politica. E questa è causa di problemi, non solo a livello europeo ma, a sentire Obama, anche a livello internazionale (secondo il Presidente americano, tutti i mali parrebbero nascere dall’euro, il che non è una visione prettamente condivisibile, ma nemmeno del tutto campata in aria). Su questa situazione si instaura la crisi finanziaria, o meglio, si inseriscono i comportamenti degli agenti speculativi che sono le banche stesse, diventate anche soggetti speculativi. C’è peraltro da tener conto che, finché la Borsa è andata bene dopo la crisi dei titoli obbligazionari del ’92 e fino all’inizio di questa crisi nel 2001, c’è stato un certo trainamento, un rialzo dei titoli tecnologici (e-technology, e-commerce ecc.). Quando questa corsa si è interrotta e gli operatori hanno visto che i rendimenti non erano più crescenti (questo è successo alla fine della primavera del 2001), cambia il regime e si comincia a svendere, cioè a speculare al ribasso: si prende oggi un titolo a credito per rivenderlo immediatamente domani, saldandolo con l’originario venditore a termine. E in questo frattempo si fa abbassare il titolo il più possibile e si guadagna la differenza al ribasso fra i due momenti. Siccome però le banche avevano emesso titoli a rialzo e si erano quindi impegnate coi loro sottoscrittori a livelli notevoli, che più o meno scimmiottavano l’elevatezza dei tassi di interesse reale nel decennio precedente (quello che va dall’83 al ’92 e che vedeva alti tassi di interesse sulle obbligazioni), cosa è successo? Sperando ci sarebbe stata, dopo uno/due trimestri, la ripresa, le banche hanno fatto operazioni di derivazione. Per dirla con parole semplici, piccole catene di Sant’Antonio per garantire il rendimento promesso ai sottoscrittori. Se questo gioco dura tre o sei mesi si può reggere; invece, di trimestre in trimestre, di semestre in semestre, mentre era prevista una ripresa che non sarebbe mai potuta avvenire (perché non si sono rimossi gli ostacoli alla crescita dell’economia reale di cui ho accennato prima), questi disgraziati hanno continuato a fare operazioni di derivazione, che hanno prodotto effetti per circa ottocento trilioni di dollari, cioè ottocentomila miliardi di dollari. Ecco cos’è successo. Nel 2008, le banche si sono accorte che le perdite da operazioni speculative superavano le rimesse – a vario titolo – delle “ Si tratta di rispristinare la sovranità monetaria e di togliere gli interessi del debito pubblico dal bilancio dello Stato ” D. Dobbiamo quindi dedurre che la situazione sta degenerando ulteriormente? R. Assolutamente sì. Ma il mondo è diverso da cinquant’anni fa: allora una situazione del genere avrebbe creato un’inflazione devastatrice dopo la quale poi l’incognita sarebbe stata quella dell’impatto del disastro finanziario sull’economia reale; tuttavia, poi si ricominciava. Invece qui ci sono meccanismi che consentono di sostenere questo sistema, anche se non credo illimitatamente. Però, intanto, quello è l’impegno delle banche centrali. Pensate che basterebbe un decimo di quello 31 n. 04/2012 l’ipotesi di una crisi inflattiva da eccesso di moneta: ma, invece di trarre vantaggio da tale situazione, l’umanità la sta sprecando utilizzandola solo per autorizzare le speculazioni nelle loro folli corse. La follia la paga la società che rischia di rompersi, in quanto gli speculatori riescono sempre a guadagnarci su: al ribasso, come ho accennato, e anche sfruttando il fatto che singole operazioni, in perdita alla fine del termine (giorno, mese, trimestre, anno…), tuttavia vengono remunerate al loro ripetersi nell’unità di tempo (secondi, millesimi, nanosecondi, metà giornata…). che le banche centrali hanno dedicato alle banche che producono i derivati per avviare la ripresa, per risolvere il problema. Utilizzando possibilmente anche il volano del credito, che è la moneta più importante. Tuttavia, quest’ultimo, per essere utilizzato pienamente, abbisogna che lo stesso soggetto non faccia sia attività speculativa finanziaria sia attività di credito. È necessario tornare a distinguere i due soggetti. Questa è la condizione per iniziare a parlare seriamente di come uscire da questo casino. D. Dunque un’inversione di marcia è ancora possibile, laddove si agisca in tempi brevi? R. Sì, anche se poi il problema sarà quello di sterilizzare in qualche modo questi quadrilioni di titoli tossici. Perché basterebbe un accordo fra i principali Stati del pianeta (penso alla Cina, all’India, alla Russia, agli Stati Uniti d’America e ovviamente anche all’Europa) affinché li congelino ed emettano dei titoli corrispondenti – da loro garantiti – per finanziare lo sviluppo. Se questo accordo avvenisse il problema non sussisterebbe. Ma il vero nodo problematico sta nella situazione delle singole banche, per le quali mi pare ormai che la situazione stia sempre più degenerando, soprattutto per quanto riguarda quelle più incasinate, tra le quali escluderei quelle italiane (dunque, la nostra situazione da questo lato è migliore di quella spagnola, francese, inglese e tedesca). Questo per quanto riguarda le cause della crisi che stiamo vivendo; da quanto abbiamo detto, si capisce come siano strutturali, già implicite nelle premesse del sistema. “ Occorre separare in modo netto e deciso i soggetti che svolgono attività speculative e coloro che invece esercitano attività di credito ” D. Esistono, a Suo parere, delle soluzioni realizzabili per uscire da questa situazione? R. Per uscirne bisogna compiere alcune operazioni fondamentali. La prima, di cui abbiamo già parlato, è la netta separazione fra i soggetti che svolgono attività speculative e i soggetti che svolgono attività di credito. Per quanto riguarda invece la seconda, si tratta di ripristinare la sovranità monetaria. Mi riferisco soprattutto alla situazione attuale degli USA, i quali possiedono sovranità monetaria, come la Cina in fondo, solo che, per esempio, gli USA utilizzano questa potenzialità per fare delle guerre inutili e dannose (ovvero attività che potremmo definire speculative) senza sfruttarla abbastanza per fare investimenti di infrastrutturazione del pianeta e altre cose di questo tipo. Oggi l’umanità ha a disposizione, a differenza del passato, tecnologie che consentono di produrre e di migliorare le condizioni di vita di tutti senza problemi. Infatti, tutta questa moneta che viene creata non genera inflazione perché qualcosa arriva comunque anche alle tasche della gente (o almeno, di alcune categorie) e la domanda rimane sempre abbastanza alta. I prodotti, i servizi e le capacità produttive inutilizzate ci sono e rappresentano la salvaguardia dall’inflazione, almeno per il momento. Poi non sappiamo cosa succederà. In terzo luogo bisogna togliere gli interessi sui titoli del debito pubblico dal bilancio dello Stato. Questo si fa mettendo il debito pubblico fuori dal perimetro dello Stato in quanto tale, come amministrazione. È necessario, quindi, creare un fondo che raccolga tutte le realtà da reddito delle pubbliche amministrazioni e non solo, a garanzia del debito stesso, in modo da risparmiare, nel caso dell’Italia, quegli 84 miliardi di interessi all’anno che sono una palla al piede. Il peso, infatti, non è il D. Qual è la differenza rispetto alle grandi crisi del passato, ad esempio con quella del 1929? R. Dunque, ci sono analogie e differenze. Un aspetto in comune con la crisi del ’29 è il fatto che le retribuzioni, quindi i consumi, crescono meno rispetto alle capacità produttive; da ciò consegue una situazione di insufficienza della domanda. C’è uno spostamento della ricchezza verso la finanza e un risucchiamento, sia attraverso le tasse sia tramite altri sistemi, delle risorse create e prodotte dalla gente che lavora nei confronti di chi campa in qualche modo di rendita. Il che non è evidentemente una buona notizia. La grande differenza è che oggi le capacità produttive rapidamente recuperabili sono talmente ingenti che non esiste 32 n. 04/2012 precari, non ci può essere equilibrio. Stiamo parlando di una dozzina di miliardi di euro. Ovviamente poi, in fondo, i lavoratori dipendenti e soprattutto i parasubordinati portano invece risorse e si fa una compensazione per cui il disavanzo dell’INPS è contenuto, ma è un’apparenza: in realtà non si affrontano i problemi strutturali. Qui si parla tanto di riforme ma poi non si fanno interventi dove sarebbe più necessario. Un altro punto da affrontare è il riposizionamento della pubblica amministrazione dello Stato, che deve diventare “amica” dei cittadini. L’impresa e l’artigiano devono vedere in essa un amico che va a trovarlo e gli sistema il bilancio, gli mette a posto le inadempienze ecc. perché lo Stato, la pubblica amministrazione si deve posizionare fra la criminalità (che deve combattere senza tregua) e l’irregolarità per cui deve affrontare direttamente le inadempienze, aiutandosi nell’interesse comune. Non sconfiggeremo mai l’illegalità e la criminalità in questo Paese finché la faremo alleare con l’esercito degli irregolari, che sono decine di milioni, perché ci sono troppe leggi, troppi regolamenti, troppi impicci. Il prossimo governo dovrà cancellare leggi, non farne altre. I funzionari pubblici e gli ispettori dovranno avere maggiori poteri, nell’interesse dei cittadini; ma dovranno sentirsi le spalle coperte, non che se vanno in deroga a qualche normetta pensano di fare una brutta fine. Devono sapere che il loro obiettivo è quello di aiutare l’utenza e, quindi, se c’è un’inadempienza la devono sistemare loro. Questo è fondamentale per avere una amministrazione pubblica moderna. Bisogna passare da una logica burocratica ad una logica commerciale. Così si può salvare il Paese. Ovviamente, se l’euro non regge, bisogna attrezzarsi per fare – in base alle nostre vocazioni – affari con il Sud America, con il Nord Africa, coi Balcani, con la Russia. Secondo me l’Italia ha le risorse per farcela. Tra l’altro oggi ci sono tecnologie di cui molti brevetti sono italiani (per il trattamento dei rifiuti, la sostituzione con altre tecnologie per i veicoli di trasporto e dei modi di trasporto, la produzione di energia, tutte su basi locali): se messi in produzione consentirebbero veramente di gestire meglio il Paese e di farci diventare leader di tutta una serie di aspetti strategici dell’economia. Se però non si riesce a creare una politica che voglia questo è ovvio che fra poco andremo verso una situazione ancora più grave di quella che stiamo vivendo. debito in quanto tale, ma i suoi interessi. Il problema dell’Italia è lo spread (così come negli anni ’90 le modalità di compensazione dei disavanzi commerciali, o prima la politica errata del debito da parte delle autorità monetarie). La politica di questo governo non è stata quella di abbassare lo spread ma quella di mettervi un tetto, oltre il quale deve entrare in funzione il cosiddetto fondo salva-Stati. Ma quel tetto, se impedisce il tracollo nel giro di poche settimane, ci fa morire più lentamente. Perché occorrerebbe portare lo spread attorno ai 100 punti massimo. O, se vogliamo, abbassare il tetto ai 100 punti, non tenerlo intorno ai 400 o poco meno… anche con uno spread a 350 siamo in difficoltà con gli investimenti per la ripresa! Come si fa a tenerlo basso? Prima di tutto bisogna far crescere l’economia. Questa è la prima cosa. Ovviamente gli stessi mercati internazionali che ci chiedono lo sviluppo vogliono vedere anche i conti in ordine, quindi, in questo momento dovremmo dare capacità d’acquisto alle famiglie ma non aumentare il disavanzo pubblico e quindi l’emissione di titoli. Ad esempio, che cosa succede quando abbassiamo (e quando abbasseremo, se faremo come la Spagna con le tredicesime) gli stipendi dei dipendenti pubblici? Avremo un calo dei loro consumi, con tutte le conseguenze sul piano occupazionale dell’indotto del pubblico, i consumi privati delle famiglie dei dipendenti pubblici. Un fatto assolutamente negativo perché alla fine dell’anno, se continuiamo così, ci accorgeremo che il PIL è calato del 3%: se non cambiamo rotta tempestivamente le conseguenze saranno devastanti perché lo spread schizzerà più in alto. Per far accettare alla Finlandia, all’Olanda, alla Germania di intervenire per non farlo alzare oltre i 500-600 punti, dobbiamo dare loro in cambio lacrime e sangue? Ma lacrime e sangue sono proprio quello che ci impedisce lo sviluppo! Possiamo anche, per ipotesi, sospendere le tredicesime dei dipendenti pubblici, ma dobbiamo dare loro della moneta non convertibile (dei buoni, dei voucher, dei coupon senza copertura in euro, ovviamente, ma spendibili sul mercato interno) da utilizzare nei negozi per approvvigionarsi di cibo, vestiario, oggetti di consumo. D. Esiste un rapporto tra quanto sta dicendo, il coinvolgimento delle categorie produttive e la previdenza? R. Occorre un patto con i commercianti e gli artigiani affinché accettino questa moneta complementare. Perché, a loro volta, queste categorie stanno mandando strutturalmente in disavanzo l’INPS. Non ci si rende conto che questo disavanzo è dovuto fondamentalmente al fatto che gli artigiani evadono perché non gli si spiega che gli converrebbe non evadere; andrebbe rivista tutta la posizione dei commercianti all’interno dell’INPS. Tutto il mondo agricolo sarebbe da rivisitare, poiché l’agricoltura nel nostro Paese è fondamentale, molto più importante di quello che comunemente si crede, ma non è l’agricoltura da assistenza degli anni’70. Bisognerebbe ragionare di più su quello che si potrebbe fare per questo settore. È ovvio che se le imprese non crescono non c’è domanda di dirigenti e, mentre quelli di venti, trent’anni fa sono andati in pensione con alte pensioni, quelli attuali sono pochi; non ci sono abbastanza versamenti. Oltretutto c’è ora il problema dei dipendenti pubblici che sono entrati nell’INPS. È ovvio che, se non si assumono più dipendenti pubblici ma si pagano le consulenze e i lavoratori D. Le speranze allora non mancano, laddove vi sia una volontà politica... R. Le speranze ci sono. Finché regge la capacità produttiva industriale dell’Italia, in qualsiasi momento ci possiamo riprendere. Però non ci dimentichiamo che le imprese italiane, soprattutto quelle del centro-nord, stanno alla canna del gas. Non hanno banche che le aiutino, infrastrutture che funzionino, una pubblica amministrazione amica, le tre cose fondamentali su cui bisogna intervenire per fare investimenti, per cambiare i rapporti e gli obbiettivi, per avere una banca (bank in inglese significa sponda) adeguata. Nino Galloni (1953) è stato funzionario di ruolo al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica (oggi Ministero dell’Economia). È stato nominato, nel 1990, direttore generale al Ministero del Lavoro. Autore di numerosissimi libri ed articoli di economia, ha anche insegnato nelle Università di Milano (Cattolica), Napoli, Roma (Luiss), Cassino e Modena. 33 n. 04/2012 Filosofia della crisi A colloquio con Costanzo Preve, allievo indipendente di Marx e Hegel causa strutturale è che con l’avvento della globalizzazione l’Europa non è in grado di sostenere il modello neo-liberale mantenendo le conquiste sociali del welfare state che hanno caratterizzato il Novecento europeo in tutte le sue varianti: comunista, fascista, socialdemocratica. Per cui, in questo momento, quando parliamo di crisi, è bene aver chiaro che non riguarda il mondo intero, perché ci sono aree che sono in fase di sviluppo, per cui preferirei che la parola crisi venisse associata ad un modello capitalistico di accumulazione legato allo stato nazionale, una volta che sia stato distrutto dalla finanziarizzazione della globalizzazione, ed è una crisi sostanzialmente dell’Europa, dei lavoratori e dei popoli europei. Certo, essa si fa sentire anche in India, Cina e Brasile, ma non presenta le medesime caratteristiche che ha in Europa. D. Quali sono sono state, secondo Lei, le cause della crisi attuale? Si può parlare di ragioni strutturali? Di episodiche? R. C’è prima di tutto il discorso della crisi storica in cui ci troviamo, dovuta alla fine del bipolarismo russoamericano e all’avvento di un nuovo unipolarismo imperiale a cui si contrappone faticosamente un multipolarismo in fieri, per altro potenziale, i cui protagonisti sono Russia, Cina e Brasile, in realtà non ancora operativo, dal momento che l’Europa è completamente schierata con l’oligarchia americana. In secondo luogo, abbiamo il discorso economico. Questa crisi ha avuto cause contingenti, ovvero la cosiddetta crisi dei subprime americani, che ha avuto grandi conseguenze, specie nel settore edile (pensiamo per esempio alle centinaia di alloggi sfitti in Spagna che hanno causato il tracollo dell’economia spagnola), ma certamente è una crisi di sovrapproduzione nella nuova fase della globalizzazione. La definirei, con terminologia marxiana, una crisi di sovrapproduzione, ovviamente in rapporto ai beni acquistabili dal mercato. Sovrapproduzione significa sottoconsumo, sono due aspetti convergenti. Ciò si presenta però in una situazione storica nuova, nella quale assistiamo al completo venir meno della sovranità monetaria dello stato nazionale e, pertanto, all’innesco di dinamiche finanziarie globalizzate non più controllabili. È una crisi di svalutazione del lavoro; essendosi l’Unione Europea basata sull’impossibilità di svalutare la moneta nazionale, in tempi di crisi si svaluta la moneta o il lavoro. O si svaluta la moneta, e questo rende possibile una maggiore concorrenzialità della moneta nazionale, come è stato per duecento anni in Europa, oppure si svaluta il lavoro. In questo momento si sta facendo questo. Ecco l’aspetto più noto della crisi per i lavoratori europei, particolarmente giovani. Ma le cose che dico sono ben note a tutti. La D. Quali differenze e analogie si riscontrano tra la crisi contemporanea e altre del passato, come ad esempio quella del 1929? R. Come in tutti i fenomeni storici, si ritrovano analogie e differenze. Occorre capire se prevalga l’aspetto analogo o la differenza qualitativa, l’aspetto di novità. Analogamente al 1929, questa è una grande crisi di sovrapproduzione, legata all’impossibilità da parte del consumo di assorbirla, crisi che nel ‘29 fu superata solo dalla Seconda Guerra Mondiale. È ovviamente una leggenda metropolitana l’ipotesi secondo la quale sia stata risolta dal New Deal. Fu superata grazie alla corsa agli armamenti e alla Guerra Fredda, che non fu altro che la prosecuzione della guerra, nel periodo che Hobsbawm definisce “dei trent’anni gloriosi”. Siamo oggi in una situazione diversa però, perché nel ‘29 non avevamo ancora a che fare con dinamiche globalizzate. C’erano intere aree fuori dal modello capitalistico, come l’URSS o le zone del mondo in cui dominava 34 n. 04/2012 dimensioni che, per la verità, furono sempre intrecciate, sin dall’Ottocento. Ma da circa trent’anni si è stabilito un netto dominio del capitale finanziario, il che ha causato la fine della separazione tra l’aspetto speculativo e quello reale. La conseguenza è che l’economia reale è completamente dipendente dalla finanza, come dimostra l’egemonia del concetto di spread e il potere delle agenzie di rating sugli Stati. Se ancora esiste, l’economia reale come fatto indipendente si trova al massimo nei Paesi in via di sviluppo, come ad esempio la Cina. L’Italia ha venduto e decentrato tutto, per cui non vedo quale economia reale ci potrebbe essere. un sistema di produzione precapitalistico. Fra analogia e novità, a mio avviso prevale dunque la novità, come sostiene Alain de Benoist in Sull’orlo del baratro. D. A quali conseguenze andiamo incontro? R. Non lo so. Ho abbandonato la pretesa del marxismo classico di prevedere la storia. Facendo un’ipotesi dilettantistica, credo che la crisi dell’euro si approfondirà ulteriormente. L’euro è stata un’idea sbagliata, un azzardo. È un fallimento che non potrà trascinarsi a lungo e provocherà una divaricazione ancora più forte tra le due Europe, quella del centro-nord e quella del centro-sud. Altra conseguenza prevedibile è il peggioramento della situazione geopolitica in Medio Oriente, probabilmente con il tentativo di distruggere il governo della Siria di Assad e quello dell’Iran. La tendenza alla guerra è evidente, ma questo non comporta necessariamente una vera e propria guerra come quella contro la Libia o la Serbia. D. Cosa accadrà sul piano geopolitico? Da quale tipo di ideologia è supportata l’attuale egemonia globale? R. Gli USA hanno vinto due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda, o Terza Guerra Mondiale. Questa vittoria ha permesso di estendere il dominio sui Paesi dell’Europa dell’Est e adesso, con la cosiddetta Primavera Araba, fenomeno completamente occidentalizzante, anche in Medio Oriente. Queste sono due gigantesche vittorie geopolitiche. Non vi sono potenze avversarie e quelle emergenti (Brasile, Russia, Cina e India) non hanno intenzione di opporsi in modo strategico. Molto pericolosa è l’ideologia che gli USA portano con sé, un’ideologia puritano-protestante, di origine veterotestamentaria, che li spinge a ritenersi il popolo eletto. Persino i non credenti si considerano parte di questo popolo, eletto dalla Storia e da Dio. È una concezione che si arroga il diritto di portare il bene del mondo attraverso interventi militari. Questo capitalismo messianico ha ereditato alcuni aspetti del vecchio messianismo comunista, ridipingendoli in forma ultracapitalista, ed è un fattore di instabilità permanente. Per citare il mio amico De Benoist, è il nemico principale. L’Europa deve staccarsi da questa pretesa egemonico-imperiale, o non c’è futuro spirituale per essa. È necessario che l’Europa riacquisti una sua autonomia, culturale, militare e politica, rispetto all’America; il che non vuol dire necessariamente antiamericanismo, quanto piuttosto recupero di un’indipendenza strategica. “ L,Europa deve staccarsi dall,imperialismo statunitense o non c,è futuro spirituale per essa ” D. Crede possano darsi risposte filosofiche a questa crisi? R. Dal punto di vista della globalità filosofica e degli orientamenti culturali di fondo (degli anni decisivi, per usare le parole di Spengler), io direi che non vedo forze socio-politiche in grado di dare una risposta adeguata alla crisi. Ma, dal punto di vista filosofico, la risposta esiste sempre. La possibilità di restaurare il metron greco, una economia non crematistica, una tradizione equilibrata del rapporto tra economia e politica in teoria c’è. Ma perchè questa teoria possa prendere gambe e braccia, avere un fallout per così dire, sono necessarie forze socio-economico-politiche in grado di assumere la sfida di questa crisi. Non ne vedo. Non penso che sia sufficiente il movimento di Marine Le Pen in Francia o quello Sirisa in Grecia, che pure sono migliori di altri e tantomeno Grillo può dar soluzioni ai problemi di identità storica dell’Italia, che è in caduta libera perché è in declino sia il modello progressista ex-comunista, del PD, sia il modello berlusconiano. Lo dimostra la consegna del potere a un gruppo di banchieri da parte di ambo gli schieramenti. Questi tecnici seguono una forma di teologia economica neoliberale che è forse ancora più dogmatica della teologia religiosa, che almeno fa riferimento a una spiritualità. La mia risposta è aldilà del pessimismo e dell’ottimismo: non vedo soluzioni. In realtà, l’umanità come specie è sempre in grado di trovarne, ma dal punto di vista del medio termine, specie italiano, non ne scorgo. Costanzo Preve (1943) ha studiato filosofia, scienze politiche e neoellenistica a Torino, Parigi e Atene. Ha insegnato filosofia e storia per trentacinque anni (1967-2002) nei licei italiani. Ha scritto decine di libri e centinaia di saggi d’argomento storico, politico e filosofico. Ha pubblicato: Il popolo al potere (Arianna editrice) e Elogio del comunitarismo (Controcorrente), Dove va la Destra? Dove va la Sinistra? (con Giano Accame, Settimo Sigillo); L’ideocrazia imperiale americana; Filosofia del presente (Settimo Sigillo), Del buon uso dell’universalismo. Elementi di filosofia politica per il XXI secolo (Settimo Sigillo). D. A suo parere, come può una crisi finanziaria divenire economico-reale? R. Con la finanziarizzazione spinta dell’economia non esiste più separazione tra economia reale e virtuale-speculativa. Due 35 n. 04/2012 Crescita infelice, decrescita felice A colloquio con Maurizio Pallante, “Movimento per la Decrescita Felice” D. Quali sono state, secondo Lei, le cause della crisi attuale? Sono strutturali o episodiche? R. Sosteniamo, come movimento della decrescita felice, che la causa della crisi che stiamo vivendo sia un eccesso di produzione, che richiede, per essere assorbito, una continua crescita dei debiti sia pubblici che privati, delle famiglie e delle aziende. Questi aspetti, che solitamente vengono considerati contraddittori – come il rigore per ridurre il debito o l’espansione della domanda per rilanciare l’economia – in realtà sono interdipendenti tra loro. Se gran parte dell’assorbimento della domanda e dell’offerta viene fatta attraverso il debito, la crescita di quest’ultimo è l’aspetto complementare della crescita di produzione delle merci. Perché questa situazione? Perché la concorrenza internazionale, in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci, costringe le aziende a fare continuamente investimenti in tecnologie sempre più performanti che consentano a sempre meno persone di produrre sempre più cose. Queste tecnologie, quindi, aumentano sistematicamente l’offerta di merci e ne fanno diminuire la domanda, attraverso la riduzione dell’occupazione. Questa è la causa, diciamo, strutturale. La causa scatenante, invece, è stata la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti – crisi che d’altronde risponde perfettamente a questa logica. Essa è stata determinata dal fatto che le banche americane prestavano del denaro (economia del debito) a delle persone che esse stesse classificavano nella categoria dei subprime. Erano quindi i clienti meno affidabili, perché erano stati già protestati o perché avevano causato fallimenti e così via. Ma perché prestavano soldi a queste categorie, sapendo perfettamente che non li avrebbero mai restituiti? Perché, in questa maniera, tenevano alta la domanda di case, impedendo la crisi del settore dell’edilizia. Del resto, in tutti i Paesi in cui la crisi ha avuto e ha una maggiore evidenza ci sono grandi quantità di case invendute. D. Come si palesa la crisi, nei diversi ambiti della società? R. È una crisi che si sta manifestando gravemente innanzitutto dal punto di vista occupazionale, ma anche nella crescita dei debiti pubblici. Se si adottano le tradizionali misure politiche economiche per affrontare i periodi di crisi, se si punta a superare il problema occupazionale e a rilanciare la crescita e la produzione di merci, bisogna aumentare la spesa pubblica e quindi il debito. Se invece si vuole agire per ridurre il debito – gran parte della domanda essendo infatti sostenuta da esso – ciò significa aggravare la crisi. Tertium non datur. Questo è comprovato dal fatto che adottando le tradizionali politiche economiche, come si è fatto finora, non si è riusciti a superare la crisi. A fronte di questo, qual è la proposta che il movimento della decrescita felice avanza? La nostra proposta è quella di trovare del denaro fresco per fare investimenti senza aumentare i debiti pubblici. Esso può derivare unicamente dalla riduzione degli sprechi. Perché questi non sono soltanto, diciamo, la produzione di qualcosa che non serve, ma comportano altresì dei costi. Un esempio. Mediamente, per riscaldare le nostre abitazioni, si consumano duecento chilowattora al metro quadrato all‘anno. In Germania non si dà la certificabilità alle case che ne consumino più di settanta: un terzo delle nostre. Ma le case migliori ne consumano quindici: un decimo delle nostre. Se ci fosse una politica economica finalizzata a ridurre gli sprechi degli edifici, se per esempio si riducesse il consumo da duecento a settanta si ridurrebbero di due terzi i consumi delle fonti fossili nel riscaldamento. Non dimentichiamo che il riscaldamento invernale assorbe in cinque/sei mesi la stessa energia che richiedono tutto il parco macchine e tutti i camion nel corso di un anno, quindi un terzo complessivo delle nostre importazioni. 36 n. 04/2012 che saranno capaci di sfruttare un’agricoltura di prossimità e di uscire dalla logica della mercificazione a livello mondiale saranno anche in grado di attenuare le conseguenze negative che la crisi comporterà anche dal punto di vista alimentare. Non dimentichiamoci che l’agricoltura chimica ha un enorme bisogno di fonti fossili: per avere una sola caloria di cibo si arriva a consumarne almeno dodici di più in fossili. Questo è il primo elemento della rilocalizzazione. Il secondo sarà la capacità di garantire la massima autonomia energetica. Anche da questo punto di vista, occorre percorrere due strade: la prima è, come detto precedentemente, la riduzione degli sprechi; la seconda, la soddisfazione del fabbisogno residuo con quelle fonti rinnovabili che sono presenti in maniera differenziata nei vari luoghi del mondo. Il terzo aspetto sarà la massima valorizzazione della piccola e media industria. Nella logica della globalizzazione, queste vengono massacrate dai grandi gruppi multinazionali, che le sfruttano, utilizzandole come fornitrici di indotto di particolari o come contoterziste. Occorre invece dare loro un‘autonomia, instaurando un rapporto diretto con i consumatori. Si tratta di esperienze già avviate, ad esempio, nel settore dell‘abbigliamento. Cominciano ad esserci aziende che si stanno rilocalizzando, sottraendosi alla globalizzazione: non avendo più il problema del marchio, riescono a mantenere i prezzi bassi, garantendo dei prodotti migliori da un punto di vista qualitativo, utilizzando tecniche meno invasive nei confronti dell‘ambiente e pagando adeguatamente i propri dipendenti. A partire dal settore dell‘abbigliamento si stanno sviluppando delle interessanti esperienze anche nelle riduzioni degli sprechi energetici e nello sviluppo delle fonti rinnovabili. Diverse aziende e società stanno praticando quello che viene chiamato il solare collettivo: l’acquisto collettivo di pannelli fotovoltaici per favorire al massimo, diciamo così, l’abbattimento dei costi rispetto ai produttori e la risoluzione dei problemi amministrativi legati all’installazione – e questo, con lo scopo di valorizzare al massimo l’autonomia energetica di una realtà locale. Ma se le nostre case consumassero un terzo di quanto accade attualmente, si avrebbero delle riduzioni dei costi di gestione, dovremmo in sostanza comprare meno petrolio dall‘estero. E i soldi risparmiati potrebbero servire – dovrebbero essere impiegati – per pagare l’occupazione delle persone che lavorano per ridurre i consumi delle nostre case. Si introdurrebbero cioè elementi di riduzione qualitativa nel fare umano e non soltanto di riduzione quantitativa del PIL. In questo settore si può lavorare moltissimo e ci sono diverse cose che potrebbero essere fatte creando quindi non un’occupazione purchessia, ma di qualità, in attività che, riducendo gli sprechi, consentirebbero di recuperare il denaro necessario a pagare gli investimenti. D. L’unico modo di uscire da questa crisi, dunque, sarebbe una riduzione degli sprechi trasversale, che coinvolga cioè tutti i settori. R. È una riduzione che si ottiene mediante lo sviluppo di tecnologie più avanzate, che aumentino l’efficienza con cui si usano le risorse e l’energia e con cui si è in grado di recuperare le materie prime contenute negli oggetti dismessi. L‘uso delle tecnologie che noi sosteniamo e che chiamiamo della decrescita ha questi tre obiettivi: aumentare l’efficienza energetica, incrementare l’utilizzo delle materie prime e favorire il recupero di tutte le materie prime contenute negli oggetti dismessi. Queste tecnologie hanno una grande possibilità di espansione, perché nei decenni passati, in conseguenza della grande disponibilità di petrolio a prezzi molto bassi, non è stata fatta nessuna politica né economica né industriale finalizzata a ridurre gli sprechi. Per cui c’è da moltissimo fare per rimettere le cose a posto. Naturalmente, se diminuiscono gli sprechi diminuisce anche quella che noi chiamiamo la produzione e il consumo di merci che non sono beni. Si ha insomma una decrescita guidata e controllata del PIL. È una cosa da non confondere con la recessione, che è invece una riduzione indiscriminata non voluta né controllata della produzione di merci. Questa decrescita dipende da scelte volte a ridurre una parte di quelle merci che non hanno nessuna utilità effettiva e che anzi, molte volte, creano danni e problemi. D. Si tratta di proposte assai concrete, dunque. In conclusione, a quali conseguenze andiamo incontro se non si fa marcia indietro? R. Ci troviamo oggi alla fine di un’epoca storica cominciata duecentocinquanta anni fa con la Rivoluzione Industriale. Se non riuscissimo a sviluppare ciò che noi proponiamo – il che è, diciamo, una strada di transizione verso una fase diversa della storia – della civiltà umana non resterebbe che un crollo rovinoso come è accaduto nel caso dell’Impero Romano. Certo, le conseguenze sarebbero molto più gravi sia dal punto di vista dell’estensione – perché questo crollo interesserebbe l’economia mondiale – sia dal punto di vista della gravità delle conseguenze, che coinvolgerebbero una porzione ben più vasta della popolazione che si troverebbe a non riuscire a soddisfare i propri bisogni fondamentali. D. Allo stato attuale delle cose, questa soluzione verrà praticata? O piuttosto la crisi è destinata ad aggravarsi? R. La mia opinione è che questa possibilità alla fine non verrà considerata, perché comporta comunque una decrescita del PIL e le persone che gestiscono l’economia – a livello politico, industriale, sindacale e così via – non hanno una base culturale per comprenderla. Cosa occorre fare, a questo punto? Costruire un blocco sociale in grado invece di individuare in questa proposta una soluzione sia dal punto di vista del reddito sia da quello occupazionale. Ecco, per ottenere questo risultato il movimento della decrescita felice ritiene si debba anzitutto agire nel senso della rilocalizzazione delle attività produttive e delle figure corte; il lavoro deve ritornare a essere un’attività attraverso cui gli esseri umani possano soddisfare dei bisogni, in un raggio di territorio non eccessivo rispetto alla produzione stessa. Vanno cioè ridotte le filiere. Questa rilocalizzazione dell’economia dovrà avvenire su tre direttrici fondamentali: la prima è l’attività di produzione di cibo. Bisognerà fare in modo di valorizzare al massimo quella che si chiama la sovranità alimentare; le popolazioni e i gruppi umani Maurizio Pallante (1947) vive da qualche anno in una cascina nel Monferrato astigiano, dove coltiva ortaggi per autoconsumo, legge libri di eretici del pensiero e scrive saggi e libri. Ha collaborato con La Stampa, Il Sole 24 ore, Il Manifesto e Rinascita. È presidente e fondatore del Movimento per la Decrescita Felice e ha fondato il Comitato per l’uso razionale dell’energia. Gestisce il sito internet decrescitafelice.it. e un blog per il sito de Il Fatto Quotidiano. 37 n. 04/2012 La moneta-debito e le crisi economiche A colloquio con Domenico de Simone, economista eterodosso proprio qui. Solo che rendersene conto comporta mettere in discussione il fondamento stesso del capitalismo, ovvero il capitale e la sua natura. Intendo il capitale come denaro che si traduce in mezzi di produzione per l‘esercizio dell‘attività di impresa e genera profitti. La creazione del denaro sul debito comporta che la crescita dell‘economia sia accompagnata necessariamente dalla crescita del debito e quindi dagli interessi che l‘utilizzo di questo comporta. Ma gli interessi sono per lo più una rendita, né più né meno di quanto non lo fosse il possesso della terra all‘epoca della Rivoluzione Francese. Una rendita che si impadronisce di quote crescenti della produzione e che, sfruttando il proprio dominio, ha determinato per la propria esistenza condizioni di assoluto privilegio. Tra queste, l‘evidente sperequazione tra il trattamento fiscale delle rendite da azioni o titoli o gestione di immobili, rispetto alle condizioni direi quasi schiavistiche a cui il regime fiscale sottopone il lavoro. La creazione di denaro sul debito ha due conseguenze immediate. La prima è che il denaro tende ad essere sempre più scarso, poiché questo stato ne aumenta la redditività, e la seconda è che la crescita dell‘economia dipende dalla crescita del debito. Da qui derivano sia le profonde sperequazioni nella distribuzione del reddito, al punto che nei “paradisi fiscali” poco più di ottantamila persone posseggono tanto denaro quanto il PIL di USA e Giappone messi assieme, sia le crisi di debito sempre più violente e ravvicinate. Gli effetti del capitale finanziario nei Paesi non sono molto diversi da quelli delle cavallette sui campi di grano. Arrivano in sciami sempre più grandi e incontrollabili, prendono tutto quello che c‘è da prendere e poi se ne vanno, lasciando solo miseria e desolazione. D. Quali sono a Suo parere le cause della crisi che stiamo vivendo? R. La crisi economica e finanziaria, che ha investito il mondo intero con grande virulenza nel 2007 e nel 2010 ha avuto una nuova drammatica fiammata che dura tuttora, ha radici lontane. La verità è che il sistema capitalistico passa da una crisi all‘altra, sempre più violenta e profonda, e non c‘è nessuna spiegazione soddisfacente di questo fenomeno, né il capitalismo ha elaborato antidoti efficaci per impedirle. La gente ha poca memoria, soprattutto dei fatti spiacevoli, e non ricorda le crisi del passato, se non quelle di dimensioni tali da essere passate alla storia, come quella del ‚29. Anche il mediatico ha pochissima memoria, o fa finta di non averla, e non ricorda le crisi anche recenti. Gli anni Ottanta hanno rappresentato, almeno in Italia, l‘ultima illusione di una crescita possibile in un clima sociale relativamente stabile permeato da un certo ottimismo. Sono gli anni della crescita del debito pubblico in rapporto al PIL, che passa in pochi anni dal 63% del 1982 al 90,83% del 1988, ma anche quelli del “divorzio” tra la Banca d‘Italia e il Tesoro. Ancora quattro anni e il debito supera il PIL attestandosi nel 1992 al 105,49%. In quell‘anno ricordo la grave crisi finanziaria che consentì l‘attacco speculativo di Soros e compagni e che comportò l‘uscita dell‘Italia dallo SME. Da allora viviamo in uno stato di crisi permanente, interrotto sporadicamente da periodi di pausa, sempre più brevi ed episodici. Ripeto da anni che il nodo del problema è il debito, che è destinato inevitabilmente a crescere poiché la stessa moneta viene creata sul debito. Ora che il debito aggregato è divenuto un multiplo del PIL, qualcuno si sta rendendo conto che forse il problema sta 38 n. 04/2012 La società dovrebbe avere come fine la tutela della vita e della libertà dei cittadini per consentire a ciascuno di cercare la felicità, come recita pomposamente la Costituzione americana, e non dubito che i padri fondatori avessero in mente questo, così come non dubito che i nostri padri costituenti volessero davvero una società fondata sul lavoro per il raggiungimento del pieno sviluppo della persona umana. Ma queste sono rimaste solo buone intenzioni prive di alcun significato concreto. I difensori della nostra Costituzione dovrebbero rendersi conto che l‘azione dei governi degli ultimi venti anni e la situazione effettiva del Paese contraddicono in modo palese buona parte dello spirito e della lettera della Costituzione. A cose fatte qualcuno chiederà di modificarla, come si chiede all‘esercito sconfitto di ammainare la bandiera dopo la battaglia perduta. È ormai evidente che il modello europeo, la “via socialdemocratica al capitalismo” o, se si preferisce, la “via capitalistica al socialismo”, ha perduto la sua battaglia contro il liberismo sfrenato nordamericano e che la crisi europea è soltanto la conseguenza di questa rovinosa sconfitta. D. Che differenza c‘è rispetto alle altre grandi crisi del passato, come ad esempio quella del 1929? R. La natura di questa crisi non è affatto diversa da quella delle crisi del passato. Si tratta sempre e comunque di crisi di debito e del panico che queste comportano tra gli operatori economici. La differenza consiste essenzialmente nel modo in cui si manifesta, negli strumenti che sono stati adottati, nella profondità e vastità di quella attuale, che è molto più grave del disastro del 1929. In altri termini, sostengo che le crisi del capitalismo, dai primi dell‘Ottocento sino ai giorni nostri, siano tutte state indotte dai meccanismi di creazione di denaro sul debito, cosa che peraltro era già nota ai tempi di Marx, quando questi notava, nel terzo libro del Capitale, che nel 1850 in Inghilterra circolavano trecento milioni di sterline in cambiali a fronte di ventitré milioni di banconote. E poiché quelle obbligazioni erano esigibili a semplice richiesta e per l‘intero, “non è questa una situazione che ci può far venire le convulsioni in ogni momento?”. Ovviamente oggi le situazioni sono cambiate, i meccanismi di controllo si sono moltiplicati, le obbligazioni sono completamente diverse da quelle di cui parlava Marx. Ma la logica del sistema è identica: basta guardare i bilanci di molte banche per rendersi conto che le convulsioni possono verificarsi davvero in qualunque momento. Ma, a parte queste ultime, che sono comuni a D. Da quanto detto, le cause di questa crisi paiono, in qualche modo, implicite nelle premesse di quello stesso sistema che ora si trova in una situazione drammatica… R. Direi che la situazione di crisi permanente cui accennavo sopra non consente di pensare a cause episodiche. Sono convinto che questa sia la crisi terminale del capitalismo di guerra e che l‘ultima guerra venga combattuta con strumenti finanziari ed elettronici e, solo marginalmente, con strumenti bellici. Gli effetti sono esteticamente diversi ma i risultati non cambiano e su un piano etico si tratta comunque di un conflitto. Dico subito che non si avrà un vincitore, ma tutti i popoli del mondo ne usciranno sconfitti. Se questo è vero, dobbiamo anche dire che la crisi era prevedibile. Il problema è che per farlo sarebbe stato necessario situarsi al di fuori della logica del sistema per sottoporlo ad una critica rigorosa, e questo pochi erano in grado di farlo e, soprattutto, nessuno di loro è stato ascoltato. Nel 1989, con la scomparsa repentina, ma anch‘essa prevedibile, dei regimi dell‘URSS e dei paesi satelliti e, negli anni immediatamente successivi, con la “conversione” della Cina al capitalismo, restava solo Cuba a tenere viva l‘idea che fosse possibile un sistema economico diverso dal capitalismo delle multinazionali e delle “sette sorelle”. In pratica, l‘idea stessa di un‘alternativa al capitalismo è tramontata definitivamente proprio quando ce n‘era più bisogno. Il capitalismo in Occidente era in qualche modo temperato dall‘idea della possibilità di un‘alternativa, anche se il “comunismo” burocratico dell‘URSS non era certo un sistema né appetibile né praticabile. Nei paesi occidentali la ricerca di una via nazionale al socialismo si era tradotta in un sistema di welfare e di redistribuzione del reddito tutto sommato accettabile ed in alcuni paesi efficiente, soprattutto in quelli di area scandinava dove il welfare ancora resiste, anche se con molte difficoltà. Il “trionfo del capitalismo”, dopo la caduta del muro di Berlino, ha portato con sé anche l‘affermazione dell‘ala più estremista del capitalismo, quella che ha determinato la sostanziale abolizione del welfare in mezza Europa, che ha indotto le imprese a privilegiare l‘aspetto finanziario su quello produttivo, che spinge per la privatizzazione di ogni settore delle attività umane, compresi servizi essenzialmente pubblici come la polizia e il fisco, per non parlare della sanità e della scuola. È il trionfo del dominio del denaro sulla vita, dell‘interesse sul benessere, del debito sulla produzione. “ Questa è la fase terminale del capitalismo: L'ultima guerra sarà combattuta con strumenti finanziari ed elettronici, non solo con armi materiali ” 39 n. 04/2012 valanga della fuga generale. Con la stessa logica, all‘impresa o al Paese vengono chiesti interessi più alti per “remunerare” il rischio che rappresenta finanziare quell‘impresa o quel paese. Spesso la sfiducia è “provocata” proprio al fine di ottenere interessi più elevati dagli investimenti. Ad esempio, pochi anni fa la Slovenia è entrata nell‘area dell‘euro con l‘aureola di paese sommamente virtuoso, con un basso debito pubblico, uno Stato e un‘industria efficienti, una popolazione laboriosa e attiva, ed ora si trova sull‘orlo della bancarotta. L‘unico dubbio è se la bancarotta ci sarà a ottobre o a novembre prossimi. L‘ottica con la quale operano i gestori di questi grandi capitali è esclusivamente il profitto più elevato possibile, entro un orizzonte temporale a volte delle dimensioni di pochi secondi. Non c‘è nessuna strategia “politica” nella testa dei gestori dei fondi di investimento, l‘unico obiettivo è quello di chiudere la giornata con un guadagno, anche se piccolo (ma lo 0,1% su cento miliardi sono cento milioni, che rappresentano il lavoro di cinquemila persone per un anno a 20.000 euro annui), e chiudere con un discreto utile, tale comunque da far scattare premi di produzione sempre molto consistenti. Che per ottenere questo obiettivo siano state chiuse venti fabbriche e mandate sul lastrico diecimila persone, i nostri gestori non se ne accorgono nemmeno. È la logica del sistema ad essere totalmente inefficiente, al punto che più il gestore è “bravo” più il suo lavoro produce paradossalmente effetti deleteri per l‘economia. molte situazioni di grande tensione, il comune denominatore è dato dal ruolo del debito e del denaro, sia in moneta che in banconote. La scarsità del denaro produce indebitamento e il rallentamento della crescita economica genera insolvenza diffusa nella società e una paura che, a sua volta, induce ulteriore scarsità di moneta. Che differenza c‘è, sotto questo aspetto, tra allora e oggi? Le autorità che gestiscono l‘economia mentivano allora per “dare fiducia” alla gente e mentono ora per “dare fiducia” ai mercati. “ Il “trionfo del capitalismo”, che ha abolito il welfare in mezza Europa, è la vittoria del dominio del denaro sulla vita, dell'interesse sul benessere, del debito sulla produzione ” D. A prescindere da somiglianze e differenze, come può una crisi di ricchezze virtuali, nata in ambito finanziario, colpire il sistema dell‘economia reale, quindi la produzione di beni e servizi? R. Il problema è che il denaro nel capitalismo svolge tre funzioni, di cui due sono utilissime mentre la terza genera tutti i problemi. La funzione di unità di conto, che vuol dire per esempio che i bilanci delle società, qualsiasi cosa producano o facciano, sono esposti in moneta e quindi in una sorta di lingua che ne descrive l‘andamento economico, e la funzione di mezzo di scambio, per cui tutti i beni e i servizi hanno un prezzo espresso in moneta e con lo stesso strumento posso comprare le cipolle al mercato, un‘automobile e remunerare il lavoro di qualcuno; queste sono le funzioni essenziali. Quella che crea problemi è la funzione di riserva di valore che è connaturata all‘essenza stessa del capitalismo. Si tiene il denaro perché garantisce il futuro e lo si spende per comprare le cose che servono o per investire al fine di ottenere più denaro ed una “garanzia” per il futuro. Ovviamente, quando non c‘è “fiducia” nel sistema, quindi principalmente nei momenti di recessione economica, la gente tende a non spenderlo e a tenerlo in banca o “sotto il mattone”. Ma, oltre al risparmio dei privati, il problema deriva dai grandi capitali speculativi, le cavallette di cui parlavo prima. Basta un poco di sfiducia in un‘impresa o in uno Stato perché capitali di enormi dimensioni fuggano via facendo fallire l‘impresa o il Paese. A volte non serve nemmeno che la sfiducia sia provocata da qualche evento oggettivo. Basta solo che qualche grande investitore realizzi i suoi guadagni, magari semplicemente nella persuasione di trovare una migliore collocazione in un altro Paese, per provocare la D. È possibile in qualche modo prevedere gli sviluppi futuri della crisi? R. Nessuno può farlo realmente. La mia idea, che peraltro ripeto da tempo immemore, è che non se ne esce se non con una trasformazione radicale del sistema finanziario: altrimenti, si andrà avanti fino ad un punto in cui le tensioni diventeranno intollerabili. A quel punto può succedere di tutto, da una guerra mondiale devastante ad una serie di rivolte dei disperati contro i governi, ad un lento affogare in un nuovo medioevo di tutti contro tutti, di bande criminali che dominano il territorio, in un declino culturale e sociale sempre più accelerato, non diversamente da quanto accadde alla caduta dell‘Impero Romano. Questa ultima fu dovuta al fatto che il sistema 40 n. 04/2012 distribuisca un reddito di cittadinanza a tutti i suoi membri, che si aggiunga al reddito di lavoro per chi ce l‘ha e chi vuole farlo. Una comunità fondata su un reale principio di solidarietà tra i suoi membri che però non sacrifichi l‘iniziativa individuale sull‘altare di una pretesa uguaglianza al ribasso, ma che consenta invece a tutti di esprimere le proprie capacità nel campo verso cui ciascuno si sente più portato. L‘idea di fondo è che la ricchezza non è data da un insieme di cose materiali, ma dalla capacità di una società di utilizzare al meglio le conoscenze di ciascuno consentendogli di collocarsi nel proprio posto e con l‘impiego giusto. Questa somma di conoscenze individuali costituisce il capitale sociale di qualsiasi società data. È una sua porzione a venire “prestata” alle imprese quando producono un bene qualsiasi, poiché esso può essere pensato e prodotto solo in presenza di quelle conoscenze. Questa è la base teorica del Reddito di Cittadinanza, inteso come remunerazione del capitale sociale. Più questo cresce, più la remunerazione deve aumentare. Che poi mille imprese crescano e producano e competano sul mercato per ottenere i migliori risultati e ottenere i migliori guadagni è cosa buona. L‘attività di impresa è un‘attività al servizio della società e chi la intraprende deve essere messo in grado di avere l‘interesse, oltre che le capacità e la forza, per farlo. Per le stesse imprese, un sistema del genere, che elimini il peso degli interessi sul capitale e consenta di ottenere finanziamenti in funzione di parametri oggettivi, è il migliore possibile. Il reddito di cittadinanza, oltre a consentire alle imprese sgravi consistenti sul sistema del welfare, creerebbe anche un mercato per i propri prodotti. Per evitare l‘accumulazione di beni materiali è sufficiente un sistema fiscale di stampo scandinavo a tassazione progressiva. Chiunque può avere anche cento appartamenti o mille, ma ci paga una barca di quattrini di tasse, così che nessuno debba pagarle per averne una o due. Ho descritto questa alternativa nei miei libri ed in particolare in uno che ho titolato Faz, acronimo di Zone di Autonomia Finanziaria, ovvero quei nuovi comuni di cui auspico la costruzione. Per quanto riguarda il denaro, se la ricchezza è conoscenza – e di questo do ampia dimostrazione nei miei libri – essa non appartiene ai detentori del capitale finanziario, ma alla società nel suo insieme. Se il denaro deve essere uno strumento di scambio, è sufficiente uno qualsiasi perché lo scambio avvenga. Gli euro, i dollari, gli yen non servono a niente se non a chi ancora dà loro fiducia. Questa è una società in cui la fiducia è una merce. Quella che vogliamo costruire è una società in cui la fiducia sia il fondamento dell‘azione sociale. Solo così si esce dal dominio del capitale sulla vita e si costruisce una società a misura d‘uomo. economico che si basava sul lavoro servile e sulle conquiste territoriali non era più efficiente e l‘impero sopravviveva solo grazie ad un sistema fiscale sempre più rapinoso ed iniquo. La situazione attuale non è molto diversa da allora. Anche oggi il sistema fiscale favorisce la rendita e punisce chi lavora e, nonostante le promesse e le dichiarazioni di intenti, diventa sempre più rapinoso e pesante. La cosa assurda è che questa pesantezza non serve praticamente a niente. Il debito pubblico è regolarmente cresciuto nonostante le manovre drastiche, e una tassa iniqua come l‘IMU ha avuto un gettito di circa 9,6 miliardi, pari al 10% degli interessi di un anno sul debito pubblico e a meno del 2% che si pagherà quest‘anno in Italia sul debito aggregato, ovvero il debito di Stati, enti locali, imprese e famiglie messo assieme, che a dicembre ammonterà a oltre 500 miliardi, circa un terzo del PIL. Insomma, se un terzo del PIL va a remunerare la rendita finanziaria, è difficile pensare che la situazione possa reggere ancora a lungo. Come diceva Gandhi, nel mondo ci sono risorse sufficienti per i bisogni di tutti, ma assolutamente insufficienti per l‘avidità di pochi. D. Esistono soluzioni concrete e realizzabili o siamo destinati a precipitare fino in fondo? Magari con la prospettiva che soltanto un altro conflitto mondiale, come nel secolo scorso, possa rappresentare l‘unica via d‘uscita possibile? R. Una guerra come quelle che insanguinarono il secolo scorso non è più una soluzione praticabile. Sia la Prima che la Seconda Guerra Mondiale comportarono un‘enorme distruzione di ricchezze ma soprattutto l‘impiego di milioni di disoccupati spediti al fronte a fare la guerra. Oggi una guerra sarebbe certo terribilmente distruttiva ma durerebbe solo pochi minuti o pochi giorni. Per risolvere la disoccupazione non è praticabile, poiché le tecnologie belliche non hanno più bisogno di un gran numero di soldati. A meno che il progetto non sia quello di eliminare fisicamente milioni di civili dalla faccia della terra e risolvere il problema in modo radicale (non mi meraviglierei che ci possa essere al mondo qualche pazzo che coltivi un‘idea del genere). Anche per questo, un‘alternativa si deve trovare subito, e l‘alternativa c‘è ed è immediatamente praticabile. Si tratta di eliminare dalla faccia della terra gli interessi sul capitale e, in sostanza, questo comporta la fuoriuscita dall‘economia del debito. Ora, se è difficile immaginare che ciò possa avvenire per l‘azione dei governi, che in Occidente sono per lo più asserviti agli interessi del capitale finanziario, da qualche tempo alcuni Paesi, e mi riferisco in particolare all‘Ecuador, alla Bolivia, all‘Islanda, all‘Argentina e al Brasile, hanno cominciato a contestare efficacemente le politiche rapinose delle multinazionali e delle loro banche. Questa non è ancora l‘alternativa al sistema né la soluzione del problema, ma almeno dimostra che è possibile fare qualcosa. Ma qui non si tratta di fare qualcosa o distribuire punizioni esemplari sperando che le cose vadano meglio. Se la crisi è strutturale, occorre pensare al modo in cui cambiare la struttura, altrimenti il problema non sarà mai risolto. La mia idea è che dobbiamo immaginare una nuova epoca dei Comuni, non fondata, però, sulla logica territoriale, ma su comunità in parte territoriali in parte virtuali che generino rapporti economici al di fuori del sistema. Comunità fondate su due capisaldi: un denaro che non sia riserva di valore e quindi, necessariamente, a tasso negativo, e una comunità che Domenico de Simone (1949) ha esercitato la professione di avvocato per circa trent’anni, per poi proseguire gli studi di economia e di filosofia iniziati durante gli anni caldi del ’68 in cui ha militato, sino al 1975, con il Manifesto. La forte connotazione libertaria non gli consente alcuna collocazione politica: i suoi scritti sono amati ed osteggiati con pari intensità sia dalla destra che dalla sinistra. Le sue idee sono fortemente criticate dall’establishment accademico, nei cui confronti nutre altrettanta se non maggiore ostilità. Fra le ultime sue pubblicazioni: Crac! Il tracollo economico dell’Italia (2011), Il debito non si paga! (2011), Faz (2012). I suoi libri sono liberamente leggibili e scaricabili dal suo sito. 41 n. 04/2012 Per un’etica della pratica bancaria A colloquio con Andrea Baranes, presidente della Fondazione Culturale di Banca Etica da moltissimi anni. La crisi è esplosa negli ultimi sei, però possiamo fare diversi esempi; oggi abbiamo una massa di derivati – strumenti della finanza ormai usati come pure scommesse. Non hanno nulla a che vedere con l’economia reale e hanno una dimensione che so, dodici, quindici, forse venti volte il PIL della ricchezza reale del pianeta – diciamo dodici, quindici o venti, perché neanche si sa a quanto equivale esattamente. Abbiamo giganteschi capitali che girano ventiquattro ore su ventiquattro, alla continua e ossessiva ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile. Abbiamo una finanza che ha totalmente perso di vista il suo ruolo sociale di strumento al servizio dell’economia e della società ed è diventata fine a se stessa: fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Le difficoltà che vediamo oggi sono prima di tutto legate a questa situazione dei mercati, alla quale si sommano delle difficoltà dei singoli Paesi ma anche una costruzione europea che è assolutamente inadatta a fronteggiare una situazione di crisi, di difficoltà. È quindi in qualche modo una tempesta perfetta che è dovuta a diversi fattori strutturali nazionali, europei e internazionali. D. Quali sono, a suo parere, le cause di questa crisi? Sono incidentali o strutturali? R. Le cause sono abbastanza evidentemente di natura finanziaria, relative cioè alla dimensione ipertrofica di una finanza senza nessuna regola. Nel 2007-2008 è esplosa la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti che ha causato una fortissima crisi economica a cascata in tutto il mondo. La maggior parte delle economie occidentali – gli stessi Stati Uniti, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna – si è dovuta indebitare moltissimo per salvare quelle stesse banche che avevano causato la crisi e c’è stato un aumento enorme dei debiti pubblici di tutti questi Paesi. I debiti pubblici vengono finanziati tramite l’emissione di titoli di Stato, ogni Paese emette i suoi BOT, i suoi BTP, i suoi CCT. Quindi in questo momento i Paesi dalle economie più deboli, come l’Italia e la Spagna, provano a emettere i loro titoli per finanziare il proprio debito. Il problema è che di questi titoli ce n’è una montagna. Che cosa succede allora? Succede che gli investitori di capitali comprano quelli della Germania, perché adesso la Germania – o la Francia o gli Stati Uniti – è più sicura, ma non comprano i titoli italiani. Questo è peraltro uno solo dei possibili meccanismi di trasmissione della crisi della finanza all’economia. Ancora oggi, a dispetto di essa, la finanza specula contro interi Paesi. Quindi, sicuramente ci sono delle cause economiche, sicuramente ci sono delle difficoltà in Italia, in Spagna, in Grecia, in Irlanda, ma la miccia della crisi e la sua ragione principale è una gigantesca finanza-casinò fuori dal mondo che pesa sull’economia reale e che determina i destini di tutti noi. D. Quali sono le differenze con le grandi crisi del passato, ad esempio con quella del 1929? R. Con quanto accaduto nel ‘29 ci sono alcuni tratti comuni. Anche in quel caso le banche avevano iniziato a speculare pesantemente con i soldi dei clienti e si era creata una gigantesca bolla finanziaria sul nulla. Quando è esplosa, le banche non hanno più avuto la possibilità di rimborsare i loro clienti e ci sono state ondate di panico. Ricordiamo le immagini di centinaia di clienti con i sacchi a pelo in fila davanti alle banche. Nel 2007, in qualche modo, c’è stata un’analoga bolla finanziaria, che è scoppiata e che stava trascinando nel baratro D. Dunque, si tratta di cause intimamente strutturali... R. Sì, assolutamente. Sono cause strutturali che vanno avanti 42 n. 04/2012 prezzo del grano viene in massima parte pattuito sui mercati finanziari, nuovamente tramite derivati e prodotti speculativi. I piccoli contadini, di conseguenza, così come i consumatori e tutti noi, si trovano costretti a subire le decisioni e le volontà di pochi grandi speculatori che operano sui mercati finanziari. Quindi le conseguenze sono moltissime. Oltre a ciò, una seconda conseguenza abbastanza diretta è il fatto che questa crisi finanziaria ha avuto e ha degli impatti durissimi e decisivi su tutti noi perché ci troviamo nell’obbligo di accettare qualunque misura di austerità, dai tagli alle pensioni alla sanità, eccetera, per restituire fiducia ai mercati. Questo è il più grande paradosso che stiamo vivendo in questo momento, a dispetto dei terribili comportamenti della finanza degli scorsi anni: noi cittadini siamo costretti a restituire fiducia ai mercati e quindi ad accettare tagli alla spesa pubblica, all’istruzione, al welfare, alla ricerca, pur di compiacere l’insaziabile appetito dei signori della finanza. le banche. La differenza è che si è scelto di salvare le banche a qualunque prezzo e in pratica scaricare sugli Stati, sul pubblico, il costo di questa crisi, il costo delle stesse banche. Oggi sono questi Stati ad essere in difficoltà e paradossalmente gli stessi mercati finanziari che erano stati salvati approfittano di questa situazione, di questi eccessivi debiti contratti dagli Stati, per speculare contro di essi. Sembra che qualunque misura presa in esame dal mondo politico venga scelta semplicemente per compiacere i mercati finanziari e non per controllarli, come invece dovrebbe. Siamo arrivati all’assurdo per cui i vertici europei o le decisioni di politica nazionale funzionano o non funzionano se la borsa sale o scende. Siamo arrivati all’assurdo per cui qualunque misura politica deve avere come unico obiettivo non diminuire la disoccupazione, non garantire un maggiore benessere ai cittadini, ma diminuire lo spread, insomma ossequiare i mercati finanziari. Quindi ci troviamo in una situazione in cui, ancora più nettamente del ‘29, l’intero mondo politico ed economico, nonché l’intera società civile, dipendono dall’andamento dei mercati finanziari. “ Siamo costretti a restituire fiducia ai mercati e quindi ad accettare tagli alla spesa pubblica, all'istruzione, al welfare, alla ricerca, pur di soddisfare l'appetito dei signori della finanza ” D. In questo gioco perverso, la crescita viene dunque inibita in modo congenito... R. Proprio così. Più che altro mi verrebbe da dire che qualunque crescita economica in questo momento viene drenata dal mondo finanziario. L’economia italiana è in recessione, ma i mercati finanziari continuano a pretendere profitti in doppia cifra. La ricchezza reale del mondo, il suo PIL, cresce del due o del tre per cento all’anno e gli speculatori finanziari continuano a pretendere tassi di profitto del dieci per cento o più. Non servono grossi ragionamenti per capire che è una situazione totalmente insostenibile: la finanza vuole continuare a crescere con ritmi che sono assolutamente incompatibili con quelli dell’economia reale. Per realizzare questo proposito, continua a prosciugare qualsiasi risorsa di quest’ultima, creando all’occorrenza gigantesche bolle sul nulla che prima o poi scoppieranno. La crisi nasce e si conserva tramite un misto di queste due opzioni e qualunque intervento dell’economia reale, qualunque tentativo di far ripartire la crescita o lo sviluppo o qualsiasi altra cosa, se non ci sono delle regole per fermare questa finanza, verrebbe interamente drenato dalla speculazione. Come sta di fatto avvenendo. D. Come può una crisi nata in ambito finanziario e virtuale avere effetti sull’economia reale, sulla produzione di beni e servizi? R. Le ricadute sono dirette e sono più di una. In qualche modo, la finanza e la speculazione si nutrono delle oscillazioni dei prezzi e, d’altra parte, oggi sono persino in grado di creare queste stesse oscillazioni. Non c’è speculazione sui titoli di Stato tedeschi perché il loro prezzo è sempre costante, quindi se li compro a cento e li rimetto a cento non posso speculare sul prezzo. Per così dire, non mi posso divertire. Molto più divertente è poter comprare titoli che un giorno quotano ottanta, il giorno dopo cento e quello ancora dopo centoventi. Oggi gli stessi strumenti finanziari esasperano queste oscillazioni – parliamo dei titoli di Stato, parliamo del petrolio, del prezzo delle materie prime, persino di quelle alimentari. Il valore di qualunque bene, prodotto o servizio viene in gran parte deciso da meccanismi speculativi. Questa è la situazione in cui ci troviamo. Per esempio, il 43 n. 04/2012 o ambientale? Se tutti noi iniziamo, nel nostro piccolo, dal basso, a esigere piena trasparenza nell’utilizzo del nostro denaro, sicuramente ciò potrà portare ad un cambiamento nell’insieme del mondo finanziario e assieme costringere il sistema bancario tradizionale a cambiare rotta. Oggi delle alternative ci sono, per utilizzare i propri soldi in una maniera trasparente, secondo modalità che favoriscano l’economia reale, lo sviluppo dell’ambiente e della società. La finanza etica è un esempio di questo diverso utilizzo del denaro che è possibile fare. D. Senza un cambiamento di rotta, quali sarebbero le conseguenze, a quali prospettive andremmo incontro? R. Beh, i rischi sono enormi e oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ogni giorno, sui quotidiani, si titola dell’euro: futuro oppure no? Quale può essere il futuro dell’Europa? In questo momento è messa a rischio la stessa Unione Europea. Di fatto, parlare oggi di crisi dell’euro o dell’Unione Europea è la stessa cosa. L’Unione Europea è stata costruita sull’unione monetaria, dei mercati e della valuta ma non c’è un’Europa sociale dei diritti. I rischi sono enormi, anche a breve termine e, appunto, sotto gli occhi di tutti. “ A livello tecnico sappiamo come diminuire la speculazione, bloccare i derivati, far abbassare la leva finanziaria e chiudere i paradisi fiscali: È una questione di volontà politica ” D. Lei collabora con Banca Etica. Ha anche sottoscritto il Manifesto degli economisti sgomenti. In base alla Sua esperienza, esistono delle soluzioni fattibili per uscire da questa crisi? R. Sì, assolutamente. Soluzioni e alternative ci sono; forse la cosa che da un lato fa più arrabbiare ma dall’altro dà qualche speranza è che a livello tecnico sapremmo esattamente cosa fare, come diminuire la speculazione, bloccare i derivati, far abbassare la leva finanziaria e chiudere i paradisi fiscali. È unicamente una questione di volontà politica. Per arrestare e superare questo momento di difficoltà, da un lato è necessario in qualche modo superare il vergognoso potere delle lobby finanziarie, che malgrado tutti i disastri che hanno causato, continuano a opporsi a ogni forma di regolamentazione, a ogni proposta per chiudere questa speculazione, questa finanza-casinò; quindi, da un lato, diciamo dall’alto, c’è la necessità di dare nuove regole. Dall’altro, per così dire dal basso, forse ancora più importante è rendersi conto che tutti noi, troppo spesso, oltre che vittime siamo anche complici di questa crisi. Troppo spesso sono anche i nostri piccoli risparmi – mille, duemila, cinque, diecimila euro, messi sul conto corrente, nel fondo di investimento, nel fondo pensione – a rimestare e alimentare la speculazione finanziaria. Allora, cominciamo a chiederci: i nostri soldi, sul nostro conto corrente, vanno a finanziare l’economia reale, l’economia del territorio, le energie rinnovabili, il bene comune della società, o non vanno piuttosto ad alimentare speculazione sociale D. Questa è anche la proposta di Banca Etica... R. Esattamente. Banca Etica è l’unica banca in Italia che, per esempio, pubblica sul proprio sito internet tutti i finanziamenti concessi ad imprese e cooperative e via discorrendo, che finanzia unicamente le energie rinnovabili, l’agricoltura biologica, il commercio equo, la cooperazione sociale: solo ed esclusivamente progetti che hanno ricadute positive sul piano socio-ambientale. Ovviamente rifiuta qualunque forma di speculazione, i paradisi fiscali o cose del genere e permette dunque, grazie alla piena trasparenza, di far sapere a ciascuno dove finiscono i propri soldi. Se le altre banche tradizionali non lo fanno, Banca Etica dimostra che se non c’è nulla da nascondere, allora non è necessario nascondere proprio nulla. Andrea Baranes (1972) è presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, della rete di Banca Etica. È portavoce della campagna 005 per l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (“zerozerocinque. it”) ed è stato responsabile delle campagne su istituzioni finanziarie private presso la CRBM. È autore di diversi libri sui temi della finanza e dell'economia, tra i quali Finanza per Indignati (Ponte Alle Grazie), Come depredare il Sud del mondo e Il grande gioco della fame (Altreconomia) e Per qualche dollaro in più – come la finanza casinò si sta giocando il pianeta (Datanews). Collabora con diverse riviste specializzate nel settore economico e della sostenibilità, quali Valori e Altreconomia e con i siti “Sbilanciamoci.info” e “nonconimieisoldi.org”. 44 n. 04/2012 Ernst Jünger “Maxima minima” di Andrea Scarabelli C i troviamo in un interregno, in uno Zwischenreich, scriveva Nietzsche alla vigilia di quel secolo travagliato che ci siamo, da poco più di un decennio, lasciati alle spalle. Un momento storico nel quale i vecchi valori hanno subito una svalutazione ed i nuovi ancora indugiano a manifestarsi; i suoi tratti, spesso deformati da un’accelerazione sempre crescente, lasciano intravedere nuovi ordinamenti. È un momento nel quale abbondano certo gli strilloni del presente ma anche passatismi che paralizzano l’azione e progressismi semiautistici, che proiettano la soddisfazione della ansie del presente in un futuro sempre più lontano, secolarizzando il progetto millenaristico giudaico-cristiano. La tecnica, la scienza, il progresso non sono del tutto soddisfacenti? Nessun problema: domani – o al massimo dopodomani – tutto si risolverà. Così il culto dell’utopia, legato ad una concezione materializzata del Paradiso terrestre, si sposa con la modernità. Una stagione di Titani, scriveva Jünger negli anni Trenta nel suo Operaio. Per orientarsi occorre affidarsi a sistemi di riferimento diversi da quelli moderni, i quali non fanno che radicarsi nella crisi, impedendo una fuoriuscita da essa. Tra i manualetti per sopravvivere alle insidie di questo nostro tempo, non possiamo non menzionare Maxima minima, raccolta di pensieri di Ernst Jünger finalmente resa disponibile in lingua italiana, nella traduzione di Alessandra Iadicicco, per i tipi dell’editore Guanda, storico promotore dell’opera dello scrittore tedesco. Gli argomenti qui trattati si pongono in diretta linea di continuità con le tesi de L’operaio, trattandosi di un commento alla stessa opera, composto a distanza di più di trent’anni. È un bilancio, ma anche un’integrazione. Le vicende dell’operaio vengono proiettate in una cornice che ci riguarda più da presso. Per chi voglia sbrogliare la matassa dell’attualità, insomma, il libro è della massima utilità. Jünger ci propone di adottare “uno sguardo adatto alla luce crepuscolare” (p. 9), che è quella del nostro tempo. Viviamo alla fine di un’epoca storica, scrive, e siamo destinati a vederne gli elementi crollare ad uno ad uno. Ma ciò, senza indulgere a pessimismi di sorta, in quanto, come scrive poco dopo, “il tramonto altrove è un’alba” (ibidem). Questo “altrove” è, per il momento, solo indovinabile – purtuttavia, la consapevolezza della sua esistenza già non è poco, per chi si trovi a vivere nella modernità. Le forme dei tempi che corrono altro non sono che il prologo ad una nuova fase. Per comprenderne la portata, occorre però ragionare in termini assai differenti rispetto a quelli che costituiscono la valuta corrente del nostro tempo. Dinnanzi al materialismo tiranneggiante, è invece bene riflettere sul “primato dei cambiamenti spirituali su quelli tecnici, di quelli tecnici su quelli politici, di quelli politici su quelli strategici” (ibidem). Jünger fornisce una chiave di lettura efficace ed onnicomprensiva, nella inamovibile certezza che ad aprire e chiudere le ere storiche non sono fattori di ordine materiale ma anzitutto spirituale. Il sottotitolo del libro è Note sul Lavoratore: esso nasce come una raccolta di appunti atti ad integrare le tesi del suo lavoro degli anni Trenta. In esso, lo scrittore tedesco aveva salutato l’avvento dell’operaio come una fuoriuscita dalla crisi della modernità. Formatasi attraverso le battaglie dei materiali della Grande Guerra e nelle acciaierie, nelle quali domina l’elementare scatenato, questa figura è in grado di adottare nei confronti dell’esistenza un atteggiamento impersonale ed eroico, in senso superiore, realizzando la persona assoluta, come ebbe a scrivere Julius Evola. Il XX secolo ha visto l’esplosione dell’elemento in tutta la sua furia: il borghese, protagonista di quello precedente, non è nemmeno in grado di intenderne la portata. Spetta all’operaio assumere il controllo, permettendo il transito da quell’epoca provvisoria che stiamo vivendo – i cui tratti sono il museo e l’officina – ad una nuova, nella quale la tecnica avrà raggiunto una sua propria stabilità, facendosi latrice di spiritualità. Ebbene, a distanza di tre decenni è ancora l’operaio quella figura cosmica in qualche modo deputata ad aprire la nuova era che bussa alle porte: “come Anteo, è figlio della terra; il suo ingresso è accompagnato da scosse che vanno considerate tettoniche. La notte che precede la sua aurora è accompagna da fuochi di fusione” (p. 27). Si tratta della prima personalità il cui sguardo mira al pianeta intero. Mentre il borghese ragiona per divisioni, la tensione dell’operaio è planetaria; egli supera le divisioni nazionali per imporre il proprio dominio al globo: “La terra suddivisa gli è ostile come una veste sintetica che costringa il corpo” (ibidem). Sfugge a qualsiasi catalogazione di tipo storico, transitando “non solo attraverso gli individui, ma anche attraverso le nazioni, trasformandole fino in fondo” (p. 52). La raccolta di pensieri contiene anche tutta una serie di riflessioni sulla tecnica, su cui Jünger sempre ebbe a riflettere. Essa, la divisa dell’operaio, “è il linguaggio mondiale” (p. 100), il minimo comun denominatore dei nuovi poteri che vanno affermandosi qua e là, la cui differenza tradisce un’unità fondamentale, una singolare epperò significativa comunione d’intenti. Come l’operaio, prima di essere il rappresentante di una classe sociale o di uno Stato, in questo scontrandosi con la filosofia della storia marxista, è una categoria dello spirito, lo stesso dicasi per la sua creatura: “Lo scopo della tecnica è la spiritualizzazione della terra” (p. 90). Essa si pone in una certa linea di continuità con il precedente ordinamento ma, nelle 45 n. 04/2012 tempo negli anni Cinquanta, e ora giunto al suo ultimo atto. La terra è, dunque, il fondo inalienabile della storia umana. Lo scenario delineato è il seguente: sebbene l’uomo moderno ne sia scarsamente consapevole, la storia mondiale si articola nella continua intersezione tra molteplici “piani”. Ad ogni movimento della storia, scrive Jünger, le forze telluriche e ctonie della terra rispondono. Purtuttavia, la fase che noi stiamo vivendo dispone di una peculiarità assoluta rispetto alle altre: “Quando l’antica Gea prende a muoversi da sé (…), si muove ben più in profondità degli strati su cui prosperano lo Stato e la società, più giù ancora delle cripte e delle cantine” (p. 57). La forza di cui si è fatto portatore l’operaio trascende insomma la storia. Prodotto della modernità, questa figura al contempo la supera, conducendo ad una nuova dedizione verso la Terra. Ciò di cui abbiamo oggi bisogno è un nuovo senso della Terra, scriveva Friedrich Georg Jünger negli anni Settanta sulla rivista di scienze simboliche e tradizionali Antaios, diretta dal fratello Ernst insieme a Mircea Eliade (fu proprio in quella sede che apparve la prima parte di Maxima Minima). Regolare i propri orologi sulle ciclicità cosmiche o tramontare, scriveva Jünger negli anni Trenta – ecco che cosa risarcirà l’uomo moderno dalla perdita del nomos di cui sopra. È un bilancio critico, il quale si chiude con un appello alla speranza. Occorre inquadrare il nostro tempo come una discesa, la quale però si concluderà in una fase nuova, in cui saranno ancora i simboli ad orientare il reale, la metastoria a regolare la storia, il più che umano (Simmel) a guidare l’umano. “Mentre le potenze storiche si esauriscono, perfino laddove abbiano costituito degli imperi, cresce su scala mondiale la potenza dinamica – non solo in maniera rozzamente plutonica, ma anche tramite un inaudito affinamento delle materie prime e degli ingranaggi dell’apparato tecnico. Su un palcoscenico enorme le perdite sono ancora più evidenti delle conquiste. «Al muro del tempo» si confondono diritti e confini; al loro posto subentrano dolore e speranza: anche il mondo dell’operaio sarà per l’uomo un paese natio” (p. 110). Così si conclude il prezioso saggio jüngeriano. Gli sconvolgimenti del nostro presente possono essere affrontati ed inquadrati solo laddove si sia capaci di adottare un punto di vista che superi la storia, la materia e l’uomo. In caso contrario, la deriva del nostro presente continuerà inarrestabilmente. Ernst Jünger, Maxima minima. Annotazioni su L’operaio, traduzione e postfazione di A. Iadicicco, Guanda, Parma 2012, pp. 123, € 12,00. mani del suo detentore, acquisisce una portata ed una potenza rivoluzionarie: “Dapprima si avvale degli arnesi e delle armi ereditati, ma poi li trasforma. Il suo territorio è la terra, il suo biglietto da visita la padronanza di mezzi specifici tramite una potenza spirituale” (p. 94). L’essenza della tecnica dunque non risiede nella mera produzione di macchine ma affonda le sue radici in una concezione metafisica della storia. Tecnica, globalizzazione, operaio, spiritualizzazione. Nella congiunzione di detti termini va annunciandosi una forza atta a scardinare l’antica visione del mondo occidentale per inaugurarne una nuova. Certo, la sua irruzione comporta una perdita irrisarcibile, avvertita drammaticamente dagli ordinamenti esistenti; tuttavia, laddove lo sguardo si faccia più ampio, risulta evidente che nell’economia generale tutto si tiene: “L’evanescenza del nomos, che osserviamo ovunque sul pianeta, non ricade puramente nel calcolo delle perdite. Il nuovo capitolo esige un foglio bianco” (p. 109). L’avvento della nuova era richiede sia fatta tabula rasa di quella precedente, i cui valori devono colare a picco. Assieme ai confini tra Stati, viene a cadere anche la dicotomia tra le classi sociali, propria ad una visione di tipo ottocentesco e di fattura eminentemente borghese: “I segni distintivi del rango e della classe sociale possono a malapena essere ancora esibiti tra gli aspetti museali; la loro vista evoca uno stato d’animo da mercoledì delle ceneri. Sul mondo viene gettata una tuta mimetica, una cortina anonima, dietro cui si prepara una nuova entrata in scena” (p. 55). Non occorre vedere in questo crollo una perdita – esso preparerà il mondo nuovo. Tuttavia – e questo è un tratto assai significativo – secondo lo scrittore il nostro presente non fa semplicemente da cerniera tra due secoli ma annuncia il trapasso della storia nella metastoria. La velocità dei cambiamenti del presente fa intravedere il loro radicarsi in una dimensione che non è più temporale e, forse, nemmeno umana: “Al di sotto dei travestimenti storici entrano in campo le potenze dell’essere” (p. 25). È all’interno di detta cornice che occorre analizzare i vari fenomeni di transizione che ci caratterizzano: “Decisione, lotta per l’egemonia, epoca della lotta tra gli Stati – tutto questo non è il senso; sono le doglie con cui la terra chiude una delle sue grandi fasi metastoriche per iniziarne un’altra” (pp. 92-93). Lo sguardo jüngeriano slitta dalla Weltgeschichte, dalla storia del mondo, alla Erdegeschichte, della terra. La prima non è che un capitolo tra i tanti della seconda, apertosi con Erodoto, scrisse in Al muro del “ L’avvento della nuova era richiede sia fatta tabula rasa di quella precedente, i cui valori devono colare a picco ” 46 n. 04/2012 Alain de Benoist “Sull'orlo del Baratro” di Luca Siniscalco S me di quel divino nascondimento che Pascal ci ha insegnato ad amare come speranza” (G. Sapelli, Un racconto apocalittico, Milano 2011, p. 8). De Benoist si attiene ad un’indagine sobria ma cinicamente realista, basata sulla necessaria acquisizione di consapevolezza della gravità delle condizioni attuali. Lo studio del denaro, forma di alienazione totale che abbatte il valore – in senso greco – della misura proiettando l’uomo in una corsa catastrofica suicida, è seguito dall’interpretazione della crisi economica contemporanea come sistemica e non congiunturale, “di natura nuova: crisi del sistema capitalista, crisi della mondializzazione liberale, crisi dell’egemonia americana” (p. 25). Quando la proficuità degli investimenti tende a calare, si aprono al capitalista tre soluzioni possibili: l’allungamento dei tempi lavorativi, il ricorso a una manodopera a buon mercato e, infine, il credito. È proprio quest’ultimo, l’indebitamento delle classi popolari e medie, agente in parallelo ad un rafforzamento del peso dei mercati finanziari, delle agenzie private di rating e della speculazione, in particolare quella connessa alla “titolarizzazione”, ad aver causato nell’autunno del 2008 la crisi americana dei subprimes, origo prima della crisi mondiale. La globalizzazione, infatti, rea di aver veicolato un capitalismo non più commerciale né industriale (nazionale) bensì finanziario (mondiale), ha fatto sì, a seguito di decenni di politiche neoliberiste, che la crisi non si arrestasse nel Nuovo Mondo bensì si diffondesse viralmente su tutto il globo. Al centro vi è il dollaro, principale moneta di scambio a livello internazionale, le politiche liberoscambiste ed il modello bancario vigente (soprattutto in Europa, con la Bce), giacché “la causa immediata dell’aggravamento dei debiti pubblici è individuabile nei piani di salvataggio delle banche private, decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. (…) Per salvare le banche e le compagnie di assicurazione minacciate, gli Stati, presi in ostaggio, hanno dovuto a loro volta chiedere in prestito sui mercati, cosa che ha fatto salire il debito a livelli insopportabili” (p. 69). La recessione economica, che ha diminuito le entrate pubbliche e indotto ad un ulteriore indebitamento statale, preceduta genealogicamente dalle politiche di deregolamentazione e privatizzazione condotte all’epoca di Reagan e della Thatcher, non fa che retrodatare la scaturigine del dramma economico contemporaneo. Di dramma infatti, e non di tragedia, potremmo parlare, in virtù del carattere farsesco e paradossale di un modello economico le cui radici sono integralmente antropologiche e filosofiche: “La tesi di un soggetto sociale riducibile all’Homo oeconomicus lascia perlomeno a desiderare. La realtà sociale non si fa rinchiudere in un’equazione, perché l’uomo non è né un agente fondamentalmente razionale che cerca sempre di massimizzare il suo interesse, né soltanto un produttore- crisse Nietzsche: “Ha cuore chi guarda nel baratro, ma con orgoglio. Chi guarda nel baratro, ma con occhi di aquila, chi con artigli d’aquila aggranfia il baratro: questi ha coraggio”. Questa audacia è la cifra peculiare dell’operazione culturale condotta da Alain de Benoist nel saggio Sull’orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro. Il testo, introdotto da tre efficaci contributi dell’editore Eduardo Zarelli, di Massimo Fini e del traduttore Giuseppe Giaccio, affronta con serietà analitica e profondità speculativa il precipizio nel quale l’iniqua “società a clessidra” moderna si sta ormai precipitosamente inabissando. La diagnosi di de Benoist si rivela di particolar pregio in quanto capace di affiancare metodologie d’indagine eterogenee; la pluralità di una visione capace di abbracciare la modernità sotto un profilo storico-genealogico di chiara matrice nietzscheana, unita a considerazioni prettamente economiche, sociologiche, statistiche, inserite nel più ampio contesto della filosofia, dell’antropologia, della geopolitica e della scienza politica: tale è la molteplice ma organica costellazione metodologica dell’autore. Questa plurivocità è conseguenza diretta di una sapienza “inattuale”, diretta all’oltrepassamento della dicotomia destra/sinistra mediante un’operazione sintetica – o alchemica – sfociante nella critica a posizioni ed analisi ormai stantìe, superate ed ingabbiate nella logica del sistema e nell’affermazione propositiva: “Al «né destra, né sinistra», che suscita un interrogativo sul punto di vista che si cerca di esprimere, preferisco la forma «e destra e sinistra», che in fondo esprime lo stesso concetto, ma lo fa mettendo l’accento sullo spirito di sintesi dialettico e di Aufhebung tipico delle logiche trasversali e dei nuovi spartiacque” (p. 160). L’analisi marxista correlata ai concetti di Forma-Capitale, plusvalore e modo di produzione trae nuova linfa vitale grazie ad una riattualizzazione conseguita attraverso gli strumenti ermeneutici forniti da Heidegger, per quanto concerne il ruolo dell’imposizione planetaria della tecnica sull’uomo, da Sorel, a proposito di una rivisitazione antimaterialistica e volontaristica del marxismo, dal pensiero antimoderno e controrivoluzionario in relazione all’inconsistenza filosofica e spirituale delle pretese egualitarie, progressiste ed internazionaliste, prodotto dell’Illuminismo. Grazie a un siffatto armamentario teorico, de Benoist ha gioco facile nella distruzione dell’ideologia, in senso marxista, e degli idoli, in senso nietzscheano, della società liberal-capitalista. La pars destruens del saggio, chiara, concisa e tagliente, denota un “racconto apocalittico” (per impiegare la felice espressione coniata da Giulio Sapelli nel suo omonimo saggio) ma privo della speranza escatologica nei confronti dell’Apocalisse, intesa come “l’attesa di una rivelazione redentrice, (…) una delle for- 47 n. 04/2012 buono», come si spiega che la società abbia tante caratteristiche detestabili? (…) L’uomo non è né naturalmente buono, né naturalmente cattivo ma, in quanto essere «aperto al mondo», capace del meglio come del peggio, capace di superare se stesso o di ricadere al di sotto di se stesso” (p. 158). L’orientamento fattivo proposto da de Benoist non appare tuttavia pienamente evidente, viziato a mio avviso da una contraddizione interna al suo ragionamento. Il filosofo d’oltralpe afferma da un lato la necessità di un superamento del baratro, metafora del sistema monetario, liberista e capitalista, nella certezza che riforme interne al modello attuale non possano rendersi efficaci, se non a breve termine. I toni impiegati in questa sede sono estremamente duri, si evoca il socialismo come forza di popolo, si afferma che “l’atteggiamento necessario è quello della più completa radicalità critica” (p. 171), si rifiuta il mito della crescita (sulla scia della riflessione di Serge Latouche sulla “decrescita felice”), la psicologia del capitalista ed il feticismo del denaro. D’altro canto, nel momento in cui de Benoist approfondisce il proprio indirizzo propositivo elenca una serie di progetti indubbiamente interessanti ed anticonformisti, ma altrettanto palesemente interni al sistema; la soppressione del divieto delle banche centrali di prestare denaro direttamente agli Stati, una “nuova disciplina bancaria che vietasse alle banche d’affari di fondersi con le banche di deposito, (…) una politica fiscale che permettesse di controllare meglio i movimenti di capitale a breve termine, (…) distinguere il tasso di interesse «produttivo» e quello «speculativo»” (p. 81), una riforma dell’Euro, la lotta alla disparità sociale, l’instaurazione di un reddito di cittadinanza, politiche protezioniste contro la mondializzazione in nome di una “adozione della preferenza comunitaria europea in tutti i campi” (p. 61): si tratta di proposte che presuppongono un modello economico capitalista, anche se indubbiamente lontano anni luce dalla degenerazione contemporanea. Sotto questo profilo il pensiero di de Benoist non sembra lontano da modelli neokeynesiani, come quelli della MMT (Modern Money Theory), o da proposte conservatrici quali quelle di Giulio Tremonti (La paura e la speranza, Milano 2008; Uscita di Sicurezza, Milano 2012). In de Benoist vi è tuttavia un radicamento profondo nella tradizione europea e nei suoi valori, un soggiornare presso un nomos della terra ormai perduto, in lotta contro la contraddizione di fondo del liberalismo, per il quale si deve “dare uno Stato (…) il quale rinunci se non alla guida, al controllo dell’economia, in un’epoca dominata dai valori economici. (...) L’economia internazionale si «libera» del diritto inter-statale europeo, fondato sull’esistenza di Stati effettivamente sovrani. (…) Il linguaggio vittorioso dell’economia e della tecnica esige un unico spazio” (M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano 1994, pp. 125-126). È forse nel seguente invito, egregiamente sintetizzato da Giaccio, che risiede allora l’insegnamento più importante del pensatore francese: “Dobbiamo, come i primi cristiani, stare nel mondo, cioè immergerci nella realtà per meglio conoscerla e criticarla, e costruire dal basso, con pazienza, calma e umiltà (nel senso di aderenza all’humus) una prospettiva di cambiamento radicale, senza essere del mondo” (p. 20). Alain de Benoist, Sull’orlo del Baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro, prefazione di M. Fini, traduzione di G. Giaccio, Arianna Editrice-Macro Edizioni, Cesena 2012, pp. 182, € 9,80. consumatore. (…) L’economia liberale, neoclassica, afferma che l’uomo è interamente calcolabile. La crisi attuale fornisce la prova del fallimento di questa pretesa alla «trasparenza»” (p. 36). Così “il vero ostacolo al protezionismo risiede in una mentalità ideologica, che si può definire «liberale-libertaria»: narcisismo, individualismo, ossessione del denaro, disprezzo ostentato per il popolo. (…) Questo individualismo è in effetti un individuo-universalismo, e l’universalismo è anch’esso in sintonia con il libero scambio, nella misura in cui è collegato all’idea di un «mondo senza frontiere», in cui le nazioni e i Paesi sarebbero ineluttabilmente «superati»” (p. 63). Tale immagine del mondo, ispirata, per dirla con Marx, alla peggiore “robinsonata”, offre risultati concreti mostruosi, nel senso etimologico del latino monstrum, che è apparizione sconvolgente e ammonitrice: “Prima della crisi del 2008, (…) dei 3200 miliardi di dollari che venivano scambiati quotidianamente nel mondo, meno del 3% corrispondeva a beni o servizi reali” (p. 105). Il baratro comincia a suscitare paura anche nei cuori più arditi ma è compito dell’intellettuale immergersi nella verità, anche quando la sua rivelazione arrechi dolore. De Benoist si addossa con sincerità questo compito, un fardello che la disamina teoretica puntella in parallelo all’enunciazione dei dati più allarmanti. Il filosofo francese non si risparmia da una meditazione “politicamente scorretta” sul tema dell’immigrazione, “esercito di riserva del capitale (…) manodopera docile, a buon mercato e priva di coscienza di classe” (p. 115), nella ferma convinzione che “chi critica il capitalismo approvando l’immigrazione, di cui la classe operaia è la prima vittima, farebbe meglio a tacere. Chi critica l’immigrazione restando muto sul capitalismo, dovrebbe fare altrettanto” (p. 121). L’impostazione critica di de Benoist è eccellente, in quanto capace di connettere le riflessioni più acute della controcultura novecentesca instaurando nuove prospettive affascinanti, suggerendo la possibilità, tematizzata da altri, di “ipotizzare, lavorare per un’«altra» modernità, che non sia quella desolante, omicida, che ci angustia sempre più. Rovesciare i Moloch. Sognare forse... un’antimodernità aperta al futuro” (D. Bigalli, Un’altra modernità, Bietti, Milano 2012, p. 23). Il pragmatismo di de Benoist renderebbe inevitabile, anche al fine di scongiurare visuali fataliste ed inconcludenti, una pars costruens all’altezza della critica sferrata al modello vigente. Per quanto concerne questa destinazione, il saggio è indubbiamente meno persuasivo. All’autore vanno tuttavia due meriti indiscutibili: in primo luogo la comprensione del significato profondo e metastorico della crisi, parola che, come sottolineato da Eduardo Zarelli, “in cinese, composta nei suoi ideogrammi, può essere interpretata abbinando il concetto di “crisi” a quello di «opportunità»” (p. 7) e in senso greco krisis, che deriva dal verbo krine, “separare, dividere, decidere”, dunque “crisi come ambito di un’opzione decisiva, tramite la quale procedere alla revisione del cammino percorso sino al presente, ispirando il senso di una svolta, in vista della salvezza comune” (G. F. Lami, G. Casale, Qui ed ora, Rimini 2011, p. 18); secondariamente, una visione antropologica avvertita, distante da certe moderne infatuazioni neo-rousseauiane e primitiviste che vedrebbero nell’uomo allo stato di natura una creatura buona ed integralmente realizzata. A tal proposito scrive l’autore: “Se il male sociale, la fons et origo malorum, è «la società», mentre l’uomo è «naturalmente 48 n. 04/2012 Di prossima pubblicazione: Guido Morselli - Una rivolta e altri scritti (1932-1966) Stefano Giuliano - Le radici profonde non gelano Giorgio Galli - L’impero antimoderno 49 n. 04/2012 G. Anders, Lo sguardo dalla torre F. A. Ossendowski, L'ombra dell'Oriente tenebroso di Davide Balzano di Rita Catania Marrone A vent’anni dalla scomparsa dell’autore, Mimesis propone Lo sguardo dalla torre, opera scritta nel 1968 da Günther Anders e mai tradotta in italiano. Il volume, arricchito da un interessante e puntuale saggio di Devis Colombo, curatore, ci offre una raccolta di favole la cui stesura si protrasse per quasi quarant’anni e che fornisce numerosi spunti di riflessione i quali, nonostante il tempo trascorso, mantengono uno stretto legame con tematiche attuali. Filosofo, scrittore e poeta, antimilitarista convinto e profondamente coinvolto nei movimenti antiatomici, Anders usa in questa occasione il formato della favola per introdurre la sua visione del mondo e della filosofia, in un misto di ironia, cinismo e crudeltà non sempre immediatamente comprensibile, ma che lascia spiazzati dopo una più attenta riflessione. Proprio la scelta di tale formato si rivela tuttavia vincente, provocatoria e tagliente al punto giusto, in grado di porsi senza scrupoli al cospetto dell’élite universitaria e di rivolgersi, al contempo, ad un pubblico più popolare, non avvezzo al linguaggio specialistico della filosofia accademica. In un susseguirsi di brani di varia lunghezza – dai semplici aforismi ai racconti brevi – l’autore espone la propria personale visione dell’uomo moderno; un affresco in realtà amareggiato, che constata il dominio sempre meno controllabile della tecnica sulla vita, la quale ci obbliga ormai ad adeguarci ad essa per sentirci parte del mondo, ad inseguirla invece che utilizzarla realmente. Infatti l’avvento della bomba atomica ha reso per la prima volta possibile che la specie umana ottenesse il potere di auto-esiliarsi dalla storia tramite la perenne minaccia della distruzione totale. È inoltre presente un secondo tema di riflessione, spesso sottolineato da Anders: il funzionalismo sfrenato della tecnica umana ha fatto sì che l’uomo perdesse sempre più il contatto non con la semplice fantasia, ma con la stessa capacità di immaginare, facendo precipitare l’umanità in quello che lo stesso autore definisce il “dislivello prometeico”, una frattura insanabile tra ciò che possiamo fare e ciò che possiamo immaginare; ed è proprio il progressivo allontanamento dell’uomo dall’elaborazione concreta dei prodotti del proprio lavoro ad averlo condotto allo stato attuale, alla perdita di interesse per i quadri d’insieme ed al lento appiattimento verso la mansione singola, il mero ritorno economico, la sicura incolumità della propria coscienza trincerata tra le sbarre degli ordini superiori. Tutti questi sintomi di un’umanità sempre meno “umana” e sempre più “tecnica” vengono abilmente parafrasati in brani semplici ma efficaci, quali Il telefono, Il microscopio, La consuetudine, Le chiavi, e altri brevi spaccati di una visione a tratti rassegnata ma che ancora sembra vedere nella filosofia l’arma più potente che l’uomo abbia a disposizione per farsi luce nell’oscurità in cui sta precipitando. Impossibile non citare infine, quale ulteriore pregio della pubblicazione, la scelta più che opportuna di includere nel testo le litografie che Andreas Paul Weber, tra le altre cose illustratore della Wiederstand, l’organo del movimento nazionalbolscevico di Ernst Niekisch, appartenente all’universo polico della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice, inserì nella versione originale. Anch’egli sostenitore delle medesime battaglie di Anders, l’artista tedesco traspone in immagini quella stessa tagliente e cruda ironia che abita le favole, dando il proprio contributo all’aumento del senso di amarezza e ambiguo disagio in cui si viene spinti dai racconti. Günther Anders, Lo sguardo dalla torre, a cura di D. Colombo, prefazione di G. Fofi, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 194, € 16,00. 19 dicembre 1916: all’alba della “rinascenza” russa, quando mancavano ancora pochi mesi a quella rivoluzione che avrebbe definitivamente cambiato il volto di una nazione (e dell’Europa intera), viene ritrovato nel fiume Neva il cadavere di un uomo. Si tratta di Grigorij Efimevič Rasputin. Personaggio ancor oggi in bilico fra storia e leggenda, Rasputin sembra appartenere più ad una superstizione medievale che alla storiografia moderna. Eppure, proprio mentre l’intellighenzia russa spianava la strada all’entrata trionfale del comunismo, che avrebbe soppiantato con una violenza inaudita l’impero zarista, scagliando la Russia nell’età contemporanea, alla corte dei Romanov si respirava un clima ancora medievaleggiante. A dimostrazione di ciò troviamo proprio la figura di Rasputin: mago guaritore o carismatico cialtrone? Le opinioni, su questo punto, si dividono. Da una parte c’era chi lo credeva, come la stessa Zarina Aleksandra, un “uomo di Dio”, un santo mandato dal divino onnipotente per salvare la famiglia imperiale. Oppure, al contrario, chi lo riteneva essere l’Anticristo, “il servo del diavolo”, da eliminare affinché il castigo di Dio non si abbattesse sulla nazione intera. Dall’altra parte, invece, i più disillusi razionalisti lo dipingevano come un ciarlatano, un ubriacone e un ladro che, grazie alla sua indiscussa capacità di seduzione, era riuscito a raggiungere un incredibile potere politico presso la corte degli Zar. Fatto sta che, qualunque fosse la verità, un personaggio come Rasputin, monaco guaritore dagli incredibili poteri magici, poteva ancora avere un peso politico in una nazione come la Russia di inizio Novecento, che noi tutti siamo abituati a immaginare come una delle culle culturali dell’età contemporanea. Questa immagine che il mondo ha della Russia rivoluzionaria non è che una maschera, filtrata dal senno di poi della storia. Una storia null'affatto univoca, come vorrebbero invece gli alfieri del progresso. La realtà è che, al fianco di Tolstoij, Dostoevskij, Lenin e Trotsky, vi era un’altra Russia, quell’Ombra dell’Oriente tenebroso che Ossendowski descrive in questo libro assai suggestivo, donato oggi ai lettori dalla giovane casa editrice Arethusa di Torino. Streghe e maghi, pirati e sciamani sono solo alcune delle figure che popolano l’affascinante e spietata Madre Russia di inizio Novecento, dove paganesimo e superstizione si mescolano a cristianesimo e razionalismo. Un popolo che, cantato da Tolstoij come il “corriere di Dio”, si trovava invece sempre sul filo del rasoio della più nera miseria, che troppo spesso si tramutava in follia. Come nel caso di quelle sette religiose (difficile stabilire se cristiane o pagane) in cui i contadini, aizzati da un sacerdote-santone, si tagliavano la gola pregando in gruppo, convinti che solo il loro tributo di sangue avrebbe placato l’ira di Dio. Testimone diretto di questi fenomeni è Ferdinand Antoni Ossendowski, molto più che scrittore e giornalista: appassionato di viaggi, fu attento esploratore di alcuni dei luoghi più selvaggi di Europa e Asia. La sua attività di denuncia dei crimini bolscevichi lo costrinse a fuggire dalla sua terra natale, la Polonia, per rifugiarsi in Mongolia, dove conobbe il celebre barone “sanguinario” Roman von Ungern-Sternberg. Fuga, questa, raccontata nel diario romanzato Bestie, Uomini, Dei, altro testo di indispensabile lettura per chi crede, al di là dell’apparenza, che la verità non sia una sola. Ferdinand Antoni Ossendowski, L’Ombra dell’Oriente tenebroso, traduzione di I. K. Ravets, Arethusa, Torino 2010, pp. 188, € 16,50. 50 n. 04/2012 A. Tagliapietra, Icone della fine M. Iacona, Il liberalismo di Mitsuharu Hirose di Gianpiero Mattanza Che cosa evoca la parola fine? Fine individuale, del mondo, Apocalisse? O forse solo una paradossale, istantanea transizione tra ciò che ha tempo e ciò che non ne ha? Per quanto sia impossibile fissare univocamente questo concetto, ogni epoca ha cercato di rappresentare le suggestioni che esso suscita tramite miti, filosofia e arte, seguendo lo scorrere dell’evoluzione del pensiero. Ma cosa implica la fine, per come è stata interiorizzata dall’uomo nel corso della storia? Le interpretazioni sono naturalmente innumerevoli, così come gli ambiti a cui essa viene associata. Andrea Tagliapietra, filosofo e docente presso l’Università San Raffaele di Milano, ci accompagna lungo un percorso che comincia dalla ripresa di miti (religiosi e non), teorie e idee elaborati nel corso dei secoli. Icone appunto, che al pari delle immagini sacre ortodosse ci permettono di “toccare e vedere ciò che per altro è e rimane invisibile e inattingibile” (p. 11). Questo insieme di rappresentazioni si è rivelato propedeutico allo sviluppo delle attuali icone della fine, contemporanee metafore visive che, grazie ai moderni mezzi di comunicazione, oggi popolano il nostro immaginario massificato. L’autore le seziona con un occhio di riguardo nei confronti della cinematografia, la più giovane delle arti, in rapidissimo divenire e destinata ad un enorme bacino di fruitori. Lo studio è caratterizzato da un costante parallelismo tra immagini antiche e moderne, tramite cui emergono elementi comuni e divergenze tra percezioni presenti e passate. Analogie e differenze sono evidenziate tramite la moltitudine di riferimenti attinti da tutto l’alveo del sapere occidentale. Tra di essi spiccano numerose pellicole (tra cui alcune di grandissimo successo come Apocalypse Now o 2001-Odissea nello spazio) ma anche testi sacri, opere filosofiche e letterarie. Si comincia con l’Apocalisse, evento carico di significati religiosi e millenaristici, “rivelazione” che apre una nuova fase; la sua concezione è condivisa da culture e religioni diverse ed oggi può rispecchiarsi nell’emblematica immagine dell’affondamento del Titanic, che trascina con sé, oltre a migliaia di vite umane, la certezza di una modernità illuminata dal progresso. Si prosegue analizzando le immagini del tempo, che nella nostra epoca trovano la massima espressione proprio nella cinematografia, in un susseguirsi di fotogrammi che, grazie al fluire del tempo, riesce a mostrarne l’evoluzione. L’autore trova nel sopracitato film di Kubrick una delle massime espressioni di “temporalità come soggetto stesso della rappresentazione” (p. 58): immagini in trasformazione si scontrano con le apparizioni di un misterioso monolite dagli arcani significati. La settima arte è chiamata in causa anche nel capitolo dedicato alle immagini dell’estremo: Schindler’s List di Spielberg e La nona porta di Polanski sono omologhi moderni delle visioni infernali dantesche e di Hieronymus Bosch. Seppur distanti a livello temporale, sono permeate dai medesimi contenuti. Passando per le immagini della fine individuale, l’opera si completa con quelle della fine collettiva, che presenta, tra l’altro, un’accurata analisi di Don Giovanni, eroe moderno che esalta un abbandono ai propri sensi contrapposto alla severità della morale religiosa del suo tempo. Assieme al lungo percorso contenutovi, le infinite citazioni e i continui accostamenti tra immagini rendono Icone della fine una ricchissima miniera per approfondimenti sul tema. Andrea Tagliapietra, Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti, Società Editrice Il Mulino, Bologna 2010, pp. 218, € 13,60. Il prolifico studioso Marco Iacona, dottore di ricerca in pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee, ha recentemente dato alle stampe un interessante volumetto intitolato Il liberalismo. Il pamphlet vuole contribuire, con stile chiaro e scorrevole, a delineare e commentare la cronistoria del movimento politico (o forse è meglio dire della forma mentis) che ha finito per intridere come dogma religioso la coscienza dell’uomo occidentale, abituato al “ben pensare”. La presentazione, firmata da Alain De Benoist, lascia presagire sin dalle prime pagine che il testo non racchiude un’insipida lista di nomi e fatti, ma rappresenta una ricerca che tenta di raggiungere una piccola vetta, quella del ritratto fedele alla realtà di ciò che non può essere raffigurato perché proteiforme e cangiante. L’intellettuale francese afferma infatti: “Marco Iacona non sbaglia a sottolineare, fin dall’inizio del suo libro, le grandi difficoltà che si incontrano quando si cerca di individuare il concetto di liberalismo. Queste difficoltà sono in parte spiegate dal fatto che, a differenza di altri sistemi ideologici, l’ideologia liberale non ha un fondatore unico” (p. 1). Ecco che l’autore diviene creatore, tentando di modellare con l’eterogenea materia posseduta una nuova forma, che vada oltre. Iacona imposta il proprio lavoro in modo innovativo, evitando di trattare l’argomento secondo una scansione contenutistica legata a schemi statici che possano appiattirne i contenuti. La prima questione posta è, giustamente, quella della definizione (oseremmo dire etimologica) di liberalismo. L’autore dialoga con autori classici e contemporanei, citando in ugual misura pensatori come von Hayek e Bedeschi, Bobbio e de Tocqueville. Crediamo di non sbagliare se diciamo che Iacona lascia trasparire, nelle pagine seguenti, una certa simpatia verso le prese di posizione dell’antimodernismo: si chiede infatti se il liberalismo non sia mero frutto della rottura della visione tradizionale piuttosto che una creazione ex novo. Viene citato Julius Evola, che definisce l’individualismo come “pretesa prevaricatrice di un io che è (...) quello mortale del corpo” (p. 23). L’analisi non si ferma dunque, come troppo spesso succede, all’ascolto di autori per così dire accademicamente “curricolari”, ma si avventura in quel campo spesso criticato (forse in quanto portatore di verità tanto scomode quanto urgenti) che è quello animato dalle voci eterodosse, non allineate. Una storia del fenomeno liberale è punto di partenza imprescindibile per un’analisi esauriente: Iacona non si esime da un’attenta ricerca storiografica e distingue le diverse fasi di quella che, dai primi vagiti nell’Inghilterra del XVII secolo alla diffusione nell’intera Europa nella prima metà dell’Ottocento, si delinea come un’ideologia. L’autore passa in rassegna punti di vista diversi e procede con un’attenta presa di coscienza dei punti fondamentali dell’ideologia liberale, con ampi riferimenti alla storia recente. Particolarmente interessante il confronto/scontro tra l’istituzione democratica e la visione liberale, ma anche tra quest’ultima e l’assetto totalitario dello Stato. Silenzioso filo conduttore dell’intera opera si rivela il collegamento che l’autore sapientemente tesse con le tematiche economiche, a partire dal XVII secolo sempre più fondamentali per le dottrine di stampo antitradizionale. Il liberalismo assume così l’assetto bifronte di libro ben strutturato e interessante punto di partenza per riflessioni di più ampia portata, sempre più necessarie nel buio della contemporaneità. Marco Iacona, Il liberalismo, presentazione di A. De Benoist, Solfanelli, Chieti 2012, pp. 91, € 8,00. 51 ARRETRATI n. 04/2012 www.antaresrivista.it N. 00/2011 H.P. LOVECRAFT N. 01/2011 IL PENSIERO IN CAMMINO N. 02/2012 UN’ALTRA MODERNITÀ LIBRERIE FIDUCIARIE CHIETI: Home Movies – Via Ortona 3D ✽ CREMONA: Libreria del Convegno – Corso Campi 72 ✽ MILANO: Libreria Arethusa – Via Napo Torriani 1 ✽ Libreria Cortina – Largo Richini 1 ✽ Spazio Ritter – Via Maiocchi 28 ✽ Bistrò del Tempo Ritrovato – Via Foppa 4 ✽ Fiera del Libro – Corso XXII Marzo 23 ✽ Libreria Odradek – Via Principe Eugenio 28 ✽ PERUGIA: L’Altra Libreria – Via Rocchi 3 ✽ Libreria Il Bafometto – Via Alessi 36 ✽ ROMA: Libreria Aquisgrana - Via Ariosto 28 ✽ Melbookstore – Via Nazionale 254 ✽ Libreria Aseq – Via dei Sediari 10 ✽ L’Universale – Via N. 03/2012 J.R.R. 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Quando l’economia si fa poesia LA SOVRANITÀ SUL DEBITO Il ruolo della globalizzazione nel sistema capitalista DEMONDIALIZZIAMOCI L’appello ad un nuovo tipo di antiglobalizzazione EFFETTO “BOOMERANG” DEL LIBERO SCAMBIO Il corto circuito del liberalismo e la necessità di altri modelli INTERVISTE Fenomenologia della crisi: Nino Galloni, Costanzo Preve, Maurizio Pallante, Domenico de Simone, Andrea Baranes NEL PROSSIMO NUMERO: Miti moderni: interpretazioni simboliche di letteratura, arte e cinema