ACHAB Rivista di Antropologia 2006 numero IX Università degli Studi di Milano-Bicocca AChAB - Rivista di Antropologia Numero IX - ottobre 2006 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paola Abenante, Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini, Sara Zambotti Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. * Immagine in copertina di Michele Parodi (spiaggia di Yoff, Senegal, Gennaio 2003). Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: [email protected] ACHAB In questo numero... 2 La scomparsa di Clifford Geertz (1926-2006) di Ugo Fabietti 4 Un ricordo di Clifford Geertz di Roberto Malighetti 6 Autobiografia e immaginazione etnografica Prime annotazioni di Pietro Clemente 11 Un contributo al dibattito sulle politiche attinenti alle manifestazioni culturali nello stato brasiliano di Maranhão di Arinaldo Martins 15 Welcome to Armenia Etnografia dell’Ararat nell’identità diasporica armena di Fiammetta Martegani 23 Rappresentazioni del dolore I profughi della guerra del Kosovo nella stampa italiana di Federico Boni e Oscar Ricci 33 Fieldwork between Distance and Intimacy Reflections on a Photo Exhibition on the Street di Giovanni Picker 42 Tre preghiere collettive dei musulmani milanesi Spunti di riflessione sulla fotografia etnografica testo e foto di Lorenzo Ferrarini 47 Sostenere il mondo Osservazioni sul concetto di dharma nel brahmanesimo di Viola Gambarini 51 Silamo Malagasy Uno sguardo sui musulmani del Madagascar di Maura Parazzoli 56 La Verifica Incerta Note a margine di una missione in Angola (Prima parte) di Michele Parodi 1 ACHAB La scomparsa di Clifford Geertz (1926-2006) di Ugo Fabietti “Nessun ricordo di essere stato una stella può mai impedire che la fine sia dura”. Così concludeva Clifford Geertz una conferenza tenuta nel 1999 in cui aveva ripercorso quella che lui stesso aveva chiamato “una vita di studio”. La “durezza” è che adesso, a sette anni da quella conferenza, Clifford Geertz non c’è più. La sua morte abbastanza inaspettata (nonostante fosse avanti con gli anni), lascia un vuoto importante nell’orizzonte di riferimento degli antropologi della mia generazione. Parlare ora, e per di più “dall’Italia”, di Clifford Geertz, espone inevitabilmente a qualche distorsione prospettica di non semplice definizione. Quando i suoi lavori cominciarono a essere tradotti in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta (confermando il proverbiale ritardo con cui da noi molte discipline – purtroppo l’antropologia non è l’unica – accolgono certe novità culturali), Geertz fu infatti “capito poco”, ma per lo più ignorato, dall’establishment accademico di allora. La sua prospettiva ermeneutica, e la concezione della “cultura come testo” che accompagnava quella prospettiva, erano alquanto “disturbanti” per una comunità antropologica fortemente debitrice o di un orientamento etnologico più o meno “classico”, o della “magia strutturalista” o dello storicismo di varia configurazione, da quello idealista a quello marxista ortodosso. Anch’io venni a conoscenza dei lavori di Geertz relativamente tardi, circa una decina d’anni dopo la pubblicazione, nel 1973, del famoso Interpretation of cultures, il libro che lo consacrò come uno degli antropologi di primo piano a livello mondiale. Sino ad allora, di Geertz avevo letto in originale, nei primi anni Settanta, solo ed esclusivamente La religione come sistema culturale (1967), ma confesso che ne avevo ricavato ben poco. Col tempo tuttavia, Geertz divenne un importante punto di riferimento per me e altri colleghi italiani che, sebbene per motivi diversi, si trovavano allora in uno stato di “indeterminatezza teorica”. Come spesso accade, fu anche quella volta questione di imparare un nuovo linguaggio. Da Geertz, ovviamente, imparai quanto fosse importante, nella costruzione della rappresentazione etnografica, la dimensione ermeneutica. Questa non va confusa con quello sdilinquimento della soggettività antropologica contrabbandata per riflessività che travolse, per un decennio circa, la “meglio gioventù” disciplinare degli anni 70-80, la quale si faceva forte proprio della prospettiva geertziana incentrata sul dialogo e sul “punto di vista del nativo” (che però, per un’ermeneutica stranamente intesa, diventò per molti “il punto di vista dell’antropologo”). E’ noto che, a questo proposito, Marshall Sahlins mise in scena il buffo dialogo tra l’antropologo e il nativo in cui quest’ultimo chiedeva, implorando, all’antropologo iperriflessivo: “ma non si potrebbe parlare un po’ anche di me”? Dirò schiettamente che, di Geertz, mi affascinò in primo luogo la sua scrittura. Diretta, ironica, suadente, un po’ complice (riconosciamolo), ma al tempo stesso profonda. In questo, mi sembra, coniugava il meglio della tradizione anglosassone (schiettezza nordamericana più ironia britannica) con una densità argomentativa di matrice tedesca. Ex-studente di filosofia, benché poco familiare con l’ermeneutica, ritrovai in Geertz quello “spessore” (le dimensioni del senso, del significato ecc.) che l’antropologia “classica” (nelle sue varianti) aveva, diciamo, “rimosso”. Geertz da noi non fu capito subito perché ribaltava completamente le regole del gioco, inducendo il sospetto che benché sia sempre l’antropologo ad avere l’ultima parola (“scrive…”) non è poi così ovvio pensare che tutto possa risolversi in descrizione, comparazione e generalizzazione. Il fatto che anche “gli altri” potessero produrre senso e significato Geertz lo argomentò in maniera sottile, ricca di esemplificazioni etnografiche, prendendo spunto dal quanto mai enigmatico imperativo malinowskiano: vedere le cose dal punto di vista dei nativi. Perché enigmatico? Perché non si sapeva bene se l’antropologo dovesse mettersi nella testa del nativo, se dovesse sostituirsi a lui o imparare tutto ciò che un nativo sa per essere come lui. Geertz, che non ha mai amato le teorie chiuse, i sistemi e le formule, pose invece il problema in termini di comunicazione. L’antropologia, per lui, era un “ampliamento del discorso umano”, un tentativo mai concluso di cogliere il modo in cui, sul campo, si stabiliscono relazioni comunicative capaci di far emergere oggetti nuovi di riflessione per l’antropologia, “una scienza”, come lui amava dire, “in divenire”. Geertz, lo sanno tutti, non è stato il teorico della “cultura come testo” e basta. Ha studiato la parentela, l’agricoltura, il mercato, la religione e lo stato alle due estremità opposte del mondo musulmano. Se si fa eccezione per Bali (immortalata, forse troppo, in alcuni saggi etnografici) Geertz fu, infatti, e suona un po’ strano dirlo, studioso dell’islam o, meglio sarebbe dire, di alcuni aspetti culturali del mondo indonesiano a est e di quello maghrebino a ovest, proprio ai confini estremi e opposti dell’islam storico, aspetti culturali che vennero da lui affrontati in una prospettiva metodologica che era allora insolita per l’antropologia e del tutto stravagante per l’orientalismo accademico. L’opera di Geertz è percorsa dall’esigenza di un continuo affinamento metodologico ed epistemologico, spesso difficile da cogliere perché nascosto dietro una scrittura che, come 2 ACHAB dicevo, si presenta come suadente e ironica, e forse anche un po’ profetica. Questa scrittura, lieve anche quando si inoltra in problemi davvero difficili, mi ha sempre rimandato, anche nei momenti in cui si può dubitare del senso, della giustezza, o anche solo della semplice opportunità di quello che si sta facendo, un’impressione di “tranquilla accettazione di ciò che ci circonda”, almeno quando questi dubbi e queste perplessità hanno riguardato la mia disposizione verso l’antropologia che, come appunto Geertz ebbe a dire, “is an excellent way, interesting, dismaying, useful and amusing, to expend a life”. Clifford Geertz (1926-2006) 3 ACHAB Un ricordo di Clifford Geertz di Roberto Malighetti Il mio interesse per il lavoro di Clifford Geertz prende le mosse dalla fine degli anni settanta quando, giovane studente di antropologia alla McGill University, ho iniziato ad occuparmi dei fondamenti teorici ed epistemologici dell'antropologia, insoddisfatto degli approcci positivisti e della sterilità delle rappresentazioni etnografiche descrittive e oggettivanti. Ricordo ancora l'entusiasmo con cui nel 1977 scrissi uno dei miei primi papers, sotto la direzione di John Galaty, sulla descrizione densa. In esso analizzavo, alla luce delle teorie G. Ryle e di L. Wittgnestein, il famoso articolo del 1973, Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture scritto appositamente per il volume The Interpretation of Cultures. L'incontro con l'opera di Geertz contribuì in maniera decisiva ai miei orientamenti, in un momento in cui, a fronte della crisi dei paradigmi totalizzanti, si stavano ponendo le basi teoriche di un'antropologia che andava adeguandosi alle acquisizioni più recenti dei vari campi del sapere: dalla filosofia post-empiricista allo studio dei simboli e dei significati, dall'ermeneutica alla sociologia comprendente, dalla filosofia del linguaggio alla critica letteraria. Combinando il lavoro sul campo con sofisticate riflessioni sulla disciplina e legandosi ai problemi dell'interpretazione del significato e del simbolismo, l'opera di Geertz mi ha permesso di ripensare le premesse epistemologiche fondamentali dell'antropologia e delle scienze sociali in generale. Le sue raffinate argomentazioni hanno costituito il principale modello che ha sostenuto le mie attività di ricerca e didattiche, a partire dai corsi che dal 1980 ho tenuto presso differenti Scuole Regionali a figure professionali con importanti interessi "applicativi" (assistenti sociali, educatori professionali, operatori sociali ecc.). La riscoperta geertziana della tradizione ermeneutica mi consentiva di analizzare criticamente lo scientismo egemonico in quegli ambienti "operativi", allora coniugato con interpretazioni piuttosto rigide e meccanicistice della psicoanalisi. Rammento la meraviglia e anche la conflittualità provocata dalla messa in discussione delle ortodossie preminenti che a partire dal diciassettesimo secolo hanno caratterizzato le concezione moderna e nomotetica della scienza: il mito di un metodo scientifico univoco e fisso; la concezione della conoscenza come rappresentazione e quindi la prospettiva empirista oggettivante; la rigida separazione fra teoria e "dati" e fra teorie e osservazione; la ricerca di un linguaggio formale perfetto, ripulito da ogni riferimento soggettivo; l'ideale mistico della verità. Tuttavia non si può dire che la comunità antropologica, dominata dai paradigmi struttural-funzionalistici e marxisti, abbia riservato una migliore accoglienza al lavoro di Geertz. La sua critica radicale ha fatto inizialmente molta fatica a trovare interlocutori, come si può attestare dalla scarsa letteratura su questo autore, sviluppatasi solo recentemente. Significativo è il fatto che in Italia il lavoro di Geertz iniziò a essere pubblicato solamente nel 1987, nonostante gli anni Settanta e Ottanta si fossero caratterizzati per l'intensa attività di traduzione di testi antropologici. Conservo ancora la risposta negativa da parte dell'importante casa editrice di Bologna che pubblicò il libro 7 anni più tardi, alla mia proposta del 1980 di tradurre il testo del 1973. Sorprendentemente, la motivazione non accennava tanto alla scarsa autorevolezza del proponente, quanto a quella dell'autore. In maniera analoga, quando 10 anno più tardi cercavo un editore per il mio libro su Geertz, ottenni come replica dall'unica casa editrice che aveva proposto in Italia nel 1973 un testo di Geertz (Islam. Analisi socio-culturale dello sviluppo religioso in Marocco e Indonesia), che l'antropologo statunitense non solo era un autore invendibile, ma soprattutto scarsamente rilevante. In accademia furono scienziati sociali diversi dagli antropologi ad apprezzare inizialmente la ricchezza e raffinatezza della sua produzione e l'estensione della sua enciclopedia del sapere, ponendolo come un'importante figura di riferimento interdisiciplinare. Del resto la sua stessa formazione e carriera professionale furono segnate dall'interdisciplinarità: laureato in Inglese (Ohio, 1945) e in filosofia (1950), ricevette il dottorato dal Department of Social Relations nel 1956 (Harvard University) sotto la guida di Talcot Parson e Clyde Klukhohn. La sua attività di ricerca e di insegnamento si svilupparono in ambienti fortemente interdisiciplinari, iniziando come ricercatore (195258) al Center for International Studies at the Massachusetts Institute of Technology, al Harvard University's Laboratory of Social Relations (1956-57) e come membro del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences a Stanford (1958-59). Nel 1958 divenne Assistant Professor di antropologia alla University of California at Berkeley, dove rimase fino al 1960 quando passò all'University of Chicago come Associate Professor e Full Professor (1964) per poi approdare nel 1970 all'Institute for Advanced Studies di Princeton dove divenne Professor Emeritus alla School of Social Science. Nonostante si possa rilevare una certa difficoltà a tradurre nella pratica etnografica (condotta a partire dagli anni Cinquanta a Java, Bali, Celebes, Sumatra, Indonesia e Morocco) i principi che discuteva teoricamente in maniera molto sofisticata, Geertz ha avuto il merito di inaugurare profondi cambiamenti nelle condizioni della rappresentazione culturale, sia nella natura dell'esperienza etnografica, sia nella sua restituzione testuale. Sottolineando il carattere negoziale della situazione etnografica, fondata sull'interrelazione fra le costruzioni interpretative dell'antropologo e quelle dei suoi interlocutori, ha permesso di problematizzare la situazione dello studio sul campo e di 4 ACHAB analizzare il senso delle condizioni del lavoro, dei microprocessi della vita quotidiana, della traduzione attraverso i confini culturali e linguistici, della ricerca di rappresentare in maniera convincente la diversità culturale dei soggetti investigati. La principale caratteristica delle revisioni di Clifford Geertz delle discipline sociali consiste nella riscoperta della dimensione ermeneutica, in quanto teoria del segno e delle significazioni equivoche e polisemiche, con la sua enfasi tematica sulla comprensione e sull'interpretazione e sul carattere costruttivo della conoscenza. In Geertz il problema ermeneutico assume il significato di riconoscere, da un lato, che le espressioni e le azioni umane contengano una componente significativa. Dall'altro implica che le scienze interpretative siano costituite da modelli attraverso i quali costruiscono i loro referenti: la scienza è così ricondotta all'uomo e alla sua capacità di "dare senso" al mondo, come "fenomenotecnica", tecnica di produzione dei fenomeni, secondo l'espressione di Bachelard. Di conseguenza gli oggetti non sono visti come enti dotati di proprietà indipendentemente dal punto di vista di chi li conosce. Il soggetto, da parte sua, non è un'istanza paradigmatica, un ente "neutro", bensì un soggetto storico, inserito in una forma di vita ontologicamente fondato sulla sua cultura e sul suo sapere. Vi è superamento del concetto della soggettività e dell'oggettività del comprendere in direzione del riconoscimento della reciproca appartenenza fra soggetto e oggetto. La prospettiva è specificamente ermeneutica. Il discorso è inserito nel rapporto circolare fra interpretazione e traduzione: fra parti e tutto, fra familiarità ed estraneità, fra anticipazione di senso e comprensione, fra soggetto ed oggetto, fra particolare e generale, fra teoria e osservazione. Comprendere non può dunque consistere semplicemente nel rappresentare "il punto di vista del nativo" in una romantica pretesa di uguaglianza o in una difficile orchestrazione polifonica. I dati antropologici sono complessi e articolati, "costruzioni di costruzioni", "interpretazioni di interpretazioni", consistendo in ciò che l'etnografo ha registrato, di ciò che è stato in grado di comprendere, di quello che gli è stato detto dai suoi interlocutori a partire da ciò che essi hanno capito. Non solo il "punto di vista del nativo" è una delle prospettive possibili. Ma soprattutto esso è sempre mediato. Una volta che i nativi sono costruiti come informatori, la loro voce è già mediata e "redatta" dalla comprensione e dalla scrittura antropologica. Ciò che i nativi dicono non sono verità culturali, semplici esplicitazioni di concetti presenti nella loro mente, ma risposte circostanziate alla presenza e alle domande dell'etnografo. Confinare l'antropologia all'esperienza personale dell'antropologo o disperdere e ripartire l'autorità etnografica fra i suoi informatori, significa negare alla disciplina uno specifico statuto scientifico. Geertz ha insegnato che sebbene i concetti ed i modelli impiegati dal teorico debbano basarsi sui modi in cui i propri informatori interpretano le loro azioni e quelle degli altri, essi non possono esprimere gli stessi significati dell'interpretato. Le interpretazioni antropologiche, per loro natura, sono diverse dai resoconti dei nativi, fondando la loro forza su tale eterotopia. L'immersione analitica nel mondo privato degli interlocutori è scientifica nella misura in cui riesce a tradurre il linguaggio privato dei nativi nel linguaggio pubblico e specializzato dell'antropologia. L'etnografo non può quindi rinunciare alla propria autorità, che da un lato autorizza i suoi linguaggi e le sue ricerche presso i suoi interlocutori e presso i suoi fruitori; dall'altro si manifesta inesorabilmente nella scrittura, fondando la sua "funzione di autore". In tal senso l'etnocentrismo rappresenta una condizione ineliminabile e costitutiva del sapere antropologico, costruito necessariamente a partire "dal punto di vista dell'antropologo". L'idea che la comprensione passi attraverso la dialettica fra anticipazione di senso e comprensione e si fondi sull'esame esplicito dei pregiudizi e delle pre-comprensioni invita a rappresentare la realtà sociale degli Altri attraverso l'analisi della propria esperienza nel loro mondo e a considerare la pratica etnografica, in quanto pratica sociale, come parte integrante dell'analisi e del lavoro di testualizzazione. L'autoreferenzialità, racchiusa nella stessa nozione ermeneutica di circolarità e di storicità della comprensione, sottolinea che la costruzione della conoscenza antropologica si sviluppa inevitabilmente in chiave riflessiva e autobiografica: l'accesso all'Altro è sempre mediato dalla propria ontologia e dalla propria appartenenza a quella comunità storica e linguistica di cui Geertz è stato uno dei grandi protagonisti. 5 ACHAB Autobiografia e immaginazione etnografica Prime annotazioni1 di Pietro Clemente pubblicato con gli altri nella rivista L’uomo (n°2) nel 1980, ma solo nel 1981, con la sua collocazione a premessa nel volume Intervista a Maria (Palermo, Sellerio) che conteneva anche la trascrizione della intervista, quella relazione assumeva per me tutto il suo significato. Mi ero occupato fino allora di storie di vita soprattutto tornando indietro all’opera di Scotellaro, ed avevo prodotto e fatto produrre molti materiali dialogici e narrativi a Siena, nel quadro di ricerche sulle lotte contadine e la resistenza, e poi in generale sul lavoro e le condizioni di vita dei mezzadri. Ero molto attento all’ascolto delle ‘umane dimenticate istorie’. Eppure quando Clara Gallini parlò (e poi scrisse) di un rapporto intenso tra informatore e ricercatore (nel suo caso entrambe donne), che si poteva definire innamoramento, io restai disorientato e perplesso. Erano tempi di femminismo, e questa mi pareva un’attenuante. Ma la mia cura delle voci altrui non prevedeva che esse mi influenzassero sul piano emotivo. Semmai investivo un senso brechtiano dell’epos, una estetica proletaria. Nella ricerca la pensavo un po’ da militante (le passioni non ci concernono) e un po’ da oggettivista alla Nadel, la macchina uomo che fa ricerca va ben sorvegliata per essere adeguata, molto self control, prudenza, nell’intervista tanta attenzione, molta tecnica dell’ascolto e del rilancio. Riconoscevo allora anche un certo mimetismo del ricercatore, riascoltandomi nei nastri (poi nelle cassette) notavo che parlavo con un buffo tentativo di toscanizzare la mia voce. Ripercorrevo alcuni tracciati di Gianni Bosio2 a modo mio e avevo scritto un ‘elogio del magnetofono’, mai pubblicato, in cui trattavo dei problemi tecnici e politici della ricerca con l’uso di quel mezzo tecnico. Poi la crisi del marxismo negli anni subito dopo i settanta mi aveva spinto verso un oggettivismo del mezzo, una filologia delle fonti, schede, trascrizioni, archivi. Anche la lettura di Intervista a Maria è una tappa critica della mia formazione, siamo nel 1981, e Maria è una donna di Tonara che ricorda tante donne sarde che ho conosciuto, filosofie popolari di donne che hanno lasciato traccia nella mia vita: soprattutto Zia Stefana, che aiutava in casa di mia mamma, era una colf ma aveva una esperienza e una forza che finì per essere una consigliera di mia madre e favorì il riavvicinamento con noi giovani ‘sessantotteschi’ in guerra coi genitori, finì per adottare mia madre come sorella minore e adottò anche noi. Zia Stefana non nubile come Maria, era la donna che aveva avuto quattro mariti, aveva tantissimi nipoti e non c’era caso della vita di cui non sapesse qualcosa. E Zia Colomba, sorella di mio A Clifford Geertz maestro di immaginazione etnografica: esiste l’amore in Francia? La morte di Clifford Geertz , notizia di queste ore, concentra ora la mia attenzione. Con lui ho discusso dentro di me tutti i problemi che segnalo in queste pagine, dopo la fine degli anni ’80. Lo ho assunto a mio maestro, litigandoci spesso, ma l’ho visto per la prima volta nella foto dell’obituary dedicatogli da Princeton. Maestro virtuale e globale, come però succede dal tempo della scrittura. L’incipit di Interpretazione di culture con i dialoghi veri e immaginati di diversi attori sociali su uno stesso tema visto in modi contrastanti, il forte intreccio tra antropologia e studi umanistici in generale in Antropologia interpretativa, la centralità della scrittura e la critica del ‘ventriloquismo’ in Opere e vite, il ruolo della memoria e del ritorno in Oltre i fatti, la costruzione intellettuale del paesaggio globale in Mondo globale e mondi locali lo hanno fatto diventare per me un compagno di strada, uno zio materno ineludibile. Il modo con cui leggeva le fonti europee della mia stessa formazione mi ha aiutato a ritrovarle oltre la fine delle grandi narrazioni. Forse quel che scrivo qui appresso ha anche a che fare con l’esergo che egli dedicò in un capitolo bellissimo di Opere e vite a Emawaysh, la donna etiope incontrata da Leiris, che, scelta a testimone di canti d’amore, volle a sua volta interrogare e chiese “Esiste l’amore in Francia?” Una domanda sulla quale molte volte mi sono interrogato, e che contiene l’ambiguità e la speranza dell’antropologia post-classica. Innamorarsi? Non ho un ricordo ben situato nel tempo, mi sembra molto lontano e tra i primi convegni importanti, dell’incontro dal titolo “La ricerca sul terreno” che si tenne a Roma; i riferimenti dicono che era il 14-15 dicembre del 1979. Ho ricordi vivaci dell’ironia un po’ da scolaresca con cui i più giovani commentavano la comparsa in scena di vari relatori, figure fino allora solo sentite nominare con reverenza. Era un convegno internazionale. Vinigi Grottanelli elegante e plurilingue, mi rimase in mente perché nel suo francese abbondava l’intercalare n’est pas. Ma sul piano conoscitivo ricordo che fui critico, e così altri, verso un intervento di Clara Gallini, che si impose in quel contesto per la sua particolarità, che era dedicato a una donna di Tonara, da lei intervistata come testimone e protagonista di una immagine del mondo femminile tra tradizione e trasformazione, per una trasmissione radiofonica della terza rete radiofonica RAI. Il testo di Clara Gallini fu 6 ACHAB padre, nubile quasi programmata, che ha allevato o aiutato tre generazioni di nipoti. Il tema del comparatico di fiori e le variazioni dell’amicizia, della stima (parola d’eccellenza in Sardegna) e dell’amore mi colpirono molto nell’intervista a Maria. Era un altro tempo, e pochi anni dopo avrei criticato quel libro perché l’autore in copertina risultava essere Clara e non Maria, o meglio non era ‘a coautore’ come poi imparammo da Maurizio Catani (M. Catani, S. Mazè, Tante Suzanne. Une histoire de vie sociale Paris, Librairie des Meridiens, 1982) e usammo per Io so nata a Santa Lucia storia di Dina Mugnaini dialogata con Valeria Di Piazza, monumento della mia ricerca senese (1988 ma la ricerca è dei primi anni ’80, la tesi di laurea da cui nasce del 1984). Quando uscì il libro la mia prospettiva stava cambiando, e di lì a poco sarebbe cambiata più marcatamente. Spirito documentario, senso del rispetto della fonte, desiderio di autonomizzare il soggetto narrante mi impedivano di vedermi nella relazione a pieno. generalizzare ciò che però scrissi: “si sottrae alla funzione archivistica”. Forse pensavo che non tutti lo potevano, e vedevo questo come un caso, non la regola. Ma nello stesso stage usavo scherzosamente l’espressione che in qualche modo torna nelle mie note di diario, “innamorarsi”, pensando a una informatrice anziana e gentile che mi aveva adottato come suo ricercatore prediletto, e della quale raccolsi una storia di vita, mai edita, oltre che un elenco di diversi tipi di patate da sconcertare chi credeva che le patate fossero le stesse ovunque e di un sol tipo. Per molte ragioni dunque lo stage della Val Germanasca, i cui principali documenti furono pubblicati nel 1994 (Gens du Val Germanasca. Contributions à l’ethnologie d’une vallée vaudoise, Granoble, Centre Alpin et Rhodanien d’ethnologie), conteneva la rielaborazione di uno statuto oggettivistico, benché compartecipativo sul piano ideologico, della ricerca. Ma mancavano ancora molti elementi per riconoscere le tracce dell’operare lento e silenzioso del testo di Clara Gallini che avevo respinto concettualmente ma continuavo a elaborare. Credo che in tutti gli anni ’80 il mio lavoro abbia vissuto una dialettica di avvicinamento-allontanamento dell’oggetto di studio, in cui ci sono improvvise presenze soggettive che però non affrontano ancora il problema dell’influenza umana dell’incontro etnografico, ma un’altra difficile frontiera, quella del ‘me’ come oggetto antropologico, e dell’io come narratore accreditato a parlare anche di sé. Le tracce fondative di questi due aspetti della mia tensione epistemologica per lo più vissuta e non pensata separatamente, sono L’oliva del tempo. Frammenti di idee sulle fonti orali, sul passato e sul ricordo nella ricerca storica e demologia (in Uomo e cultura, 33/6, 1986) e Autobiografie al magnetofono. Una introduzione, in V. Di Piazza, D. Mugnaini, Io so nata a Santa Lucia, Castelfiorentino, Società Storica Valdelsana, 1986. Nel primo saggio riemerge un nesso ‘politico’ tra storie orali e pluralità delle vite, dei racconti, delle verità e si fa strada attraverso i versi di Apollinaire sulla memoria, versi fortemente legati alle letture dei 20 anni, prima dell’antropologia. Nel secondo, legato a un importante lavoro di memoria, un’opera vera e propria, un lavoro dialogico durato tre anni, riconosco il debito di conoscenza, di immaginazione antropologica, di accesso ai vissuti interni di una forma di vita verso questa grande informatrice che ha fatto dell’incontro con l’antropologia l’occasione per lasciare traccia del suo passaggio di contadina, comprendendo che si trattava di un ‘lavoro’ di memoria per altri, per dopo, per noi. Ecce homo Ma nella ricerca era già avvenuto qualcosa che per anni ho trascurato ed è invece segnato nel mio diario di campo del primo stage di ricerca-didattica fatto in collaborazione tra Università di Siena e Università di Aix en Provence, in Val Germanasca: “5/5/1981 Ecce homo P.A. Via XY n.46, Pomaretto (Val Germanasca, Torino) Il messaggio di una vita. La madre la moglie due figlie. Una coscienza conquistata al di là dell’utile e dell’individuale. La classe operaia come universale kantiano, la sua inattualità come malattia. Nati non fummo a viver come bruti. La coscienza come un fiore impagabile di cui non ci si può pentire. Un fiore di pirite in una massa di talco. Il registratore messo da parte. L’informazione cede il campo alla comunicazione interpersonale. L’altro si impone come soggetto e si sottrae alla funzione ‘archivistica’” In questo brano di diario, che pubblicai ne Il terzo principio della museografia (Roma, Carocci, 1999, pp. 154, 155) perché la pepita di pirite che il sindacalista e sindaco valdese mi aveva regalato era stata per me un ‘oggetto d’affezione straordinario (e i miei oggetti d’affezione come gioco didattico sulle cose nascono da Man Ray e da Ettore Guatelli), c’è una intuizione della consapevolezza che, saggisticamente, raggiunsi molti anni dopo in tutte le implicazioni. Allora c’erano ancora delle condizioni speciali: il mio interlocutore era un sindacalista di miniera, di sinistra, era stato del PSIUP, era stato in ospedale psichiatrico e nel colloquio era generoso e trasparente, era un incontro tra ‘uomini’, aspetti legati tutti all’immaginario di sinistra anni 60-70, che forse non mi consentirono allora di Un racconto e un sogno Negli stessi anni girammo un film inedito in cui Dina raccontava la morte del suo primo figlio e il suo sogno ricorrente in cui incontrava il bimbo morto al camposanto e su sua richiesta lo rapiva e lo riportava a casa correndo in mezzo ai campi. Questo racconto, che Dina ha ripetuto con poche variazioni almeno quattro volte in modo documentato, è anche il luogo di un dolore insopportabile, un racconto che suo marito 7 ACHAB non tollerava rendesse a noi, esterni, pubblici, cui egli aveva raccontato solo del suo ruolo nelle lotte sindacali, io l’ho portato con me in anni di didattica, e anche in un seminario, in un convegno, l’ho usato come laboratorio di trascrizione, l’ho analizzato in una lezione universitaria videoregistrata (in cui ho i capelli neri e fumo) come ‘testo contestualmente straordinario. Non ho mai detto che tutte le volte che lo rivedo piango dentro di me e qualche volta anche fuori approfittando del buio. E’ un racconto così forte e bello che non sono mai riuscito a scriverci nulla forse per non dissacrarlo. Qualche volta ho sentito la scrittura analitica come a rischio di violazione del sacro. Credo che il 1990 sia la data in cui ho trovato in un saggio di Peter Winch la metafora conoscitiva adeguata al mio vissuto, Comprendere una società primitiva (in F. Dei, A. Simonicca eds Ragione e forme di vita, Milano, Angeli, 1990). Questo saggio è ancora adesso per me un luogo eticamente e epistemologicamente esplosivo, difficile da maneggiare, ci sono vari passaggi che mi hanno riavvicinato al rilievo dell’esperienza religiosa e mi hanno consentito di innamorarmi del libro di Bateson, Dove gli angeli esitano. Non sono solo le persone che fanno innamorare, anche i libri, forse i quadri, le poesie, i paesaggi. Non avevo mai pensato all’esperienza conoscitiva come a un essere cambiati dall’incontro, pensavo sempre alla conoscenza con metafore di gestione, controllo, guida, ero stato molto influenzato dal libro Crisi della ragione (Torino, Einaudi) del 1980 e in specie dai saggi di A. Gargani e di C. Ginzburg, ma è con Winch che scoprivo una tradizione ermeneutica e dialogica che pure stava dentro ai miei maestri, ma forse girata in una direzione che me la rendeva invisibile. Attraverso questo passaggio gli anni ’90 aprono per me a una larghissima condivisione, italiana e creativa, verso le linee connettibili tra antropologia interpretativa e postmoderna americana. Nei saggi di questi anni c’è proprio un cambiamento del senso dell’essere studiosi, con metafore teatrali e informatiche che tendono a mostrare l’antropologo come regista di molteplici voci, gestore di links su una rete, un mestiere fatto di percorsi e connessioni come nelle Strade di Clifford e nel suo surrealismo etnografico. Ma in un testo inedito e per me paradigmatico del 1991 L’autore moltiplicato. Testi biografici e antropologia interpretativa in Persone e fonti Dispensa, Uniroma 1, corso 1996/97 si vede che diversamente da James Clifford io faccio sempre i conti con i miei interlocutori e qui in particolare con un carbonaio e una contadino della provincia di Arezzo che hanno scritto la loro storia di vita, e con i materiali dell’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano che dai primi anni ’90 entrano sistematicamente nella mia esperienza di studioso. Non solo l’incontro etnografico, non solo i libri teorici, ma la lettura delle storie di vita sono diventate per me luogo di scoperte, rivelazioni, incontri indimenticabili. Spettacolo meraviglioso Ma non sono riuscito nel tempo a costruire una teoria di questi incontri, forse ci voleva una forza riflessiva maggiore, forse una distanza ulteriore. Ho scritto testi in cui ho messo pezzi di cuore, mi sono imposto penitenze, ho riconosciuto debiti, ho raccontato parenti acquisiti e non, fino a scaricare su una raccolta di racconti autobiografici un pezzo di memorie urgenti, quelle legate al ‘68 e alla politica, dove urgeva anche per contrasto, ricordare il padre (Triglie di scoglio, Cagliari, CUEC, 2002). I morti sono entrati nella mia scrittura, e tra loro il mio omaggio sempiterno va, oltre che ai miei più vicini (tra i quali metto anche Ettore Guatelli, inventore di un museovisione) a Primo Levi e Bruno Bettelheim, maestri dolorosi di ‘900. Il mio disseppellire diari, anche familiari, è entrato nel discorso tra colleghi, almeno a Siena, dove un anno ho fatto fare laboratorio con il Diario di Zio Paulesu, marito della sorella di mia nonna paterna, che nel settembre del 1942 documentò l’arrivo a Meana Sardo del suo bisnipote Pietro da Nuoro, via treno e carro a buoi. Zio Paulesu è diventato una specie di informatore indigeno mitico, come Ogotemmeli. Per scherzo, ma anche per sottolineare le distanze di tutto ciò dall’antropologia classica, che è ancora ben radicata nei nostri studi e dalla quale vengo sentito distante. Non so come funziona la coscienza, certo è parecchio in ritardo rispetto ad altri livelli del vivere, nella mia bibliografia non capisco molto il senso del prima e del dopo, ci sono anche i tempi di edizione, ma i pensieri è come se andassero come granchi, o a zig zag. Così solo quando Saverio Tutino mi ha chiesto di collaborare alla rivista dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, “Primapersona”, che hanno cominciato a venir fuori alcuni riconoscimenti di ciò che avevo imparato e potevo anche comunicare sul piano del metodo. Tra il 1998 e il 2000 ultimi anni romani, si collocano i testi più consapevoli della mia esperienza di antropologo che continua a imparare dagli altri. Nel 1979 un testimone contadino ci aveva detto: il contadino è un mestiere che non si smette mai d’imparare, è da un po’ che ho capito che in questo gli antropologi sono come i contadini. In questi anni la mia bibliografia segna percorsi interrotti e squinternati, gioca come sempre su troppi fronti, ritrova la poesia come compagna di antropologie, ma è curioso che in tre testi brevissimi, chiestimi tali per un pubblico ampio da Tutino, compaiano le riflessioni più nitide di una idea condenda del radicale nesso interconoscitivo che ci lega ai mondi nostri e altrui quando li traversiamo sotto la specie del cercare con implicazioni etiche anch’esse forti e non sempre – a me stesso – esplicite. “Le storie di vita portano all’antropologo lo spettacolo meraviglioso – per le scienze sociali – di un mondo ‘altro’ visto dall’interno”3. Approfondivo l’idea centrale per l’antropologo dello studio delle autobiografie, quella del rapporto tra regole e tratti comuni della società e variazioni individuali, e quindi tra determinismo socio-culturale e libertà, scrivevo che è lo scarto 8 ACHAB dell’individuo che vive e interpreta originalmente le regole collettive, a far sentire nelle biografie una idea di ‘libertà individuale’. “E’ questa libertà che produce in noi che leggiamo lo spettacolo meraviglioso e spesso imprevisto, di una vita raccontata da dentro una cultura, di una cultura raccontata da dentro una vita”4. Riflettendo sul tema della ‘libertà’ nelle condizioni sociologiche e culturali date, seguivo un’altra importante influenza e in specie un passo di De Martino in Naturalismo e storicismo nell’etnologia che mi è a lungo risuonato dentro, e riguarda il valore dell’azione individuale, difesa sia contro Durkheim che contro Croce. Un passo fecondo, per me, nel senso rurale del termine, produttore di fioriture. Come in una metafora ‘agraria’ del Macbeth, che usai a epigrafe di un mio testo critico verso Frazer (in I frutti del Ramo d’oro. James Frazer e l’eredità dell’antropologia in La ricerca folclorica, 10, 1984): “Il Re a Macbeth – Benvenuto sul mio petto/Ho cominciato a piantarti e mi sforzerò/di farti crescere rigoglioso; Il Re a Banquo – Nobile Banquo/tu non hai meritato di meno, né deve essere meno noto/che lo hai fatto: lascia che ti abbracci/e ti stringa al cuore Banquo – e se qui crescerò/il raccolto sarà vostro” L’espressione che uso parlando di ‘spettacolo meraviglioso’ non vuol essere esagerata o enfatica, ma dare l’idea della bellezza della conoscenza antropologica, del senso di scoperta che spesso si vive, di come leggendo una storia che traversa dall’interno della propria vita un mondo, questo mondo si apra, si riveli senza semplificazioni, con complessità e forza immaginativa comparabili con quelle della letteratura e del museo. emozione incontenibile che ebbi nel concepirlo e nello scriverlo. E’ come se dovessi incorporare la varietà della vita e dell’antropologia nelle parole, ‘iscriverle’, come ha scritto Geertz, e la scrittura fosse luogo di obblighi di memoria, lapidi, monumenti, figuralità collettive, foto di gruppo con autoscatto. In meravigliosa compagnia di vivi e di morti, come in una poesia di Apollinaire, quelli che mi hanno cambiato sono sempre dentro di me, e io cerco di controllare la loro presenza per evitare quel ‘me variopinto’ che attrasse la riflessione di De Martino su Kant. Ho cercato di descrivere il processo di passaggio antropologico dalla storia dell’altro alla propria, ad esempio, in un testo legato alla storia del dopoguerra, ho proposto la mia vicenda familiare come una modalità di un ibridismo del ceto medio meridionale, basato sul principio ‘moglie e buoi dei paesi altrui’, così come ho iscritto la mia infanzia nella storia delle radici paesane scritta da tanti, da Pavese a Guccini. In una pagina didattica ho così rappresentato il processo: “Entrando in un oggetto culturale che diventa soggetto, l’antropologo produce su di sé un movimento inverso, è spinto a confrontarsi, a riflettere su di sé e quindi a trasformare se stesso da un soggetto in un oggetto vedendosi come essere culturale al pari di quello sul quale indaga… Questo effetto è fortissimo nelle storie di vita giacché queste, mettendo in scena padri e madri, genealogie, scelte migratorie, competenze, ci spingono a confrontarci e a cogliere noi stessi come caratterizzati da una scena che ci contiene in cui ci sono padri e madri...”6 Forse anche questa descrizione contiene una difesa dal ‘me variopinto’ alla Kant, restituisce posti nello spazio, anche se in un processo tra i partners della ricerca. In quanto tale contiene un principio di documentarismo, forse apotropaico, ma non lontano da quello che trovai nello Starobinskj di Il testo e l’interprete (in J. Le Goff, P. Nora, Fare storia, Torino, Einaudi, 1981). Il mio filologismo non è mai morto, nonostante alcuni a fondo critici di Vincenzo Padiglione, quando pensava che dovessi essere più coerente con me stesso. Tra filologia ed ermeneutica c’è una buona connessione. Essa è ormai una specie di terrazzamento come nei terreni scoscesi della montagna per evitare la frana a valle, mi serve molto, crea riscontri intersoggettivi, comuni itinerari, favorisce che, quella che ho descritto, sia una modalità della etnografia e della comparazione antropologica, e non solo un turbamento della coscienza ‘turbata’. La nostra infanzia La sorpresa e lo stupore nell’incontro con le storie mi sono evidenti, malgrado l’abitudine a leggere storie di vita con scritture poco esperte, e spesso con asprezze o storie non prive di somiglianze, le vite raccontate non mi consentono in genere di essere lasciate a metà, ogni lettura è un viaggio di più iscritto nella mia vita, più che nella mia labile memoria. Come se il posto di ogni vita fosse nelle vite di altri, o almeno nella mia (“e se qui crescerò il raccolto sarà vostro”). La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta ( in L’ospite ingrato ,II, 1999), il saggio dove tento un bilancio di queste tensioni, è stata considerato un testo eccessivo, un po’ fuori dei confini dell’antropologia, una sorta di patchwork in cui si entra e si esce dalla propria vita dialogando con Fortini, Pirandello, la gente delle esperienze di ricerca, i propri familiari in una sorta di girotondo felliniano sghembo, privo di simmetria. Vite esposte5 è un testo che insieme a Philippe Lejeune, Ernesto De Martino, i condannati a morte della Resistenza, nel finale convoca e rievoca mio fratello morto, la nostra infanzia, la mia prima scrittura documentata, e rileggerlo mi da la stessa La felicità della verità Incontri e descrizioni, scritture e osservazioni interagiscono costantemente con pensieri, idee, poetiche. Ne sollecitano di nuove e al tempo stesso le nuove aprono altre visibilità nelle etnografie. E’ curioso che, avendo cominciato con una critica all’innamorarsi dell’informatore senza accorgermi della contraddizione, mi sia trovato a citare nel mio primo scritto di analisi dell’autobiografia orale dedicato a Dina Mugnaini 9 ACHAB (morta alcuni anni fa, ricordata in Lares) un passo di Adorno, tratto da Minima moralia dedicato al tema dell’amore e della violenza: “lo sguardo lungo e contemplativo, a cui solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza, da cui viene tutta la felicità della verità, impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza”7. Di questo tipo di testi fa parte ancora un saggio-lettera di J. F. Lyotard da Il postmoderno spiegato ai bambini (Milano, Feltrinelli, 1987) che si intitola Glossa sulla resistenza. Un testo che connette la scrittura, il corpo e l’amore in una idea di resistenza alla semplificazione del mondo e della vita in una dimensione da Grande fratello (il testo è dedicato a Orwell), qui ho incontrato una interpretazione di Benjamin (Infanzie berlinesi) sull’evento, lo stupore, l’infanzia che ho usato molto sia in museografia che in autobiografia. E la nozione di ‘cicatrici’ anch’essa tratta da Benjamin, una nozione strana ma interessante, per cui l’individuo nella sua diversità si forma delle cicatrici nella sensibilità, e queste lo aiutano a essere diverso, si riaprono nel tempo come sensori aperti all’evento. Per finire questa prima puntata di una archeologia della mia immaginazione etnografica potrei dire che L’intervista a Maria e in particolare la nozione di ‘innamoramento dell’informatrice/tore’ avevano funzionato per me, in un codice mio, un po’ rigido e non sempre autoconsapevole come apertura di una cicatrice nella sensibilità. Cicatrice che più volte si è riaperta. Anche le etnografie altrui, e le letture filosofiche, gli arricchimenti della immaginazione antropologica del ricercatore, insieme alla sua vita, la sua età, si fanno scrittura etnografica, scrittura e descrizione densa. (fine della prima puntata) Note 1. Questo testo è stato scritto per l’incontro di Bassano 2006, promosso da Clara Gallini e dal centro Studi Ernesto De Martino. Ringrazio Clara Gallini di avermi consentito di usarlo per Achab, e la redazione di Achab di averlo considerato degno di attenzione. Lo considero una prima puntata anche se non ho ancora scritto la seconda e non so quante saranno in tutto. Nell’inviarlo alla redazione ho sentito il bisogno di aggiornarlo con una breve dedica a caldo a Clifford Geertz, morto poche ore fa. 2. G. Bosio, Elogio del magnetofono. Chiarimento alla descrizione dei materiali su nastro del fondo Ida Pellegrini, sta in G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, a cura di Cesare Bermani. Sulla mia convinzione che Bosio sia un riferimento vivo per la tradizione dell’antropologia italiana vedi P. Clemente, Temps, mémoire et récits. Antropologie et histoire in Ethnologie française, XXV, 3, 1994. 3. Facendo didattica in Primapersona I, 1, 1998. 4. Gli antropologi e i racconti della vita in Pedagogika, III, 11, 1999. 5. in Q. Antonelli, A. Iuso ( a cura) Vite di carta, Napoli, L’Ancora, 2001. 6. Facendo didattica in Primapersona I, 1, 1998. 7. Per l’edizione critica di testi biografici orali in Fonti orali. Studi e ricerche, IV, 1, 1984 una data non tanto lontana da quella di pubblicazione del testo di Clara Gallini. 10 ACHAB Un contributo al dibattito sulle politiche attinenti alle manifestazioni culturali nello stato brasiliano di Maranhão* di Arinaldo Martins1 Le politiche culturali avviate dai governi dello Stato del Maranhão2, in particolare quelle relative al bumba-meu-boi3, sono state l'argomento dei miei primi interessi accademici. Il bumba-meu-boi è stato oggetto di uno studio da me realizzato durante circa tre anni di ricerca sul campo nella città di São Luís, capitale del Maranhão, e in parte minore nell'interno dello Stato4. Verso la fine del mio lavoro, ha preso forma una certa visione di ciò che ho chiamato campo del bumba-meu-boi, usando qui la nozione di campo cognata dal sociologo francese Pierre Bourdieu5. L’analisi di una manifestazione culturale di questo genere non può prescindere dal campo di relazioni sociali di cui essa è al medesimo tempo agente determinato e determinante. Per pensare questo particolare universo della vita sociale, il campo delle manifestazioni culturali, è necessario tenere in mente che vi è una specifica configurazione di relazioni pubbliche nella quale gli attori sociali6 orientano le proprie azioni secondo un insieme soggettivamente percepito di interessi. Nel parlare di ciò, mi baso soprattutto sulle idee del sociologo Max Weber, secondo il quale le relazioni umane sono relazioni dotate di significato. Quale interesse hanno queste relazioni? In primo luogo, voglio chiarire che nel bumba-meu-boi - oggetto approfondito nel mio lavoro, le cui caratteristiche illuminano però anche altre manifestazioni e, chiaramente, la politica culturale maranhence, nella misura in cui ha preso il bumba-meu-boi come suo bersaglio privilegiato -, si può percepire una chiara interrelazione tra, per lo meno, tre campi specifici della vita sociale del Maranhão: il culturale (che comprende anche altre manifestazioni folcloriche, come il tambor de crioula7 ecc., ma che, per motivi di spazio, ho preferito ridurre ai gruppi del bumba-meu-boi), il burocratico-politico8 (dove sono inclusi i funzionari statali) e il campo degli intellettuali9 (i produttori di ideologie e forme di comprensione delle culture popolari). L'interrelazione tra questi campi fa si che il bumba-meu-boi sia un prodotto ibrido, fabbricato tanto dai brincanti, quanto dagli agenti dello stato e dagli intellettuali. La produzione del bumba-meu-boi si inscrive al livello discorsivo. Vi è un discorso egemonico che dice quali siano le manifestazioni che devono essere "incentivate" (le virgolette sono qui opportune, poiché ciò che si fa non può essere considerato un vero incentivo), quali le caratteristiche di tali manifestazioni, e quali, addirittura, siano quelle degne di esistere. Vorrei che fosse esplicito, infine, che ciò che si intende con l'espressione bumba-meu-boi del Maranhão é un artefatto, qualcosa creato arbitrariamente, imposto sulla realtà, e frutto della negazione di certi aspetti della cultura popolare e dell'enfatizzazione di altri. La pratica di concedere incentivi finanziari ai gruppi del bumba-meu-boi si è sviluppato come pratica sistematica delle politiche statali all'inizio degli anni '60. È in questi anni che un organo specifico del Governo dello Stato, il FURINTUR (Fundo de Incentivo ao Turismo e ao Artesanato do Maranhão), in seguito chiamato MARATUR (Empresa Maranhense de Turismo), sotto il controllo dell'orientamento nazionale del governo autoritario post-6410, si rivolge a ciò che all'epoca erano chiamati "folguedos folclóricos"11, nel tentativo di usarli come espressione della identità brasiliana e maranhense12, con il fine ultimo di promuovere il turismo. A partire da questo momento possiamo vedere come una serie di politiche siano state implementate per attrarre i turisti ad assistere alle presentazioni del bumba-meu-boi, del tambor de crioula, ecc., considerate legittime manifestazioni di una supposta identità maranhense. Il Parco Folclorico di Villa Palmeira, conosciuto nella decade del 1970 come Parco del Maratur, è stato costruito e amministrato da questo ente statale al fine di promuovere i gruppi, e incentivare l'affluenza di pubblico locale e di turisti. Rimase punto di riferimento per queste rappresentazioni fino al 1982, quando, a causa di alcuni problemi, la massa del pubblico, vale a dire i maranhensi stessi, smisero di andarci cominciando a frequentare gli arraiais13. È importante evidenziare che solo in seguito all'inaugurazione dell'uso di tali manifestazioni con obiettivi principalmente turistici (il fatto stesso che l'amministrazione di tutte le feste sia stata realizzata dal MARATUR attesta di ciò), il bumba-meuboi, il quale in precedenza non aveva per la popolazione un significato equivalente a quello esistente dopo tale periodo, ha attraversato un processo culminato nello sviluppo del fenomeno che oggi conosciamo. È in questi anni che cominciano ad emergere i gruppi più significativi, alcuni registrano i primi LP, sono messi in scena spettacoli teatrali sulla commedia del boi14, nascono i primi gruppi d'orchestra15 e la necessità di registrare le varie associazioni, i primi programmi radiofonici e televisivi iniziano a trattare i temi del folclore. Pertanto, ciò che si è sviluppato, nel ventre di tutto ciò, è una concezione utilitaristica della manifestazione che perdura fino ad oggi. Non è stato considerato importante il sentimento dei gruppi in relazione alla sua espressione, né una politica della cultura che privilegiasse la valorizzazione della loro singolarità, così da evitare che nello sviluppo accelerato di 11 ACHAB questa nuova configurazione, i meno preparati a tale processo contraddizione rivela il contesto utilitario in cui s'incontrano i soccombessero o perdessero molti aspetti del proprio gruppi, contesto nel quale, per poter continuare ad esistere, patrimonio immateriale (nel dire ciò non mi riferisco a nessuna hanno la necessità di rispondere ai bisogni del proprio pubblico nozione di tradizione). In questa discussione, vorrei portare e dei propri acquirenti. Nonostante il discorso sia quello di come esempio la vicenda del Boi di Madre Deus16, vicenda che promozione delle manifestazioni, le istituzioni pubbliche ritengo particolarmente efficace nel mostrare ciò che è esercitano, in realtà, una forma di controllo. I gruppi avvenuto. Chi conosce la traiettoria del Boi di Madre Deus sa s'inquadrano in un gioco dove, per ricevere vantaggi, hanno la che, fino alla decade degli anni '80, questo gruppo esercitò necessità di sottomettersi a norme create esternamente. un'influenza molto grande, comparabile, rispettando le debite Un'altra faccia dell'interrelazione tra questi ambiti si dà a proporzioni e l'evoluzione tecnologica avvenuta, a ciò che è partire dal ruolo occupato dal campo degli intellettuali. percepito oggi in relazione al Boi di Maioba. Fu il primo Boi a Quest'ultimo è stato il responsabile dell'effetto più perverso e registrare un LP; era il più richiesto e il più recensito dai più distruttivo delle pratiche culturali nel Maranhão. Grazie ad notiziari, possedeva una relazione con il potere statale. Ma, una serie di autori, i quali hanno riprodotto, uno dopo l'altro, la come per magia, a partire dal 1981 cominciò a presentare stessa ideologia, centinaia di gruppi dell'interno dello Stato segnali di decadenza. Questo fatto è documentato nei giornali sono stati relegati all'inesistenza. Ciò è dovuto al fatto che nel della capitale. Ciò che sembra più interessante è che le Maranhão le associazioni folcloriche, per essere considerate gruppi del bumba-meu-boi, cronache dell'anno devono essere incluse in una immediatamente precedente lo classificazione che è stata mostravano come il gruppo più prodotta, fin dalla decade del espressivo di ciò che era intesa 1960, da autori che, aspirando "la manifestazione per a conferire legittimità alla eccellenza della cultura categoria degli intellettuali, popolare del Maranhão". Come registravano come possiamo pensare questa caratteristiche originali della mutazione improvvisa? manifestazione solo i caratteri Indubbiamente, come il frutto delle associazioni che si di una politica che si è servita presentavano nella regione di delle manifestazioni culturali São Luís, generalizzandoli con l'unico scopo di realizzare i all'interno dello Stato. suoi obiettivi immediati, vale a Prendendo la mappa del dire la promozione del turismo. Maranhão, i gruppi inquadrati Non importa cosa può Boi di Zabumba in un Arraial di São Luís nei così detti sotaques18 sono succedere ad alcuni di questi (Foto di José A Gálvez - http://www.pbase.com/capercaillie/bumba) presenti nella zona che gruppi. I rimanenti comprende l'isola di São Luís e la fascia che immediatamente garantiscono il mantenimento della festa. L'unica cosa che sono in grado di affermare sia mutata, dagli la circonda. Secondo questa ideologia è come se il sud del anni '60 ad oggi, è l'inclusione nella lista degli interessi di Maranhão non avesse prodotto alcun tipo di bumba-meu-boi. coloro che dicono promuovere le manifestazioni culturali, di La cosa più indisponente è che la transumanza del bestiame, una forma di marketing politico. Da alcuni anni a questa parte, che si dice abbia dato origine alla manifestazione, si è affermata l'essere legati a manifestazioni culturali è inteso come una a partire dal sud dello Stato. Siamo qui in presenza di un moneta da spendere nella conquista di voti o di uno status discorso contraddittorio, ma tuttavia efficace. politico. Uno dei pilastri della popolarità della ex-Governatrice Il discorso che ha attribuito queste caratteristiche al bumbadel Maranhão Roseana Sarney, consiste nella sua connessione meu-boi del Maranhão, riduce la manifestazione ad aspetti che con la così chiamata cultura popolare17. Un altro aspetto da costituiscono appena una piccola parte della sua ricchezza considerare è la modalità con cui sono stati concessi gli culturale. Nell'interno dello Stato, il bumba-boi è presente per incentivi, offerti per via di pagamenti in danaro, incentivi che l'intero anno nella vita delle persone, nei discorsi, nei ritrovi dei trasformano lo stato in un acquirente, quando invece dovrebbe bar, nelle feste (solo per fare un esempio, esiste una festa, essere un facilitatore. Ciò ha creato una concorrenza nociva tra messa in scena nel mese di Ottobre a Bacurituba, che raduna i gruppi. Gli effetti di tale rapporto si fanno sentire in molte centinaio di gruppi del bumba-meu-boi; vi sono gruppi associazioni che sono, per certi aspetti, marginalizzate. dell'interno che si presentano al pubblico a Natale, e vi è indizio Per sfuggire all’isolamento, i gruppi del bumba-meu-boi hanno di altri che fanno lo stesso durante il carnevale). La varietà del adottato varie strategie. Tra di esse vi è la produzione di bumba-meu-boi è maggiore di quella delle associazioni che si discorsi sui valori di una supposta tradizione, combinati con presentano in São Luís. pratiche che valorizzano elementi moderni. Questa Pertanto, a causa di un discorso egemonico che consacra 12 ACHAB determinate caratteristiche, qualsiasi tentativo dei gruppi che vi differiscono di affermare la propria esistenza è inteso come innovazione. Questa prospettiva interpretativa è stata messa in pratica con i buma-meu-boi di baixada e costa de mão durante la decade degli anni '70, quando apparvero per la prima volta nella capitale. Vi sono testimonianze giornalistiche di un intellettuale, all'epoca funzionario di stato, che dichiarò esplicitamente questi gruppi essere "innovazioni". La questione che vorrei proporre, affinché tali problematiche possano essere pensate, è la seguente: cosa si può fare per impedire che le politiche del turismo mascherate con le fattezze delle politiche culturali aggrediscano ancora di più distruttivamente il patrimonio immateriale delle manifestazioni culturali, patrimonio che è del popolo, e che è necessario preservare? Come possiamo modificare il clima di competizione creato a partire dagli anni '60 in São Luís di Maranhão, clima che ha obbligato le associazioni del bumbameu-boi a trasformare radicalmente i propri modi di presentarsi, collocando certi gruppi in posizione inferiore rispetto ad altri? Che politiche è possibile attivare nel tentativo di apprezzare e riconoscere il valore dei gruppi dell'interno dello Stato non ancora totalmente contaminati dall'azione predatoria delle politiche implementate dai governi attuali? Forse sarebbe necessario che il Governo Federale creasse un'opportuna legislazione che proibisca le pratiche abusive degli Stati Federali, cercando di garantire la proprietà intellettuale dei gruppi e una più democratica distribuzione delle risorse. Lo Stato Autoritario del Brasile, già da alcuni decenni, ha ceduto lo spazio ad una democratizzazione delle politiche federali. In molti aspetti, il Maranhão sembra però, a volte, vivere ancora sotto il precedente regime militare. collocato al suo interno. Per una lettura introduttiva sul bumba-meuboi vedi Antônio Azevedo Neto, Bumba-meu-boi no Maranhão. 2a ed., Alumar, São Luís, 1997 (1983) [N.d.T.]. 4 La ricerca è stata realizzata tra il 2000 e il 2003. 5 Per Bourdieu (2002, p. 27), "La nozione di campo è, in un certo senso, una stenografia concettuale della modalità di costruzione dell'oggetto, che guida - o orienta - tutte le opzioni pratiche della ricerca. Funziona come un segnale che ricorda o che riguarda, che fa sapere e verifica, il fatto che l'oggetto in questione non è isolato da un insieme di relazioni dal quale ritaglia l'essenziale delle sue proprietà. Per suo mezzo, si fa presente il primo precetto del metodo, che richiede che si lotti con tutti i mezzi contro la primitiva inclinazione di pensare il mondo sociale in maniera realista o, per dirla come Cassirer, sostanzialista" [versione dal portoghese a cura del traduttore]. 6 Quando parlo di attori sociali mi riferisco a persone dotate di uno specifico potere di azione e capacità di influire in un determinato campo (siano giornalisti, politici, funzionari pubblici o gli stessi partecipanti del bumba-meu-boi, chiamati brincanti). 7 Danza tradizionale maranhence caratterizata dalle percussioni ritmate di 3 tamburi di diverse dimensioni. Mentre i musicisti sono sempre uomini, le danzanti sono solo donne e formano una roda al cui centro, di fronte ai tamburi, danza, di volta in volta, una sola di esse. Per una descrizione sintetica, anche se datata, del folclore maranhence vedi Domingos Viera Filho, Folclore brasileiro: Maranhão, MEC/DAC/ FUNARTE/ Campanha de Defesa do Folclore Brasileiro, 1977 [N.d.T.]. 8 La connessione del burocratico con il politico è fondamentale in quanto è usata come una stenografia convenzionale dell'agire politico, nella misura in cui suppone che il campo della rappresentazione politica nel Maranhão poggi su una burocrazia statale che, per mantenere i suoi incarichi all'interno del governo, riproduce l'ideologia dei governanti. Bisogna dire che, nel Maranhão, gli alti funzionari pubblici non operano a vantaggio della popolazione, ma, al contrario, sono la base di sostentamento di coloro che stanno al potere. Si tratta di un sistema molto efficiente di appropriazione del pubblico, considerato in questo contesto come alcunché di privato. Ciò avviene anche al livello degli impiegati pubblici. Penso che questa situazione dipenda molto anche dai loro comportamenti. 9 Si potrebbe forse legare più strettamente il campo degli intellettuali a ciò che ho chiamato campo burocratico-politico, poiché alcuni dei suoi attori sono allo stesso tempo funzionari di stato, o per lo meno lo sono stati, o comunque sono ad essi legati in qualche modo. Inoltre, sono questi attori sociali che possiedono il maggior capitale relazionale che consente loro di parlare in pubblico, fare interviste, pubblicare libri e in tal modo accedere ad una vasta platea. È chiaramente a loro che mi riferisco quando parlo degli intellettuali. È opportuno mettere in evidenzia che per essere intellettuali nel Maranhão, è necessario legarsi a qualche agenzia di legittimazione, come la AML - Academia Maranhense de Letras -, lo IHGM - Instituto Histórico e Geográfico do Maranhão - la CMF - Comissão Maranhense de Folclore -, le istituzioni universitrie. In relazione a queste ultime, le monografie di Note * Il presente articolo è l’adattamento di un intervento presentato dall’autore ad una conferenza organizzata in São Luís dal Partido dos Trabalhadores sul tema delle politiche culturali nel Brasile. La versione originale portoghese sarà resa disponobile sul sito della rivista. La traduzione qui proposta è di Michele Parodi [N.d.T.]. 1 Università Federale del Maranhão. 2 Il Maranhão è uno dei 26 stati della Repubblica Federale del Brasile. 3 La festa del Bumba-meu-boi è una delle manifestazioni folcloriche più importanti per diffusione e partecipazione popolare della regione del nord-est del Brasile. A partire dagli anni '80 la festa si è notevolmente sviluppato nelle aree urbane dello Stato del Maranhão e in particolare nella sua capitale São Luís. Il Bumba-meu-boi di São Luís è un'opera popolare, o danza drammatica, messa in scena da varie associazioni (brincadere) all' "aria aperta", nelle strade e nelle piazze della città. Per mezzo di balli, canti, declamazioni, sono rappresentati gli avvenimenti della vita di un bue. Riprodotto con un'armatura di legno ricoperta di velluto, il bue danza manovrato da un attore 13 ACHAB fine corso di laurea, e anche i lavori più consistenti come le dissertazioni di specializzazione e le tesi di dottorato, che riguardano le manifestazioni culturali, hanno riprodotto sostanzialmente l'ideologia dominante. 10 Nel 1964 un colpo di stato militare prende il potere in Brasile. Solo a partire dal 1974 è stata avviata una graduale transizione democratica. Nel 1988 è stata promulgata la nuova costituzione che istituisce un federalismo decentralizzato e ristabilisce l'elezione del capo dello stato a suffragio universale diretto [N.d.T.]. 11 Vocabolo portoghese che significato divertimento, gioco, passatempo [N.d.T.]. 12 L'ideologia propagandata dai governi autoritari post-64 affermava il Brasile costituire una unità nella diversità, con distinte manifestazioni caratterizzanti il modo di essere del popolo brasiliano. Per una discussione a riguardo, cfr. Ortiz 1994. 13 Gli arraiais sono arene pubbliche, organizzate con gradinate per gli spettatori e un ampio palco, localizzate nei principali quartieri della città, dove nel periodo delle feste junine (dalla metà alla fine di Giugno) i vari gruppi folclorici si presentano al loro pubblico [N.d.T.]. 14 La commedia del buma-meu-boi, nella sua struttura più convenzionale, narra le vicende di Pai Chico e mae Caterina, una coppia di sposi alle dipendenze di un fazendeiro. Caterina è gravida e desidera la lingua del boi preferito dal padrone. Chico ruba il boi che nasconde nella foresta dove gli taglia la lingua. Il fazendeiro con l'aiuto degli indios riesce però a catturare Chico. Infine, un paije (guaritore tradizionale), o un medico, resuscitano e curano il boi, il fazendeiro perdona Chico e tutto termina con danze e canti [N.d.T.]. 15 Le brincadere del bumba-meu-boi sono classificate in tipologie o stili (sotaques) che dipendono dal tipo di strumenti, ritmi e indumenti usati nelle rappresentazioni della festa. I bumba-meu-boi d'orchestra si caratterizzano soprattutto per l'utilizzo di strumenti a corda (banjo) e a fiato [N.d.T.]. 16 Madre Deus è uno dei bairros più antichi di São Luíz [N.d.T.]. 17 Nel 2006, mentre aggiorno questo articolo, la ex-Governatrice e exSenatrice, Roseana Sarney, é candidata nel secondo turno delle elezioni per il Governo dello Stato del Maranhão. 18 Il campo intellettuale maranhense registra attualmente l'esistenza di 5 sotaques: matraca, zabumba, orquestra, baixada e costa de mão. Riferimenti Bibliografici BOURDIEU, Pierre. O poder simbólico. Rio de Janeiro: Bertrand Brasil, 2002. ORTIZ, Renato. Cultura brasileira e identidade nacional. São Paul: Brasiliense, 1994. 14 ACHAB Welcome to Armenia Etnografia dell’Ararat nell’identità diasporica armena di Fiammetta Martegani secondo la storiografia armena, infatti, la Magna Armenia, nel massimo del suo splendore, come durante il regno di Tigran il Grande, fra il 95 e il 56 a.C., era detta addirittura "Armenia da mare a mare" poiché occupava il vasto spazio geografico compreso tra Mar Nero, Mar Caspio e Mar Mediterraneo, uno spazio dieci volte maggiore rispetto ai confini dell'attuale Repubblica Armena. A causa delle diverse dominazioni che si sono succedute nel territorio compreso tra l'altopiano anatolico e quello caucasico, ciò che si è verificato nel corso della storia è stato un continuo spostamento e rimescolamento di popolazioni, ragion per cui riuscire a stabilire i confini di una presunta Armenia delle "origini" risulterebbe non solo pretenzioso, ma addirittura arbitrario. Se dunque risulta già di per sé tutt'altro che scontato riuscire a definire le "origini" dell'Armenia, si rivela ancor più complesso il tentativo di risalire alle "origini" della diaspora del popolo armeno. Quando ha "inizio" la diaspora di un popolo? Quale definizione può essere considerata esaustiva per esprimere il concetto stesso di diaspora? Quante persone è necessario che lascino il proprio Paese perché si possa effettivamente parlare dell'esistenza di una "comunità diasporica"? Quando lasciare il proprio Paese significa compiere una "scelta" e quando invece significa subire un'"imposizione"? Esiste poi un limite netto tra "scelta" e "imposizione"? E dopo quanti anni un popolo "smette" di essere in una situazione di diaspora? Se non è possibile stabilire l'"inizio", è possibile stabilire la "conclusione" di una diaspora? Lorenzo Rocci, nel suo Vocabolario greco/italiano (la cui prima edizione risale al 1943), traduce il sostantivo diasporà con "dispersione", poiché derivato dal composto dia-speiro, costituito dalla preposizione dià, utilizzata per esprimere il complemento di moto per luogo, solitamente tradotto con "attraverso", e dal verbo speiro che a seconda dei contesti in cui viene utilizzato può significare sia "spargere", "seminare", che "generare", "produrre" (Rocci, 1943, pp. 465, 438, 1691 nell'ed. del 1995). Pur largamente usato, il termine diaspora sembrerebbe mancare di una definizione univoca; tuttavia, nei suoi diversi utilizzi, porta con sé molto più spesso la sola accezione di "dispersione" trascurando invece la dimensione di "produzione" e "costruzione", che pur risultano fortemente appropriati ai processi di costruzione identitaria peculiari alle comunità di tipo diasporico. Decostruendo il concetto di diaspora Non appena atterrato all'aeroporto di Erevan, una volta superata la dogana, il passeggero è inevitabilmente costretto ad imbattersi in un suggestivo poster di benvenuto, che recita: "Welcome to Armenia" (Fig. 1). Ciò che colpisce in questo poster è la presenza di un monte, più precisamente del monte Ararat, che non si trova affatto in territorio armeno, bensì in territorio turco. Se può sembrare apparentemente insolito che il poster di benvenuto di un Paese rappresenti come simbolo del proprio paesaggio nazionale un luogo "fisico" che, quanto meno stando ai parametri dei confini politici, non appartiene affatto al proprio territorio, ancor più insolito è venire a scoprire che la produzione e la messa in commercio di mouse-pad raffiguranti il monte Ararat, non soltanto non avvengono in Turchia, ma neppure nella Repubblica Armena, bensì in Canada. In Canada, infatti, si trova attualmente una numerosa nonché consolidata comunità armena che, assieme a tutte le altre comunità armene disseminate per il globo, dall'Argentina all'Australia, fa sì che il numero di armeni che vivono l'esperienza della diaspora sia attualmente più del doppio degli armeni residenti nella Repubblica Armena. Una delle cause principali di questa insolita "sproporzione" tra armeni residenti in patria e armeni residenti all'estero sta nel fatto che l'attuale Repubblica Armena corrisponde soltanto ad Fig. 1 Manifesto all'areoporto di Erevan (Foto dell'autrice) un'esigua porzione del territorio che un tempo apparteneva alla cosiddetta Armenia antica. Stabilire quale fosse l'estensione dell'antica Armenia è impresa tutt'altro che semplice, poiché la superficie della regione è cambiata nel corso della storia e soprattutto della storiografia: 15 ACHAB Secondo Meinig, una regione culturale si compone, oltre che di una parte nodale, caratterizzata dalla contiguità fisica, anche da emanazioni territorialmente separate, appendici culturali che costituiscono una diaspora intimamente interconnessa con il mondo esterno (Meinig, 1965, p.220). Di conseguenza, il fatto che una cultura sia deterritorializzata non significa necessariamente che sia dispersa, frantumata e che quindi basterebbe reinserire coloro che la condividono nel territorio d'origine per riprodurla come era una volta. Le culture, osserva Fabietti, deterritorializzandosi, si reinventano a contatto con le altre, dando vita a nuove forme di produzione di identità (Fabietti, 2004, p.45). L'analisi del caso armeno in quanto esperienza diasporica risulta in tal senso paradigmatica, come afferma Ferrari, proprio in virtù della secolare capacità del popolo armeno di elaborare un'identità multidimensionale, ponendosi sempre in una relazione di integrazione differenziata con le diverse realtà sociali con cui è entrata in contatto (Ferrari, 2000, p.10). Condicio sine qua non per cui possa essere rilevata una "differenza" è l'esistenza di una "relazione". Ma ogni relazione porta evidentemente con sé uno scambio, un'osmosi, 'concatenazioni che si determinano a vicenda in particolari situazioni storiche ed attraverso specifiche relazioni di forza, queste ultime pensate non tanto come dualità di dominanti e dominati ma piuttosto come reti in tensione' (Manoukian, 2005, p. 2). Accade così che all'interno di queste "reti" spesso si sviluppino identità di tipo "ibrido", come nel caso di un movimento di resistenza paramilitare appartenente alla comunità armena libanese che, rielaborando un'immagine (coniata dal movimento di resistenza palestinese, a sua volta in esilio in Fig. 2 ( tratto dal Libano) in cui un pugno chiuso si erige periodico di Beirut fieramente al di sopra dei Territori occupati, Spurk, n.16, 1988) la renderà propria attraverso la sostituzione dei Territori occupati con l'immagine dell'Ararat (Fig. 2). Una volta codificato in quanto elemento identitario facilmente riconoscibile, l'Ararat potrà dunque essere riutilizzato, di volta in volta, come simbolo per i movimenti di resistenza paramilitare in Libano, come insegna per una bottega di alimentari specializzati in prodotti armeni (ammesso che possano esistere prodotti alimentari "esclusivamente" armeni) nel sobborgo parigino di Alfortville (Fig. 3) come titolo, con cui assicurarsi quasi automaticamente un'ampia fascia di pubblico, per la locandina di un film del regista armeno, appartenente alla diaspora egiziana e attualmente residente a Toronto, Atom Egoyan. I concetti di "codifica" e di "decodifica" elaborati da Hall, in uno dei suoi più celebri saggi, Encoding and Decoding (1980), risulterebbero dunque particolarmente funzionali nell'analisi delle riproduzioni delle identità (nazionali o diasporiche che siano), proprio in virtù del forte legame esistente tra produzione di identità e ruolo rivestito dai media in tale processo produttivo. Anderson, in Imagined Communites, individua il rilevante nesso tra Fig. 3 Alimentari nel sobborgo parigino di Alfortville (Foto dell'autrice) comunicazioni di massa e migrazioni di massa nel generare fenomeni di nazionalismo ed eticità (Anderson, 1983, p. 240, nell'ed.it.). L'obiettivo di quest'analisi è quello di cercare di esplorare le diverse rappresentazioni dell'Ararat in quanto prodotto mediatico peculiare alla riproduzione dell'identità armena contemporanea. Tra i paradigmi teorici dominanti nello studio dei media uno degli approcci di riferimento è senz'altro quello "decodificativo" di Hall, che emerge grazie a una specifica attività di ricerca, sviluppatasi all'interno del CCCS (Centre for Contemporary Cultural Studies) fondato a Birmingham da Hoggart nel 1964. Tuttavia, l'attenzione rivolta ai media, come analisi dello sviluppo di nuove identità comunitarie sorte in seguito alla diffusione di pratiche mediatiche, ha cominciato a consolidarsi significativamente, nell'ambito di studi sociali interdisciplinari, solo a partire dagli anni '90, in contesti accademici prevalentemente britannici e nordamericani. E' all'interno di questo particolare contesto interdisciplinare che si sviluppa, soprattutto grazie al contributo di Dalby e Toal, la Critical geopolitics, i cui principali riferimenti teorici sono: l'approccio alla semiotica proposto da Barthes; la necessità di esplorare le relazioni tra potere e conoscenza attraverso l'analisi del discorso, portata avanti da Foucault; il riferimento al concetto di egemonia popolare sviluppato da Gramsci; la prassi di tipo decostruzionista stimolata da Deridda (dell'Agnese, 2003a, p.37). In tal senso, poichè il discorso geopolitico appare pervasivamente legittimato anche dalla cultura geopolitica popolare, obiettivo della geopolitica critica sarà cercare di decostruire le identità nazionali e gli immaginari geografici codificati dalle produzioni di tipo mediatico. A partire da questo tipo di prospettive di ricerca verrà dunque portata avanti un'etnografia dell'Ararat, in quanto veicolo mediatico privilegiato per la riproduzione dell'identità armena contemporanea. L'approccio utilizzato farà riferimento alla pratica etnografica, intesa come metodologia di ricerca radicalmente contestuale, 16 ACHAB peculiare all'analisi dei media (Fagioli e Zambotti, 2005, p. 11). E' necessario tuttavia precisare che le analisi effettuate attraverso tale pratica etnografica non sarebbero state possibili senza il supporto delle "interpretazioni" rilevate da una serie di colloqui svoltisi, nei mesi compresi tra giugno ed ottobre del 2005, all'interno di diverse comunità appartenenti alla diaspora armena. In particolare, le principali comunità di armeni in cui si è svolto questo processo di dialogo sono state: in Italia, le comunità di Milano e Venezia; in Francia, le comunità di Parigi e del sobborgo parigino di Alfortville; nella Repubblica Armena, le diverse comunità in soggiorno estivo presso la capitale Erevan, e nella zona limitrofa al Monastero di Marmashen, nella regione dello Shirak. Per usare le parole di Geertz, questo tipo di analisi si è dunque svolta nella consapevolezza che "fare etnografia significa intrattenere rapporti. (…) Nella stesura finale degli scritti antropologici, compreso quello raccolto qui, ciò che chiamiamo i nostri dati sono in realtà le nostre ricostruzioni di ricostruzioni di altri su ciò che fanno loro ed i loro compatrioti. (…) In breve, gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni, e per di più di secondo o di terzo ordine" (Geertz, 1973, pp. 12, 16, 24, nell'ed.it.). armena, allora fortemente influenzata dalle istanze nazionaliste di matrice europea: 'when Armenia began to participate in the political scenes of Europe and Russia from the XIX century' sostiene Petrosyan 'Masis-Ararat became the nation's symbol' (Petrosyan, 2001, p.37). Sarà dunque agli inizi del XIX secolo, quando (come risultato del conflitto russo-persiano) un vasto territorio appartenente all'Impero persiano, abitato da una popolazione a maggioranza armena, verrà annesso all'Impero Russo, che il monte Ararat (allora situato all'interno di questo territorio) diventerà per gli armeni il simbolo della lotta per la liberazione. Nel 1827 il monte Ararat, incoronato dall'arca1, viene così riportato sugli stendardi dei battaglioni dei volontari armeni che combattevano all'interno dell'esercito russo. Il tema dell'Ararat incoronato dall'arca verrà ripreso nello stemma dell'esercito della Repubblica Armena indipendente, costituitasi nel 1918, al termine della Prima Guerra Mondiale, e scomparsa nel 1920, a causa della sconfitta subita da parte della Turchia, che acquisterà la parte di territorio armeno all'interno del quale si trovava il monte Ararat, mentre la parte restante del territorio verrà assorbita dall'Unione Sovietica. Ciò nonostante, il monte Ararat (questa secolarizzato attraverso l'espulsione dell'Arca!) verrà ripreso come stemma anche dell'esercito dalla Repubblica dell'Armenia Socialista Sovietica). Sono dunque questi gli anni in cui, come mette in luce Petrosyan: 'the mountain loom before the eyes of those living in the capital of Erevan and for miles around, inspiring artisans and painters to constantly reproduce its image' (Petrosyan, 2001, p. 38). Apertosi la strada dunque nel corso del Romanticismo anche dal punto di vista dell'arte figurativa, come nel celebre caso di Ayvazovsky che nel 1889 dipingerà la Descent of Noah from Mount Ararat, il tema dell'Ararat riuscirà infatti a trovare il suo spazio anche nel corso delle varie correnti artistiche del XX secolo: celebre, a titolo esemplificativo, il caso dell'espressionista di Martiros Saroyan. Lo stesso Arshile Gorki (1904-1946), armeno dell'Anatolia immigrato negli Stati Uniti dopo il genocidio, pittore d'avanguardia precursore dell'action painting, pur non ritraendo mai l'Ararat, scriverà nelle sue memorie: 'Essendo un figlio dell'Ararat la mia mente è impregnata dei profumi delle albicocche d'Armenia. Ce ne sono molte nel mio giardino, ed io le sento col cervello. Ora esse riemergono nel mio lavoro. (…) Alcune volte riesco ad ottenere i colori dell'Armenia, altre proprio no. Io tento continuamente di riportare i colori dell'Armenia nei miei colori' (Baghoomian, 1978, pp.63,64). L'invenzione della montagna come paesaggio nazionale Il monte Ararat, di fatto sempre conosciuto in quanto rilievo montuoso, verrà riscoperto, o meglio ancora "riletto" e "codificato" in quanto paesaggio nazionale, soltanto in un preciso momento storico, ovvero, per usare le parole di Chabod, quando l'idea di "nazione" sorge e trionfa con il sorgere e il trionfare del Romanticismo (Chabod, 1961, p.17). Pur rifiutando l'arbitraria cesura tra "assolutismo illuminato" settecentesco e "risorgimento" ottocentesco, Chabod sottolinea infatti come soltanto nel XIX secolo si sviluppi un'idea di nazione fino ad allora inedita: 'Passione trascinante e fanatizzante com'erano state un tempo le passioni religiose, la nazione diventa patria, e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno. (…) Patria, sacra; sangue versato per essa, santo. Ed ecco che da allora, effettivamente, voi sentite parlare di martiri per l'indipendenza, la libertà, l'unità della patria' (Chabod, 1961, pp.58, 61,62). Sono del 1827 queste parole con cui l'arcivescovo Nerses d'Ashtarak incitava le milizie armene a riprendere i combattimenti nel corso del conflitto russo-persiano (1826-1828) : 'Ecco giungere per noi l'ora di vedere la liberazione della terra dell'Ararat e della nazione armena. (…) In piedi! Prodi armeni! Rovesciate il giogo persiano, raggiungete il Masis dalla testa canuta, tingete una sola volta del vostro sangue il suolo della vostra patria e vivrete liberi!' (Ter Minassian, in Dedeyan, 1982, p.349 nell'ed.it.). Il Masis di cui si sta parlando è la cima maggiore delle due inconfondibili cime che caratterizzano il monte Ararat. E' dunque all'interno dello specifico contesto storico e culturale peculiare al Romanticismo che il monte Ararat diverrà simbolo dell'identità Territorializzare la deterritorializzazione I pittori sinora citati hanno tutti vissuto l'esperienza della diaspora, esperienza in cui l'Ararat, sembrerebbe quasi risultare l'anello mancante in grado di saldare le "vite spezzate", per usare le parole di Said, di chi vive l'esperienza della diaspora (Said, 2000, p.177). E' in questo contesto che l'Ararat inizierà a diventare un tema 17 ACHAB ricorrente anche nella diversa letteratura della diaspora: I'm an Armenian, as old as Ararat; My shoes were wetted by the waters of the Flood. Beside these shining peaks were Noah sat My sword once drew the dread Bel's evil Blood. I'm an Armenian, opera di Gevorg Emin, nato nel 1919 nell'Armenia Sovietica e trasferitosi in seguito a Mosca, è una delle numerose opere in versi contenute all'interno della raccolta di autori appartenenti alla diaspora armena, dal significativo titolo Sojourn at Ararat (1987), a cura di Gerald Papasian, editore armeno di Los Angeles. Anche Michael Arlen, figlio di armeni della Bulgaria, nato e cresciuto nel Regno Unito e trasferitosi in seguito negli Stati Uniti, scriverà nel 1975 Passage to Ararat, romanzo autobiografico che descrive il tentativo da parte dell'autore di ricostruire le proprie origini armene provando tutta quell'esperienza di straniamento peculiare a chi vive una situazione di diaspora. Si chiama Ararat Quarterly la rivista trimestrale inizialmente specializzata in articoli dedicati alla letteratura e alle belle arti e che attualmente si occupa della diffusione di diverse produzioni mediatiche realizzate dalla diaspora armena, pubblicata a New York, ormai dal 1959, con i fondi dell'Armenian General Benevolent Union (AGBU). Dopo essere stato rappresentato dagli artisti della diaspora nella letteratura e sulla tela, l'Ararat non poteva assolutamente essere trascurato dal cinema. Anzi, come afferma Naficy: 'Rural landscapes and mountains, particularly Mount Ararat, figure large in Armenian accented films' (Naficy, 2001, p. 164). L'Ararat compare per la prima volta sullo schermo nel 1973 col film di Verneuil Le serpent. Girato e ambientato negli anni della Guerra Fredda, il film racconta le vita di una spia sovietica, consigliere dell'ambasciata russa a Parigi, che chiede asilo politico agli Stati Uniti. Per provare la sua buona fede il protagonista si trova costretto a ricorrere a rivelazioni sulla rete di spionaggio che coinvolgono personaggi insospettabili. A testimoniare la verità di una di queste scottanti rivelazioni, che implicava la collaborazione di una spia americana con il KGB, sarà una foto che raffigura il personaggio coinvolto con alle spalle il monte Ararat, visto dal punto di vista di chi si fosse trovato in territorio sovietico. Tuttavia nel film di Verneuil l'Ararat compare soltanto attraverso una foto, mentre, come osserva Naficy: 'the fascination with he Ararat chronotope is encoded in Ara Madzounian's twenty minute film The Pink Elephant, 1988. (…) With this image, Madzounian poses the possibility of Ararat losing its hold on the Armenians in diaspora as a unifying chronotope. When he was growing up in Lebanon and the United States, the image of Ararat was found on nearly every wall in every Armenian home' (Naficy, 2001, p. 165). Il chronotope dell'Ararat verrà riutilizzato nel 1991 da Verneuil come sfondo ai titoli di inizio di Myrig e nel 1993 da Egoyan in una delle prime sequenze di Calendar, fino a diventare, nel 2002, il protagonista indiscusso dell'ultima sua opera: Ararat. Come in un gioco a scatole cinesi, in Ararat di Egoyan troviamo infatti l'Ararat rappresentato attraverso più livelli semantici: Ararat è infatti prima di tutto un film-within-film, il colossal girato dal regista Edward Saroyan, alter-ego dello stesso Egoyan, e interpretato per l'altro dal Charles Aznavour, personaggio icona della diaspora armena. All'interno del colossal compare a sua volta l'Ararat, o meglio la riproduzione paesaggistica dell'Ararat, preso volontariamente in prestito, per quanto non verosimilmente, come fondale ai massacri del genocidio descritti da colossal. Ani: Da Van sarebbe stato impossibile vedere il monte Ararat? Saroyan: Lo so, però mi sembrava un elemento importante nella storia Ani: Ma è una falsificazione Saroyan: Sul piano simbolico non lo è. Rubens, Ani manifestava un certo disagio sul monte Ararat, mi ha fatto giustamente notare che da Van era impossibile vederlo Rubens: Abbiamo deciso di forzare un po' la realtà, si tratta di un'icona così identificabile… Egoyan è dunque assolutamente consapevole dell'operazione che sta compiendo. Del resto, in un'intervista rilasciata a Naficy, già nel 1997, dunque prima di girare Ararat, alla domanda 'If you were to think of Armenia, what landscape comes to mind?' Egoyan risponde: 'Well, the most obvious one, the most fetishized symbol is mount Ararat. It's incredible because Ararat is not even within the Armenian territory. (…) And yet if you go up to Erevan, on a clear day, it has an almost surreal presence. It is quite strange. It's as though it's pasted to the city. It's so large. And yet it's in the forbidden territory' (Naficy, 2001, pp.164-165). Tanto che a completare l'opera di Egoyan non poteva mancare il viaggio alle pendici dell'Ararat, questa volta "reale", addirittura rappresentato sotto forma di film-documentario, quasi a volerne sottolineare l'autenticità. Come emerge dalla dichiarazione di Egoyan, l'immagine dell'Ararat sembra quasi irrinunciabile poiché in grado di rispondere a un bisogno di territorializzazione, da parte di coloro che invece hanno vissuto l'esperienza della deterritorializzazione: 'Spesso subentra il bisogno di avere un'immagine di riferimento, che nel nostro caso diventa l'Ararat' afferma il direttore della Biblioteca parigina Nubar, specializzata in armenistica (Intervista a Raimond Kievorkian, svoltasi a Parigi il 27.10.2005). E' infatti grazie all'immagine dell'Ararat che un armeno, per utilizzare le parole di Anderson, riesce ad "immaginarsi" come tale, tanto a Beirut quanto a Los Angeles, così come nel caso della 'famosa fotografia del Gastarbeiter del Peloponneso seduto abbacchiato nella sua stanzetta in un'anonima città industriale tedesca - Stoccarda forse? La stanzetta è spoglia, tranne che per un poster del Partenone prodotto dalla Lufthansa, con una scritta, in tedesco, che invita chi guarda ad andare in vacanza in Grecia. Evidentemente il Partenone della Lufthansa non è una memoria reale per il malinconico lavoratore. Lui l'ha messo sulla parete 18 ACHAB come segno della "Grecia" e di un'etnicità che solo Stoccarda lo ha incoraggiato ad immaginare' (Anderson, 1992, appendice ad Anderson, 1983, p.243 nell'ed.it). Secondo Clifford coloro che vivono l'esperienza della diaspora 'una volta che si siano sistemati in un determinato luogo hanno L'Ararat come simbolo di resistenza Sinora si è visto come a partire dall'Ottocento l'Ararat abbia iniziato a essere "riletto" in quanto specifico veicolo di identità nazionale, assieme a una progressiva espropriazione di luoghi precedentemente lasciati nel dimenticatoio, come il fiume Arax, l'antica capitale della Cilicia Ani e l'isola di Achtamar sul lago Van. Ma se, come sottolinea dell'Agnese, l'imitazione ripetitiva di quanto si ritiene caratteristico del proprio passato, e cioè di quello che si ritiene essere il proprio heritage, non può che essere selettiva, portando così ad estremizzare solo alcuni tratti culturali (dell'Agnese, 2003b, p.226), caratteristica principale dell'icona Ararat è soprattutto quella di essere stata "codificata" secondo specifiche modalità di editing: l'Ararat verrà infatti sempre rappresentato con la cima minore (Sis, alta 3896) a sinistra e quella maggiore (Masis, alta 5137) a destra, ovvero come appare a chi si accinge a guardarlo dall'altopiano caucasico, e non dall'altopiano anatolico (Fig. 5). La scelta di rappresentare il monte Ararat dal punto di vista "caucasico" sembrerebbe infatti sottolineare l'impossibilità di poterlo rappresentare dal punto di vista "anatolico" per via della pulizia etnica subita dal popolo armeno nei territori dell'Anatolia durante la Prima Guerra Mondiale, per mano dell'esercito turco. Quando si domanda ad un armeno della diaspora cos'è "la cosa più bella" da vedere a Erevan la risposta sarà sempre: 'L'Ararat. Anche se ce l'hanno tolto non ci possono impedire di guardarlo, e dalle colline di Erevan, quando non c'è foschia, si possono scorgere le cime innevate.2 In tal senso Traina sottolinea come persino l'urbanistica della moderna Erevan si sia sviluppata pressoché in funzione di questa suggestiva presenza (Traina, 2001, p. 217). Accade così che armeni della diaspora, foschia o non, si connettano alla webcam di www.arminco.com per poter sempre avere l'Ararat "sotto controllo". Collante extraterritoriale, fin da prima del genocidio, per una popolazione "deterritorializzata", l'Ararat, dopo il genocidio, risulterebbe essere diventato una sorta di simbolo di resistenza, Fig. 4 Ristorante armeno a Chicago -USA (Foto di Irene Falc) anche bisogno - può quasi dirsi che ne vada della loro sopravvivenza - di fissare certi simboli' (Clifford, 1997, p.58 nell'ed.it.). Accade così che i proprietari di un ristorante armeno di Chicago, i cui antenati provenivano probabilmente da una città dell'Anatolia distante migliaia di chilometri dal monte Ararat, scelgano di appendere all'ingresso del proprio ristorante un arazzo con raffigurato l'Ararat (Fig. 4). Non sorprende dunque che Ararat diventi la marca di "tipiche" confetture armene, provenienti dalla Repubblica Armena, e in vendita presso un bookshop di New York specializzato in armenistica. Il vignettista Hoviv (nome d'arte di Renè Hovivan) nato nel 1929 a Vienna, dove i genitori erano riusciti a scappare dal genocidio, ma francese di adozione, nella sua raccolta di vignette del 2001 Les Armenienens (in cui ovviamente l'Ararat non poteva non comparire in copertina) si spinge a disegnare una sorta di autoparodia sull'ossessione del suo popolo nei confronti dell'Ararat. In effetti si potrebbe affermare che l'attaccamento da parte della comunità armena nei confronti dell'Ararat è tale da aver provocato una sorta di "mercificazione" o "turisticizzazione" dell'Ararat. Come messo in luce da Petrosyan: 'Shops, stalls, and fairs in Erevan are full of its likeness captured, for better or worse, in various media, techniques and styles. Images of Masis-Ararat are presented to visitors and taken as a gift to friends in foreign countries. The mountain has become, for all intents and purposes, the calling card of Armenia' (Petrosyan, 2001, p. 38). Succede così che al vernissage che si tiene ogni fine settimana a Erevan non manchi uno specifico merchandising in cui l'Ararat viene puntualmente riprodotto su magliette, quadri, piuttosto che francobolli pre e post sovietici. Fig. 5 Veduta dell'Ararat dall'altopiano caucasico di Erevan (Foto di Sam Sweezy) 19 ACHAB proprio perché assorbito all'interno del "corpo" del cosiddetto Europeo approverà una risoluzione affinché il governo turco, nemico: la Turchia. come condizione necessaria per l'ingresso della Turchia Per coloro che hanno vissuto l'esperienza della diaspora l'Ararat nell'Unione Europea, riconosca pubblicamente la propria sarebbe infatti stato "rubato", rappresentando in tal modo il responsabilità nei confronti del genocidio operato sul popolo simbolo per definizione del torto subito: 1.500.000 di morti a armeno. causa di un genocidio che non viene ancora riconosciuto come Accade così che alla vigilia dei negoziati per l'ingresso della tale. Non è un caso che nel film Ararat il regista Saroyan, alter- Turchia nell'Unione Europea, che si sono tenuti il 3 ottobre del ego di Egoyan, pronunci, con alle spalle proprio il fondale che 2005, un nutrito team di professori e intellettuali turchi organizza ritrae l'Ararat, queste parole: 'Qual è ancora oggi la causa di tutto a Istanbul il primo dibattito accademico nazionale volto ad questo dolore? Non è di aver perso delle persone care, o la nostra affrontare la spinosa questione del negazionismo turco. Lo terra. E' la consapevolezza di poter essere odiati così tanto. Che svolgimento del ciclo di conferenze, che si sarebbe dovuto tenere razza di umanità è che ci odia così tanto? E con che coraggio alla Bospohrus University dal 23 al 25 settembre, viene però insiste nel negare il suo odio, finendo così per farci ancora più interrotto sotto richiesta ufficiale del tribunale turco. Ciò non ha male?' tuttavia impedito agli organizzatori di spostare la conferenza, se Nella costruzione dell'identità armena contemporanea l'Ararat pur sotto assedio, nella piccola università di Bilgi. risulterebbe dunque, per usare le parole Il caso è emblematico in quanto di Fabietti, uno di quei 'punti dello assediati e assedianti sembrano spazio che fungono da "tracce della addirittura condividere gli stessi valori memoria" e che, ripercorsi fisicamente e utilizzare le stesse parole, pur o con l'immaginazione, sono piegandole a diversi significati. Infatti suscettibili di sostenere ed assicurare il Rettore dell'Università di Bilgi apre i continuità ad una rappresentazione lavori della conferenza con un nobile condivisa del sé collettivo, ossia appello: "Siamo qui per la democrazia e dell'identità di un gruppo' (Fabietti, la libertà del popolo turco" Dalla siepe 1999, p. 10). degli ultranazionalisti, che per strada 'Chiamare il proprio negozio di sventolano la bandiera turca, si alzano alimentari Ararat' afferma un voci: "Siamo qui per la democrazia e la commerciante del sobborgo parigino di libertà del popolo turco!". La scena in Alfortville 'diventa dunque un modo qualche modo riassume e amplifica le per essere riconoscibili tra noi armeni, contraddizioni di un paese che da una ma soprattutto per chiedere di essere parte attende i negoziati per la futura riconosciuti, dagli altri, come popolo adesione all'Europa, e dall'altra è che ha subito un genocidio' (Intervista a ancora irriducibilmente prigioniero Yetò Derderian, svoltasi ad Alfortville, delle proprie paure (Antonio Ferrari, il 28.10.2005). Corriere della Sera, 25 settembre 2005, Lo stesso Tsitsernakaberd, monumento p. 15). per la memoria dei martiri del Mutafian ha in tal senso cercato di genocidio, costruito a Erevan nel 1967 mettere in luce come il riconoscimento Fig. 6 Tsitsernakaberd a Erevan (Foto dell'autrice) dall'architetto Arthur Tarkhanian, venne del genocidio da parte della Turchia infatti appositamente progettato in modo da evocare le due cime implicherebbe un capovolgimento totale della lenta e fragile del monte Ararat (Fig. 6). costruzione storiografica turca, poiché il riconoscimento, e Riscoperto nell'Ottocento come simbolo di identità nazionale e dunque la condanna, del genocidio, chiamerebbe in causa ben tre rielaborato nel Novecento come irrinunciabile heritage di regimi politici turchi: il "sultanato rosso", i Giovani Turchi, ma riferimento per la comunità diasporica, nel XXI secolo, alla soprattutto la Repubblica Turca fondata da Kemal Atatürk, la cui vigilia dell'ingresso di Ankara nell'Unione Europea, il monte messa in discussione in Turchia risulta non soltanto Ararat sembrerebbe questa volta essersi trasformato in veicolo di inimmaginabile ma addirittura perseguibile per legge (Mutafian, resistenza per ottenere il riconoscimento del genocidio del popolo 1995, pp. 58-60). armeno, non soltanto da parte del Governo Turco ma soprattutto Tanto è vero che lo scrittore Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel da parte dell'intera comunità internazionale. 1952, vincitore del premio Nobel 2006 per la letteratura, per aver Infatti il genocidio del popolo armeno, consumatosi negli anni messo in discussione le tesi negazioniste riguardo al genocidio del della Prima Guerra Mondiale, verrà riconosciuto ufficialmente in popolo armeno, ha rischiato tre anni di carcere essendo stato quanto tale dall'ONU soltanto nel 1985. accusato dal tribunale turco di "aver denigrato pubblicamente Come diretta conseguenza, soltanto nel 1987, il Parlamento l'identità turca" (Marco Ansaldo, La Repubblica, 27 settembre 20 ACHAB 2005, p. 19). Altro esempio paradigmatico in tal senso risulta Tanger Akcam, arrestato nel 1976 e condannato a dieci anni di reclusione, che dopo aver trovato asilo politico in Germania attualmente insegna alla University of Minnesota. Oltre ad essere uno dei più acuti e soprattutto più coraggiosi studiosi della questione armena, Ackam è stato uno dei primi intellettuali turchi a lavorare intensamente per un progetto di dialogo tra il popolo turco e il popolo armeno. Nella sua ultima opera, pubblicata nel 2004, Nazionalismo turco e genocidio armeno Akcam cerca in particolare di tracciare i principali ostacoli nei processi di riconciliazione tra popolo armeno e popolo turco. Secondo Ackam infatti quando un turco e un armeno si incontrano, l'armeno vede nel turco, riemerso dal passato, un assassino della sua gente e il turco vede nell'armeno un traditore della patria del 1915. Non sono più individui ma si sentono i rappresentanti dei loro popoli; dunque, ogni critica viene percepita come un attacco sia nei confronti dell'individuo che del gruppo. Oggi, nell'interagire l'uno con l'altro, entrambi sono incapaci di vedersi come persone nel presente. Secondo Ackam, entrambe le parti dovrebbero invece mobilitare risorse politiche e culturali per promuovere una commissione d'indagine che esamini e metta in comune la diversa documentazione storica: secondo Ackam 'E' necessario passare a un paradigma che ponga entrambe le società al centro dell'analisi, uno spazio culturale in cui entrambe le parti abbiano la possibilità di imparare le une dalle altre' (Ackam, 2004, pp. 256, 257, 261). Un simile cambio di paradigma potrebbe inoltre essere uno stimolo nell'attuale mondo della ricerca volta allo studio dei fenomeni genocidiari, poiché, pur rispettando l'unicità di ogni fenomeno genocidiario, la caratteristica universale di ogni genocidio consiste proprio nel fatto di perpetrare un crimine contro l'umanità intera. Il tentativo di dialogo tra popolo armeno e turco, finalizzato al riconoscimento del genocidio da parte dei carnefici nonché alla compassione e al perdono da parte delle vittime, risulta infatti necessario per il risarcimento morale e giuridico non soltanto del popolo armeno in quanto tale, ma soprattutto del popolo armeno in quanto parte della comunità umana. Note 1 Il monte Ararat, o meglio, il risultato della sua vocalizzazione masoretica errata dall'ebraico 'l hary'rarat al greco epi tà orè tà araràt (Traina, 2001, p.217 ), viene citato nella Genesi come il monte su cui si arenò l'Arca terminato il diluvio universale: 'Dopo 150 giorni di pioggia, nel settimo mese, il 17 del mese, l'arca di Noè si posò sui monti dell'Ararat. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti' (Genesi, cap.8, vv. 4-5). Aldilà dei vari tentativi di identificazione precisa e aldilà delle fantasiose spedizioni alla ricerca dell'arca, avendo Noè, secondo i parametri biblici, portato in salvo l'umanità, resta il fatto che per l'identità armena, fortemente fondata sulla millenaria conversione alla religione cristiana, l'Armenia, col "suo" Ararat, rappresenterebbe, per usare le parole di Cohen, 'the epicentre of the rebirth, if not the birth, of the earth' (Cohen, 1997, p. 43). 2 Si è scelta questa risposta, rilasciata da un gruppo di commercianti di una drogheria del sobborgo parigino di Alfortville, in quanto paradigmatica rispetto a un sentimento comune alla maggioranza degli armeni della diaspora che sono stati intervistati in merito al significato simbolico dell'Ararat, come dimostrato anche precedentemente dalla dichiarazione di Egoyan. Bibliografia Akcam T., 2004, From Empire to Republic: Turkish Nationalism and Armenian Genocide, Zed Books, London-NY (trad.it. 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Altrettanto comprensibile, peraltro, risulta a questo punto il continuo ricorso da parte dei media italiani al discutibile concetto di "intervento umanitario". Tuttavia, rispetto ad altri conflitti che hanno preceduto quello del Kosovo - e secondo una costante che caratterizzerà i conflitti futuri, come quelli più recenti -, avviene a pochi giorni dall'inizio della guerra un fatto che probabilmente non era stato previsto del tutto dalle istituzioni mediatiche: la notevole disponibilità di immagini e storie delle fiumane di profughi che appaiono ai confini serbi. I giornali italiani (ma anche la televisione, che pure non consideriamo nell'analisi presentata in questo articolo) si valgono immediatamente di quello che funziona come un simbolo potentissimo per mostrare e descrivere la guerra del Kosovo: i profughi e le loro sofferenze. Perché, naturalmente, la personalizzazione riguarda non solo il nemico (come abbiamo visto prima), ma anche le vittime: di qui la presenza di storie singole e paradigmatiche, che diano nomi e volti alle folle di profughi mostrati dalle immagini della televisione e dalle fotografie dei giornali. Di nuovo, la formula drammaticonarrativa dell'amplificazione di storie individuali risponde a logiche puramente mediatiche, mutuate spesso tout court da formati televisivi come i reality shows e i programmi di "storie di vita". Da questo punto di vista, il presente articolo si propone di analizzare la copertura da parte della stampa italiana della guerra in Kosovo, per verificare il contributo dei media a stampa italiani alla definizione e alla "creazione" di un particolare aspetto dell'evento bellico, e cioè gli "esiti" dei bombardamenti "invisibili" e delle azioni di guerriglia civile sul territorio kosovaro. Il processo di definizione della realtà da parte dei media non consiste solo nell'azione di incorniciamento (framing) degli eventi, ma anche in una sostanziale legittimazione dell'evento bellico. L'analisi qui presentata si è concentrata su quelle marche discorsive che definiscono le cornici principali della narrazione mediatica della guerra nel Kosovo, sulla base delle logiche della 1. La personalizzazione del dolore Il nesso inevitabilmente strutturale tra guerra e media si manifesta secondo forme e modelli differenti a seconda del conflitto e degli attori coinvolti. Nondimeno, un dato teorico comune a tutte le guerre dell'era mediatica - e che le recenti guerre post-11 settembre in Afghanistan e nel Golfo hanno largamente confermato - è quello della mediatizzazione della guerra. Parlare di mediatizzazione della guerra non significa sostenere che oggi i media ci mostrano tutto ciò che è necessario per l'opinione pubblica; al contrario, un tratto comune a tutte le guerre cosiddette "mediatiche" è semmai quello del fallimento della previsione di McLuhan, espressa più di trent'anni fa, secondo cui con la guerra del Vietnam saremmo entrati nell'età della "guerra televisiva", dove il pubblico, da casa, "partecipa" a ogni fase del conflitto (McLuhan e Fiore 1995). Con mediatizzazione della guerra intendiamo riferirci, da una parte, al rapporto tra guerra, sistema politico e sistema dei media, ma soprattutto - ed è questa l'accezione che useremo in questo articolo - il ricorso a determinati linguaggi e codici mediatici per definire e incorniciare la guerra. La qualità visiva e narrativa delle descrizioni dei media rientra spesso tra quelle strategie discorsive mediatiche che tendono a minimizzare i costi in termini di vite umane della guerra, tramite una definizione e una rappresentazione asettica dell'evento bellico. Asettica, e quindi chirurgica: appunto come viene spesso definita l'attività bellica dei paesi occidentali, con il ricorso a riferimenti connotativi che rimandano alla "precisione" e all'astrazione. Ancora, proprio l'astrazione e la stilizzazione costituiscono un fattore di quella mediatizzazione che stiamo qui definendo: secondo una logica mediatica tra le più consolidate, le retoriche del conflitto vertono intorno ad alcune immaginisimbolo, che sterilizzano e stilizzano la guerra in corso. Se si può indubbiamente parlare di strategia discorsiva mirata, va anche detto che tali retoriche fanno parte di una consolidata pratica di routine tipica del linguaggio mediatico. Un aspetto importante della mediatizzazione della guerra è quello legato ai fenomeni della personalizzazione e della narrativizzazione. Come già Saddam nella Prima Guerra del Golfo ("nuovo Hitler", secondo "la Repubblica" del 9 agosto 1990), anche Slobodan Milosevic viene presentato come il villain di turno. In questo senso, per i media italiani (che facevano comunque parte della coalizione Nato) la giustificazione di un intervento armato in Kosovo si è valsa della possibilità di 23 ACHAB mediatizzazione della guerra che abbiamo visto precedentemente. Si tratta, cioè, di indagare i testi della stampa italiana e le loro strategie discorsive, i cosiddetti media frames. La ricerca è basata sull'analisi di quattro testate giornalistiche nazionali della stampa ("Corriere della Sera", "la Repubblica", "La Stampa" e "Il Giornale"). Gli articoli raccolti sono stati sottoposti a due tipi di analisi. Dapprima è stata predisposta una analisi qualitativa del contenuto, fondata sull'individuazione di una serie di parolechiave e di concetti alla base delle diverse retoriche utilizzate per la "fabbricazione" e la caratterizzazione dei profughi kosovari. Ci si è concentrati sull'analisi delle definizioni ricorrenti, sulle strategie di sovra- e sotto-rappresentazione degli attori coinvolti (universalizzazione della vittima, personalizzazione degli attori coinvolti, animalizzazione degli individui, ecc.), del genere di avvenimenti in corso (per esempio, "massacro", "genocidio", "pulizia etnica", "Olocausto") e dei nessi causali alla base delle spiegazioni offerte per gli eventi stessi. Ha fatto seguito una analisi del discorso mediale (Bell e Garrett [eds.] 1998; Fairclough 1995), non solo per individuare con più precisione le strategie discorsive in atto nei testi, ma anche per poter analizzare gli aspetti grafici e le immagini, che fanno parte integrante dell'attività di framing dei giornali. bambini nati durante l'esodo o in un campo di accoglienza. L'identità di profugo viene generalmente applicata loro in maniera automatica, e soprattutto i giornali sviluppano numerose storie intorno al nesso "attribuzione del nome"/"attribuzione di identità". Mai come in questo caso, nei racconti mediatici della guerra del Kosovo, l'essere profugo sembra divenire un'essenza. Infine, un frame interessante che riguarda il costituirsi dell'identità di profugo è la procedura di "disumanizzazione" alla quale il profugo viene più volte sottoposto. Le descrizioni dell'esodo, con tutti i particolari più ripugnanti che questo ha comportato, tendono a definire i kosovari con termini e modi che di umano non hanno più nulla. L'essere profugo tende così a scomparire senza però confluire nuovamente in una definizione generica di "essere umano", bensì verso il suo opposto: la completa realizzazione dell'identità di profugo è quella, inumana, di una "non-persona" (Dal Lago 1999). Profughi o militanti? Il problema del rapporto tra profughi in fuga e militanti dell'Uck fa la sua prima comparsa sul "Corriere della Sera" il 30 marzo, quando la narrazione della tragedia kosovara era iniziata da poco: “Villaggio dopo villaggio il Kosovo si svuota. La guerriglia implora: "Non fuggite, fate il gioco dei Serbi, restate e combattete per la nostra terra"” 2. Il labile confine dell'essere profugo La "conquista" dell'identità di profugo è uno dei frames più frequentemente utilizzati dalla stampa durante il conflitto balcanico. Cosa sia o cosa non sia un profugo è argomento che, a seconda dei diversi livelli di interpretazione, può sembrare di facile risoluzione o frutto di una complicata osservazione. Il "grado zero" dell'essere profugo, almeno al livello del senso comune, sembra essere quello costituito dall'equazione "kosovaro in fuga dalla guerra = profugo". In questo caso sono considerati profughi tutti gli abitanti del Kosovo che, in seguito alle persecuzioni di Milosevic o ai bombardamenti Nato, si trovano a fuggire dalle loro terre in via provvisoria o definitiva. Questo primo livello di interpretazione è però destinato a complicarsi quando sulla scena fanno la loro comparsa i guerriglieri dell'Uck: sono profughi o no? I membri dell'Uck condividono con l'interpretazione che abbiamo definito primaria del profugo il loro essere abitanti del Kosovo e l'agire in conseguenza della guerra in corso, tuttavia non cercano di scappare, bensì si armano e provano a scacciare i Serbi mediante azioni di guerriglia. Inoltre essi non osservano passivamente la fuga dei loro concittadini ma provano in vari modi ad arruolarli nelle loro file, secondo alcuni articoli anche in modo violento. Un altro aspetto connesso al frame della costruzione dell'identità del profugo è la questione se tutti possano diventare profughi oppure no, se qualsiasi individuo, indipendentemente dalla propria collocazione socio-professionale, sia a rischio di degradazione. Saranno pubblicati vari articoli che mostreranno, con un certo stupore, come anche i membri di alcune rispettabili professioni (medici, studenti, avvocati) possano avere o abbiano di fatto subito la degradazione a profugo. Questione ancora connessa con l'identità di profugo è quella dei La presentazione dei profughi come una massa compatta di persone che non possono avere la forza di combattere subisce qualche modifica con un articolo comparso sempre sul "Corriere della Sera" il 3 aprile: “E i profughi sognano la "bella Italia" ma qualcuno vuole tornare a combattere” L'articolo che segue è una lista di varie storie raccolte tra i profughi che attendono di raggiungere l'Italia, ma, a differenza del quadro delineato dall'articolo precedente, si stacca qui una voce dal coro: qualcuno ha ancora la forza e la rabbia per tornare a combattere: “Ma non tutti pensano all'Italia. Angelina ha 30 anni, è magrissima e nervosissima: "L'Italia? Macché. Io tra 10 giorni torno in Kosovo. Quelli ci hanno tolto tutto: case, uomini, soldi, identità. Se davvero tutto è perduto, allora tanto vale imbracciare il mitra e spendere la vita per la patria. Anche se io sono una donna. Qui siamo già un centinaio pronti a farlo."” (corsivo nostro) Il "Corriere della Sera" si occupa dell'Uck anche il giorno successivo al precedente articolo, e anche questa volta qualcosa cambia nella definizione e nella connotazione dell'attività dei guerriglieri kosovari: “Applaude anche la strana, piccola folla di guerriglieri Uck 24 ACHAB [Esercito di Liberazione del Kosovo] che si danno un gran da fare a istituire posti di blocco sulla strada che scende da Kukes (l'appello: "Che fate? Non scappate, arruolatevi nel nostro esercito di liberazione"), a controllare che non si infiltrino Serbi tra i profughi, ma non muovono un dito per aiutare i compatrioti rimasti senza nulla.” ("Il Corriere della Sera", 4 aprile). dalla "Stampa" del 7 aprile, con il seguente titolo:"Ero avvocato a Pristina, in 36 ore ho perso tutto". L'articolo è una descrizione dettagliata della vita di questo avvocato, prima e dopo l'inizio delle ostilità. La differenza che passa tra un avvocato kosovaro e un altro proveniente, per esempio, dall'Unione Europea, è messa subito in evidenza all'interno dell'articolo: Qui la definizione dell'attività dei membri dell'Uck subisce una netta inversione di rotta. Innanzitutto i membri dell'Esercito di Liberazione del Kosovo sono definiti una "strana, piccola folla" come se si trattasse di uno sparuto gruppo di saltimbanchi, poi però il paragrafo finisce con una precisa accusa nei loro confronti: essi non farebbero nulla per aiutare i loro compatrioti. Da quello che viene detto in questo articolo sembra quasi che i membri dell'Uck godano di uno status nettamente superiore a quello dei loro concittadini in fuga; quantomeno se essi non aiutano "i loro compatrioti rimasti senza nulla" si può supporre che ai guerriglieri qualcosa sia rimasto. La questione della bontà o meno dell'Uck ritorna da protagonista sulle pagine del "Corriere" il 27 aprile. All'interno del giornale troviamo un breve articolo dove si discute della liceità del tipo di arruolamento tenuto dai membri dell'Esercito di Liberazione. L'articolo è interessante anche perché è centrato sull'analisi delle modalità con cui i media statunitensi stanno diffondendo l'immagine dei guerriglieri: “I sette anni trascorsi in Gran Bretagna, a partire dal '90, l'avevano convinto di non essere tanto diverso dagli altri europei della sua generazione.” (ibidem) Dallo stralcio sopra riportato sembra non esserci nulla da fare: se nasci in un paese debole anche la tua identità è destinata a essere debole, la pelle dello stato è la tua pelle: “Nel giro di 36 ore Besnik era diventato un profugo. I suoi beni si riducono a quello che ha sulle spalle, più un sacchetto di plastica.” (ibidem, corsivo nostro) La disavventura occorsa a Besnik è presentata con i caratteri dell'inesorabilità: in sole 36 ore egli ha cambiato identità, è diventato un profugo. Un articolo che presenta la storia di un professionista che ha subito il processo di degradazione a profugo è pubblicato anche da "Repubblica"; questa volta si tratta di un dentista. L'articolo riproduce sostanzialmente gli argomenti e i toni di quello riportato precedentemente. L'attenzione verso l'origine socio-economica dell'intervistato è però forse qui addirittura maggiore, soprattutto quando viene descritta la moglie del dentista: “Arruolamenti forzati, critiche ai kosovari. Un alleato scomodo. I media americani stanno cambiando rapidamente il tenore degli articoli dedicati ai guerriglieri dell'Uck. Dopo un generale sostegno agli insorti kosovari, sono cominciate critiche e segnalazioni sui lati oscuri della resistenza antiserba. Ieri il Washington Post ha dato ampio spazio agli arruolamenti forzati che l'Uck effettua tra i profughi, costringendo tutti gli uomini tra i 18 e i 30 anni a raggiungere i campi di addestramento.” ("Il Corriere della Sera", 27 aprile) “La moglie di Ekrem ascolta, ha un bel viso, anche lei è laureata, porta piccoli orecchini, veste una felpa color arancio con una scritta enorme: Versace. È la mia felpa, precisa con orgoglio. Frammenti di un passato sereno. La macchina, lo studio dentistico, una bella casa al centro di Mitrovica, i vestiti, gli orecchini” (ibidem) L'articolo riflette perfettamente l'immagine data all'Uck da tutti i media durante il conflitto: dopo una iniziale presentazione favorevole (i membri dell'Uck vengono spesso presentati come emuli dei partigiani italiani) subentra un periodo dove iniziano i dubbi sulla reale "bontà" dell'Esercito di Liberazione del Kosovo, dubbi che verso la fine delle ostilità si tramuteranno quasi in certezze sulla sua natura negativa. Questo passaggio suggerisce un'osservazione che vale anche per l'articolo precedente. Per quanto sembri non esserci nessuna difesa contro la perdita dell'identità precedente e l'acquisizione dello status di profugo, vi è qualche piccola differenza se a perderla è una persona dalla provenienza sociale elevata. La moglie del dentista è, nel momento in cui è intervistata, a tutti gli effetti una profuga, ma la sua descrizione non coincide con quella in genere riservata a tutte le sue "colleghe" di provenienza sociale inferiore. Nella descrizione di queste ultime in genere si sprecano gli aggettivi denigratori: le donne profughe stanno per diventare animali e ne hanno tutte le caratteristiche. La moglie del dentista riesce invece ad avere ancora un bel viso, e continua a vestirsi bene (ricordiamo che la moglie del dentista è in questo momento in una colonna di profughi, e ha un maglione Versace). Sembra quasi che, se su un piano generale la pelle dello stato è anche la tua pelle, e quindi la tua identità avrà la stessa sorte politica della Profughi di classe. Il secondo frame preso in considerazione riguardo all'identità del profugo è quello che concerne la presentazione della possibilità di diventare profugo indipendentemente dallo stile di vita precedente al conflitto. Come si vedrà, la stampa tende spesso a sottolineare con un certo stupore come anche persone dalla collocazione socioprofessionale molto rispettabile abbiano subito questo processo di degradazione senza riuscire a opporre a esso molte resistenze. Il primo articolo che si incentra su questo argomento è presentato 25 ACHAB tua nazione, su un piano più particolare una componente essenziale nella formazione dell'identità sia costituita dall'origine socio-economica, e quindi anche se la tua pelle seguirà quella dello stato parte di essa continuerà a differenziarsi da quella di quelli meno fortunati di te. Secondo questo frame, l'origine sociale è una sorta di crema antirughe per la pelle della personalità. neonati profughi lo dimostra un articolo de "Il Giornale" del 15 maggio. Addirittura qui il problema conduce a una decisione del parlamento federale americano: Nomi e identità. Durante tutto il corso dell'esodo dei profughi vi è stata notevole attenzione alla diffusione di notizie riguardanti nascite durante la fuga o mentre la madre era assistita in un campo profughi. Al di là del fatto - ascrivibile alla "logica dei media" che avvenimenti come nascite o altro riguardanti i bambini attirano generalmente l'attenzione dei media, possiamo notare come in questo caso parlare del parto di una profuga kosovara rappresenti l'occasione per i giornali analizzati di effettuare digressioni sulla questione dell'identità di profugo. Quanto sia labile il confine che definisce l'identità di una persona in una situazione complessa come quella dell'esodo kosovaro emerge già analizzando un articolo pubblicato dal "Corriere della Sera" il 10 aprile: L'articolo presenta numerosi suggerimenti che utilizzeremo per provare a trarre le conclusioni sull'argomento dei nascituri kosovari, per cui vale la pena di riportarlo quasi per intero. La vicenda prende spunto, come si evince fin dal titolo, dalla nascita del primo profugo kosovaro nato sul territorio americano. Non è difficile intuire come questo bambino si possa chiamare: “Frontiere Usa chiuse alle partorienti. Dopo la nascita del primo kosovaro-americano, gli Stati Uniti temono l'"invasione" dei neonati profughi.” “America ce l'ha fatta. Il problema ora sono i suoi fratelli, tanti, una fila lunghissima, tutti pronti a partire. America ha un paio di giorni; concepito in Kosovo, è venuto al modo a Fort Dix, New Jersey, Stati Uniti. America, appunto. Proprio come vorrebbe chiamarlo suo papà […]. Nemmeno il tempo di respirare che America, come vuole la legge degli Stati Uniti per chi là nasce, è diventato cittadino americano, col passaporto quello vero, l'aquila stampata, iunaitidstatsofamerica […]. La mamma ha mentito sui tempi della gravidanza: ai funzionari americani che a Scopje reclutavano i profughi da imbarcare verso la vita, ha giurato di essere al sesto mese. Mai l'avrebbero presa a bordo se avessero saputo che i mesi invece erano nove […]. Certo, da portare per tutta la vita America è impegnativo come nome, in ospedale sono impazziti tutti provando a indovinare il futuro del nascituro: "chi lo sa che cosa accadrà a questo bambino, magari potrà diventare il futuro presidente degli Stati Uniti" […]. Ma per chi sta ancora nella pancia delle mamme profughe la vita (nel senso più puro del termine) si fa dura perché l'amministrazione Clinton, temendo l'invasione delle partorienti, ha limitato e limato gli ingressi: d'ora in poi nessuna donna oltre al sesto mese di gravidanza potrà partire dai Balcani con direzione Stati Uniti […]. A sentire la portavoce dei "centri per il controllo delle malattie" di Atlanta, la limitazione non è dovuta al timore di un invasione di kosovaroamericani, ma alla necessità di prevenire rischi per le donne e per i feti: "Dobbiamo partire dal presupposto che quando dicono di essere al sesto mese di gravidanza sono in realtà al nono, d'ora in poi le inseriremo quindi nella categoria di chi ha bisogno di assistenza immediata e dunque non potranno affrontare il viaggio". Sono problemi che riguardano solo i fratelli di America, lui ormai ce l'ha fatta. Proprio uno nato con la camicia. Anzi col passaporto.” (ibidem) “Dopo la fuga è nato Italo, sotto una tenda ma senza culla”. L'articolo si apre quasi subito indicando come la sorte giuridica del nascituro sia dovuta ad una serie di fortunose circostanze: “Il neonato ha sangue kosovaro, è nato in territorio albanese, ma è italiano di diritto. E anche nel suo fortunato tempismo. Se avesse tentato di venire al mondo 24 ore prima, sarebbe probabilmente morto con la mamma durante il parto. Se ci avesse provato una settimana prima, difficilmente sarebbe sfuggito alla strage degli innocenti. Ma Italo Bajgore, un giorno di vita, tutto questo lo saprà solo fra qualche anno.” (ibidem) Quanto Italo sia stato fortunato lo si può maggiormente apprezzare confrontando la sua storia con quella di Atdhetare, raccontata dal "Corriere della Sera" appena due giorni dopo quella di Italo, il 12 aprile: “Atdhetare è rimasta sola. È il simbolo della tragedia. Una bimba di 18 mesi è stata trovata nei pressi del campo di Kukes ed è stata adottata da una famiglia di rifugiati. L'hanno chiamata Atdhetare Kosova, che significa "nazione Kosovo". Le autorità stanno cercando i suoi parenti.” Nel racconto del "Corriere", Atdhetare non ha avuto la fortuna di Italo. Lei non è riuscita a nascere in un qualche campo allestito da un paese membro dell'alleanza. A lei non tocca nessun diritto, per lei niente "Itala", ma un nome che tenderà a costringerla ad assumere il più profondamente possibile l'identità che rappresenterà per lei la prima causa di emarginazione e di esclusione. Quanto sia importante per la stampa italiana l'argomento dei In questo articolo sono presenti alcuni dei "panici morali" più diffusi riguardo a immigrazione e possibili invasioni dall'esterno. Per descrivere il possibile arrivo in America di donne kosovare incinte vengono usati termini degni dei film di fantascienza anni '50, come "l'invasione delle partorienti" o "l'invasione dei neonati profughi". Nell'ondata di paranoia che sembra colpire l'amministrazione Clinton, così come ci viene raccontata quasi 26 ACHAB che, se su un piano generale la pelle dello stato è anche la tua pelle, e quindi la tua identità avrà la stessa sorte politica della tua nazione, su un piano più particolare una componente essenziale nella formazione dell'identità sia costituita dall'origine socioeconomica, e quindi anche se la tua pelle seguirà quella dello stato parte di essa continuerà a differenziarsi da quella di quelli meno fortunati di te. Secondo questo frame, l'origine sociale è una sorta di crema antirughe per la pelle della personalità. "Stampa" vi è il primo piano di una mano che ha già ricevuto il timbro, sul "Corriere della Sera" la foto ritrae proprio l'apposizione del timbro. Questa la didascalia: Disumani. Passiamo ora ad analizzare l'ultimo dei frames che incorniciano la definizione mediatica dell'identità dei kosovari in fuga; esso riguarda la procedura di disumanizzazione alla quale essi vengono sottoposti dai media. Il kosovaro in fuga rischia seriamente di perdere l'identità umana sia per una questione giuridica - egli infatti viene spesso privato dei documenti che attestino la sua identità e questo lo fa automaticamente diventare un clandestino, una persona che per definizione non gode degli stessi diritti degli altri esseri umani (Dal Lago 1999) - sia per la difficoltà a rispettare i parametri culturali, tra i quali potremmo inserire la pulizia, un aspetto curato, un contegno, tutti aspetti che definiscono una persona come civile. L'esodo dei profughi ha l'aspetto di una tragedia umana fin dai primi giorni in cui viene riportato dai giornali. L'accento sulle condizioni bestiali in cui i kosovari sono costretti a vivere viene messo maggiormente in luce però verso la fine di marzo, quando in pochi giorni su quasi tutti i quotidiani presi in considerazione compaiono foto che ritraggono profughi ammassati in una calca infernale per cercare di ottenere qualche pezzo di pane ("La Stampa", 3 aprile; "Il Corriere della Sera", 31 marzo e 3 aprile; "la Repubblica", 3 aprile). La rappresentazione di queste persone in una lotta serratissima per la conquista del cibo induce immediatamente a pensare che queste abbiano perso gran parte delle caratteristiche che connotano in genere una vita civile. L'attività della ricerca del cibo è infatti comune sia agli uomini sia agli animali, e vedere i profughi concentrati in branchi come degli avvoltoi per la conquista del cibo più semplice e più antico dell'umanità dà un colpo decisivo alla dignità degli esuli. Articoli incentrati sulla nutrizione dei profughi faranno infatti più volte la comparsa nei quotidiani da noi analizzati, come quando "Il Corriere della Sera" del 18 aprile titola: "La Stampa" ha una didascalia più lunga, con un titolo riassuntivo, e che tenta già nel suo esiguo spazio di trarre alcune conclusioni dalla vicenda mostrata: “un bimbo kosovaro la mano della madre segnata con un timbro da un militare tedesco prima della partenza dal campo profughi di Stenkovac per la Germania. Molti rifugiati sono stati trasferiti in altri paesi.” “Il timbro per la salvezza. Questo marchio impresso sul dorso della mano di una profuga kosovara vale un passaggio aereo per la Germania, cioè per la libertà. Nel campo di Petrovic, Macedonia, i tedeschi hanno aperto un posto di raccolta con un cartello che dice: "Se volete andare in Germania venite qua". Una via di uscita, sia pure momentanea, dall'inferno della precarietà, dalla coda per il rancio, dalla scabbia, dal tutto che si è perso. Ma il significato di quel timbro resta: è un passaporto per la salvezza, però certifica la condizione disperata di un deportato. Una diaspora che sarà difficile curare.” "La Stampa" mostra quindi come la procedura della timbratura "certifichi" la condizione di un deportato. La didascalia mette però anche in evidenza come il profugo vivesse già in una condizione prossima all'animalità: i rifugiati fanno la coda per "il rancio", sfuggono dalla scabbia, e hanno perso tutto. È curioso che l'unica condizione indicata che permetta loro di riacquistare la dignità di persona debba passare attraverso una certificazione della perdita della stessa: solo attraverso l'infamante timbro essi potranno ottenere il lasciapassare per la Germania, dove è la loro identità umana potrà essere riguadagnata. Se le testate considerate si pongono in antitesi rispetto a questo processo di disumanizzazione, in alcuni casi è tuttavia possibile osservare come il discorso mediatico ricorra a retoriche che sortiscono lo stesso effetto. È il caso, ad esempio, di questo titolo di "Repubblica" del 31 marzo, che introduce la notizia del tentativo da parte dei serbi di eliminare sistematicamente le tracce dell'identità dei kosovari distruggendone i documenti: “Otto giorni per aiutare dei bimbi che mangiano foglie.” “Tra i disperati di Kukes senza più patria né nome. Un fiume di profughi continua a riversarsi in Albania. Al confine i serbi sequestrano i documenti (corsivo nostro).” Un'altra modalità con cui i profughi subiscono un trattamento di disumanizzazione che sconfina nell'animalizzazione è quello della marchiatura. Tanto "La Stampa" (il 9 aprile, in prima pagina) quanto il "Corriere della Sera" (l'11 aprile, sempre in prima pagina) pubblicano una foto emblematica: l'apposizione di timbri sulle mani dei profughi, con marchiata una cifra che servirà come garanzia di riconoscimento per poter lasciare il Kosovo. La procedura di assegnare una cifra a ogni uomo e di timbrargliela addosso non può non far venire alla mente i tatuaggi effettuati dai nazisti sugli internati nei campi di concentramento. Le foto riportate dai due giornali sono lievemente diverse: mentre sulla I serbi quindi, sequestrando i documenti, tolgono "patria e nome" ai kosovari, i quali si trovano sottoposti a un processo di spersonalizzazione che rende anche ai giornalisti molto più facile trattarli come cose indistinte. Non è un caso che proprio nell'articolo (scritto peraltro con tono drammatico e con una forte empatia nei confronti dei kosovari) i profughi vengano comunque definiti un "fiume", trasformando cosi dei singoli esseri umani in un unico e indistinto fenomeno naturale. Non è certo questa 27 ACHAB l'unica occasione in cui l'esodo dei profughi è stato paragonato a un "fenomeno della natura": durante il corso del conflitto l'esodo è stato descritto usando paragoni con tutti i più noti fenomeni naturali, di terra, di cielo e di mare. Il ricorso a metafore "naturali" per descrivere tragedie così drammaticamente umane nasconde un uso del linguaggio tipicamente ideologico: le tragedie naturali non hanno responsabilità, e spesso non è possibile neanche porvi rimedio. Concludiamo l'analisi del frame della disumanizzazione dei profughi riportando alcuni casi che comprendono descrizioni di avvenimenti che, per la loro stravaganza, sembrano tragicamente surreali. Il caso più eclatante in questo senso è quello presentato dal "Corriere della Sera" del 30 marzo. In un articolo dedicato alla descrizione dei kosovari in fuga si legge: della stessa), porta con sé un bicchiere, naturalmente del colore più degradante e ridicolo per un uomo, e non si dimentica di portare con sé un'autoradio (forse il particolare più ridicolo; l'oggetto più caro ma di scarsa utilità) di una marca completamente sconosciuta. Anche l'articolo di Giuseppe Zaccaria pubblicato da "La Stampa" del 4 aprile contiene osservazioni degradanti nei confronti dei profughi: “Un ragazzo, che ieri mattina abbiamo intercettato a Geziq sui primi convogli della lunga colonna, pur di andarsene si è messo le scarpe della sorella, qualche centimetro di tacco.” I rifugiati sono qui dei "disgraziati che continuano a fare oscena mostra di sé"; il giornalista così riesce a dare sia l'idea di quanto debbano essere ridotti come bestie i kosovari, e inoltre suggerisce una sorta di colpa degli stessi nel fatto che essi non nascondano la loro miseria; essi, appunto, "continuano a fare oscena mostra di sé". Che queste persone non abbiano ormai nessuna delle caratteristiche dell'umanità è sottolineato anche dal fatto che essi hanno dei "padroni", come se fossero merci o animali da pascolo. Inoltre la loro odissea è completamente inquadrata dal nostro punto di vista: la loro tragedia è anche un po' la nostra tragedia; essi con la loro "oscena mostra di sé" tendono fastidiosamente a ricordarci che la guerra non è "un gioco né un film". In conclusione, poi, la più grande ammissione della loro riduzione a uno stato infantile: saremo infatti noi capaci di "prendercene cura"? Anche "la Repubblica" si segnala per un framing improntato sulla degradazione simbolica degli esuli kosovari. Si veda questo titolo, apparso il 7 aprile: “I disgraziati che continuano a fare oscena mostra di sé nella valle del Blace stanno per cambiare un'altra volta padrone. Prima ostaggi dei serbi, poi dell'Uck, adesso questi sventurati della storia ci piombano addosso, quasi a ricordarci come la guerra non sia un gioco né un film. Volevamo proteggerli, in teoria: invece li abbiamo devastati. Adesso siamo in grado di prendercene cura?” La descrizione dei profughi è tanto più inverosimile quanto più si consideri il seguente articolo, pubblicato dal "Corriere" l'8 aprile: “Le valige dei rifugiati: un tappeto, la sveglia, due orecchini Chi si è salvato è riuscito a portare con sé poche cose. Un uomo è arrivato calzando le scarpe col tacco della figlia. Sevdir Rudaj, 43 anni, di Zur, che lunedì 29 marzo era nella prima ondata scesa dal nord, non ha avuto neanche il tempo di infilare qualcosa ai piedi: su un camion verde e senza targa la strada l'ha fatta tutta con cinque centimetri di tacco, le scarpe blu di sua figlia. Sevdir possiede solo la giacca nera che indossa, la camicia marrone, i pantaloni a righe e quel paio di scarpe, ridicole e tragiche.” È quasi incredibile che nello spazio di otto giorni si siano presentati agli occhi di due giornalisti italiani due profughi, prima un bambino e poi un adulto, calzando le scarpe col tacco di una piccola bimba. Va aggiunto che l'articolo è pieno di termini degradanti per i rifugiati. Solo nel pezzo citato, infatti, il particolare del camion senza targa viene aggiunto apparentemente solo per aumentare il senso di precarietà della fuga; e, come se questo non si notasse già da sé, il giornalista ha attribuito una qualità illuminante alle scarpe calzate dall'uomo in fuga: "ridicole". Ma anche nel prosieguo dello stesso articolo troviamo altre descrizioni ambigue: i profughi sembrano aver compiuto l'esodo portando con sé gli oggetti più inutili e disparati, quasi disponessero di una borsa alla Mary Poppins riempita con lo spirito di un Peter Pan. Il caso più vistoso è forse quello di “L'Europa in soccorso dei più deboli”. La cornice generale è ben delineata: non vi è dubbio su chi siano i più deboli. All'interno dell'articolo si possono trovare i già visti paragoni tra persone e merci: “Gli elicotteri e gli aerei […] torneranno indietro carichi di persone dopo aver scaricato viveri, medicinali e attrezzature di accoglienza. Centinaia di tonnellate all'andata, centinaia di persone al ritorno.” Nella totale equiparazione tra le persone e le merci si consuma la totale espropriazione delle qualità umane dei profughi. “Kak Aslani, 40 anni, di Suhareka: due pentole di stagno ancora incrostate di cibo, una sveglietta al quarzo, un bicchiere di plastica rosa, l'autoradio Xherdet.” 3. Profughi kosovari e profughi serbi Il problema riguardante l'attribuzione delle responsabilità dell'esplodere del conflitto è stato molto dibattuto. Connessa con questo argomento è la discussione su chi siano le vere vittime del conflitto. Se infatti a prima vista le vittime parrebbero essere facilmente individuabili negli esuli kosovari, la situazione viene Questo signore, secondo il giornalista, sarebbe in fuga con due pentole "ancora incrostate di cibo", una "sveglietta" (il poveretto non potrà permettersi neanche una sveglia ma solo il diminutivo 28 ACHAB presto definita in maniera più problematica; le vittime del conflitto potrebbero anche essere i civili serbi, vittime incolpevoli dei bombardamenti Nato. In realtà questo tipo di argomento viene soprattutto proposto verso la fine del conflitto, quando sembra essere ormai chiara la vittoria alleata e il ritorno dei profughi in Kosovo rende più visibile il problema dei serbi che erano rimasti a vivere là, e che ora si trovano ad aver perso una guerra e a essere in minoranza nei confronti dei kosovari di ritorno. Connessa con questa problematica vi è anche la già vista ambiguità del ruolo dell'Uck che verso la fine del conflitto viene ad assumere, almeno sulla stampa italiana, una connotazione nettamente più negativa. L'Uck, divenuto il villain della narrazione dei media, sembra poter ripercorrere tutte le nefandezze compiute dai miliziani serbi nei confronti dei kosovari albanesi sui civili serbi, rischiando di farli diventare profughi. Il problema della possibilità del "divenire profugo" anche per i cittadini serbi inizia a delinearsi sulle pagine del "Corriere" il 9 aprile. Fa qui la comparsa il primo articolo, seppure breve, interamente dedicato alle possibili conseguenze della guerra per i cittadini serbi. È sempre in questo articolo che troviamo per la prima volta l'espressione "profughi serbi", destinata a diventare più frequente con il trascorrere del conflitto. profughi albanesi. Interessante è anche notare come, nell'ultima considerazione del giornalista, sembra che lo status di profugo possa agire talmente in profondità da cancellare altri tipi di status comunitari, come quelli di etnia e nazionalità. L'essere profugo fornisce una nuova identità comunitaria che riesce, almeno in periodi eccezionali come quello di una guerra, a soppiantare completamente identità comunitarie più stabili e istituzionali come appunto quelle di nazionalità ed etnia. Più passa il tempo e più il fenomeno dei profughi serbi diventa una indiscutibile realtà mediatica; ancora "Il Corriere della Sera" del 24 aprile torna sull'argomento, iniziando però qui a tracciare alcune sensibili differenze tra la condizione dei profughi kosovari e quella dei serbi: “I cinquanta disperati serbi tornano a Sarajevo tra i nemici”. All'interno dell'articolo, che parla appunto del rientro di un gruppo di profughi serbi nella regione di Sarajevo, si trovano alcuni aggettivi usati per la descrizione dei serbi che non fanno mai la loro comparsa negli articoli dedicati ai loro "colleghi" kosovari: “Saranno una cinquantina i serbi, nella mattinata nuvolosa di Vraca, dignitosi nei loro cappotti scoloriti, coi loro capelli grigi, troppo vecchi e stanchi per sorridere. In fila ordinata lungo la staccionata di ferro che costeggia il viottolo.” (ibidem, corsivo nostro) “"Anche noi, serbi, in fuga per paura delle bombe". "Non capiamo Milosevic ma anche la Nato che lancia missili sui civili è colpevole."” L'articolo mette più volte in risalto la sorpresa di trovarsi per la prima volta ad avere che fare con dei profughi non albanesi: Dunque i profughi serbi riescono ancora a essere "dignitosi" e si dispongono in "fila ordinata" per ricevere i documenti. Negli articoli che abbiamo più volte citato, dedicati ai profughi kosovari, difficilmente abbiamo trovato termini come questi: i kosovari in fuga sembravano essere nettamente più sporchi e più a rischio di animalizzazione. Nell'articolo è presente anche una foto che ritrae una fila di serbi che attende il rilascio dei documenti, e in effetti i profughi serbi sembrano essere molto più composti di quelli kosovari; quello che non è ancora dato di sapere è se questa differenza segna una diversa provenienza sociale dei due popoli oppure una marcata differenza culturale. Alla fine di aprile la situazione è ormai molto chiara; si capisce che anche i civili serbi stanno vivendo la loro tragedia e che anche loro sono spesso diventati profughi. Questo nuovo frame viene esemplarmente definito dal "Giornale", che il 30 aprile titola: “Sono scappati dalle bombe, ma non sono kosovari. Sono serbi [...]. Vengono da Belgrado e, come gli altri serbi, vengono guardati un po' come i "diversi" del centro di accoglienza, che ospita quasi cinquecento persone: kosovari, ma anche curdi, montenegrini, rom, asiatici [...]. L'arrivo dei profughi serbi ha anche creato qualche attenzione in più da parte dei nostri ministeri dell'interno e della difesa, per i quali i cittadini della Repubblica guidata da Slobodan Milosevic devono essere, in questo momento, "osservati speciali" [...]. "La nostra tragedia è uguale a quella kosovara. Ci chiediamo perché, se il problema è Saddam Hussein, si bombardano gli iracheni. E, se il problema è Milosevic, si bombardano i serbi". Per un momento, etnie e nazionalità non se le ricorda più nessuno.” (ibidem) Da quanto si evince dall'articolo i serbi corrono il rischio di diventare non solo profughi, ma addirittura profughi di seconda categoria. Se, infatti, gli altri tipi di profughi presenti nel centro di accoglienza provengono da "etnie" considerate come "perseguitate", i serbi sono l'unico popolo che arriva nei campi con lo statuto di aggressore, e infatti vengono guardati come i "diversi" del campo. Inoltre essi, come viene precisato nell'articolo, verranno trattati dalle nostre autorità come dei "sorvegliati speciali", e quindi difficilmente godranno di quella presunta simpatia di cui nello stesso momento stanno godendo i “Serbi e albanesi profughi assieme. In un campo ungherese rifugiati kosovari e disertori jugoslavi convivono senza problemi. "Non c'è astio tra noi, la colpa è di Milosevic". Soltanto in bagno e davanti alla televisione si litiga. E i bambini giocano alla guerra.” L'articolo che segue è pieno di considerazioni molto interessanti per la definizione di questo frame: “Vivono assieme in armonia. Sono serbi di Serbia, albanesi del 29 ACHAB Kosovo, ungheresi della Vojvodina, afghani e armeni. Ma prima di tutto sono profughi, e i profughi sono tutti uguali [...]. Alla toilette gli albanesi non usano carta igienica ma l'acqua di una bottiglia appoggiata di fianco al water. Serbi e ungheresi protestano. Il direttore del campo, Bela Szekeli, non ci fa caso: "Sono problemi marginali, dipendono da differenze culturali e non da cattiveria od odio. Gli albanesi sono generalmente meno esigenti sull'igiene, anche dei bambini".” ("Il Giornale", 30 aprile, corsivo nostro) Troviamo qui nuovamente formulata l'idea che la "cittadinanza profuga" riesca a cancellare e soppiantare gli altri tipi di cittadinanze. I profughi sono appunto prima di tutto profughi e questa loro nuova identità cancella il loro essere precedentemente serbi, albanesi o ungheresi. Secondo questo articolo inoltre vi sarebbe una differenza sostanzialmente culturale tra l'essere profughi albanesi oppure serbi e ungheresi: gli albanesi sono culturalmente predisposti a essere più sporchi e quindi potrebbe essere questo il motivo per cui le descrizioni delle carovane di profughi kosovari tendono a essere più denigranti di quelle serbe. Questa ipotesi si integra e può anche soppiantare quella della differenza di provenienza socio-economica, che avevamo visto nelle pagine precedenti. Tuttavia, come si è detto, è con il finire delle ostilità che il dramma delle popolazioni civili serbe si rende chiaramente visibile. Con il ritorno dei kosovari nelle loro terre il problema di come verranno trattati i serbi rimasti risulta evidente, soprattutto tenendo conto che insieme ai profughi kosovari torneranno anche i miliziani dell'Uck, che sono ora rappresentati dai media in maniera molto più ambigua. Tra i motivi che fanno sì che ora al dramma dei serbi venga data più pubblicità c'è anche la ragione che, a guerra ormai vinta, non si rendono più necessarie quelle forme retoriche che prima venivano quotidianamente usate per definire i serbi, militari e non. Ora, infatti, non c'è più bisogno di censurare le sofferenze che il popolo serbo è stato costretto a subire dai bombardamenti Nato, e l'attenzione si può anche spostare sull'apertura di un nuovo fronte della sofferenza. Il primo articolo che inaugura questo nuovo frame compare su "la Repubblica" l'11 giugno: “Kosovo, serbi in fuga dalla città fantasma. Il ritiro comincia da Podujevo, partono più di duemila soldati. Anche i civili preparano le valigie: "Senza l'esercito e la polizia, in poche ore ritornano gli uomini dell'Uck. Sono già sopra le colline".” Inizia quindi la fuga anche per i serbi; e, anche per i serbi iniziano a comparire espressioni prima usate solo per i kosovari: la città dalla quale fuggono è ormai una città fantasma, come "fantasmi" erano stati definiti talvolta i kosovari dalla stampa italiana. Nell'articolo compare anche una foto che ritrae una carovana di serbi in fuga, a imitazione delle carovane di profughi kosovari che si vedevano solo pochi giorni prima. Il giorno dopo "la Repubblica" torna ancora sull'argomento, dedicandogli questa volta un'intera pagina, la dodicesima: “Nella culla del mito serbo il terrore degli sconfitti. Il luogo simbolo del nazionalismo aspetta "l'invasore". Ma il vero incubo è l'Uck.” (12 giugno) Il testo dell'articolo riproduce poi sostanzialmente quello dell'articolo pubblicato il giorno prima, e anche qui compare una foto che ritrae una carovana di serbi in fuga. Ma l'esemplificazione più evidente del passaggio di consegne tra l'essere profugo kosovaro e l'essere profugo serbo viene fornita sempre dalla "Repubblica" dello stesso giorno, due pagine dopo. Nella pagina campeggiano due foto che mostrano due colonne di profughi in fuga. Le fotografie sono quasi completamente identiche: stessa angolazione per l'inquadratura, stessi mezzi di trasporto usati per l'esodo. In questo modo si rende evidente l'unica differenza sostanziale tra le due foto: la prima ritrae profughi kosovari e la seconda profughi serbi. Il parallelismo è evidenziato anche dalla precisa scansione temporale che compare nelle relative didascalie: “Gli albanesi: 30 marzo 1999. Quasi tre mesi fa iniziava la fuga dei kosovari di origine albanese. Una fuga che via via assumeva le dimensioni di un esodo: il terrore della pulizia etnica aveva la meglio sull'angoscia di abbandonare la propria casa.” “I serbi: 12 giugno 1999. Sui trattori, ieri, c'erano i serbi: eccoli su una strada vicino a Pristina, stanno lasciando il Kosovo. Abbandonano le loro case, non vogliono aspettare l'arrivo delle truppe Nato.” L'articolo tenta di descrivere lo stato di estrema confusione che sembra dominare ora in Kosovo: “L'ultima vendetta dei serbi: in fuga bruciando i villaggi. Il giorno del grande caos: il giorno in cui nessuno sa più chi comanda; il giorno in cui mentre la Nato ammonisce l'Uck a mantenere la tregua, l'Uck avvisa i serbi via internet: finalmente saprete cosa è la pulizia etnica [...]. Insieme ai militari se ne vanno molti civili serbi - inconsueto spettacolo balcanico di macchine e trattori gremiti di persone e di masserizie.” La situazione è quindi ormai molto precisa: in uno scenario di grandissima confusione i serbi hanno ormai acquistato tutte le caratteristiche tipiche dell'essere profugo: fuggono gremiti su trattori, portando con sé delle masserizie che tanto ricordano le pentole ancora incrostate di cibo che già avevamo visto portarsi dietro gli esuli albanesi. Una differenza tra le due fughe viene invece rimarcata nell'ultimo articolo che verrà da noi preso in considerazione riguardo a questo frame. Compare su "la Repubblica" del 14 giugno: “L'esodo dei civili serbi: "L'Uck ci da la caccia". Almeno 10000 profughi attraversano il confine con Serbia e Montenegro, fra loro anche i soldati. A differenza degli albanesi, viaggiano in grandi gruppi con le auto cariche di mobili, elettrodomestici, 30 ACHAB alcuni portano addosso anche armi. La scena della fuga non commuove i profughi albanesi ancora in Montenegro in attesa di rientrare in Kosovo: "Noi siamo stati costretti a uscire valicando le montagne, con metri di neve e l'esercito che ci sparava addosso - racconta Enver Balaj, profugo a Rozaje - nessuno spara a questa gente, nessuno stupra le loro donne, nessuno li sta spingendo via".” È soprattutto nel processo di "disumanizzazione" che si può osservare l'aspetto più caratteristico del framing della stampa italiana relativamente ai profughi del conflitto in Kosovo: privando questi individui dello status di persone, e trasformandoli in non-persone (da aiutare - da preservare), si ottengono contemporaneamente l'effetto di legittimazione dell'intervento "umanitario" da una parte e quello di "allontanamento" dall'altro, per cui sarà più facile negare l'accesso entro i nostri confini a quelle che, dopotutto, non sono neanche "persone". Va notato, peraltro, come anche la televisione abbia insistito su questo frame della degradazione dei profughi: una ricerca condotta sulla copertura televisiva del conflitto in Kosovo (Pozzato [ed.] 2000) mostra come la maggior parte dei telegiornali italiani abbiano usato un framing del tutto simile, e straordinariamente uniforme. Il discorso vale per quasi tutte le testate telegiornalistiche: "in generale, il Tg2 racconta moltissime storie di profughi, in rapida successione: anche questo è un modo sottile di degradare le persone, annullando le loro sofferenze e le loro esperienze in una serialità distratta. Il Tg5 sottolinea il degrado con toni allarmistici, paventando epidemie, osservando che i bambini kosovari che arrivano ai campi non sono mai stati vaccinati in vita loro […]. Anche il Tg3, che sottolinea sempre lo sforzo umanitario, non tralascia di mandare in onda servizi in cui i profughi sono ritratti in condizioni di vita miserevoli" (ibidem, 133). L'aspetto problematico che viene posto dagli autori della ricerca, e che può essere posto in relazione alle narrazioni e alle immagini che abbiamo visto essere riportate anche dai giornali italiani, è questo: In conclusione, sembra dunque che tra la rappresentazione mediatica dell'esodo degli albanesi e quella dell'esodo dei serbi siano presenti analogie e differenze. Sono analoghe le modalità della fuga, e analoghi sono i rischi di perdita di identità ai quali i profughi vanno incontro. La maggiore differenza viene invece presentata come una diversità nel contegno che riescono a mantenere le due "etnie" in fuga. I serbi sembrano riuscire a mantenere caratteristiche più umane mentre gli albanesi le avevano perse pressoché totalmente. I motivi suggeriti dalla stampa sono fondamentalmente tre. Il primo motivo si concentra sulla differenza culturale: i serbi sarebbero tendenzialmente più portati a mantenere condizioni di pulizia e igiene personale più alte; il secondo motivo si rifà alla diversa provenienza sociale: i serbi in fuga non proverrebbero dalle stesse categorie socioeconomiche degli albanesi, i serbi sono più ricchi, più colti e quindi mantengono un più alto standard di dignità; il terzo motivo infine porta alla luce la diversità strutturale del contesto in cui si verifica la fuga: mentre gli albanesi erano pressati da ogni parte, la fuga dei serbi avviene in condizioni nettamente migliori, senza eserciti che corrano loro dietro e senza il reale rischio di manovre di pulizia etnica attuate nei loro confronti. “il problema, in tutti questi casi, non è quello di raccontare il vero o il falso. È senz'altro vero che i bambini che vivono nelle campagne kosovare non vengono regolarmente vaccinati, che la malavita è molto forte in Albania e in tutti i paesi dell'est europeo, che i campi profughi erano maleodoranti, che la gente arrivava sporca, stracciata e forse anche incapace, per la stanchezza e i traumi subiti, a collaborare con gli operatori per l'organizzazione e la pulizia dei campi. Il problema è semmai questo: le televisioni di tutto il mondo, in nome di un malinteso diritto di cronaca, avevano il diritto di mostrare al mondo intero queste persone in condizioni di degrado così estreme? La telecamera che pretendeva di additare alla pietà non avrà in realtà finito di compiere un'opera di spoliazione della dignità?” (ibidem, 134). 4. Le cornici della sofferenza L'analisi dei processi di framing da parte della stampa italiana che abbiamo presentato in questo articolo mostra con una certa evidenza come il frame primario che ha incorniciato tutte le varie cornici secondarie sia quello legato all'identità dei profughi, soprattutto nel senso di una sua sostanziale indeterminatezza - nel migliore dei casi - e degradazione - nel peggiore. È sufficiente ripercorrere i diversi frameworks incontrati nelle pagine precedenti per vedere come nella stampa italiana si sia assistito a un significativo, ma non così paradossale, fenomeno di schizofrenia nella definizione dei soggetti provenienti dalle zone del conflitto: sono profughi o militanti? Sono tutti dalla parte della ragione? È evidente come tali ambiguità nella definizione e nell'incorniciamento dei principali attori della narrazione mediatica del conflitto in Kosovo si leghino allo stretto rapporto tra le istituzioni mediali e quelle politico-militari: nel momento in cui le ragioni della "guerra umanitaria" prevalevano su quelle, interne, del controllo dei flussi migratori, la maggior parte dei giornali si è mostrata propensa a una definizione "umanitaria" dei profughi, mentre quando, verso la fine del conflitto, è stata l'"emergenza immigrazione" a dominare l'agenda politica, l'ambiguità e l'ambivalenza con cui si definiva lo status individuale, sociale e politico delle persone provenienti dalle zone del conflitto erano maggiormente evidenti. Si potrebbe aggiungere che il problema, in questo caso - e naturalmente nel caso delle immagini e delle storie della stampa italiana -, è che tale framing mediatico è del tutto funzionale alla legittimazione delle "definizioni della situazione" fornite dalle istituzioni politico-militari, e che le istituzioni mediatiche hanno sostenuto con le loro "messe in chiave" che abbiamo visto nelle pagine precedenti. Siamo in presenza, in questo caso, di quello che Boltanski chiama "lo spettacolo del dolore", o, meglio ancora, la "politica della pietà". Nelle parole di Boltanski (1993; trad. it. 2000, 17), “una politica della pietà deve affrontare una doppia esigenza. In 31 ACHAB quanto politica, mira alla generalità. Il suo ruolo è sottrarsi al locale e, di conseguenza, alle situazioni, necessariamente locali, nelle quali avvenimenti che suscitano compassione possono prodursi. La politica può basarsi, per questo compito, su strumenti d'equivalenza e, in particolare, su strumenti statistici. Ma nel suo riferimento alla pietà non può affrancarsi completamente dal presentarsi dei casi singoli. La generalità non ispira pietà.” giornali, dei problemi di identità dei profughi), e che per questo motivo vanno riportati entro categorie comunque conosciute, anche se magari - al limite - non umane (si pensi alla disumanizzazione). In questo modo poco importa che la logica dei media persegua questa "politica della pietà" mediante l'una o l'altra delle topiche individuate da Boltanski, che siano quella della denuncia, quella del sentimento o quella estetica: capita spesso che siano in funzione, insieme o separatamente, tutte e tre, a incorniciare lo spettacolo di una "sofferenza a distanza" (ibidem) che lega e legittima reciprocamente le istanze umanitarie, le istituzioni politico-militari e, in definitiva, anche quelle mediatiche. Da questo punto di vista può essere utile, in conclusione, il ricorso all'ipotesi dell'"effetto CNN" (Robinson 2002), ovvero l'ipotesi secondo cui la copertura mediatica dello "spettacolo del dolore" possa influire sulle decisioni di "intervento umanitario", o possa quantomeno legittimarle. Tra i case studies presentati da Robinson per discutere la propria ipotesi teorica compare anche la guerra nel Kosovo, per la quale i dati parlano di una limitazione dell'"effetto CNN": forse le immagini mostrate dai media non hanno pienamente legittimato l'intervento bellico, ma sicuramente hanno rappresentato un esempio di "manifattura del consenso" (Herman e Chomsky 1988; Chomsky 1999), al cui interno le narrazioni e le immagini della stampa hanno fornito un notevole framework di empatia e di sostegno ai vari interventi legati alla guerra nel Kosovo. La "politica della pietà" non può realizzarsi che con la messa in mostra - la messa in scena - di "corpi sofferenti e miserabili", "trasportati in modo da colpire i sensi delle persone felici" (ibidem); deve insomma mostrare la "sofferenza del corpo" (Scarry 1985; trad. it. 1990) facendo di questi corpi sofferenti (e del loro spettacolo) delle immagini e delle storie paradigmatiche. In questo modo, quella che abbiamo definito nel primo paragrafo come la "personalizzazione del dolore" diviene anche "incorporazione del dolore"; e tuttavia, il rischio a cui si espone la personificazione della sofferenza di un popolo è quello di un effetto ambivalente: da una parte le "storie di vita" dei singoli (come gran parte di quelle che abbiamo visto nei paragrafi precedenti) "devono far risaltare la singolarità in modo da dare corpo alla sofferenza"; dall'altra, scendere troppo nei dettagli "rischia sempre di far precipitare nel locale. Ora, una politica della pietà non sa che farsene di un infelice; di una situazione" (Boltanski 1993; trad. it. 2000, 17-18). Di fronte a tale ambivalenza si dipanano le logiche narrative e rappresentative che abbiamo visto in opera in questo articolo: i corpi - più che persone - sono quelli di individui di cui si mostra e si racconta la storia, ma costituiscono anche degli exempla di tutte quelle storie che non è possibile raccontare e mostrare. Di più: sono corpi che vanno comunque definiti, non foss'altro che nella loro indefinibilità (si è visto come spesso si pongano di fatto, per i Note 1. I’articolo è frutto di una riflessione comune dei due autori. Tuttavia, per questioni accademiche, devono essere attribuiti a Federico Boni i paragrafi 1 e 4, e a Oscar Ricci i paragrafi 2 e 3. Bibliografia Bell, A. e Garrett, P. (eds.), 1998, Approaches to Media Discourse, Oxford, Blackwell. Boltanski, L., 1993, La Souffrance à distance, Paris, Métailié; trad. it. Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Milano, Cortina, 2000. Chomsky, N., 1999, The New Military Humanism: Lessons from Kosovo, Monroe, ME, Common Courage Press. Dal Lago, A., 1999, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli. Fairclough, N., 1995, Media Discourse, London-New York, Edward Arnold. Herman, E. e Chomsky, N., 1988, Manufacturing Consent, New York, Pantheon. McLuhan, M. e Fiore, Q., 1995, Guerra e pace nel villaggio globale, Milano, Apogeo. Pozzato, M.P. (ed.), 2000, Linea a Belgrado. La comunicazione giornalistica in tv durante la guerra per il Kosovo, Roma, Rai-Eri, Vqpt. Robinson, P., 2002, The CNN Effect: The myth of news, foreign policy and intervention, London, New York, Routledge. Scarry, E., 1985, The body in Pain. The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press. 32 ACHAB Fieldwork between Distance and Intimacy Reflections on a Photo Exhibition on the Street di Giovanni Picker Gli elementi surrealisti dell'etnografia moderna tendono a essere misconosciuti da una scienza che si considera impegnata a ridurre l'incongruità piuttosto che, contemporaneamente, a produrla. Ma non ha forse ogni etnografo qualcosa del surrealista, del reinventore e del rimaneggiatore di realtà? L'etnografia, scienza del rischio culturale, presuppone una costante disponibilità a lasciarsi sorprendere, a disfare sintesi interpretative e a valorizzare - quando si presenta - l'altro non cercato, non classificato.1 Insomma la ricerca è una cosa troppo seria e troppo difficile perché ci si possa permettere di confondere la rigidità, che è il contrario dell'intelligenza e dell'invenzione, con il rigore, privandosi così delle svariate risorse che l'insieme delle tradizioni intellettuali della disciplina [la sociologia] - e delle discipline vicine, etnologia, economia, storia - può offrire.2 The bridge is beautiful with all those blue lights! But it is also useless, or almost useless. These words come from a Serbian girl. They can stimulate a study about a research technique I adopted during my fieldwork in northern Kosovo on the construction of ethnicity from the point of view of the symbolic ties between two urban groups - the Serbian and the Albanian communities in the city of Mitrovica - to the urban space, cut off by a river. The words of the girl refer to the new central bridge, reconstructed by the Nato forces at the end of the war3, and which has been since then the ecological ethnic border. The two sentences she expressed are articulated on two different time locations, or, more precisely, on an isochrony and on an allochrony. With these two terms I refer to the verbal construction of a time location where the object of the sentence is put in: in the case of isochrony the time location coincides with that one of the object enounced, while in the case of allochrony it does not4. The heuristic validity of both propositions, concerning the study at hand, comes from two analytical elements: first, the location of the girl at the moment of speaking, and second, the relevant relationship between isochrony and allochrony generally perceived among the population, about the same object (the bridge) at the moment in which the propositions have been said. Regarding the first element, the girl was in front of a small photo exhibition (later referred to as the Photo Exhibition) about the history of the city, set up on the streets and close to an important crossroad, not far from the bridge. The relevance generally perceived of the relationship between isochrony and allochrony generally perceived has been amplified during the last few years, when the city changed from a situation of complete mixité social, to another one of ecological division, managed by administrative and military dispositives, of which one of the main one is the new bridge "with all those blue lights". Consequently, if "the river is beautiful with all those blue lights" refers to the present, "But it's useless, or almost useless" implies that it does not answer - in the speaker's eyes - to the functions it is supposed to have (i.e. to be crossed) and which, in her contemporary historical context, belong to future and stable conditions of ethnic cooperation and cohabitation, or, of course, to a past in which those conditions were part of the everyday life. Thus, we can presume a symbolic tie between the bridge and her history/future, and, in addition to other opinions about the same issue, we can build up a picture of the ethnic "sense" of belonging to the urban territory/space. Keeping together these two elements, isochrony and allochrony, seems to be the condition sine qua non of any ethnography on the construction of memory. In this paper I attempt to do a reflexive exercise about the experience of the Photo Exhibition, considering "reflexivity" as an "empirical" mean, as described by Michael Herzfeld: "The most useful kind of reflexivity is not that of pure selfexamination, but the kind that places the cultural assumption of the ethnographer in question - that clarifies the ethnographic encounter and its limitations as predicated upon the imperfect meshing of two different codes, with its multiplicity of divergent identities and presuppositions. This kind of reflexivity is genuinely empirical (but not empiricist), and it is deployed to a specific purpose, that of intensifying […] the analysis"5. Thus, I will mostly not concentrate on my stereotypes, my "feelings" or "emotions" - although I will start from a self-examination - but 33 ACHAB rather on the social and theoretical conditions laying at the base of my practical decisions and of my assessments. I will proceed step by step, following a gradual construction of increasing specificity until the bottom (or what seems to me to be the most problematic aspect) of the issue at hand. Setting up a Photo Exhibition What did I want to know during my fieldwork? The epistemological assumptions behind my research moved from the recent turns in the anthropological debates, where the matter of the "native point of view" has been critically questioned, and the issue of the ethnographer's position has become central in each ethnographical activity6. The need to adopt such a perspective came also from the political need, in modern anthropology, to deconstruct the discourse about the "Other", which historically gave birth not only to falsifications and to historical mistakes, but also to real myths and "truths", such as, in my case, the "Balkanism", as described by Maria Todorova7. In this perspective, since identity is a multifaceted concept, in which local, regional and religious elements are at stake, to give voice to the social actors about their own local past could be a reflexive activity for the researcher "to do a theoretical elaboration that, through the experience of a third world made by dialogues, raises with the name of culture"8, and at the same time, to see "identity ethnographically, [which] must always be mixed, relational, and inventive. […] [To see that] identity is conjunctural, not essential"9. Moreover, another political need in modern anthropology, is to consider as central the role of the relations between the state (and other local or supra-national political powers) and the "production of localities" and identities10. Thus, ties between people's memories and their own connections with political powers were as much noteworthy in my research. In that specific topographical context, moreover, I would have searched a connection between three main elements: first the urban space, second the military, political and administrative local powers, and third, identity - all of these through the construction of a shared memory on the urban space. During the first weeks of my fieldwork, I started to have conversations with citizens, sharing time sitting in coffee bars, in their homes, or in their offices. I was often invited to feel myself at ease, knowing that what I was doing was a very interesting thing for me, since Mitrovica is a city full of fascinating aspects, not least its past. Especially with people of a certain age, seeing their city nowadays divided and full of international administrators and militaries, I was often told, with deep feelings and emotions, "how it once was beautiful". With people of my age, young workers or students, I was surprised when they pointed their finger to a photographic book about Mitrovica's history I was carrying in my hands, saying: "I never saw this building at that time!" "Here is my home now, I didn't know how my block looked like at that time!" From these spontaneous comments, I asked my informants to help me let people look at their past. I was persuaded that in so doing, I would have stimulated a less accessible area of their minds: memories of their past in the city. Since I was starting from the identitarian association between people and territory - here between people and urban space - collecting memories about this association as remembered from the past, could have offered me a diachronical view of the ethnicity process. Without concentrating myself on specific topics, I would have paid attention, through a participant observation with my translator/informant, to the comments of people, trying to conduct them to speak about the group living on the other side of the river, and of the bridge, and more generally to pay attention to expressions underlying a "We", or "The Serbs"/ "The Albanians", a "They"11. The two wooden panels were tied together, so that four screens were set on, seventeen photos were put on them (photos of buildings and churches/mosques, but not chosen ad hoc) and on the upper side a little label with the title "Old Mitrovica". One of the screens was dedicated to the central bridge, and simply entitled "Bridge", with four photos - in this case chosen ad hoc of the different bridges since the end of the XIX century. On the screen aside I provided a little note book on which people were invited to answer to a question written above: "Which are the meanings you attribute to the river and to the bridge?" Once my collaborator and me finished assembling the exhibition, we put it in the middle of two main crossroads of the city, one in the southern side, and one in the northern one. Each setting lasted one week, comprising of three types of research: participant observation, semi-structured interviews, and auto-writing opinions; all with "casual" pedestrians interested in the exhibition. I started by concentrating on participant observation: all day long out on the streets waiting, observing, and when possible, talking with whoever was looking at the exhibition. But always with a little copybook and a pen in my hands, long hair, clearly being a western stranger, I was not following Erving Goffman's idea of "getting data by subjecting yourself, your own body and your own personality, and your own social situation, to the set of contingences that play upon a set of individuals, so that you can physically and ecologically penetrate their circle of response to their social situation, or their ethnic situation, or whatever. So that you are close to them while they are responding to what life does to them"12. Moreover, the questions I asked were mainly generic and very "journalistic": "What do you think about the new bridge?" "How have the topographic alterations within the city changed your everyday life?". This did not allow me to deeply participate in their sights and comments concerning the photos; on the contrary, I remained "outside" in a difficult position: attempting to catch discourses and observing practices in a public space of intense pedestrian traffic. I only collected general impressions: Before the construction of Gazi Voda [a dam built up in the early '70s] the river was wonderful. Citizens of Mitrovica didn't go to the seaside, because they could swim into the river. The water had much more phosphorus; today I'm scared to swim in it. (Southern part) It was at this level that urban history entered people's answers: an 34 ACHAB everyday space of living, cast into a past which was being constructed without any strong feeling of belonging, nor an accent on cultural difference or identity. One could have argued that the everyday people's needs and priorities were different, that the attention was much more focused on local contingencies, rather than on general structures of senses, and thus, that the two ecological elements were part of a material representation, rather than a symbolic one13. But even with these differences, my problem still remains: opposite to the spontaneous comments about the urban history I had collected by going along with my photographic book, in front of the exhibition my informants expressed "public" opinions, and not "private" feelings connected to the past. What does that "everything" of the last sentence mean? Two aspects of this problem need to be analysed: first, myself (I appeared more as a journalist than as an ethnographer15), and second, the practices of the pedestrians, and the impact of that Exhibition in the public space, on the everyday walks of people, in terms of shared cognitive perceptions and spatial practices. The bridge is the same as it was before. Anyway, I use the footbridge [a little one, build up close to the central bridge]. (Southern part) Distance I will start with Michael Herzfeld's idea of "the formative character of the field". He explains that the ethnographer has to learn from the field, and to take into account the "local understanding"; thus, "To acknowledge the formative character of the field with respect to anthropological knowledge [...] is to realize that one works not with informants, but with cointerpreters"16. In order to set up the exhibition I started my social relations with my two "collaborators", one in each side of the city, asking them for logistic support and help, both in translating and doing interviews. "The social intimacy of the field situation Herzfeld argues later on - the source of anthropologist's earliest and most fundamental reflexivity - permits a critical investigation of the cultural intimacy of the State and other supra-local entities"17. This lack of intimacy came from the fact that I did not consider my informants as co-interpreters, but merely as supportive helpers, or subjects whose voice and practices were to be recorded. Practical reasons were at the base of this "missing": lack of time, troubles with the author's rights of the photos, and the fact that the street was an extremely "cold" setting, which did not allow me to let people stop for a long time, and thus to create together an adequate situation in order to "penetrate the circle of responses" in the Goffmanian sense. All in all, what I was doing was neither a simple classical sit-down interview, or a "nosing around" - as urban ethnography, since the "beginning", seems to keep on doing18, - or a "going-along"19. I was searching closeness while receiving only distance. How can this problem be further critically faced? Trying to go deeper in the analysis, I will refer to Pierre Bourdieu's idea of "distance" in terms of "representations", or "perceptions". In his words, "it is in effect only through measuring the extent and the character of the distance between the objective of the enquiry as perceived by the respondent and as viewed by the investigator, that the latter can attempt to reduce the resulting distortions"20. The particular setting of the exhibition generated a break in the normal walks of citizens along their city. More explicitly in the southern part, the little show was an attraction (the local Albanian TV channel - TV Mitrovica - dedicated a program to that!) that I am a fisherman. The river is important for me. I am still fishing. There are more fishes in the river now, because Trepca [a mine at the periphery of the city] closed. I feel very good when I go near to the river. I do not care about the bridge. I'm not interested to go to the south. I'd like less people in the south. If we try with some mixing they will be violent again. And they will success to have a Kosovo without Serbs. (Northern part) The general impression was that in the north side the two ecological elements had a function (barrier, and often a national barrier), thus that the meanings related to them were been transfigured from a material level to a symbolic one, representing security, national borders, and thus territorial belonging. Even by analyse the discursive constructions of isochrony and allochrony in both communities, it is evident that those locations do not have a relevant qualitative meaning, since the contents of those answers are mainly generic and not intimate. The only Time locations of the river and of the bridge14 North Blue: Past & Present Red: Past Green: Present South Violet: Past, Present and Future Yellow: Present & Future Bright Blue: Future significant element is the perception of contingency much more present in the northern part. I left my house in the other side 15 years ago. The bridge means everything for me. (Southern part). 35 ACHAB was always, in the case of the viewers, a cause of deep feelings of nostalgia and curiosity. Sometimes it brought up disputes around historical events, or different opinions about an actual topic. Viewers were thus interested at different levels, but always watching at the photos with a visible attempt to recall a forgotten past. The urban landscape that constituted the ecological framework within which the Exhibition took place was characterized, in both parts, by a fast growth of new buildings, together with a radical renovation of the streets21. This evident element contributed to underline the exceptional character of an exhibition about urban history in that place, and thus to increase the "break" in the normal walks along the city. If I consider this particular physical and cognitive setting of the exhibition, I can isolate a decisive attribute of my behaviour during the exhibition: I was not watching the photos; thus, I was not doing the same thing as my informants were doing, as it happens in each interview (where both the interviewer and the interviewee speak and listen to each other), but also in a "classical" Photo Elicitation study. We were not looking together at the same thing, but, rather, I was "watching them watching", and, after that, I asked them their opinions, thoughts and memories. In this sense, the photos were explicitly offered to their vision. Moreover, the subjects of the Photo 1. The notebook hanging on one of the screens photos were regarding only them: their history. This was the most explicit and important distance between our two different representations, or definitions, of the situations. This was as truer as in the particular case of the notebook, on which people were invited to express themselves and to answer to the question written above (See Photo 1). first used by John Collier in 195724, during a research within an interdisciplinary project on the relation of environment to mental health. The experiment resulted in very useful terms of stimulation of emotional statements about informants' lives. This text, re-published in 1967, and 1986, has become the "basic" text about photo-elicitation. From Collier's experiment, many others followed (see Table. 1) and there are stories similar to my experience of "spontaneous comments" from which the researcher decided to adopt such method25. But, generally, what all these studies share is precisely the deep conviction that "photo elicitation [can] be regarded as a postmodern dialogue based on the authority of the subject rather than the researcher"26. Furthermore Harper explains, "This procedure is fuelled by the radical but simple idea that two people standing side by side, looking at identical objects, see different things. When a photo is made of that shared view, the differences in perception can be defined, compared and eventually understood to be socially constructed by both parties"27. Thus, it can be said that this method has a potential as long as used for sharing photos with informants. And this was, as we saw, not my case. And, in the case of memory and identity - as Sarah Pink underlines, describing a researcher visiting a photo exhibition together with her informant - the use, in terms of material setting and decisions taken by the researcher, is as fundamental as "a collaborative research [that] allowed her [the researcher] and her informant to work together to create a particular version of the past that extended beyond the limitations set by linearity of a verbal or textual narrative"28. Some empirical final reflections on the exhibition can now be made. The first is related both to the pictures themselves I chose, and to the issue of asymmetry: in that social and political situation, putting old photos of the buildings together with those of the bridge (and even four of the bridge) has probably been too rash; and maybe too ambiguous. I imposed a discourse not only showing photos, but also selecting specific photos (in the case of the bridge), and putting them together with photos not chosen ad hoc. In the case of photo elicitation studies this fact never happens. Eventually, it would have been better to make an exhibition only about the bridge, or another about the urban space, but without any emphasis to the bridge. This would have improved a bit the reciprocity between the informants and myself. A second consideration can be related to my behaviour, far from being, as we saw, an attempt to penetrate the circle of responses. Living my interpreters alone in front of the exhibition, asking them to do what they thought the best way IN ORDER to go in deep with the dialogues. Then talking with them, in order to discuss together the quality of the work, could have also been an interesting way to build up together, as co-interpreters, a final account. About Photo Elicitation This observation makes the issue of asymmetry arise. Indeed, when I "started the game" I was in a higher place within the social hierarchy of different types of "capital", especially of cultural capital in terms of non-involvement in the practical and economic needs22. Thus, I aimed "to reduce as much as possible the symbolic violence which is exerted through the effects [of this asymmetry]"23 by using photographs. I showed them photographs from the archives (this was my assumption - their own photographs, not taken by me) in order to create a common platform, were asymmetry would have been reduced. But this asymmetry did not leave the context, of course, since there was almost no social intimacy between my informants and me. This is a crucial point. In fact, if we look at the literature about "photo-elicitation", we discover exactly the potential to give authority to the informants and not to the researcher. There is a large literature about this research technique. It was Towards a critic of the sight as the main research sense Attempting to follow the initial definition of reflexivity adopted by Herzfeld, if I look at the "cultural assumptions" behind my 36 ACHAB Photo Exhibition, I would formulate one of them - probably the most critical - as follows: Photography is the closest form of representation to reality, that allows the researcher to stay out of the construction of opinions and meanings. Following Bourdieu, comme des choses?"33. Following the concern of "distance", my research activity was a peculiar type of this objectifying, that Herzfeld comments on as "a strong sense of inequality of us studying them, that objectifies "natives" as specimens rather than as colleagues in a negotiation of potentially shared understandings. This, obviously, does not mean that "we" should stop looking at "them", but that we should use our understanding of how this came to be viewed as a simple, commonsensical operation in order to trace its limitations [...]"34. As discussed previously, the "visual" sense was the guiding one in my Photo Exhibition, since no deep dialogue was present, and since participant observation did not work out. If we follow Herzfeld again, "[...] Because the social use of photography makes a selection from the field of the possible uses of photography, structured according to the ordinary vision of the world, the photographic image can be seen as the precise and objective reproduction of reality. But, in a deeper level, only in the name of a naive realism can one see as realistic a representation of the real which owes its objective appearance not to its agreement with the very reality of things (since this is only ever conveyed through socially conditioned forms of perception) but rather to conformity with rules which define its syntax within its social use, to the social definition of the objective vision of the world; in conferring upon photography a guarantee of realism, society is merely confirming itself in the tautological certainty that an image of the real which is true to its representation of objectivity is really objective"29. "Because visual idioms of representation have become quite literally the common sense of the modern, industrial world, they have also become relatively invisible - a revealing metaphor in itself. Resemblance is usually constructed as a resemblance of visible form. Anthropologists have not proved immune to this normalization of the visual. It is noteworthy that even thought - or, indeed, because - visualism has so fully displaced other sensory preoccupation in the representational practices of anthropology, however, the discipline has only recently produced a correspondingly intense analytical concern with visual media, although the situation is now beginning to change"35. I could remain outside of the context; I could simply record opinions and images, as much as those pictures simply recorded reality, and old realities, thus memories. Memories, in my eyes, were cast into the pictures. This assumption deals not only with the photos themselves, but also with a more general approach of fieldwork, which has its roots in the history of anthropology, as a product of "western" intellectual tradition. Anthropological discourse in the last decades has proceeded not only to put light on the construction of myths and historical rhetoric, but it has also denounced, "How anthropology makes its object". The work of Johannes Fabian Time and the Other30 can be seen as one of the major contributions to the deconstruction of this "objectifying" of the other. His deep analysis of the assumptions that since the 17th century are at the base of reflections on the nature of knowledge (since Descartes' res cogitans versus res extensa, throughout the empiricist philosophers), shows how "the visual sense" historically imposed itself as the primary means of knowledge. This "nobility" of the "sight" was directly connected to the emphasis put on "geometry", intended as spatial-graphic conceptualisation, as the best method to communicate knowledge. Anthropology has inherited - and revitalised - this tradition with the result of putting the cultural "other" in another, old time - what Fabian calls allochrony, denying him/her the contemporaneousness with the ethnographer and his society. Thus, we can say that distance in terms of this anthropological reflection directly deals with the "visualist" methods researchers adopt during their fieldwork31, and becomes natural: Fabian writes in this light about visualism as an "ideological predisposition"32. The result, in many ethnographical accounts is the objectifying of the other, because "at the moment in which the origin of knowledge is thought to be firstly a visual perception of objects in space, why should it be a scandal to approach the other - an other society, an other culture or other classes within the society itself - In my understanding, this does not imply that we must refuse visual tools or methods, but that we profoundly need to be aware of the origins of our ideas and epistemologies laying at the base of the "discursive truths" we keep on producing. And, again, this issue - distance - cannot be reduced to a simple critic of visualism as an ideology. Bourdieu, for instance, sees distance not as a problem, but as a necessary balance between the engagement of the researcher and the need to be reflexive during an observation or an interview36. My distance, in terms of representations of the situation, was mainly due to the epistemological and cultural assumptions behind my use of photography. Deep and thin, centred in the visual sense, a distance which no thick description at the moment of "being there" - immediately, or soon after, during my evenings at home in Mitrovica - would have been able to disclose. Acknowledgement Helpful revisions and comments of this paper have been provided by Hanna Harris, from the University of Helsinki, and Fabio Quassoli, from the University of Milan Bicocca. I want to thank them. Notes 1 J. Clifford, The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, Cambridge, Cambridge University Press 1988 (quotation from the Italian translation, 1999, 176). 37 ACHAB 2 P. Bourdieu, L. J. D. Wacquant, Réponses. Pour une anthropologie réflexive, Paris, Editions du Seuil 1992 (quotation from the italian translation, 1992, 179). In this paper I will take suggestions from authors coming from different disciplinary traditions (as proposed by Bourdieu), such as anthropology, sociology and ethnology, and create a dialogue among them on their most significant common point, "fieldwork". 3 By "war" I refer to the Nato bombing against the Federation of Yugoslavia in spring 1999. 4 I refer here to the essay by Johannes Fabian, Time and the Other. How Anthropology makes its Object, New York, Columbia University Press 1983, where the author speaks about allochrony in another sense. I will follow later his proposal of considering allochrony as a critical procedure within the anthropological literature. 5 M. Herzfeld, Epistemologies, in Id, Anthropology. Theoretical Practice in Culture and Society, Malden-Oxford, Blackwell 2001, 45-46. 6 For a general (but deep) description of such turns, see F. Rahola, Pratiche etnografiche e sapere antropologico, in A. Dal Lago, R. De Biasi (eds), Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale, Roma-Bari, Laterza 2002, 27-53. 7 M. Todorova, Imagining the Balkans, New York, Oxford Univesity Press 1997. 8 U. Fabietti, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, RomaBari, Laterza 1999, 45 (my translation). 9 J. Clifford, The Predicament of Culture, 10-11. As commented by Ger Duijzings, in Kosovo, as in many of the adjacent areas, identity and ethnicity are not only contested imagined realities, politically constructed during the past, and continuously in the present, but also recently subjected to simplifications, reductionist interpretations, and used as mediatic and political tools to describe and explain the acts of violence. See G. Duijzings, Religion and the Politics of Identity in Kosovo, New York, Columbia University Press 2000, 18 and further. 10 See A. Appadurai, Modernity at Large. Cultural Dimension of Globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota 1996; M. Herzfeld, Orientations: Anthropology as a Practice of Theory. In Id, Anthropology, esp. 10-15. These relations are central in studies on nationalism and ethnicity: see for instance the case of Macedonia in the recent works by K. Brown, The Past in Question. Modern Macedonia and the Uncertainties of Nation, Princeton, Princeton University Press 2003, and P. Vereni, Vite di confine. Etnicità e nazionalismo nella Macedonia occidentale greca, Roma, Meltemi 2004. 11 I was inspired by a European study on "border identities" carried out in 2002 on divided cities at the border of Europe: A. Galasinski, C. Rollo, H. U. Meinhoff, Urban Space and the Construction of Identity on German-Polish Border, in Meinhof U. H. (ed), Living (with) Borders. Identity Discourses on East-West Borders in Europe, Sydney, Ashgate 2002, 120-145. 12 E. Goffman, On Fieldwork, in "Journal of Contemporary Ethnography", July 1989, 125. 13 This was in fact the most critical point in the comparison between the local (rather material) and the international (symbolic) representations of the river and of the bridge. Significant to this point is the film by Danis Tanovic, No Man's Land (Bosnia 2001). 14 Results from the discursive analysis of all the answers recorded. 15 Who is the ethnographer? This question cannot have an automatic answer. His identity during the fieldwork is always a result of a dialectic of representations. See U. Fabietti, Antropologia culturale, 65-66. 16 The idea of "intimacy" has been underlined by Jenkins in order to go beyond the dualist positions of anthropologist vs. indigenous subject of anthropology: "[They] are engaged in the same kind of project, exploring and constructing that world; and, most importantly, language and understanding are equally features of this world, participating in these projects as they shape behaviour and receive impressions.", T. Jenkins, Fieldwork and the Perception of Everyday Life, in "Man", 29, 2, 1994, 434. Jenkins starts from Bourdieu's idea of "A Theory of Practice" and goes beyond it, approaching Herzfeld's conception of "A Practice of Theory". 17 M. Herzfeld, Epistemologies, 49. 18 See G. Semi, Nosing Around. L'etnografia urbana tra costruzione di un mito sociologico e l'istituzionalizzazione di una pratica di ricerca. Working Paper, Dipartimento di Studi Sociali e Politici, Università degli studi di M i l a n o : h t t p : / / w w w. s o c i o l . u n i m i . i t / p a p e r s / 2 0 0 6 - 0 2 22_Giovanni%20Semi.pdf. 19 See M. Kusenbach, Street phenomenology. The go-along as ethnographic research tool, in "Ethnography", 4, 3, 2003, 455-485. She proposes a "goalong" with informants in their everyday walks along the city as a good research tool in order to analyse some issues, such as spatial practices and biographies. 20 P. Bourdieu, Understanding, in "Theory, Culture and Society", 13, 2, 1996, 19. 21 In the north part the exhibition was at a crossroad generally considered the " centre " of Northern Mitrovica . There, the UN Administration painted two building facades with fluorescent colours. Due to this fact, I was frequently told "welcome to Disneyland". 22 See P. Bourdieu, Réponses, Italian translation, 60 and passim. 23 P. Bourdieu, Understanding, 19. 24 See J. Collier, Photography in Anthropology: A Report on Two Experiments, in "American Journal of Anthropology", 59, 5, 1957, 843-859. 25 D. Harper, Talking About Pictures: A Case for Photo Elicitation, in "Visual Studies", 17, 1, 2002, 15. 26 Ibid. 27 D. Harper, Talking About Pictures, 22. 28 S. Pink, Doing Visual Ethnography: Images, Media and Representation in Research. London, Sage 2001, 73. 29 P. Bourdieu, The Social Definition of Photography, in J. Evans, S. Hall (eds), Visual Culture: a Reader, Sage, London 1999, 164 (my italic). Here Bourdieu refers to the voice Photography in the Encyclopédie française, where it is said that "The photographic plate does not interpret. It records. Its precision and fidelity cannot be questioned". 30 See note 4. 31 Not only during fieldwork, since writing has as much this potential of reification. 32 J. Fabian Time and the Other (quotation from the italian translation, 2000, 134). By the way, I see here a direct connection with an actual topic. The event of the graphics about Mohammed published in September 2005 on a Danish newspaper, and the protests that followed some months later generating a global shock, have been commented, from this critical perspective, by Federico Rahola, La serialità sfocata della guerra permanente, in "il manifesto", 1.3.2006. His reflections about the way we ("Westerns") "look at" the war in Iraq (starting from a comparison between the graphics of Mohammed and the photos of the tortures at Abu Ghraib) reflects a racist logic, since racism is - also and mostly - a matter of "sight" and "position". "We" took those pictures, and drew those graphics in a so incommensurable, asymmetrical high, that we lost any sense of reality (and of humanity), falling into the paranoia of speeches about human rights like "the freedom of the press", or of our scandalized eye in front of tortured victims. 33 Ibid, 144. 34 M. Herzfeld, Epistemologies, 35. 35 M. Herzfeld, Orientation, 16-17. 36 See P. Bourdieu, Understanding, 19. Here, it must be said, Bourdieu merely speaks of interviews, and not of participant observation. 37 From D. Harper, Talking about Pictures, 16. 38 ACHAB Appendix Photo 2. The screen dedicated to the central bridge ("most" means "bridge" in serbo-croatian) Photo 3. Another screen Table 1. Photo Elicitation: forms and topics37. Dissertations Social class/social 2 (Guschker 2000; Organization/family Sustik 1999) Community historical ethnography Identity/biography/ autobiography 1 (Sampson-Cordle 2001) Books Articles, reflections larger studies 3 (Barndt 1980, 1990; Bunster B. 1989) 2 (Collier 1957; Guindi 1998) 2 (Calderola 1985; Steiger 1995) 2 (Harper 2001; Schwartz 1992) 2 (Chiozzi 1989; Rusted 1995) 6 (Orellana 1999; Suchar 1988, 1992; Suchar and Rotenberg 1994; van der Does et al. 1992; Wagner 1978) 3 (Harper 1987b, 1994; Spence 1986) 7 (Blinn and Harrist Clark 1999; Gold Hethorn and Kaiser Jansen 1991; Kenney Smith 1999) 1 (Faccioli and Zuccheri 1998) Culture/cultural studies 39 on Articles, research described ACHAB fully 1991; 1991; 1999; 1993; 8 (Craig et al. 1997; Curry and Strauss 1986; Harper 2000; Kretsedemas 1993; Messaris and Gross 1977; Snyder 1990; Snyder and Ammons 1993; Stiebling 1999) A. Social Organization /Social Class/Family 1. Sustik, Anne. 1999. 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Etnicità e nazionalismo nella Macedonia occidentale Greca, Roma, Meltemi 2004. 41 ACHAB Tre preghiere collettive dei musulmani milanesi Spunti di riflessione sulla fotografia etnografica testo e foto di Lorenzo Ferrarini Le fotografie presentate in questo reportage sono state scattate a Milano, in occasione di tre diverse festività del calendario musulmano. L’id al-fitr (festa di rottura del digiuno, conclusiva del mese di ramadan, si svolge il primo giorno del mese successivo, šawwal) del 1426 dell'egira (03/11/2005), l’id al-kebir (grande festa, decimo giorno del mese di du ‘l-hiğğa, coincide con i riti di sacrificio durante il periodo del pellegrinaggio alla Mecca, quindi si chiama anche id al-adha) dello stesso anno (10/01/2006) e infine l’id al-fitr dell'anno 1427 (23/10/2006). Le foto mostrano delle preghiere collettive di larga partecipazione, nelle prime due occasioni presso il Palalido di piazzale Stuparich e nella terza al velodromo Vigorelli di via Arona. In tutte e tre le occasioni sono stato accompagnato da Osama, ventiseienne egiziano di Sharqiyya, sobborgo del Cairo. Ci siamo conosciuti in una scuola di italiano per stranieri anni fa e lui ha apprezzato il mio interesse per la sua cultura, religione e modo di vita qui in Italia, così mi ha invitato alla “nostra festa”, anticipandomi che ci sarebbe stata molta gente e che sarebbe stato molto bello. Osama partecipa a queste preghiere senza essere legato a particolari associazioni religiose, semplicemente considera importante vivere la preghiera del giorno di festa con il maggior numero di correligionari possibile. Al punto che, sebbene quest’anno in Egitto l’id al-fitr sia stato celebrato con un giorno di ritardo rispetto alla data della preghiera organizzata in Italia, dove sono stati seguiti i mullah sauditi (spesso sorgono controversie anche per questioni di fuso orario e di visibilità della luna), lui e i suoi amici hanno comunque partecipato alla preghiera comunitaria. L’accesso al luogo di preghiera è assolutamente libero, dentro si trovano soprattutto due tipologie di persone: musulmani che pregano, si ritrovano, festeggiano, ascoltano la predica dell’imam, e qualche giornalista che fotografa e fa riprese: la politica degli organizzatori (legati all’UCOII e al Centro Culturale Islamico di viale Jenner) per queste occasioni, infatti, è di apertura ai mezzi di informazione, sebbene gli eventi non siano per nulla pubblicizzati. Ero in compagnia di Osama, e a volte anche di amici o colleghi Foto 1: 10/1/2006, id al-kebir, si prende posto per la preghiera del Leav (Laboratorio di Etnomusicologia e Antropologia Visuale dell’Università degli Studi di Milano), tra cui donne, che avevano accesso alla zona riservata al genere femminile, coi quali abbiamo anche realizzato riprese video, interviste e registrazioni sonore. La prima scelta significativa che mi si è presentata è stata quella di dove 42 ACHAB Foto 2: 3/11/2005, id al-fitr, la prosternazione, suğud un possibile supporto visivo a rappresentazioni minacciose, di un’alterità impenetrabile e inconoscibile (sul genere di foto 2). Dovendo decidere quali aspetti dell’evento rappresentare, se porre l’accento sulla celebrazione religiosa ristretta al momento topico della preghiera, o se estendere lo sguardo alla festività come momento di socialità ed incontro (foto 8 e 9), nonché di scambi commerciali che coinvolgono anche i simboli religiosi (foto 5), mi sono reso conto che una selezione di fotografie del primo tipo poteva accompagnare e supportare un discorso essenzialista, sostenendo la tesi dello scontro di civiltà soprattutto come scontro di tradizioni religiose. Un’analisi antropologica dovrebbe invece basarsi su una visione più ampia, includendo anche i processi di cambiamento quali i tentativi di evangelizzazione in corso poco lontano dal luogo di preghiera (foto 6). Solitamente coinvolgo nel lavoro di revisione dei materiali anche chi ha partecipato all’evento: sapere cosa Osama pensi delle fotografie, quali apprezzi maggiormente, quali situazioni avrebbe sottolineato al mio posto e che uso faccia delle copie che gli stampo, fornisce utili informazioni sui significati che attribuisce a queste feste (magari da inserire in una ricerca più ampia sull’immigrazione dell’area urbana milanese). Un'altra posizionarmi: al Palalido mi sono potuto sistemare sugli spalti in mezzo ai fedeli, mentre nel caso del velodromo Vigorelli, essendo arrivato a preghiera già iniziata, non ho potuto scegliere la visuale migliore: mi sono trovato su una scalinata vuota e ho usato il teleobiettivo per riempire l’inquadratura. Essere vicini ai soggetti da fotografare influenza la scelta dell’obiettivo e l’impressione di partecipazione che si vuole dare a chi guarderà le immagini: le focali corte, infatti, si accompagnano al cosiddetto “effetto presenza”, dato dalla dilatazione dei piani e dall’accentuazione del primo piano rispetto allo sfondo. Il teleobiettivo, viceversa, comprime i piani dando l’impressione di osservare da lontano una scena ingrandita. Questo ha ovviamente delle conseguenze sul piano ideologico, quando si voglia sottolineare un’affinità o un’estraneità rispetto all’individuo o al gruppo di persone ritratto (si confrontino ad esempio le immagini 3 e 7). Esiste anche un modo per esprimere dei veri e propri giudizi sui propri soggetti, che agisce o attraverso la selezione di atteggiamenti individuali (ad es. foto 1 e 4), comunicando un’impressione di umanità e familiarità, oppure al contrario mostrando le persone come una massa omogenea, ottenendo un effetto magari esteticamente piacevole ma fornendo nel contempo 43 ACHAB Foto 3, a sinistra: 10/1/2006, id al-kebir, l’inizio della preghiera, la pronuncia della niyya Foto 4, a destra: 3/11/2005, id al-fitr, durante la preghiera, due bambini salutano una bambina dall’altro lato del palazzetto, nella parte riservata alle donne 44 ACHAB Foto 5, a sinistra: 10/1/2006, id al-kebir, bancarella che espone souvenir e poster raffiguranti i luoghi santi Foto 6, in basso: 3/11/2005, id al-fitr, un uomo regala bibbie in francese e arabo poco lontano dal Palalido prospettiva di ricerca che ho trovato interessante, sviluppabile con la pratica del feedback, riguarda la cosiddetta cultura visuale, ovvero l’estetica, i significati e le modalità di fruizione delle immagini di una specifica cultura. Sto costruendo un mio modo di fotografare attraverso i miei studi, le esperienze con la macchina fotografica sul campo e i contatti con altri fotografi. Sia le letture teoriche, sia la pratica, stanno facendo crescere in me la convinzione che l’utilizzo di fotografie e materiali audio-video in antropologia debba partire dal fondamentale presupposto per il quale le attrezzature di volta in volta usate non raccolgono dati grezzi, generando un sapere neutro, ma sono invece un mezzo di creazione di conoscenza interpretativa influenzata, oltre che dalle caratteristiche tecniche del medium utilizzato, soprattutto dallo sguardo e dalle idee del ricercatore, che ne è a tutti gli effetti autore. Per questo motivo ho deciso di accompagnare le immagini con un breve testo che, oltre a contestualizzare, mostrasse anche quali significati si possono far emergere da una serie di foto. Scopo secondario è anche illustrare le mie modalità di lavoro. In questo modo vorrei sottolineare l’importanza di un’analisi critica dei materiali e della riflessività (espressione dopotutto presa dall’ambito semantico del visuale) anche in fotografia etnografica. * Portfolio on-line dell’autore sul sito: www.flickr.com/photos/lorenzoferrarini 45 ACHAB Foto 7, in alto a sinistra: 23/10/2006, id al-fitr, la pronuncia del takbir Foto 8, in alto a destra: 10/1/2006, id al-kebir, la preghiera dei ritardatari e giochi di bambini Foto 9, in basso a sinistra: 10/1/2006, id al-kebir, i bambini sparano petardi per festeggiare Foto 10, in basso a destra: 23/10/2006, id al-fitr, la preghiera dei ritardatari al centro del velodromo Vigorelli 46 ACHAB Sostenere il mondo Osservazioni sul concetto di dharma nel brahmanesimo di Viola Gambarini Il concetto di dharma è senza dubbio uno dei punti focali della cultura hindu. Il campo semantico di questo termine è molto vasto: nella costituzione indiana è usato sia come parola ufficiale per 'religione', sia nella definizione della Repubblica Indiana come 'stato laico'. Nelle lingue indiane moderne, soprattutto nel sanscrito moderno e nelle lingue del nord dell'India, ha comunemente assunto il significato di 'religione'. La centralità del termine dharma nella tradizione, e la complessità e la ricchezza delle sue implicazioni, sono tali da richiedere un'analisi più approfondita di questo concetto, i cui tentativi di traduzione con una singola parola o definizione continuano a presentare delle difficoltà. L'etimologia fa derivare il termine dalla radice dhri-, che ha il significato primario di 'supportare', 'sostenere', 'mantenere'. Il dharma è la 'forma' delle cose come esse sono e il potere che le conserva tali. Le fonti della tradizione che insegnano che cosa è dharma sono tre: il Veda (i sacri testi rivelati)1, la Smriti (i trattati della tradizione)2, la 'buona consuetudine' (ovvero la condotta dei buoni e dei sapienti)3. mantenere. Paul Hacker arriva a sostenere che proprio il carattere empirico del dharma abbia permesso di mantenere un'unità all'interno del mondo complesso dell’hinduismo: il concetto di dharma "è stato, in tutta la sua indeterminatezza e nel suo empirismo, il filo unificatore dell'arianesimo, il solo fattore che in un modo o nell'altro ha tenuto insieme l’hinduismo nella sua multiformità"8. Nel Rigveda troviamo il termine dharman, neutro, indicante l'atto di 'sostenere', usato spesso in riferimento all'azione degli dèi di supportare il creato, separare cielo e terra e differenziare gli esseri l'uno dall'altro. Emerge l'importanza, nella cosmogonia vedica, dell'idea di una primigenia azione che dà inizio al cosmo separandone e differenziandone le parti. Dharma è quindi originariamente un'azione, l'azione di mantenere il cosmo nella sua articolazione tramite il rituale di riattualizzazione della creazione primigenia. Questo è il compito dell'uomo, che realizza il dharma attraverso l'esecuzione dei riti vedici e dei doveri tradizionali. Bisogna sottolineare che il significato di dharma è da intendere principalmente in senso prescrittivo: ciò che è 'giusto e proprio' è ciò la cui realizzazione è data come compito a ogni creatura, che solo in tal modo diventa ciò che essa propriamente è. Dharma non è un dato di fatto, bensì un orizzonte normativo. Questa analisi evidenzia il carattere attivo del concetto di dharma, che nel suo uso più antico indica non tanto un ordine stabilito quanto una continua esecuzione9. Nell'antico uso di dharma l'idea di un ordine naturale effettivo nel mondo trova poco spazio, poiché nella visione vedica della realtà non c'è un mondo oggettivo in cui il dharma si inserisce e 'funziona', bensì l'uomo vive in relazione di reciprocità con il cosmo, per cui l'agire dharmico rituale e il corso della natura sono coimplicati. Risulta dunque fondamentale il ruolo dell'operatività umana, in quanto dharma è il continuo mantenimento dell'ordine e della norma sociale e cosmica. C'è quindi un profondo nesso nella cultura hindu tra l'andamento del cosmo nel suo complesso e l'agire del singolo, concepito come parte esistente, non di per sé, ma solo in riferimento a un tutto organico, a una struttura di relazioni complementari e inscindibili10. Per questo, dharma può appropriatamente essere definito come "l'ordine sociocosmico, del quale si può dire che è buono semplicemente in quanto è necessario al mantenimento dell'esistenza felice del tutto costituito dal 'trimundio' - trailokya (terra, cielo e spazio intermedio, o, più tardi, terra, cielo e regioni infere)"11. Come l'uomo è essenzialmente in relazione con il cosmo, così legge morale e legge 'naturale' non si distinguono: il bene dell'uomo è il 1. Una cornice di corrispondenza Il dharma si colloca dunque fra rivelazione, tradizione e consuetudine. La legge dharmica è norma immutabile ed eterna. In che misura è giustificabile l'interpretazione che vede in essa un elemento di immobilismo per la realtà sociale hindu? Il rispetto del dharma è realmente un ostacolo al cambiamento e alla valorizzazione dell'iniziativa umana nel mondo? E, ancora, qual è il rapporto tra tale norma, che descrive 'ciò che è giusto', e il mondo reale, inevitabilmente imperfetto? Nel termine dharma si esprime infatti una tensione tra due significati: dharma descrittivo, presa d'atto di ciò che è, e dharma prescrittivo, enunciazione di ciò che dovrebbe essere. Alcune interpretazioni, come quella di Kumarila4 e della Mimamsa5, considerate le voci della 'ortodossia' (l'uso di questo termine richiede, in ambito hindu, particolare accortezza), indicano nel Veda la fonte esclusiva del dharma, negando il ruolo del consenso umano, delle convenzioni e del comportamento etico; sottolineano in tal modo la natura trascendente del dharma. Altre linee di pensiero considerano invece il dharma un concetto radicalmente empirico; a questo proposito si parla, in relazione all’hinduismo, non tanto di un'ortodossia, quanto di una 'ortoprassia'6. Viene in tal modo stabilito un forte nesso tra dharma e comportamento concreto, che sottolinea il significato di dharma come Ordnung im Vollzug7, ordine in esecuzione, che è compito dell'agire umano nel mondo realizzare e 47 ACHAB bene dell'universo, l'agire dharmico è proprio di chi comprende e concretizza nella propria esistenza tale relazione che, sola, dà senso all'operare umano. La visione dharmica del mondo è dunque una 'cornice di corrispondenza' tra quelli che noi consideriamo i due poli dell'uomo e della natura. L'agire umano supporta l'ordine naturale, incarna la realizzazione del dharma, e viceversa il dharma sostiene tutte le creature, mantenendole nella loro propria 'forma' e permettendo all'uomo un'esistenza giusta. Appare chiaro il rapporto di reciprocità che lega la legge del dharma e l'operare dell'uomo, cosmologia ed etica, secondo un rapporto che Halbfass chiama di 'ambivalenza causale' per il quale "il dharma stesso è questo sostenere che tocca all'uomo competente; ma è anche la condizione alla quale tale sostenere è possibile. Esso protegge i suoi protettori. […] In questo senso, dharma è 'ciò che sostiene' come anche ciò che 'deve essere sostenuto'"12. Indagare il concetto di dharma e le sue sfaccettature significa dunque riflettere sul rapporto tra l'agire umano e il mondo in cui esso si trova inscritto, rapporto che sembra configurarsi non come terzo che verrebbe ad aggiungersi ai due poli 'primari', dati, dell'uomo e del mondo, ma come punto di scaturigine, apertura di senso che inscrive il mondo e l'uomo, che informa l'uomo-con-il-suo-mondo. considerare le indicazioni del dharma generale, comune a tutti, come un aspetto secondario rispetto alle ingiunzioni dharmiche specifiche. Il dharma risulta così essenzialmente una pluralità di innumerevoli regole singolari. 3. Identità multiforme Per renderci conto di come il dharma orienta e tiene insieme il mondo multiforme dell’hinduismo, possiamo riferirci a uno dei testi fondamentali della tradizione, le Leggi di Manu, che si ipotizza abbia raggiunto la forma in cui la conosciamo verso la fine del II secolo d.C. L'opera affronta una grande varietà di argomenti, che sono però strettamente interconnessi nel pensiero hindu in quanto costituiscono i diversi aspetti della vita umana attinenti al dharma. La gamma molto ampia di ambiti considerati e la casistica estremamente dettagliata mostrano la volontà di estendere le norme del dharma alla realtà in tutte le sue sfaccettature, rendendola un sistema ordinato che è possibile comprendere e perciò padroneggiare. Le Leggi di Manu si collocano in modo molto particolare nella tradizione sacerdotale ortodossa. L'opera è stata infatti interpretata come l'espressione della reazione brahmanica all'ideologia dei rinuncianti, Vishnu addormentato sul serpente diffusasi con l'opera di Ananta - Tempio di Deogarh Mahavira e di Siddharta Gautama il Buddha nei secoli V-VI a.C. La trasformazione fondamentale è data dall'affermarsi, nel mondo indiano, del valore dell'ahimsa (non-violenza, in-nocuità, in-nocenza) e della pratica del vegetarianismo, e dunque di un ideale di purezza di fronte a cui le competenze sacrificali perdono supremazia. La reazione brahmanica consiste allora nel tentativo di appropriarsi dei nuovi valori. Manu e segna un momento critico nella tradizione sacerdotale ortodossa. È un tentativo sia di riconsolidare un retaggio già antico, sia di riorientarlo secondo i nuovi principi; nelle Leggi di Manu è visibile la volontà di unificare la cultura arya in un quadro di valori coerente, che permetta di riaffermare la supremazia brahmanica secondo i nuovi criteri prevalenti. Il testo accosta diverse regole di vita; giudica ogni situazione che presenta, ma non per questo un comportamento valutato positivamente ne esclude un altro, diverso, se altrettanto corretto. Quello che dobbiamo cercare di capire è se questi principi siano in contrasto gli uni con gli altri, se siano inconciliabili oppure semplicemente diversificati. La frammentarietà dell'opera non impedisce infatti che in essa si esprima una compiuta e precisa visione del mondo. Manu mira ad abbracciare la totalità delle situazioni possibili, e avanza la pretesa di enunciare le regole del dharma in un trattato valido per tutti. Ma 2. Un elemento di identità Accanto al significato di dharma riferito all'ambito propriamente rituale e normativo, per cui l'azione dharmica contribuisce a realizzare e mantenere l'ordine del cosmo tramite l'adempimento dei rituali, troviamo un uso di questo termine nel senso più generale di 'qualità essenziale' o 'attributo'. Questo aspetto è spiegato dall'uso passivo del verbo dhri-, in riferimento a ciò che viene supportato dall'essere al quale inerisce come attributo qualificatore. Tale accezione di dharma ne mette in evidenza la funzione di elemento distintivo, che, secondo le interpretazioni 'ortodosse' già nominate, impedisce di farne un principio etico e universalistico (tendenza osservabile invece in alcune parti della letteratura hindu, come il Mahabharata, e negli editti di Ashoka). Dharma, nella visione ortodossa, è infatti principio di differenziazione, che traccia i confini tra chi è hindu e chi non lo è, distingue i saggi dagli altri uomini, detta le regole della separazione castale e ordina gerarchicamente la società. L'accento posto dall'ortodossia brahmanica sul valore distintivo del dharma e sulla impossibilità di derivarne le regole da principi razionalizzabili e universalizzabili (come l'ahimsa, la non-violenza, per esempio), esprime la volontà di mantenere la specificità della cultura hindu di fronte alla commistione culturale che si verifica nel corso della storia (che invece viene incoraggiata da altre voci della cultura indiana, primo fra tutti l'imperatore Ashoka). In particolare, l'avversario e l'interlocutore dell'ortodossia è il buddhismo, che si diffonde enormemente nel subcontinente nei primi secoli dell'era volgare. Grazie a questi mutamenti culturali gli 'ortodossi' elaborano posizioni teoriche che si vogliono in opposizione agli 'eretici' con cui si confrontano, ma che inevitabilmente subiscono l'influenza degli avversari e ne assumono concetti e problemi. Porre l'accento sulla funzione distintiva del dharma significa 48 ACHAB le norme etiche non sono dedotte dall'esistenza di una natura umana universale. L'attenzione delle Leggi di Manu è puntata sul particolare, sulla considerazione delle circostanze in cui un atto è compiuto. L'opera determina con rigore il modo corretto di comportarsi in ogni circostanza, a seconda della situazione specifica in cui chi agisce si trova. Questo modo di procedere permette al sistema di norme dharmiche di essere valido per tutti, poiché le circostanze considerate sono tante da permettere a ognuno di ritrovare il proprio caso specifico. Il testo prevede sempre una serie di alternative, mantenendosi in bilico tra l'enunciazione della condizione ideale e il confronto con una realtà contraddittoria. L'ipotesi sostenuta da Smith e Doniger è che il testo faccia fronte a questa realtà prestando maggior attenzione ai dharma specifici piuttosto che al dharma comune: "Ogni aggiunta rappresenta in realtà una sottrazione rispetto a qualunque legge universale. Non resta molto del dharma assoluto o comune, di cui i testi parlano, se mai ne parlano, come di un'ultima, e non di una prima istanza"13. 4. Universale polifonico Il dharma universale consiste proprio in questa pluralità coerente di dharma specifici (svadharma), tramite i quali la norma eterna 'sostiene' il mondo. Questa dottrina dello svadharma implica la consapevolezza della molteplicità che caratterizza l'azione umana; essa si basa sull'idea che il cosmo necessiti di un'articolazione, della differenziazione interna di cui ci parlano i miti cosmogonici hindu. Il mantenimento di questa varietà è la condizione di esistenza del cosmo e della società umana: nella società hindu "tutti i ruoli sono ugualmente validi e necessari (benché non ugualmente buoni). L'azione e la varietà sono i valori di questo sistema"15. L'idea fondamentale è quella di una stretta complementarità fra le parti, che formano un sistema di relazioni definite dal criterio della purezza. "La dottrina dello svadharma nell'induismo ortodosso è un sistema etico fondato sul pluralismo inerente al sistema sociale delle caste (il cui fine è il mantenimento dell'equilibrio sociale e morale)"16. Il pluralismo e la diversificazione sono dunque il fondamento dell'ordine dharmico, che trova la sua unità nell'articolazione interna delle differenze. Le Leggi di Manu, la maggiore opera sul dharma, dedicano grande attenzione alla specificità delle situazioni umane concrete. Questo ci dà un'indicazione preziosa per intendere un concetto complesso come quello di dharma: Manu rappresenta infatti il tentativo di rendere la norma eterna applicabile in questo mondo, ci mostra il nesso profondo che intercorre tra il carattere di eternità, di trascendenza del dharma e il suo significato attivo, l'ordine che sostiene il mondo e che nel mondo, dalle creature di questo mondo, è mantenuto grazie a un continuo operare dal carattere necessariamente plurale e concreto. "La carne non si può mai avere senza usare violenza a creature con il soffio della vita, e l'uccisione di creature con il soffio della vita non porta in cielo, quindi non si deve mangiare carne. […] Si può mangiare la carne che è stata consacrata con l'aspersione di acqua, o quando i sacerdoti lo desiderano, o quando si è correttamente impegnati in un rituale, o quando il soffio vitale è in pericolo" (Manu, V, 48, 27). La realtà ci mette di fronte a situazioni in cui non esistono soluzioni soddisfacenti, poiché in alcuni casi non è possibile seguire la norma di comportamento ideale. Questi sono i punti in cui il testo di Manu sembra contraddirsi: esso permette un comportamento e subito dopo enuncia la norma secondo la quale quello stesso comportamento è da evitare. Entrambe le affermazioni sono però giustificate: Manu procede spiegando come ci si dovrebbe comportare idealmente, poi considera anche i 'casi estremi', situazioni cioè in cui non è possibile seguire tale regola ideale, ne prende atto, e sottopone anche questi a norme precise. Il testo mostra in questo modo di accettare la fallibilità umana come dato ineliminabile: "non fare questo, dice Manu, ma, se lo fai, ecco cosa devi fare per riparare.[…] La relatività dei dharma - diversi non solo per persone diverse, ma anche per la stessa persona in tempi e luoghi diversi - rende possibile affermare una serie di ideali differenti, uno dopo l'altro, tutti veri (per qualcuno, in un dato momento, in un certo luogo)"14. La forza del sistema normativo di Manu sta nella 'sensibilità al contesto', che gli permette di declinare il dharma nelle sue molteplici forme, operazione che consiste non nel modificare la norma eterna a seconda delle circostanze, ma nel trovare la regola corretta per ogni singola situazione. L'attenzione ai casi singoli, agli specifici dharma, non conduce, ma anzi preserva Manu dal relativismo: il testo non lascia libertà di scelta, è fortemente teso a fornire un sistema normativo completo, e indica, per ciascuna circostanza data, una cosa sola da fare. La determinazione del comportamento da seguire non è mai lasciata al singolo: la norma dharmica, grazie alle sue articolazioni interne, sa prescrivere la regola corretta in ogni circostanza. Note 1. Il Veda è costituito da quattro raccolte di inni: Rigvedasamhita, Samavedasamhita, Yajurvedasamhita, Atharvavedasamhita. Poiché costituisce la rivelazione raccolta direttamente dai veggenti (i rishi), il Veda si identifica pienamente con la conoscenza, contiene in sé la fonte e la giustificazione di ogni sapere: "Veda ha la stessa radice di video, che indica la visione in quanto strumento di conoscenza. Il perfetto, che esprime un risultato acquisito, ha il senso di sapere" (Ernout - Meillet 1959, s. v. viso; cfr. anche il greco oida, perfetto di oraw, con valore di presente nel senso di 'so'). Il Veda è indicato unanimemente come la fonte primaria del dharma. I testi vedici però contengono pochissime norme esplicite riferite al dharma, e quando si afferma che essi ne sono il fondamento non ci si riferisce propriamente ai testi, bensì alla conoscenza nel suo complesso, nota agli uomini o meno: che sia stata rivelata o no, che sia stata tramandata o sia andata perduta. 2. La Smriti, 'memoria', indica l'insieme dei testi che costituiscono la tradizione hindu, il sapere tradito grazie alla memoria umana e che ha per fonte autori umani. Nella sua accezione più ampia, la Smriti comprende trattati dottrinali, le due grandi opere dell'epica hindu (Mahabharata e Ramayana) e i Purana, di carattere principalmente mitologico. In senso 49 ACHAB 7. Hacker 1978 II, p. 512. 8. Hacker 1978 I, pp. 508-509. 9. "Ci sono due forme dell'agire pratico, come ha indicato Aristotele: una forma di tale agire è esemplificata dalla costruzione di navi, che termina quando l'obiettivo è raggiunto, ovvero quando una nave è costruita, mentre l'altra forma è come una vita virtuosa o suonare il violino, qualcosa che non finisce poiché non ha di mira un prodotto, e ricerca la soddisfazione nell'esercizio di un certo tipo di attività. […] Il dharma è [un agire pratico] del secondo tipo". J. N. Mohanty, La razionalità pratica nel pensiero indiano, in Squarcini 2002, pp. 173-181. Ibidem, p. 180. 10. Sulla stretta interdipendenza delle 'parti' rispetto al 'tutto' nella visione del mondo hindu, cfr. Dumont 1991. L'analisi di Dumont, pur concentrandosi principalmente sul rapporto tra le parti e l'insieme nel mondo sociale, propone una lettura del concetto di 'individuo' utile alla comprensione dei rapporti tra singolo e cosmo nella cultura hindu. 11. Biardeau 1985, pp. 61-62. 12. Halbfass 1988, p. 318. 13. Ramanujan, cit. in Doniger 1996. 14. Doniger, 1996, pp. 60, 63. Halbfass riporta la seguente interpretazione dei passi vedici riguardanti il sacrificio cruento: "Such rituals […] are not put forth as something that ought to be done. They are taught only in the following sense: 'If someone wants to hurt, then this is an effective method'", Halbfass 1988, p. 89. 15. Doniger 2002, p. 525. Scrive Halbfass: "Their system tried to accommodate both ritual slaughter and a certain respect for the life of the sacrificial victims. There was a place for himsa and for ahimsa, just as there was a place for vegetarianism and for meat-eating within the complex patterns of ritual behavior", Halbfass 1991, p. 114. 16. Doniger 2002, p. 526. stretto si allude invece, con il termine Smriti, all'insieme di testi denominati Dharmasutra e Dharmashastra; si pensa che questi testi siano stati redatti tra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C. A essi è attribuita un'origine mitica, come nel caso dell'autore della più importante opera di questo genere, le Leggi di Manu. 3. La terza fonte del dharma è la buona consuetudine: da non confondere con la consuetudine comunemente intesa, vale a dire un insieme di pratiche osservate da tutti e rese abituali da un uso immemorabile, essa indica un modo di vivere ideale: la condotta dei buoni o dei sapienti. Consiste nella vita orientata secondo la religione e tesa al conseguimento di meriti esclusivamente spirituali, propria di chi non soltanto è istruito nel Veda, ma sa anche trarne tutte le conseguenze relative alla condotta e metterle in atto. 4. Filosofo indiano vissuto nell'ottavo secolo. Interprete del Mimamsasutras di Jaimini e del sistema Purva-mimamsa. 5. Termine sanscrito avente il significato di 'investigazione'. Scuola filosofica induista i cui studi si sono dedicati ad indagare la natura del dharma. La scuola Mimamsa è meglio conosciuta con il nome di Purva Mimamsa in quanto si occupa del Purva, la porzione più antica dei Veda. Il testo fondamentale della scuola è il Purva Mimamsa Sutras di Jaimini (IV sec. a.C.). 6. In riferimento al significato di dharma come scienza del rituale B. K. Smith osserva: "Ritual is not to be classified as part of religion because religion (says Staal) deals with doctrines and belief (orthodoxy) rather than practice (orthopraxy) which is 'independent from the doctrinal component of religion'", Smith 1991, pp. 141-143. L'assenza di un criterio strettamente teorico per determinare l'appartenenza del singolo allo hinduismo è sottolineata dall'analisi di Louis Dumont dei concetti di tolleranza e integrazione in India: "Più che una ortodossia, l'induismo conosce una 'ortoprassia' (Staal)", Dumont 1991, p. 335. Bibliografia M. Biardeau, L'induismo. Antropologia di una civiltà, Mondadori, Milano 1985. W. Doniger (a cura di, con la collaborazione di B.K. Smith), Le leggi di Manu, Adelphi, Milano 1996. W. Doniger, Le origini del male nella mitologia indù, Adelphi, Milano 2002. L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Adelphi, Milano 1991. A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris 1959. P. Hacker, "Dharma im Hinduismus", in Id., Kleine Schriften, Steiner, Wiesbaden 1978, pp. 496-509. Id., "Der Dharma-Begriff des Neuhinduismus", in Id., Kleine Schriften, Steiner, Wiesbaden 1978, pp. 510-524. W. Halbfass, India and Europe, State University of New York Press, Albany 1988. Id., Tradiction and Reflection, State University of New York Press, Albany 1991. P. V. Kane, History of Dharmashastra, Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona 1968-1977. R. Lingat, La tradizione giuridica dell'India, Giuffrè, Milano 2003. Id., "Dharma et temps. À propos de Manu, I, 85-86", Journal Asiatique, CCLIX, 1961, pp. 487-495. C. Malamoud, Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell'India antica, Adelphi, Milano 1994. S. Piano, Sanatana dharma. Un incontro con l'induismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996. A.K. Ramanujan, "Is There an Indian Way of Thinking? An Informal Essay", Contributions to Indian Sociology, N. S., XXIII, 1, 1989. B.K. Smith, recensione a Frits Staal, Rules Without Meaning: Ritual, Mantras and the Human Sciences, Journal of Ritual Studies, 5, 2, 1991, pp. 141-143. F. Squarcini (a cura di), Verso l'India oltre l'India, Mimesis, Milano 2002. 50 ACHAB Silamo Malagasy Uno sguardo sui musulmani del Madagascar di Maura Parazzoli The variety of traditional Islamic practices in different times, places, and populations indicates the different Islamic reasonings that different social and historical conditions can or cannot sustain. The idea that traditions are essentially homogeneous has a powerful intellectual appeal, but it is mistaken. Indeed, widespread homogeneity is a function not of tradition, but of the development and control of communication techniques that are a part of modern industrial societies (Talal Asad ) All'inizio del mese di luglio del 2005 ero appena arrivata in Madagascar per un viaggio che sarebbe durato due mesi e stavo percorrendo in taxi-brousse (i furgoni collettivi che costituiscono il mezzo di trasporto pubblico più usato nel paese), la strada che collega Antsirabe con Fianarantsoa, verso sud, lungo gli altipiani centrali. Durante una sosta in un piccolo villaggio rimasi colpita da un'abitazione dove si trovavano due ristoranti adiacenti, in entrambi i muri di entrata erano disegnati due maiali: nel ristorante gestito da malgasci non musulmani l'animale disegnato indicava che in quel luogo si poteva consumare quel tipo di carne. Nel secondo il maiale disegnato era sbarrato con una "X", ad indicare che il ristorante era musulmano, ed a rafforzare l'indicazione stava una scritta che assicurava che in quel luogo la carne di maiale era fady. Il concetto di fady è nato all'interno dell'antico culto degli antenati: indica qualcosa che non è consentito fare per ordine degli antenati (più raramente di parenti ancora vivi), ed è un concetto che investe le azioni quotidiane dei malgasci. Si tratta di divieti alimentari (per esempio frutti e verdure da non mangiare, ma anche da non piantare), oppure di divieti di contrarre il matrimonio con gruppi considerati inferiori, o di vendere appezzamenti di terra a persone estranee al gruppo familiare. Tutte queste regole dovrebbero mantenere l'integrità del gruppo (Middleton, 1999, pag. 17). Graeber (1995) sottolinea come il concetto di fady, pur essendo traducibile con taboo costituisca, proprio a causa di questo legame con l'azione quotidiana, qualcosa di diverso rispetto al taboo Polinesiano, più legato alla dimensione del sacro. Naturalmente il culto degli antenati è estraneo all'Islam. L'esempio del ristorante ci mostra come un concetto legato alla religione tradizionale malgascia sia stato ri-declinato in termini islamici da parte della minoranza musulmana presente sull'isola.1 I musulmani (Silamo, in malgascio) sono in Madagascar meno del 10% della popolazione totale: una comunità relativamente piccola e caratterizzata da un elevato grado di eterogeneità interna, dovuta alle diverse ondate di arrivi di musulmani nei secoli. L'altro aspetto interessante riguarda la "malgascizzazione" dell'Islam avvenuta in seguito all'incontro con il culto locale degli antenati. Come nel resto del continente africano, anche in Madagascar sono nati riti e usanze spesso fortemente criticati dai musulmani "ortodossi" (Blanchy, 1995). Per chi si è convertito quindi non si è trattato di una rottura totale con la religione tradizionale, ma della nascita di sincretismi che hanno rappresentato una sorta di mediazione rispetto a tradizioni così radicate da non potere essere facilmente abbandonate. Per esempio, il Madagascar è famoso per la "seconda sepoltura dei morti", il famadihana che avviene alcuni anni dopo la prima sepoltura. Si tratta di una cerimonia eseguita in particolare delle popolazioni Merina e Betsileo, sull'Altipiano Centrale, nella quale il morto viene riesumato, e gli vengono cambiate le lenzuola che lo avvolgono. Soprattutto tra i Merina, si organizzano Famadihana quando il corpo di una persona morta da tempo e in luoghi lontani viene collocato nella tomba degli antenati (razana). In questa occasione, tutti gli altri corpi contenuti nella tomba vengono estratti per il cambio del lenzuolo (lamba mena). Tra i Betsileo si organizza quando una nuova tomba è inaugurata ed i corpi dei parenti sono trasportati 51 ACHAB dalle sepolture temporanee alla tomba definitiva (Mack, 1986). In generale, la cerimonia avviene all'interno di una grande festa con elevato consumo di alcool e in un clima che sembra riunire i morti ed i vivi. Il morto torna a fare parte del mondo dei vivi con la sua presenza fisica che si riunisce con il gruppo dei parenti. Nell'Islam questo non è accettabile in quanto il morto va sepolto il più velocemente possibile, senza celebrazioni sfarzose, e non va più rimosso e non esiste (o meglio, non dovrebbe esistere) il culto degli antenati, né l'intercessione dei parenti morti. In alcune zone islamizzate del Madagascar, l'unione tra queste due religioni così apparentemente inconciliabili ha dato vita a un nuovo rituale: quaranta giorni dopo la sepoltura (che avviene immediatamente dopo la morte), viene organizzata una festa in onore del defunto, che possa riunire anche tutti coloro che non hanno potuto partecipare al funerale perché venivano da lontano. Il culto degli antenati, vietato dall'Islam, è quindi rivisitato, e nelle preghiere i parenti morti sono solo "onorati" dai loro discendenti, cosa non vietata dall'Islam "ortodosso". precedenza, ma riguardava comunque un numero limitato di adepti. Inoltre, durante il periodo coloniale francese, ebbe un grande successo nella zona la confraternita Shadhuli, di origine comoriana e ci furono sia nuove conversioni che avvicinamenti da parte dei già musulmani. I convertiti della confraternita si considerano moridy, cioè discepoli e si distinguono dai primi convertiti. Sulla costa a nord ovest, tra gli Antalaotsy ("Gente che arriva dal largo"), si trova una piccola comunità di musulmani, discendenti dei commercianti Swaili che a partire dal XII secolo arrivarono attraverso il Canale del Mozambico, e che rappresenterebbero la comunità musulmana più antica del quale si abbiano testimonianze in Madagascar. Qui avvennero delle conversioni all'Islam che, più che basate su veri e propri proselitismi, sarebbero state causate da un gioco di alleanze commerciali e politiche. Questa comunità, pur non avendo legami con gli Arabi, si è a lungo auto-definita come Araba, con il fine di rivendicare radici prestigiose. Questo conferma il fatto che in Madagascar (e non solo, naturalmente), il concetto di musulmano serva a definirsi non solo come comunità di credenti, ma anche come gruppo etnico. Oggi i discendenti degli Antalaotsy sono poco numerosi, ma nell'unica città importante della costa ovest, Majunga, esistono altre comunità musulmane sunnite, in particolare quella proveniente dalle Isole Comore, ma anche dallo Yemen, da Gibuti e dalla Somalia. Tra i sunniti sono frequenti i matrimoni fra persone appartenenti a due gruppi diversi, inclusi quelli tra musulmani malgasci e stranieri. Alla parte opposta del paese, nella costa sud-est, si trova una comunità musulmana presso gli Antemoro. Gli aristocratici della costa affermano tuttora di essere discendenti di Arabi che sarebbero arrivati sull'isola tra il XII ed il XV secolo, o addirittura ai tempi di Maometto, Gueunier sottolinea che più probabilmente sono di origine indonesiana, e che: "comme souvent dans le monde musulman, le lignées prestigeuses se devaient de revendiquer pour origine la patrie du Prophète" (Guenier, 1994, pag. 58). Oggi i musulmani in questa zona sono in numero molto ridotto, per lo più tra gli aristocratici, che non cercarono mai di fare proselitismi tra la popolazione. A causa dell'isolamento in cui si è sempre trovata (e continua in parte anche oggi, con le comunicazioni stradali quasi impraticabili in alcune stagioni dell'anno), questa parte del paese, le usanze islamiche si sono più che altrove unite a quelle locali. Alcuni usi musulmani sono rimasti, ma totalmente slegati rispetto all'uso originario. Per esempio, la recita del Corano, che avviene in una lingua ai più misteriosa (si tratta di arabo pronunciato alla maniera malgascia), si utilizza anche all'interno delle cerimonie che riguardano il culto degli antenati. E questo non è un fenomeno recente: già lo studio degli antichi testi arabico-malgasci degli Antemoro, del XVI secolo, i Sorabe, parlano di un Islam lontano dall'ortodossia che contempla la divinazione astrologica, la figura del guaritore, fino ad arrivare alla vera e propria stregoneria. Una minoranza eterogenea Il termine Silamo nel linguaggio corrente malgascio sembra assumere una connotazione etnica prima che religiosa. I malgasci musulmani (parlerò in seguito dei musulmani provenienti dall'estero), pur facendo parte di un gruppo etnico definito (i Sakalava, gli Antemoro, ecc...), sono spesso percepiti (e si auto-percepiscono) come se non potessero essere contemporaneamente Sakalava e Silamo. Le conversioni all'Islam sono avvenute nel corso dei secoli in seguito a contatti di tipo commerciale. Non si può parlare di vere e proprie ondate di islamizzazione, perché non si è mai trattato di conversioni sistematiche di ampie fette di popolazione, né di invasioni, ma piuttosto di fenomeni contingenti. Blanchy (1995) sottolinea l'esistenza di testi del XIV secolo che attestano la frequentazione delle coste malgasce da parte di navi mercantili musulmane (les "Maures") che trasportavano merci dall'India al Madagascar. Secondo l'autrice è difficile stabilire se questi mercanti fossero Arabi stabilitesi in India o Indiani Musulmani. Di certo questi mercanti costruivano delle "basi" (echelles) di partenza per i loro commerci con l'interno. Rimangono alcuni interessanti reperti archeologici del XV e XVI secolo: sono cimiteri e senza dubbio musulmani. Probabilmente alcuni di questi commercianti si stabilirono in Madagascar, dando via a fenomeni di meticciamento. Oggi ne rimangono alcune piccole comunità di malgasci che ne hanno conservato la religione. Sulla costa nord, nella zona di Antsiranana (Diego Suarez), sono diffusi tra gli Antankarana, dove in alcuni villaggi (caso unico in Madagascar), i Musulmani rappresentano la maggioranza della popolazione. Secondo la leggenda fu il loro re, Tsimiaro, che a metà del XIX secolo si convertì all'Islam per voto. In realtà l'influenza musulmana era già presente in 52 ACHAB Oggi, attraverso l'aiuto finanziario degli indiani e dei comoriani sunniti della zona, alcuni giovani malgasci musulmani sono stati mandati in India a studiare il Corano, spesso scontrandosi al loro ritorno con le loro radici musulmane Antemoro, così diverse rispetto agli insegnamenti più ortodossi ricevuti all'estero. un inevitabile scollamento tra gli insegnamenti impartiti dal leader religioso, il dai al mutlaq, che risiede a Bombay (e ha come compito principale quello di tenere collegati tra loro i Bohra sparsi nel mondo), e la comunità residente in Madagascar. Fino al 1992 il dai al mutlaq non si era interessato alla comunità residente in Madagascar, che, in poche generazioni, pur rimanendo ai margini della società malgascia, aveva nel frattempo "malgascizzato" le abitudini riguardo il velo delle donne (prima obbligatorio), l'uso di alcolici, il prestito con interesse. Oggi gli Amil Saheb, i predicatori inviati dal Gujarat, cercano di ristabilire l'ortodossia, e sarà interessante vedere nel medio termine la reazione della comunità di fronte all'obbligo di "riallacciarsi alle tradizioni" di un popolo con il quale continuano si ad identificarsi, (e una prova di questo potrebbero essere i matrimoni che si mantengono strettamente endogamici, ed il fatto che quasi nessuno di loro goda tuttora della nazionalità malgascia) ma del quale hanno rielaborato gli usi assorbendo quelli del paese ospitante. Pur partendo dallo stesso punto, il Gujarat, e nello stesso periodo, un altro gruppo, i Sourti studiati da Claudine Bavoux (1990), hanno avuto una storia completamente diversa. La comunità sourti (circa 550 persone all'epoca degli studi dell'autrice), composta per la maggioranza da musulmani sunniti, si è stabilita a Toamasina, porto principale della costa nord-est del paese. I Sourti partirono alla metà del XIX secolo dal Gujarat e si stabilirono a Mauritius. Dopo alcune generazioni una piccola minoranza di loro si trasferì in Madagascar, avendo ormai acquisito la lingua creola, che continuano a mantenere anche oggi, formando un esempio forse unico di comunità indiana che parla il creolo. E' proprio questa lingua che distingue i Sourti dalle altre comunità indiane presenti nella città, (che hanno di gran lunga avuto un successo economico superiore), tra i quali gli stessi Bohra, che arrivarono nell'isola direttamente dall'India. I matrimoni tra Sourti e gli altri indiani sono molto rari, mentre sono frequenti quelli con creoli e malgasci. Di conseguenza, i Sourti sono percepiti dagli altri indiani di Toamasina come Karana Very, (Karana persi): "Bohra et Hindous s'entendent pour comdamner les Sourti et leur refuser la qualité de purs indiens. (…). Ils leurs reprochent en même temps d'épouser des Malgasches, des Chinoises, des Créoles e de refuser l'union avec les Hindous et les Bohra. (...) Les pratiques langagières des Sourti sont connues et vivement critiquées: ils ne cherchent même pas à enseigner le gujerati à leurs infants" (Bavoux, 1990, pag. 41) L'autrice ipotizza che sia stata proprio la lingua creola a mantenere la coesione all'interno del gruppo ma allo stesso tempo a separarli dagli altri connazionali, mentre il loro status, non elevato come quello degli altri indiani, li ha avvicinati alla popolazione locale. I Sourti, che si considerano una comunità creolizzata e musulmana, sono visti dai malgasci (che I musulmani emigrati in Madagascar sono in prevalenza indiani e comoriani. Quelli provenienti dall'India2, iniziarono ad arrivare sull'isola a partire dalla metà del XIX secolo, e sono dispersi nelle principali città. Il termine malgascio per indicarli, Karana, è un termine generalmente percepito come peggiorativo e designante un alterità sospetta (Blanchi 1995, pag 191). Anche il termine francese indo-pakistanaises è poco preciso perché provengono per la maggioranza dal Gujarat, (stato centro occidentale del sub-continente) e non hanno nulla a che fare con i Pakistani, anche se alcuni di loro dopo l'indipendenza del Pakistan, scelsero la nazionalità pakistana pur essendo indiani. I Karana godono di un certo benessere perché sono proprietari di molti negozi ed industrie. A questo benessere economico non corrisponde però un'effettiva integrazione nella società malgascia: spesso continuano a parlare la loro lingua d'origine anche dopo molte generazioni ed è forte la tendenza a sposarsi solo con membri dello stesso gruppo. E' chiaro che in alcuni momenti gli indiani sono stati visti con invidia e si è generata un'insofferenza per questo gruppo. Queste tensioni si sono materializzate nel 1987 quando in alcune città, in particolare a Toliary (sulla costa sud-ovest), sono avvenuti gravi moti antiindiani, con saccheggi ed incendi dei negozi, che per molti testimoni sono stati possibili grazie alla complicità dei militari. Questo rimane comunque un episodio a sé stante, dato che la convivenza quotidiana è in generale pacifica. Se è vero che la comunità Indiana sciita è sempre rimasta distante dalla popolazione locale, va però segnalato che dal 1982 esiste a Morondava una missione islamica sciita indiana che ha avuto un buon successo, registrando conversioni soprattutto tra ex cristiani. Due studi sui karana: i bohra ed i sourti Tra i Karana si trovano diverse comunità, che, pur condividendo il luogo di origine (il Gujarat), si sono ormai caratterizzate a seconda della città dove si sono insediate e per la divisione in diverse sette musulmane. A titolo dimostrativo sintetizzo di seguito due studi, uno attuale, e uno dell'inizio degli anni novanta, su due di questi gruppi, che hanno avuto vicende molto diverse. Lo studio che sta compiendo Denis Gay (2005), sulla comunità Bohra (una delle tre comunità indiane sciite presenti sull'isola) di Toliary riguarda una comunità di circa 6500 persone quasi totalmente dedite al commercio. I Bohra sono caratterizzati da una forte dispersione: dal Gujarat sono emigrati negli ultimi secoli in 40 diversi paesi. Questo interessante studio mostra come all'interno di questa piccola comunità si stia manifestando 53 ACHAB raramente conoscono la loro storia), prima di tutto come musulmani, mentre gli altri indiani li vedono essenzialmente come risultato di un fenomeno di métissage. Non ho rintracciato studi successivi sui Sourti, e credo sia molto interessante vedere se ad oggi questo piccolo gruppo si stia definitivamente disperdendo nella comunità locale o se continua a mantenere una propria identità. Quali sono le ragioni dei moti anti-islamici? Prendiamo come caso paradigmatico i moti di Majunga del 1976, uno dei momenti più drammatici nella storia recente del paese. Durante il periodo coloniale le isole Comore (un paese a maggioranza musulmana) facevano parte della stessa amministrazione del Madagascar ed era quindi facile spostarsi da uno stato all'altro, e molti comoriani poveri partirono per il Madagascar in cerca di fortuna. A Majunga si formò una comunità così numerosa che il termine Silamo in quella zona venne utilizzato come sinonimo di comoriano. A metà degli anni '70 cominciarono, anche causati dalla situazione politica del momento, alcuni scontri con i locali, in particolare con gli emigrati Bestirebaka, di fede cristiana, arrivati dal sud del Madagascar dopo i comoriani, e che per questo svolgevano lavori ancora più umili. Nel dicembre del 1976 dopo una serie di provocazioni, come il lancio di pezzi di carne di maiale dentro la moschea di Majunga, i Bestirebaka bruciarono e saccheggiarono molte abitazioni di comoriani. Dopo 3 giorni di scontri, senza l'intervento della polizia, da alcuni considerata complice (così come per i moti anti-indiani del 1987), la città di Majunga, semi distrutta, si vedeva quasi svuotata della popolazione musulmana di origine comoriana: il bilancio era di 1000 morti, mentre circa 16.000 comoriani "furono invitati" a ritornare al loro paese d'origine, che la maggioranza non aveva mai nemmeno visitato. Quasi tutti i beni di proprietà dei comoriani erano stati distrutti. Molti di loro dopo alcuni anni ritornarono in Madagascar. E' proprio dopo questi eventi che aumentarono le rivendicazioni da parte dell'intera comunità religiosa musulmana per essere considerata al pari delle altre comunità religiose del paese, e non è un caso se pochi anni dopo, nel 1980, proprio a Majunga si tenne il primo congresso dell'associazione musulmana nazionale, la Silamo Malagasy. Gli scontri di Majunga non sono avvenuti tanto per motivi etnici o religiosi, quanto per motivi economici: i malgasci ed in particolare gli emigranti Bestirebaka sono insorti contro i comoriani perchè non potevano accettare che gli stranieri con i quali condividevano i quartieri vivessero in condizioni (seppur leggermente) più agiate di loro. E le stesse motivazioni di ordine economico e non religioso, furono come abbiamo visto, la causa degli scontri tra indiani e malgasci a Toliary, prova ne è il fatto che subirono danni anche i Karana induisti. In conclusione, quando parliamo di "minoranza islamica" in Madagascar, ci riferiamo a una realtà varia ed in evoluzione. Dietro a questa categoria apparentemente univoca si dipanano tutta una serie di realtà culturali ed economiche spesso in contrasto tra loro: un mondo che per essere compreso deve essere colto nella sua complessità. Quello del Madagascar è solo un esempio limitato, ma comunque utile. Viviamo infatti in un periodo storico nel quale molti e drammatici eventi vengono ricondotti, a causa di una sorta di riduzionismo, alle sole differenze religiose. Si La richiesta di un posto nella società malgascia Gli studi etnografici classici del Madagascar, considerate la collocazione geografica non omogenea, le diverse ondate di arrivi, le diverse nazionalità dei credenti, hanno analizzato i diversi gruppi musulmani come comunità a sé stanti. Ma c'è qualcosa che unisce tutti questi gruppi? Quanti Islam ci sono in Madagascar? Noël Gueunier, (autore di "Les chemins de l'Islam à Madagascar"), sostiene che, eterogeneità a parte, tra i Silamo vi sia la consapevolezza dell'appartenenza alla Umma. Questo senso di unità sarebbe emerso soprattutto a partire dagli anni ottanta, dopo alcune sommosse avvenute nel paese (come quella di Majunga sulla quale mi soffermerò brevemente). Si tratterebbe quindi una forma di reazione a momenti in cui la comunità intera si è sentita minacciata. Circa venti anni fa è nata l'Associazione Nazionale Musulmani, che ha organizzato vari convegni, ed è nato anche un giornale, Feon'ny Silamo-La voix de l'Islam, realizzato grazie ai fondi di un'associazione libica. Inoltre, molte associazioni di stati musulmani, tramite le Ambasciate ad Antananarivo mandano aiuti economici, Imam, ed offrono possibilità di borse di studio all'estero. Sebbene ridotti, questi aiuti contribuiscono a rafforzare il senso di appartenenza di tutti i Silamo. Sarebbe sicuramente molto interessante monitorare la situazione attuale per capire come cambia la percezione di sé in quanto musulmano dei giovani malgasci che vanno a studiare all'estero in paesi a maggioranza islamica e in quale forma stiano arrivando nel paese questi aiuti in questo particolare momento storico. La comunità islamica sarebbe quindi cosciente che la religione che li accomuna costituisca una matrice di identità, pur nella grande eterogeneità che li caratterizza, ed è alla ricerca di un suo spazio all'interno della società malgascia. In una recente intervista, apparsa sull'"Express de Madagascar", l'Imam della moschea di Antananarivo, Chaaban Léon, sottolinea: "Bien que minoritaires, nous pouvons, quand même, dire que nous avons notre place dans la société. Nous y sommes bien intégrés. Après tout, nous sommes malgaches avant d'être musulmans. Au départ, la majorité d'entre nous étaient installés sur les côtes. Aujourd'hui, les choses ont changé. Le nombre de la communauté musulmane sur les Hautes terres suit une courbe ascendante" 54 ACHAB dimentica (o si vuole dimenticare), che i vari fondamentalismi e integralismi religiosi, sono mossi spesso da cause di matrice economica e politica, cause che vanno tutte prese in considerazione per avere una visione globale degli avvenimenti storici. Note della popolazione, divisi tra cattolici e protestanti, sebbene i missionari protestanti siano stati molto più intransigenti rispetto alle pratiche di culto tradizionali. I musulmani costituiscono circa il 7% della popolazione totale. (Fonte: US Department of State, Bureau of African Affairs) 2 Gli indiani in Madagascar sono circa 20.000 (0.2% della popolazione totale), per la maggior parte musulmani sciiti (Khodjia e Bohra), un gruppo sunnita (Surti) e una ristretta minoranza Hindu, (in malgascio Banians). Arrivano quasi tutti dal distretto indiano del Gujarat. (Blanchy, 1995) 1 Attualmente il 47% della popolazione professa il culto degli antenati. Le credenze legate alla religione tradizionale continuano ad avere forti influenze anche fra i cristiani che costituiscono il 45% Bibliografia Asad, T. (1986), The Idea of an Anthropology of Islam, Occasional Papers, Georgetown University, Washington. Bavoux, C. (1990), Islam et métissage, des Musulmans Créolophones à Madagascar, les Indien Sourti de Tamatave, l'Harmattan, Parigi. Blanchy, S. (1995), Karana et Banians, les communautés commerçantes d'origine indienne à Madagascar, l'Harmattan, Paris. Bloch, M. (1971), Placing the Dead, Tombs, Ancestral Villages and Kinship organisation in Madagascar, Seminar Press, London. Delval, R, (1978), “Les Musulmans à Madagascar en 1977”. in L'Afrique et l'Asie Moderne, 115. Gay, D. (2005), “The policy of the religious centre in Bombay. Toward a Gujarati community of Madagascar”, in I quaderni del CREAM 2005-III. Graeber, G.(1995), “Dancing with corpses reconsidered: an interpretation of famadihana”, in American Ethnologist 22(2). Gueunier, N.J. (1994), Les Chemins de l'Islam à Madagascar, l'Harmattan, Parigi. Lambek, M. (1993), Knowledge and Practice in Mayotte: Local discourses of Islam, Sorcery and Spirit Possession, University of Toronto Press, Toronto. Mack, J. (1986), Madagascar, Island of the ancestors, The Trustees of the British Museum, London. Middleton, K., (a cura di) (1999), Ancestors, power and history in Madagascar, Brill, Leiden. Rakotomalala, M., Blanchy, S., (2001), Madagascar: les ancêtres au quotidien. Usage sociaux du religieux sur les Hautes-Terres Malgasces, l'Harmattan, Paris . 55 ACHAB La Verifica Incerta Note a margine di una missione in Angola di Michele Parodi Lavorato ieri alla redazione di un progetto di "Prefazione" per l'eventuale pubblicazione di queste note. Tesi: è attraverso la soggettività (portata al parossismo) che si raggiunge l'oggettività. Più semplicemente: scrivendo soggettivamente aumento il lavoro della mia testimonianza, mostrando che ad ogni istante sono in grado di giudicarne la validità. Michel Leiris, L'Afrique fantôme1 Sommario Partendo da un'analisi critica delle recenti iniziative di solidarietà internazionale a favore dei paesi africani - dalle domande irrisolte che pongono - per mezzo di una riflessione "incerta" e altrettanto critica, cerco qui di tirare le somme delle mie esperienze di insegnante e cooperante in Africa. Il mio percorso di ricerca si sviluppa nelle trame di un viaggio, al medesimo tempo, teorico e pratico. Un percorso che tenta d'indagare le ragioni e gli scopi della ricerca etnografica, all'interno di un'analisi riflessiva delle mie motivazioni di studente di antropologia e di apprendista etnografo. Da un lato provo ad affrontare una serie di questioni legate al ruolo dell'antropologia applicata: il problema etnografico delle pratiche di campo e dell'utilizzo dei "testi" raccolti durante la ricerca, il problema della reciproca opacità, conflittualità delle motivazioni del ricercatore e dei suoi interlocutori. Dall'altro, ampliando la mia riflessione in termini più filosofici, cerco di sondare le origini del mio impegno, provando a formularne una "genealogia morale". In questo percorso le problematiche affrontate prospettano l'adozione di un impianto epistemologico e di una metodologia etnografica, in grado di configurare l'antropologia come pratica sociale, luogo d'incontro e di comunicazione che dis-pone, disloca, destruttura il soggetto-assoggettato, attivando processi interpretativi che organizzano una peculiare esperienza estetica. ricchi ai drammatici problemi dell'Africa, si è svolto il 2 luglio 2005 a Londra, Roma, Berlino, Parigi, Mosca, Filadelfia, Barrie (Canada), Tokio, Johannesburg, in concomitanza con il G8 riunitosi in Scozia tra il 6 e 8 luglio6; Bill Clinton ha convocato la sua Global Initiative a New York tra il 15 e il 17 di settembre in coincidenza con l'apertura dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Possiamo chiederci se questa serie di recenti iniziative rappresenta qualcosa di nuovo, se suggerisce una metamorfosi originale dei rapporti tra Nord-Sud, tra paesi ricchi e paesi poveri. Oppure, se riproduce e nasconde, tra le righe, le usuali formazioni discorsive dello sviluppo, il sistema di potere che regola le sue pratiche, le forme di soggettività attraverso le quali le persone giungono a riconoscersi come sviluppate o sottosviluppate (Escobar 1995)7. Ancora - apparentemente per la prima volta -, si tratta di promuovere un altro sviluppo, uno sviluppo libero dagli errori e dai pregiudizi del passato, in grado di mutare la sorte dei popoli indigenti dell'Africa. In base a questi propositi, lo sviluppo, di fronte ai poco brillanti risultati del suo corso precedente, deve essere rinnovato, ma al medesimo tempo rimane la certezza indiscutibile dell'immaginario sociale, una forma di "colonizzazione della realtà" prodotta da pratiche storiche che combinano conoscenza e potere. Vi è qui una carenza di pensiero che Introduzione: c'è un'altra Africa? Si parla spesso della tragedia africana, "dell'agonia di un continente che muore di fame, di malattie, di mancanza d'acqua, d'ingiustizie"2. Secondo i più recenti rapporti delle istituzioni internazionali "la povertà e la stagnazione in Africa sono la più grande tragedia dei nostri tempi. Una povertà di dimensioni così vaste esige una risposta energica"3. Dal 1975 ad oggi le prospettive di vita nell'Africa sub-Sahariana sono progressivamente peggiorate. Attualmente la vita media alla nascita è di solo 49 anni. Il 10% degli africani tra i 15 e i 45 anni sono HIV positivi e la tubercolosi e la malaria sono endemiche in molte aree. Dal 1987 a 1998 la percentuale della popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno è passata dal 46.6% al 46.3% raggiungendo un picco del 49.7% nel 19934. Nonostante i ripetuti e ciclici proclami, colmi di buone intenzioni, la cooperazione internazionale non è riuscita ad invertire questa tendenza. Così ancora una volta possiamo formulare la ricorrente domanda: "Che fare per aiutare l'Africa?" Nel 2005 abbiamo assistito al lancio di nuove campagne di solidarietà internazionale: la Commission for Africa promossa dal primo ministro britannico Tony Blair ha pubblicato il suo primo rapporto l'11 Marzo 20055; il Live 8, il grande concerto benefico "globale" organizzato da Bob Geldof per sensibilizzare l'opinione pubblica e i governi dei paesi 56 ACHAB manifesta la rigidità di costruzioni retoriche pervasive, sostanzialmente autoreferenziali, la cui decostruzione sociale può avvenire solo attraverso complessi processi di smontaggio e ricomposizione culturale. Queste recenti iniziative non riconoscono la singolare e multiforme creatività dei molteplici contesti africani. Non riconoscono pienamente le ragioni strutturali del sottosviluppo, le relazioni di dipendenza che legano i PVS ai PSV, limitandosi a proporre "più commercio e commercio più equo"8. L'idea che il nuovo fermento d'iniziative per l'Africa non esca da una logica di tipo postcoloniale, nasce proprio dalla ripetitività quasi parossistica dei discorsi messi in campo da queste proposte: un'eccezionale moltiplicarsi di conferenze, dibattiti, pubblicazioni, appelli ad un rinnovato impegno "concreto" a favore dei meno fortunati del mondo9, come se fosse avvenuto un cortocircuito tra assoluto e immediato e finalmente fosse giunto il giorno decisivo dove "ciò che prima era interno alla coscienza esplode fuori improvvisamente, s'impossessa del mondo esterno e lo trasforma"10. Nella loro autoreferenzialità, nella loro proliferazione mimetica, tali discorsi - e le ritualità caricaturali, i dispositivi, ad essi associati - ricordano sensibilmente le pratiche discorsive coloniali. Un linguaggio che "avanza sordo alle silenziose vibrazioni che emana, ripetendo se stesso senza fine […] prigioniero di questo meccanismo linguistico" (Mbembe 2005: 207), consumandosi nella sua iterazione: soggiorno a Port Harcourt sul delta del Niger, dove ho insegnato fisica e matematica in una scuola internazionale italiana, ha rappresentato per me soprattutto una sfida esistenziale - l'iniziazione ad un altro mondo, il primo impatto con una realtà spaesante totalmente "altra" -, l'attività di cooperazione e mediazione culturale in Angola (parte di un progetto di gemellaggio tra una scuola elementare di Roma e una scuola elementare di Luanda) ha fornito lo scenario delle mie prime esperienze di campo dove confrontarmi con i paradigmi teorici e gli strumenti metodologici acquisiti durante la specializzazione in antropologia12. Questa fusione di teoria e pratiche di campo, di vita e attività professionale, sperimentata soprattutto nel mio ultimo viaggio in Angola, mi è servita per superare sin dall'inizio le dicotomie di una scienza oggettivante ritenuta neutrale, accogliendo una visione dell'antropologia come pratica sociale e culturale, come prassi inevitabilmente compromessa con il proprio essere politico ed esistenziale. Pratica, quindi, eminentemente etica e perciò continuamente chiamata a rispondere della propria responsabilità di fronte agli effetti del suo agire. Operare autobiografico, che, parafrasando le ultime righe di Thick Description (Geertz 1987: 71), svolgendosi nel mondo pubblico della vita ordinaria osserva le dimensioni simboliche dell'azione sociale - l'arte, la religione, l'ideologia, la scienza, il diritto, la moralità, il senso comune -, senza allontanarsi dai dilemmi esistenziali della vita alla ricerca di qualche empireo di forme desensibilizzate, volendo invece immergersi in mezzo ad esse. In questa prospettiva la conoscenza etnografica tende a radicarsi negli atti che, dischiudendo i suoi orizzonti, al contempo invalidano ogni possibile presa di stampo meramente speculativo. Si apre qui quell'eccesso pratico che precipita il dire teorico verso il suo rovesciamento autobiografico, nel luogo dove l'incontro mancato dal logos si rovescia nell'incontro sempre riuscito nel reale. Auto-bio-grafia, significa, allora, vita che scrive se stessa giocando sull'apertura di una mancanza, questione di un incontro contingente, di avventura. Tuttavia, la scoperta di tale mancanza, si manifesta anche in processi di incorporazione e oggettivazione: riduzione narcisistica dell'altro a mera differenza, addomesticamento e neutralizzazione di alterità ambivalenza tra l'enfatizzazione del simile e del diverso che blocca la sua comprensione. In questa portata violenta o conflittuale la dimensione comunicativa di un incontro vis à vis sembra sposarsi, in strane corrispondenze, con la dimensione culturale. Il particolare e il generale, il locale e il globale, l'esistenziale e il politico si sovrappongono in forme molteplici di risonanza: lo "specchio coloniale" (Taussig 1984)13, o post-coloniale, si duplica nel rapporto speculare con il prossimo a cui ci accostiamo, le proiezioni culturali si sovrappongono ed entrano in vibrazione con le simbolizzazioni dell'altro che l'inconscio personale elabora nel tentativo di afferrarlo. A partire da queste considerazioni, la responsabilità a cui siamo chiamati nel momento in cui ci accostiamo all'altro14, nelle pratiche dello sviluppo come nelle pratiche della ricerca etnografica, muove, dalla confusione tra rappresentazione e reale15, verso una comprensione della loro differenziazione (ontologica), fino a scorgere in tale differenza l'eco operoso di se stessi, della propria identità personale e «discorso d'incantamento [che] raccogliendo voci e pettegolezzi, amplificandoli col raccontare, aspira a chiarire cose che lo tormentano e lo ossessionano - cose di cui non sa, in realtà, assolutamente nulla» (ibidem: 208). Discorso che "in questo modo non fa che rincorrere la propria ombra" (ibidem), melanconia o nostalgia imperialista sagomata dalla storia coloniale, storia ampiamente disconosciuta ma sotterraneamente capace di continuare a plasmare la vita politica delle ex potenze imperiali (Gilroy 2004). Colpi di cannone sparati a intervalli regolari, ingoiati da una giungla immobile, nera e silenziosa (Conrad 1978: p. 51)11. A fronte di tali complesse problematiche, la mia avventura parte forse da qui, dalla domanda irrisolta che le varie iniziative promosse dagli agenti e dagli apparati dello sviluppo, chiusi nei circoli viziosi di discorsi incapaci di trovare parole nuove per riflettere su se stessi, non sanno soddisfare. 1. Una verifica incerta Partire per l'Africa. Cooperazione in un progetto di educazione allo sviluppo in Angola. Verificare sul campo una serie di questioni legate al ruolo dell'antropologia applicata. Il mio percorso di ricerca si sviluppa nelle trame di un viaggio, al medesimo tempo, teorico e pratico. Un percorso che cerca di indagare le ragioni e gli scopi della disciplina all'interno di un'analisi riflessiva delle mie motivazioni di apprendista antropologo e delle esperienze di cooperante-educatore maturate recentemente, in una breve missione in Angola (MarzoAprile 2005) e, in un passato ormai sfuggente, durante una permanenza di circa 2 anni in Nigeria (tra il 2000 e il 2002). Se il prolungato 57 ACHAB culturale in cammino. L'Altro, allora, può assumere le forme di un interrogativo, di una domanda che ci seduce e che ci invita a parlare e stabilire un dialogo. Un rapporto non pacificato né da un'empatia caritatevole, né da un relativismo radicale, entrambi sempre disponibili a trasformarsi in prospettive oggettivistiche universalizzanti16. L'altro, come opacità limite, mantiene un potere di iniziazione a quella dimensione singolare che è preclusa al soggetto. Ciò da cui il soggetto rimane escluso è ciò che è agli occhi dell'altro, il suo essere "altro" per l'altro17. Da qui, la funzione di distanziamento del soggetto dai suoi condizionamenti, operata da tale rapporto di alterità. Il sistema di precomprensioni del soggetto si riflette nell'altro, risultando così visibile al soggetto medesimo, sebbene solo come traccia o resto. l'alterità dell'altro, il suo resto, eliminato dalla scena, è obliato come epifenomeno irrilevante all'analisi antropologica.18 Invece è proprio il dialogo, nella sua duplice forma di insieme di enunciati dotati di contenuto (il "detto"), e di specifici e pragmatici atti di parola pronunciati in un incontro (il "dire"), che permette lo stabilirsi di una produzione di senso dove la mancanza, l'indicibile dell'altro, diventa efficace: nel rapporto di reciprocità e di asimmetria che un dialogo di alterità accorda (ibidem: 176-177).19 Dunque il campo e il dialogo: viaggiare, oggettivare l'altro e aprirsi all'altro cercando di conservarne la diversità. Ma, come ci ricorda Silvana Borutti, citando Roberto Esposito (Esposito 1993), questo doppio legame irresolubile è forse il problema stesso dell'Occidente (Borutti 1999: 201). La sua medesima forma: perenne "volontà […] di sapere sé attraverso l'altro senza riuscire mai a trovare altro che se stesso" (ibidem). L'antropologia si pone qui al centro di un difficile problema eticopolitico: "l'impossibilità di tenere separate la volontà di sapere occidentale, dal rapporto di potere che l'Occidente è" (ibidem). Ciò che emerge non è più solo una questione di ordine epistemologico. Si tratta invece di un problema che invita a riflettere sugli scopi della ricerca etnografica. Se questa relazione di potere é stata ed é ancora, per molte ragioni (economiche, politiche, culturali), la "precondizione strutturale per l'antropologia" (Asad 1973; Gough 1968), siamo invitati a pensare in che modi l'antropologia, anche oggi, resti parte delle "narrative" dell'egemonia occidentale e delle forme di occultamento della propria culturalità (Malighetti 2005). In ambito accademico, ha prevalso la volontà di considerare prioritari l'impresa scientifica e gli interessi teorici dei ricercatori, rispetto alle esigenze locali degli interlocutori e degli informatori con cui gli etnografi sono venuti a contatto. Tale visione dell'antropologia non è però mai stata del tutto unanime. La questione della responsabilità dell'antropologia nei confronti delle persone studiate, dai pionieristici scritti di Malinowski di antropologia applicata all'amministrazione coloniale (Malinowski 1929, 1930), ai testi di Hymes (1972), fino ai recenti dibattiti sull'etica della disciplina (Caplan 2003; Fluer-Lobban 1991), ha percorso il dibattito accademico, con cicliche fasi di più acceso confronto interno20, segnando il tentativo degli antropologi di costituirsi come "moral comunity" (Caplan 2003: 5). Stavenhagen individuava già agli inizi degli anni settanta due prospettive da cui guardare la questione: un punto di vista attento agli usi e all'applicazione del sapere scientifico sociale e uno sguardo riflessivo sulle modalità e gli effetti della pratica professionale della scienza sociale applicata. Due aspetti intimamente collegati e reciprocamente condizionati: la natura e la qualità della ricerca e la diffusione dell'informazione a potenziali utilizzatori. Stavenhagen proponeva di praticare una "de-elitizzazione" del sapere scientifico: Se queste idee mostrano le ragioni del mio agire etnografico interne ad una speculazione più filosofica, ve ne sono altre specifiche di una riflessione propriamente antropologica. 2. Antropologia applicata I miei primi studi teorici, durante la specializzazione in antropologia culturale, hanno avuto come punto d'inizio l'analisi e la valutazione critica dei testi di Clifford Geertz. Superando la frattura della pratica etnografia Malinowskiana, tra "il fuori testo", il diario, il racconto aneddotico, e la monografia scientifica, Clifford Geertz è stato tra i primi a proporre "una sospensione dell'elaborazione teorica sistematica in favore della sperimentazione etnografica" (Malighetti 2000b: 139; cfr. 1991). Nei suoi lavori la pratica etnografica "diventa luogo di vitalità del pensiero […], la stessa definizione della disciplina" (ibidem: 140). Il campo con il suo carattere di esperienza quotidiana processuale, spaesante, dialogica -, come afferma Silvana Borutti, diventa «l'operatore epistemologico privilegiato, capace di decostruire l'immagine positivista della conoscenza come rapporto neutro di rappresentazione tra un soggetto teoreticamente e metodologicamente attrezzato, e un oggetto separato e passivo» (Borutti 1999: 171). La comparazione, tradizionale principio metodologico dell'antropologia "classica", in Geertz, si sviluppa a partire dalla costruzione di concetti integrati con il livello etnografico, nozioni aperte frutto di un processo dialettico tra concetti vicini e lontani dall'esperienza del nativo (Geertz 1988: cap. 3). In questo contesto epistemologico, la comparazione non agisce più su un sistema predefinito di tassonomie inclusive, ma diviene modalità fluida di attraversamento traduttivo dell'altro, in grado di svelarne le strutture relazionali, le somiglianze di famiglia. In Geertz, permane, però, un residuo d'interpretativismo che continua ad occultare la complessità delle procedure di oggettivazione che accadono sul campo. Nonostante la dichiarata volontà di svelare il punto di vista nativo, i suoi interlocutori "sono di fatto lasciati in silenzio, o meglio, sono trasformati (loro che sono soggetti enuncianti), in testi, in sistemi […]; si mantengono i significanti, ma si cancella l'enunciazione" (Borutti 1999: 172). "La qualità di esperienza epistemica del campo risulta in questo modo depotenziata" (ibidem), e «Credo che parte del problema sia dovuto alla diffusione del prodotto della ricerca ad un determinato pubblico. Tuttavia non è solo questione della trasmissione dell'informazione in sé: perché la natura e le caratteristiche di questa trasmissione (se inserita nella stessa ricerca, attraverso un dialogo creativo fra ricercatore e l'oggetto-soggetto della ricerca) la trasformerebbero in un processo di apprendimento reciproco e cambierebbe, dunque, la stessa 58 ACHAB ammettere, come osserva James Clifford, che natura dell'attività scientifica. Questo - trasposto nell'area problematica della ricerca - è ciò che Paulo Freire chiama dialogia nella Pedagogia degli Oppressi» (Stavenhagen in Malighetti 2001: 242). «I pochi esperimenti recenti di lavori con più autori sembrano richiedere, come forza istigatrice, l'interesse di ricerca di un etnografo, il quale in definitiva si assume una responsabilità direttiva, redazionale» (1999: 69). Al centro della sua analisi è il problema etnografico delle pratiche di campo e dell'utilizzo dei testi raccolti durante la ricerca, trascritti, manipolati, e pubblicati infine in veste monografica. Da un lato affrontare questo problema implica un serio coinvolgimento nella traduzione del linguaggio professionale in concetti quotidiani che i propri interlocutori possano comprendere, facendo si che il dialogo iniziato sul campo possa continuare nel reciproco confronto sui testi pubblicati21. È necessario riflettere sul proprio ruolo di "esperti", sul ruolo che hanno i codici di comunicazione nel reprimere la possibilità dell'"altro" di esprimersi. A questo proposito l'antropologia dialogica contemporanea si è spinta fino a proporre la rinuncia da parte dell'etnografo-antropologo di una parte della sua autorità (nella scelta dello stile espositivo e degli argomenti da considerare rilevanti, nel produrre ed autorizzare interpretazioni), a favore di una sua condivisione problematica con gli interlocutori del campo, promuovendo forme di polifonia dove "l'etnografia è invasa dall'eteroglossia" (Clifford 1999: p. 68). In secondo luogo, significa indirizzare l'attenzione del ricercatore verso la questione delle relazioni che egli mantiene con la società più vasta in cui agisce (Stavenhagen in Malighetti 2001: 242), comprendendo nelle proprie indagini una riflessione sul funzionamento delle burocrazie, delle élite politiche ed economiche, delle agenzie dello sviluppo, delle gerarchie ecclesiastiche, dei mass media, dei sistemi educativi (ibidem: 244) di cui è testimone o partecipe, includendo quindi il sistema della ricerca scientifica e l'università, così sviluppando la capacità di riflettere sul ruolo che il potere assume anche all'interno dei contesti sociali dove l'antropologo produce il suo sapere.22 Mettere insieme questi due atteggiamenti comporta l'esercizio di un complicato strabismo, o di una difficile bifocalità, significa abituare il proprio sguardo ad espandersi e ritrarsi secondo un movimento in grado di rendere dinamiche le forme e i confini del campo, così da rivolgersi sia al locale che al globale, al contingente e all'uniforme, ai luoghi tradizionali del campo, dell'incontro, del dialogo - arena in cui una molteplicità di attori interagiscono mescolandosi o confliggendo a partire da una varietà di pratiche e strategie -, e ai luoghi retorici della scrittura, della messa in forma e infine della pubblicazione e diffusione dei risultati della ricerca. Parafrasando la concezione dei tre corpi dell'antropologia medica teorizzata da Nancy Scheper-Hughes e Margaret Lock (1987), significa concepire lo studio dell'uomo in una prospettiva al medesimo tempo fenomenologica e intersoggettiva (il corpo personale), simbolica interpretativa (il corpo sociale e le sue rappresentazioni), attenta infine ai dispositivi e alle forze esercitate dal biopotere politico (il corpo politico). Una prospettiva quindi necessariamente multivocale e multisituata (Malighetti 2005: 37; Marcus 1995) che tenta di cogliere nella quotidianità la rete dei poteri globali, trasversali e "mobili", che attraversano le frontiere spaziali e temporali dei panorami del presente (Pandolfi 2005). Se queste ipotesi operative invitano l'antropologia ad assumere il carico delle sue responsabilità senza pretendere, in nome della scienza, di potersi muovere alla cieca, disinteressandosi dei suoi effetti, bisogna Il problema delle motivazioni del ricercatore, dei suoi interlocutori e della loro reciproca opacità e conflittualità, emerge qui sostanzialmente irrisolto: infatti non può essere sbrogliato teoricamente prescindendo dalle esperienze personali e dai differenti interessi che l'incontro sul campo svela e produce, né può essere evitato cercando di coinvolgere i "nativi" con doni e promesse, cioè con la violenza e la forza della propria autorità. Come sostiene Roberto Malighetti, l'operazione conoscitiva non può neppure fondarsi unicamente sulla "complicità ontologica" e sui vincoli di "affinità" o di "co-appartenenza" che legano interprete e interpretato, sullo sforzo di incrociare le interpretazioni dei nativi con quelle dell'antropologo, gli aspetti emici con quelli etici, i concetti vicini all'esperienza con i concetti distanti (Malighetti 2004: 56-57). Malighetti nella ricostruzione della sua esperienza di ricerca etnografica in Brasile, così racconta le difficoltà incontrate nella comunità di Frechal23: «Nel corso del lavoro mi resi conto che era proprio il modello epistemologico a non funzionare. L'opacità dei miei interlocutori e le difficoltà del lavoro mettevano in crisi l'ottimismo cognitivo su cui si basava. [...] Il mio approccio interpretativo non arrivava, cioè, a concepire il sottile gioco d'interferenza fra le componenti personali e autobiografiche e le componenti disciplinari della ricerca» (Malighetti 2000a). Malighetti ha quindi operato una traslazione metodologica decisa a riconsiderare la pratica etnografica in quanto pratica sociale e il lavoro sul campo come il fondamento distintivo della disciplina (cfr. Parodi 2004). In conclusione, se la ricerca per essere dialogica deve coinvolgere e essere coinvolta dai suoi interlocutori, allora deve essere in grado di accogliere le motivazioni che da essi provengono orientandosi in tal senso. A mio avviso, fare propria questa prospettiva significa spingersi fino a negoziare sul campo anche l'oggetto d'indagine, il punto di partenza così cruciale nel definire il destino di una ricerca. Un simile atteggiamento è in grado di non compromettere sin dall'inizio la pratica etnografica in una logica coloniale di spogliazione e "deculturazione", una logica ancora intrappolata dal desiderio di rappresentare, controllare, dirigere l'altro secondo presupposti "etnocentrici"24. É importante provare a rispondere alla domanda che Gayatri Chakravorty Spivak formulava a metà degli anni ottanta: "Can the Subaltern Speak?" (Spivak 1985), capire in che modo le pratiche di campo rendano possibile o difficile costruire relazioni dialogiche. Si tratta, come ci ricorda Kilani, di "re-inventare" un'antropologia "come disciplina attenta a parlare all'altro, non più a parlare dell'altro"(Kilani 1997: 68). Compiuto un primo giro su noi stessi, che potrebbe sembrare un girare a vuoto, possiamo tornare a chiederci: chi favorisce la ricerca nei suoi vari momenti? Quali vincoli e quali dispositivi crea o subisce? Quali 59 ACHAB motivazioni agevolano un suo esito positivo, e quali produce? Quale fine può inseguire l'indagine etnografica? inter-soggettività umana ha modo di esprimersi in un dialogo: atto di creazione, atto di amore per la vita e per gli uomini (ibidem). Non si tratta qui di raggiungere un'impossibile empatia con i propri interlocutori (nel senso di una completa immedesimazione con il sentire di un altro26), ma di evitare che il proprio lavoro sia confinato ad un'azione strumentale, mera messa in atto di un macchinario metodologico, azione deprivata da una dimensione riflessiva. Se le motivazioni delle persone coinvolte nella ricerca, il loro coinvolgimento collaborativo, sono importanti, altrettanto importanti sono le motivazioni e il coinvolgimento dell'antropologo. La ricerca sul campo si svolge lontano dai propri affetti, esclusi per lunghi periodi di tempo da molte delle abitudini quotidiane che costruiscono le nostre identità. Si può resistere anche per anni a questa condizione spaesante, guidati da una forza di volontà allenata ad una lotta senza fine per non perdersi d'animo. Come osserva James Clifford27, i diari di Malinowski (1992) testimoniano di questa possibilità, costituiscono anzi il supporto stesso, complementare alla finzione salvifica degli Argonauti (Malinowski 2004), su cui l'autore fonda un'identità unificata concepibile ai "confini della civiltà occidentale" (Clifford 1999: 120). Nel campo si manifestano tutti i dispositivi di controllo e disciplinamento del sé. Il lavoro metodico e sistematico consente di resistere alla pericolosa attrazione della frontiera disintegratrice. La personalità etica, sorvegliata, viene realizzata incessantemente mediante il lavoro: "un credo deliberato, una fedeltà assoluta a certi aspetti delle convenzioni" (ibidem: 130)28. Vi sono, però, altri esempi che mostrano altre direzioni. Possiamo menzionare il missionario e antropologo francese Maurice Leenhardt, i suoi lavori etnografici frutto di un soggiorno protrattosi per circa 25 anni in Nuova Caledonia. Michel Leiris, nella sua recensione (Leiris 2005) a Gens de la Grande Terre (1937), ricorda il suo modo straordinariamente familiare di parlare delle genti kanak. Conosceva perfettamente la lingua vernacolare e le abitudini della vita quotidiana, i miti e la visione del mondo kanak. Nonostante i suoi lavori non siano indenni dall'influenza della sua vocazione missionaria, - che costituisce però anche la motivazione e la ragione di una permanenza sul "campo" così prolungata -, come evidenzia Clifford, rappresentano il tentativo di afferrare secondo una "percettività estetica e gestaltica" (Clifford 1999: 52) l'altro nella sua totalità, attraverso un contatto sensoriale e simpatetico con la "sua gente", e una conoscenza cumulativa sempre più approfondita. Andando indietro nel tempo incontriamo Frank Hamilton Cushing e i suoi studi sugli indiani Zuni tra cui visse tra il 1879 e il 1884. Cushing era intenzionato a calarsi completamente nel mondo indiano, allo stesso tempo proponendosi di stabilire un rapporto di reciprocità con coloro che lo avevano iniziato ai segreti della loro religione. Nel 1882 girò gli Stati Uniti con un piccolo gruppo di Zuni a cui cercò di mostrare la propria cultura.29 Certo, la ricerca antropologica mantiene una specificità che la distingue da un generico attivismo. È anzi proprio la sua singolarità, la messa in questione dei propri ed altrui pregiudizi, a far si che una prassi antropologica critica, riflessiva, dialogica sia in grado di sfuggire alla chiusura di una militanza politica ideologicamente schierata. L'ideologia, citando le osservazioni di Ricoeur a Conoscenza ed interesse, non è un accidente, ma la sistematica deformazione della 3. Ideologia, prassi e decostruzione etnografica Ogni domanda nasconde una doppia faccia. Se da un lato, come interrogativo enigmatico è sempre legittima - apertura alla prassi di fronte ad un domandarsi indecifrabile - dall'altra, ipotizzando implicitamente una risposta che scioglie l'inquietudine che sosteneva il suo principio poietico, risolvendosi allora in una speculazione fondamentalmente sterile, costituisce e costruisce il presupposto ideologico di un pensiero reificante. Così ogni domandare sulle motivazioni, le aspettative, i desideri che anche un incontro di campo alimenta, non sfugge a questa ambiguità. Ogni spiegare presenta una doppiezza, tra reificazione e utopia. Si tratta allora di non fare della domanda un pensiero alienato, inscrivendola invece in una prassi creativa. Possiamo ripartire allora da qui, dal riconsiderare la dinamica dei processi di oggettivazione e il loro ambiguo situarsi tra ideologia e invenzione, tra la realizzazione di ciò che era già stabilito e previsto e il virtuale, l'emergere di un complesso problematico, di un nodo di forze generativo e vitale (Deleuze 1972; Levy 1997: cap. 1). Come già sosteneva Habermas in Conoscenza e interesse, il processo sintetico si caratterizza e si inscrive in una prassi: «Soggetto della costituzione del mondo non è una coscienza trascendentale in generale, bensì il concreto genere umano che […] riproduce la sua vita. […] Il sistema delle attività oggettive crea le condizioni di fatto della possibile riproduzione della vita sociale e contemporaneamente le condizioni trascendentali della possibile oggettività di oggetti dell'esperienza» (cit. in Ricoeur 1994: 239-240). La sintesi non è oggettivazione di una coscienza, ma quella di un'attività. È la prassi sociale, materiale e simbolica ad essere supporto e ragione della sintesi. Un'economia, intesa come accordo di rapporti di scambio e di produzione, prende il posto di una logica fondata su una pura appercezione del mondo. Seguendo l'idea proposta da Ricoeur nelle Conferenze su ideologia e utopia, la comprensione del lavoro sociale come sintesi permette di riconsiderare il concetto di Lebenswelt, di mondo della vita - formulato da Husserl nella Critica delle scienze europee - in termini storici, come caratterizzazione contingente del divenire-uomo dell'uomo (Ricoeur 1994: 240). Ogni finzione in questa prospettiva assume un carattere generativo e dinamico. Citando Lukacs, possiamo pensare la storia come il luogo dell'ininterrotto "sovvertimento delle forme di oggettualità che plasmano l'esistenza dell'uomo" (Lukacs 1967: 245), espressione di una umanità come compito infinito, fine verso cui siamo diretti e che incessantemente tentiamo di portare alla vita25. La dicotomia tra conoscenza e agire pratico è così superata nel concetto di prassi, attività al contempo produttiva e riflessiva. Anche la ricerca etnografica, può configurarsi come praxis, attività umana globale - conoscitiva, politica, personale e collettiva -, incontro in cui, come nella proposta pedagogica di Paulo Freire, "si fanno solidali il riflettere e l'agire […][di] soggetti orientati verso un mondo da trasformare e umanizzare" (Freire 1971: 107), dove l'essenziale 60 ACHAB globalizzazione ha generato effetti particolarmente nocivi dove la destrutturazione-ristrutturazione culturale, di per sé implicita in ogni situazione di "contatto", si è accompagnata alla distruzione forzata delle forme di autorità e reciprocità sociale locali. Se la sfera pubblica è annichilita, la fase di liminarità rischia di perdurare indefinitamente. Una carenza politica strutturale impedisce la riorganizzazione, di per sé sempre ibrida e meticcia, delle culture, trasformandole in deformi e vaghi fantasmi, ombre sbiadite ed inefficaci con cui gli individui, nella loro singolarità, affrontano un mondo sempre più enigmatico. Potremmo pensare qui ad una irrisolta "crisi della presenza" (de Martino 1975), ad una "liminarità congelata" e sospesa dove le persone abitano territori a cui non appartengono più33. Per queste ragioni la pratica antropologica non può scindersi da un radicale atteggiamento dialogico e da una difficile e contraddittoria militanza politica che aspiri all'emancipazione dei suoi interlocutori e dei gruppi organizzati che li rappresentano. relazione dialogica, un disagio della comunicazione (Ricoeur 1994: 250). L'ideologia è il sistema di resistenza al ripristino della relazione dialogica che un sistema di potere mette in atto per conservare un dominio e riprodursi nell'assoggettamento del subalterno (ibidem)30. L'occultamento della complessità relazionale della ricerca etnografica, la negazione della prossimità e coevità implicata dai vincoli conoscitivi di campo, l'allocronia, la creazione di un tempo altro dove collocare il nativo (Fabian 2000) - tempo altro rispetto il luogo del testo, dove la sincronia tra l'autore e il pubblico a cui parla definisce il nativo come persona assente31 - tutto ciò, costituisce la rimozione della situazione dialogica. All'interno di una prospettiva critica, l'antropologia può svolgere un ruolo significativo nel decostruire forme ideologiche di assoggettamento, quando fa prevalere ad un interesse cognitivo incentrato sulla rappresentazione dell'altro e alle metodologie oggettivanti costruite sul dato, un interesse comunicativo fondato su pratiche dialogiche in grado di innescare una reciproca riflessione: sommovimento che lascerà vedere crepe, incrinature, varchi, passaggi attraverso i quali altro può avvenire. Riflessione non solo teoricodiscorsiva, ma anche pratica in quanto partecipe di una prassi sociale. L'antropologia si trasforma in un pensiero della relazione, rivolto verso l'esterno, attirato dall'aria aperta (Laplantine 2004: 29). È allora evidente, come già osservato nel primo paragrafo, che il ruolo dell'antropologia non può essere quello di assimilare l'altro, riconducendolo ad una relativa differenza quantitativa, ma è invece quello di conservare la sua Alterità, mostrandone la presenza utopica, all'interno di una processo di trasformazione e umanizzazione della natura32. L'antropologo e suoi interlocutori, sul campo, determinano una relazione comunicativa "artificiale" in cui lo stabilirsi di una specie di transfert, di una fase esplicativa "neutrale", permette il formularsi di una critica riflessiva non astratta, ma immediata ed esperienziale. Come stranieri, si condivide una sorta di obbiettività che consente di accedere a "confessioni e rivelazioni tenute nascoste alle persone più intime" (Simmel in Crapanzano 1995: 176). Il ruolo di "indigeno marginale" (Freilich 1970) dell'antropologo, il mantenimento di un margine di dissidenza, la sua alterità mancante, rappresenta il simmetrico dell'assenza, del vuoto ermetico ma prolifico che egli cercherà di portare a casa, al ritorno dal suo viaggio. Victor Segalen, nel Saggio sull'esotismo, scriveva: "L'esotismo non è dunque un adattamento; non è la perfetta comprensione di un fuori-disé che si rinchiuderebbe in sé, ma l'acuta ed immediata percezione di un'eterna incomprensibilità […]. Non illudiamoci d'assimilare gli usi, le razze, le nazioni, gli altri; al contrario rallegriamoci di non poterlo mai fare; ci riserviamo così il perdurare del piacere di sentire il Diverso" (Segalen 1983). Questo "piacere" non è il frutto di un atteggiamento estetizzante, ma invece il momento cruciale dell'incontro etnografico. Lo spaesamento prodotto dall'impatto con un'alterità "incomprensibile" determina uno spazio di elaborazione e negoziazione reciproca, in cui gli idiomi di una cultura possono venir parzialmente destrutturati e quindi ristrutturarsi su un nuovo piano. Qui ci troviamo di fronte ad un nodo teorico e pratico molto delicato: smontare le forme culturali è un operazione assai pericolosa quando non vi è alcun insieme sociale organizzato in grado di superare questa fase di "liminarità". La deculturazione prodotta dal colonialismo e dalla La distanza che divide antropologia generale, antropologia applicata e cooperazione allo sviluppo, nella prospettiva fin qui tracciata può forse essere riconsiderata. Nella seconda parte di questo lavoro, a partire dalle mie esperienze di cooperante in Angola, cercherò di pensare le questioni di ordine teorico, epistemologico e politico che spingono ad una convergenza di queste attività verso una comune prassi aperta ai rispettivi contributi. (Fine della Prima Parte). Note * La seconda parte dell’articolo sarà pubblicata nel prossimo numero di Achab. Leiris 1984, p. 222. 2 Famiglia Cristiana n. 28, luglio 2005. 3 Rapporto della Commission for Africa, 11 Marzo 2005, Sintesi Conclusiva. 4 Banca Mondiale, Word Development Report, 2000/2001. 5 Il Rapporto della Commission for Africa contiene "un pacchetto coerente per l'Africa", un insieme di raccomandazioni che affrontano problemi fra loro strettamente connessi, "circoli viziosi che si rafforzano a vicenda". I provvedimenti studiati dalla commissione propongono tra l'altro di aumentare la somma destinata agli aiuti all'Africa, con l'obiettivo di raggiungere la soglia dello 0,7% del rapporto tra il totale degli aiuti e il totale del PNL dei paesi donatori - soglia proposta già nel 1969 dal Rapporto Pearson, Partners in Development, e accolta dalle Nazioni Unite. 6 Il Live 8, simbolicamente rappresentato dal logo di una chitarra con la sagoma dell'Africa, replica, a distanza di vent'anni, il Live Aid dello stadio di Wembley, il primo grande concerto filantropico, organizzato il 13 luglio 1985 per aiutare l'Etiopia che moriva di siccità e carestia. 7 Traduzione parziale italiana in Malighetti 2001, pp. 296-308. Cfr. Apthorpe (in Malighetti 2005). Per un confronto con le pratiche discorsive della retorica coloniale vedi anche i testi di Asad (1973) e Said (2001) a cui Escobar si ispira. 8 Cfr. Rapporto della Commission for Africa, 11-3-2005, Sintesi Conclusiva. 9 Appelli insistenti, come ad esempio lo slogan della Commission for Africa: «Making it happen». Ancora più incalzanti e ostinati sono i richiami di Make Poverty History (coalizione di associazioni caritatevoli e religiose, sindacati, 1 61 ACHAB celebri personalità del mondo dello spettacolo, della cultura e della politica, che si propone durante il 2005 di mobilitare l’opinione pubblica mondiale e accrescere la pressione sui governi nazionali e sulle organizzazioni internazionali affinché prendano provvedimenti concreti per combattere la povertà endemica in molti paesi del Sud del mondo): «act now», «take action», «If not our generation, who? If not in 2005, when? Please join us». 10 K. Mannheim, Ideologia e utopia, 1929. Cit. in Ricoeur 1994, p. 303. 11 In un altro passo del romanzo ispirato al suo viaggio sul fiume Congo, Conrad descrive le impressioni del protagonista, il suo sguardo sulle sponde enigmatiche del fiume: "Eravamo uomini erranti su una terra preistorica, su una terra che assumeva l'aspetto di un pianeta sconosciuto. […] L'uomo preistorico imprecava contro di noi, c'implorava, ci dava il benvenuto - chi poteva dirlo? Noi eravamo tagliati fuori da poter comprendere l'ambiente che ci circondava; scivolavamo oltre come fantasmi, stupiti e segretamente sgomenti, come dei sani di mente dinanzi a un'esplosione di entusiasmo in un manicomio" (Conrad 1978: p. 109). Conrad era chiaramente cosciente dell'incapacità sua e degli amministratori coloniali di comprendere il mondo africano. 12 Presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca. 13 Michael Taussig allude ad una forma di mimesi, fondamento epistemico della cultura coloniale. Lo specchio coloniale riflette sui colonizzatori la barbarie delle loro medesime relazioni sociali, barbarie imputate alle "selvagge" figure che vorrebbero assimilare. Ogni dominazione per essere praticabile produce una violenza che proietta sul proprio oggetto, così nascondendone l'origine. Ciò che l'ideologia coloniale attribuisce all'altro è così il riflesso degli atti che essa consente e genera. Nel contesto del mondo contemporaneo, tale retorica prende forme inedite: è la povertà, l'indigenza, piuttosto che la selvatichezza e le barbarie, a funzionare da elemento mobilitante l'intervento occidentale negli stati sorti alla fine del colonialismo. Dove nello schema coloniale è la violenza ad essere attribuita all'altro, qui sono le origini della povertà, origini in verità rintracciabili nel processo di espansione del sistema capitalistico mondiale. Se la retorica coloniale legittima "un sistema che produce inevitabilmente impoverimento, malnutrizione, dsorganizzazione, demoralizzazione e graduale decadimento demografico, […] spedizioni punitive […], massacri di massa dei nativi […][e] strane rappresaglie nel nome della giustizia, del prestigio e dell'onore dell'uomo bianco" (Malinowski in Malighetti 2005: 9), l'apparato dello sviluppo si iscrive nel medesimo sistema della modernità occidentale, legittimando azioni ingiustificabili, occultate per mezzo di eufemismi e tautologie. "Pazzie tropicali" usate per difendere "la condotta così come la mentalità dell'uomo bianco in Africa" (Malinowski in Malighetti 2001: 89). Come osserva Kilani: "in quanto padroneggiata, la differenza dell'altro rafforza o restituisce vigore al proprio sistema di significazione e alla propria identità" (Kilani 1997: 81). Si chiude così il cerchio: un potere capace di manipolare l'altro produce un sistema di discorsi che consente la messa in opera di una dominazione inizialmente solo potenziale. Il discorso coloniale e postcoloniale - profezia che si auto avvera provocando ciò che attribuisce (per il caso dello sviluppo cfr. Rist 1997) - può essere rappresentato, allora, alla stregua delle istituzioni totali studiate da Goffman: "dove l'esistenza è scarnificata fino all'osso, possiamo vedere ciò che le persone fanno per sopravvivere" (Goffman 1968: 322). Comportamenti "anomali", "cattiva condotta", "persistere dell'individuo nel manifestare i propri sintomi, […] tendenza a sviluppare altri sintomi attraverso le sue risposte reattive" (ibidem: 323). Si tratta qui di un circolo vizioso: gli atti di ostilità contro l'istituzione coloniale devono fondarsi su strumenti limitati (insolenza, silenzio, mancata collaborazione, distruzione di beni), ma più questi strumenti sono inadeguati a rappresentare un rifiuto consapevole del dominio, più appaiono come sintomi di inferiorità, brutalità, selvatichezza, irresponsabilità, irrazionalità, sintomi su cui si legittima l'intervento coloniale (ibidem). Così, la necessità del potere di riprodursi controllando ciò che potrebbe sfuggirgli, l'evento, l'individuo nella sua singolarità, si manifesta qui non solo nella riduzione dell'alterità dell'individuo a se medesimo, ma nella cortocircuitazione di tale mancanza destabilizzante a strumento di repressione. 14 L'altro nelle sue molteplici forme: "l'altro esotico, definito rispetto ad un noi che si suppone identico; […] l'altro sociale, l'altro interno in riferimento al quale si istituisce un sistema di differenze […]. L'altro intimo, infine, […] presente nel cuore di tutti i sistemi di pensiero, la cui rappresentazione, universale, risponde al fatto che l'individualità assoluta è impossibile" (Augé 1993: 22). 15 Nella terminologia di Lacan il reale si mostra come estraneità che resiste ad ogni tentativo di significazione. 16 La presunzione di avere finalmente visto in faccia l'altro, di averlo riconosciuto come differenza o somiglianza, si accompagna alla convinzione del superamento dei propri pregiudizi. Pregiudizi che in questo modo si raddoppiano, nascondendosi al nostro sguardo. Le forme di relativismo radicale, implicando distanziamento e segregazione culturale, sono incapaci di concepire la dinamica dei fenomeni di negoziazione, dialogo, conflitto che la coevità delle culture comporta (cfr. Borutti 1999: 168-169). 17 Accolgo qui la meditazione di Lacan sul compito del linguaggio, fenomeno evocativo più che informativo, dove cercare nella parola dell'altro ciò che ci costituisce come soggetto (cfr. Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Lacan 2002; in particolare pp. 292-93). Gli scritti di Lacan degli anni settanta, come ci ricorda Massimo Recalcati, prendono distanza dalla logica ermeneutica di decifrazione del simbolico, "mettendo l'accento non sul movimento del senso ma sul suo arresto, sul punto di eclissi del senso. […] L'interpretazione deve isolare nel soggetto un 'cuore di nonsenso', deve, anziché decifrare il senso, dare rilievo ad un reale che resiste ad ogni significazione. […][La verità] non è allora ciò che l'interpretazione decifra sottraendo dal velo, ma piuttosto qualcosa che sorprende, che colpisce il soggetto, che colpisce nella forma di un incontro. E in questo incontro [sempre mancato] qualcosa cede nella superficie levigata, liscia dei discorsi e si produce un effetto di spiazzamento" (Recalcati 2001: 116-17). 18 Per una critica a Geertz, in particolare del suo saggio sul combattimento dei galli nell'isola di Bali (Geertz 1987), vedi anche Clifford (1999: 57), Tedlock (2002: 295, 306); per una critica dell'antropologia simbolica vedi Fabian (2000: 158-168). 19 Paul Rabinow, sviluppando le idee di Frederic Jameson in Postmodernism and Consumer Society (1983), osserva come la prospettiva postmodernista interpretativa, caratterizzata da un approccio testuale che sconnette i significanti in pastiche fluidi e discontinui, finisca per ignorare i rapporti tra forme di rappresentazione e pratiche sociali. L'etnografia postmodernista avendo come unico riferimento se stessa implica il necessario "fallimento del nuovo e la reclusione nel passato": "la ribellione dei moderni diverrebbe sterile e non le rimarrebbe altro che 'imitare stili morti'", assemblaggio di maschere in un 'fantastico da biblioteca' in cui i soli referenti del testo sono altri testi, altre immagini, allusivo ed elusivo plagiare precedenti intrecci e proliferare di metariferimenti (Rabinow 2001: 333-335). Secondo Rabinow, lo stesso Clifford, preso ad esempio di questa meta-posizione intellettuale, non parla specificatamente di relazioni con l'altro, se non quando mediano il suo principale interesse analitico: i tropi discorsivi. Il "ricercatore" postmoderno rimane così cieco rispetto alla sua medesima condizione (ibidem: 336). Questo ripiegamento sul testo e su una riflessività sconnessa dalle pratiche sociali é il principale rischio di un'antropologia postmodernista. 20 Possiamo ricordare le polemiche suscitate dalla pubblicazione di Darkness in El Dorado (Tierney 2000), o gli scandali successivi alla scoperta del coinvolgimento di antropologi in progetti di contro-insurrezione in Cile (Progetto Camelot, 1965) e in Thailandia (1970). Cfr. Fluer-Lobban 1991. 21 James Clifford parla del problema del "rimpatrio", dei modi in cui consentire il riappropriarsi delle etnografie da parte delle popolazioni indigene. Vedi ad esempio Clifford 2004, p. 96. 62 ACHAB 22 secondo il suo informatore Andrew Peynetsa riguardava probabilmente Cushing. Il racconto parla di un bianco sacerdote dell'Arco, pitturato con righe nere che leggeva le preghiere su un pezzo di carta (ibidem: 298). 30 Habermas cerca di sfuggire in tal modo ai circoli viziosi che produce la contrapposizione tra ideologia, come falsa rappresentazione, e verità come oggettività. Il discorso ideologico, seguendo qui Foucault, non è in se stesso né falso né vero. È uno specifico "sistema di procedure ordinate per la produzione, la distribuzione e il funzionamento di enunciati" (Rabinow 2001: 323). 31 Fabian in Il tempo e gli altri (1983), dedica un paragrafo del suo libro (pp. 107-115), alla funzione retorica del presente etnografico. L'uso del presente e di un soggetto alla terza persona (ad esempio: "I Nuer non hanno governo") testimonia l'essere stato là dell'etnografo (uso del presente), e ne oscura, al medesimo tempo, la presenza (uso della terza persona), così fondando la sua autorità di osservatore distaccato, neutrale e oggettivo. "Egli", il nativo, diventa una persona assente, una non-persona, oggetto di contemplazione estetica. De Certeau, commentando le "strategie teoriche" di Bourdieu (cfr. de Certeau 2001: 95-104) parla di una "etnicizzazione" del nativo: la coerenza di una società, per divenire il postulato del sapere antropologico, deve essere messa a distanza dai suoi membri, diventando quel sapere "occulto", inconscio, mistico, superiore al sapere che il nativo ha di se stesso, che per rendersi visibile implica la presenza di un etnografo (ibidem: 99). 32 La natura, in quanto parlata, non può che essere già umanizzata dal linguaggio. Se si mantiene come qualcosa di autonomo non riducibile alla prassi, questa priorità vale solo all'interno di una prassi che ne fornisce un senso configurandola come possibilità, come materia e strumento di un lavoro umano. Così, la natura non può essere "assolutizzata in modo da giungere ad un principio metafisico; solo all'interno della prassi può essere evidenziato quel momento della prassi stessa che ne costituisce un presupposto autonomo" (Cingoli 2000: 114). Ciò che deve essere spiegato storicamente non è allora "l'unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura […], ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell'esistenza umana da questa esistenza attiva" (Marx 1968: vol. II, p. 114). Una concezione dualistica del rapporto tra uomo e natura anziché pensare la natura come limite che circonda e penetra continuamente l'uomo e il suo fare, veicola un'idea di natura come ente radicalmente altro dall'uomo, concezione in cui la natura si riduce ad oggetto manipolabile dalle tecniche, bene di consumo, oppure ad una realtà lontana, incontaminata, vergine, e per questo ancora politicamente neutrale, priva di ogni legame con le pratiche quotidiane della vita, discorso di incantamento che occulta le reali operazioni di sfruttamento a cui sono sottoposte le risorse naturali (cfr. Escobar 1999; Vedi anche la voce Ambiente in Sachs 2004). 33 Tale situazione di anomia ricorda quella dei moderni campi profughi (cfr. Bauman 2004, pp. 188-203; Vedi anche Agier 2001; Floris 2005). L'importanza del ruolo pubblico dell'antropologia, già evidenziato nei Principles of Professional Responsability (PPR) dell'American Anthropological Association (AAA 1971, cit. in Caplan 2003: 20-21), tra gli antropologi americani é recentemente tornato al centro del dibattito accademico (cfr. 99-esimo incontro annuale dell'AAA, The Public Face of Anthropology, San Francisco, 15-19 Novembre, 2000; vedi anche Borofsky 2002). 23 Comunità di discendenti di schiavi del Nord-Est del Brasile. 24 Certo da qualche parte bisogna partire e da qualche parte bisogna arrivare. Assumere la responsabilità che un incontro tra alterità coinvolge significa allora aprirsi all'evento, lasciare venire l'altro verso di noi concedendogli la nostra ospitalità. Cfr. Resta 2003. Vedi in particolare il cap. 3, Politiche dell'ospitalità. 25 Cfr. Ricoeur 1994, p. 276. Di Ricoeur vedi anche: Dal testo all'azione, 1989 [1986], in particolare la parte terza: Ideologia, utopia, politica. Come afferma il filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehlen nel suo opus maius: L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1983 [1940, ed. rivista nel 1950 e 1978]), l'esigenza dell'uomo di interpretare se stesso non è solo teoretica. Questa necessità di progettarsi nasce dal carattere essenzialmente incompiuto dell'uomo, ente non costituito una volta per tutte, "che deve fare di sé qualcosa" (ibidem: 36), divenendo quindi agente e creatore di cultura. 26 Essendo invece sempre possibile un "sentire con", un "sentire per", una simpatia che non implica una condivisione totalizzante, ma un orientamento cognitivo ed emotivo verso l'altro. Non si tratta di simulare il sentire altrui, ma di comprenderlo nel proprio specifico "essere con" l'altro. Per una proposta riguardo all'importanza del concetto heideggeriano di "essere-con" [mitsein] nelle pratiche etnografiche, vedi D'angelo 2006. 27 J. Clifford, Sul modellamento etnografico dell'io: Conrad e Malinowski (Clifford 1999: 115-139). 28 Clifford confronta le finzioni retoriche dell'autore degli Argonauti e dei Diary con le parole del protagonista di Cuore di tenebra: "Marlow, nel cuore dell'Africa, si aggrappa come se ne andasse della vita, al suo battello, alle incombenze di routine della manutenzione e della navigazione" (Clifford 1999: 120): "Dovevo vigilare sul governo, e aggirare quei tronchi sommersi, e far procedere quel barattolo di latta per amore o per forza. C'era tanta verità alla superficie di tali cose da salvare anche un uomo più savio" (Conrad 1978: 111). 29 Per una rassegna storica della collaborazione tra etnografi, informatori e comunità, da Morgan e Boas agli esperimenti dialogici post-moderni di Dweyer e Crapanzano, fino alle più recenti strategie partecipative, vedi Lassiter 2005. Sulla paradossale posizione di Cushing e sui residui moralistici contenuti nelle sue traduzioni dei testi Zuni - "bizzarrie vittoriane" che violano apertamente i principi boasiani del buon interprete, testimoniando così l'impossibilità di una indigenizzazione totale dell'etnografo -, vedi le analisi di Dennis Tedlock (2002: 63-66, 298-299). Tedlock riferisce una storia Zuni che Bibliografia Agier M., Aux bords du monde, le réfugiés, Paris, Flammarion, 2001. Apthorpe R., Il discorso delle politiche dello sviluppo, in Malighetti, 2005. Asad T. (a cura), Anthropology and the colonial encounter, Ithaca & Humanities Press, 1973. Augé M., Nonluoghi, Elèuthera, 1993 [1992]. Bauman Z., Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2004 [2003]. Borofsky R., Conceptualizing public anthropology, www.publicanthropology.org, 2002. Borutti S., Filosofia delle scienze umane, Mondadori, Milano, 1999. Caplan P. (a cura), The Ethics of Anthropology, Routledge, New York, 2003. 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Tensioni politico-religiose fra Assisi e il papato nel medioevo Patrizia Quattrocchi, Donne, riproduzione e salute comunitaria in un villaggio maya dello Yucatán (Messico) Le immagini Danilo De Marco, Fiori di fango. Polvere del suolo del Latinoamerica Margherita Becchetti, Ritratti ribelli. Guerra e vita quotidiana nei disegni di una pittrice partigiana Schegge Armando Cutolo, Stranieri in casa propria. La guerra civile in Costa d'Avorio Marco Adorni, La via del benessere. Storia della superstrada E45 In cantiere Giovanni Campolo, Il genere dimenticato. Piccolo viaggio intorno agli studi sugli uomini Voci Marilena Moretti, La rivoluzione non è una cosa seria Altre narrazioni Mario Monicelli, Insoliti eroi. Intervista tra cinema e storia (a cura di Andrea Palazzino) Luoghi Rodolfo Taiani, Carte d'identità. Tradizioni comunitarie e usi civici negli archivi della Val di Fiemme Gianmario Leoni, Orgosolo paese dei murales La storia al lavoro Luca Fanelli, Il contadino e il ladro di terre. Espropriazioni e resistenze nel Brasile Storie di classe Davide Montino, Il regime nel registro. Fascismo e missione magistrale nella storia di Ernesta F. Interventi Stefano Agnoletto, Declinare il declino. A proposito di una categoria ambigua Franco Milanesi, Il Novecento tra storia e filosofia Davide Spagnoli Cruciverbone sul comunismo Recensioni Andrea Cavazzini (Antonella Cutro, Biopolitica. Storia e attualità di un concetto); Maria Beatrice Di Castri (Luciano Canfora, Il papiro di Dongo); Fabrizio Billi (John Dos Passos, Davanti alla sedia elettrica); Marco Fincardi (Dorena Caroli, Ideali, ideologie e modelli formativi); Eric Gobetti (Arthur J. Evans, A piedi per la Bosnia durante la rivolta); Silvia Boffelli (Giovanni Giacopuzzi, Angelo Miotto, Roberta Gozzi, Storie basche). Note per la consegna e la stesura degli articoli. Gli articoli dvono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times o times new roman corpo 12. 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