LE OPINIONI PER UN RITORNO ALLA GIURISDIZIONE RIFLESSIONI E PROPOSTE NELL'AMBITO DELLA CONSULTA SULLA GIUSTIZIA DAL PUNTO DI VISTA DELL'UTENTE. La diagnosi Si parte da un dato reale, indiscusso: le difficoltà della macchina giudiziaria a rispondere alle attese di giustizia. Sennonché, a fronte della crisi della giurisdizione si avverte una vera e propria fuga dalla giurisdizione. A) in ambito civile il fenomeno è noto: sempre più massiccio ricorso all'arbitrato, alle commissioni di conciliazione (cfr. rito del lavoro etc. …); B) in ambito penale la tendenza è da un lato di perseguire strade che sembrano porsi su una linea più che di depenalizzazione, di vera e propria degiurisdizionalizzazione (cfr. estensione dei limiti del patteggiamento), motivata sui tempi lunghi di un rito ordinario paradossalmente sempre più complicato; C) più in generale, nell'ambito di questo processo di degiurisdizionalizzazione, si assiste al trasferimento di potestà investigative, accertatorie e sanzionatorie ad organi amministrativi quali Autority, Consob, Banca d'Italia, Prefetture; enti — tutti — che (talvolta) difettano della necessaria indipendenza e autorevolezza; D) vi sono – invece – recenti provvedimenti legislativi in controtendenza quali quello relativo alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche o, ancora, l'introduzione della competenza penale del Giudice di pace con funzioni tipicamente mediatorie e conciliative e con tipologie sanzionatorie non strettamente criminali. L'analisi A fronte di tali indiscutibili tendenze, la prima domanda che ci si pone — che ci si deve porre — partendo sempre dal punto di vista dell'utente è: tutto questo è un bene? In altri termini, questa linea di tendenza si traduce poi effettivamente in procedure più efficaci? Alcune riflessioni scaturiscono da esperienze concrete e recenti. I recenti scandali finanziari hanno dato conto di come gli organi (amministrativi) preposti al controllo non siano stati in grado di prevenire fenomeni di proporzioni inedite: in altri termini, ad un sacrificio di garanzia (giurisdizionale) non corrisponde, dunque, in via automatica, un aumento di efficacia. Eppure si insiste in questa strada: pare significativo che i recenti provvedimenti per la tutela del risparmio continuino a insistere nella direzione di attribuire maggiori poteri ad Autorità amministrative, non prendendo in considerazione la possibilità di un intervento giurisdizionale. Per quanto poi attiene al profilo delle garanzie di difesa individuale, è inutile sottolineare il pericolo che consegue all'affidamento di poteri immediatamente sanzionatori a procedimenti amministrativi (vedi, ad esempio, procedure investigative e sanzionatorie di Banca d'Italia, Consob, esercizio non garantito di poteri prefettizi, etc., etc.…). Le proposte È possibile proporre come tema di discussione il ritorno alla giurisdizione? Di fronte alla crisi della giurisdizione non ha più senso affrontare in radice i nodi più che cercarne illusoriamente la soluzione attraverso vie di fuga? Quali, peraltro, le questioni da affrontare partendo dai temi più semplici? In estrema sintesi, questi i “nodi” più importanti: A) normativo e procedimentale; B) ordinamentale; C) organizzativo/logistico; D) deontologico. Per ottenere una giustizia efficiente e garantista occorre — da subito e partendo da iniziative di più agevole attuazione — valutare: A) l'introduzione di sezioni specializzate, preparando i Giudici, con adeguate scuole di formazione professionale, ad affrontare anche i temi più complessi; in buona sostanza, una volta che si sceglie la “strada della giurisdizione” è ovvio che bisogna investirvi, con uomini e mezzi adeguati; B) nei singoli Tribunali l'affiancamento di figure manageriali in grado di supportare i magistrati per tutto ciò che non sia strettamente giurisdizionale (cfr. recente riforma del sistema sanitario); C) iniziative di riforma volte all'accelerazione dei procedimenti ordinari nel rispetto — sempre, ovviamente — dell'autentico principio del contraddittorio; D) la creazione di codici di autodisciplina che pongano la giurisdizione su un piano — su uno status — che non consenta — ad esempio — il ricorso a forme di agitazione non confacenti alle funzioni esercitate (vedi il sempre maggiore ricorso all'improprio strumento dello sciopero). Francesco Arata avvocato di Milano IERI E OGGI La pubblicità degli Studi Legali È noto che il principio “antipubblicitario”, che costituiva un punto fermo nel nostro DNA di vecchi avvocati, ha subito e subisce progressive erosioni e sfaldamenti, sotto una triplice pressione: A) l'affermata identificazione degli “Studi Legali” con le aziende commerciali, con conseguente sbandieramento dei principi di libera concorrenza e di soggezione alle regole del mercato, etc. etc. B) la pressione dei Colleghi “giovani”, ormai parte maggioritaria dell'Avvocaura, che solo attraverso la pubblicità ritengono di avere la possibilità di acquisire clienti; C) last, but not least: la sempre più pressante presenza degli Studi Associati che — dovendo competere sul terreno europeo — si sentono assai poco vincolati dalle restrittive norme italiane. Norme che — in relazione a quanto sopra, e navigando il CNF con al timone Remo Danovi — sono state via via variate nel C.D. (ultima versione 26.10.02) introducendo la abbastanza equivoca distinzione fra Informazione e Pubblicità. Piuttosto che addentrarmi in una gesuitica distinzione fra le due espressioni, vorrei affrontare concretamente i casi più spinosi, con qualche riflessione conclusiva: 1) Gli Avvocati, homines pubblici per definizione, hanno sempre amato sentir parlare di sé, e vedere la propria immagine su riviste e quotidiani – ed ora nelle televisioni. In particolare chi tratta il penale, e quindi può fornire ai giornalisti notizie di cronaca (nera, ma anche di colletti bianchi) interessanti, ha sempre cercato di intrattenere rapporti amichevoli con i cronisti. Sappiamo dello “scandalo”, ormai vecchio, delle “Toghe d'oro” (quarum giustamente Dall'Ora); più recentemente vi sono stati articoli che segnalavano avvocati “in line”, internazionalisti, grandi Studi Associati etc. Ritengo che — a fronte di tali tipi di segnalazioni e salvo i casi che eccedano, per smaccata piaggeria, i limiti del buon gusto — vi sia poco da fare: il Collega dirà sempre, come è stato detto in passato: “l'iniziativa è del girnalista; che ce ne posso io se sono famoso”? Recentemente vi sono state anche lamentele, da parte di altri Ordini, per l'apparizione in T.V. di nostri Colleghi, titolari di rubriche giuridiche, ma sinceramente non vedo come possa essere inibita tale forma di “promozione” e divulgazione del diritto (e di se stessi). 2) Le “brochures”: sono lecite ex art. 17, IA, ma debbono essere inviate a soggetti determinati; la frase può creare qualche equivoco: è ovvio che, se spendo alcune migliaia di Euro per far stampare la mia foto, e per tessere le mie lodi (sia pure limitandomi “all'informativa”: dove lavoro; quanti anni ho, chi collabora con me; quali cariche o funzioni ho coperto etc. etc.) non è per farlo sapere ad amici, clienti o colleghi, che già mi conoscono. Lo faccio per i terzi; per allargare la mia clientela, ed allora cercherò su Pagine Gialle, sugli annuari della Camera di Commercio o altrove i nomi e indirizzi di aziende, con le quali per ora non sono in contatto, e a queste manderò la mia brochure. Io chiamo ciò pubblicità, ma mi pare che rientri in quanto l'attuale codice gia consente; se questa mia interpretazione è troppo estensiva, ritengo che un chiarimento da parte del C.N.F. su questo punto possa essere opportuno. Certamente, resta fermo (e di ciò molti Colleghi si dimenticano) il divieto di indicare “specializzazioni” — non conseguenti a titolo universitario — e i nomi dei clienti, anche se questi (veri o presunti) costituiscono, nell'ottica di molti. il miele con cui “attraper les clients”. 3) Chi non ha i soldi per farsi stampare, su carta patinata, una bella brochure, ricorre a “fogli volanti” contenenti le solite “informative”, a volte inserite sui parabrezza delle auto parcheggiate o infilati nelle caselle delle lettere condominiali. Sappiamo di un ex Collega, che faceva distribuire i suoi, nei pressi della Stazione, fra gli extracomunitari. Ciò che soprattutto ritengo censurabile in questi casi è non tanto l'oggetto (“più povero”, spesso grezzo, ma deontologicamente non diverso dalla brochure) quanto il mezzo usato per farlo circolare. 4) Réclame (preferisco questo termine a quello, del resto analogo, di pubblicità) su riviste e giornali: ho visto recentemente delle inserzioni, su pubblicazioni italiane ed estere, di Colleghi italiani: studi associati di indubbio livello, che mi stupisce ritengano necessario ricorrere a tale mezzo. Probabilmente in altri Paesi europei ciò non colpisce negativamente; io ritengo opportuno mantenere il divieto. 5) Siti internet. È ormai un “must” per chi voglia presentarsi con un certo tono di modernità e professionalità, e il mezzo impiegato non mi pare crei problemi particolari: terrei fermo, quanto già l'Ordine di Milano ha (anticipando il CNF) a suo tempo detto circa i contenuti permessi, e a quelli vietati; in particolare: no a consulenze gratuite (tipiche dell'accaparratore); no alle specializzazioni; ho visto che alcuni, nell'indicare i problemi di cui si occupano, sono omniscienti (vanno dal tributario al fallimentare; dal diritto del lavoro al societario; dal commerciale al famigliare etc.); no ai nomi dei clienti. *** È chiaro che l'apertura — già in essere, quanto meno dal 2002 — alla pubblicità, comporterà una ulteriore diminuzione di spazio per i Colleghi meno provveduti di disponibilità economiche e operanti in studi mono o bicellulari, ma — pur avendo questi ultimi tutta la mia simpatia — non vedo come lo si possa impedire: resterà ancora spero, la valutazione personale delle capacità dell'avvocato, che verrà raccomandato dai suoi clienti (il passaparola) e — perché no? — da alcuni Colleghi quando si tratta di questioni “specialistiche” (penale, amministrativo, lavoro, societario, fallimentare etc.) Certo: chi non può farsi conoscere tramite pubblicità, o grazie ad indiscussa capacità professionale, visti gli attuali costi di uno studio legale anche modesto, rischia di trovarsi “espulso” dal mercato. Enrico Biagi avvocato di Milano VERITÀ E PROCESSO Remo Danovi — nel recensire il libro di Ettore Randazzo, L'avvocato e la verità, Palermo, Sellerio 2003 — ripropone il tema “inestricabile” del rapporto tra verità e processo “che vive negli atti e nelle coscienze senza appaganti soluzioni”, condividendo la conclusione cui giunge Randazzo, per la quale « costantemente l'avvocato deve valorizzare tutti gli elementi che la vicenda giudiziaria offre in favore del cliente; deve difenderlo con tutte le forze di cui dispone, con la professionalità che ha acquisito, con la saggezza, l'esperienza, lo studio e perfino “la logorante e creativa ansia notturna”! Infatti, “noi svolgiamo una funzione essenziale, splendida e rigorosa, che va onorata al meglio delle nostre possibilità, nel rispetto intransigente dell'interesse dell'assistito secondo il dettato delle regole normative e deontologiche” », in applicazione del principio della doppia fedeltà (verso l'ordinamento e verso la parte assistita), che da sempre rappresenta il credo dell'avvocatura, restando la verità “una meta ideale e irraggiungibile”. In proposito, Danovi ricorda una “favola” orientale sul dilemma della verità che riporto con le sue parole « è la favola dei tre cavalieri che si avvicinano a un pozzo nel deserto e un saggio osserva la scena. Il primo cavaliere arriva al pozzo e, mentre si disseta, perde una borsa piena di monete d'oro: non se ne accorge e si allontana per proseguire il viaggio. Arriva un secondo cavaliere: vede la borsa, la raccoglie e si allontana. Arriva al pozzo un terzo cavaliere. Nel frattempo il primo cavaliere si accorge di aver perduto la borsa; ritorna al pozzo; ritiene che il terzo cavaliere abbia rubato e nascosto il denaro; lo affronta e lo uccide. A questo punto il saggio che ha osservato la scema si rivolge sconsolato al profeta: “quale mai giustizia è questa che permette a un ladro (il secondo cavaliere) di allontanarsi indisturbato e a un assassino (il primo cavaliere) di uccidere un innocente?”. Ma il profeta risponde: “non parleresti così se tu conoscessi la verità. Il secondo cavaliere non è un ladro, perché la borsa di monete d'oro gli apparteneva, essendogli stata sottratta tempo prima. E quanto poi al terzo cavaliere, questi si è macchiato di gravi violenze nei confronti dei famigliari del primo cavaliere, onde giustamente è stato ucciso!” ». La “favola” dimostra tanto semplicemente, quanto inconfutabilmente, l'imperscrutabilità del disegno divino, motivandola con l'impossibilità di conoscere tutta la realtà, di cui riusciamo ad apprendere solo una porzione infinitesimale, cosicché la “verità” che ci sembra più evidente, nel migliore dei casi, è parziale, non è tutta la verità, come dire che non è la verità. Ma se la verità è inattingibile, cos'è quella che accerta il processo? È la verità processuale, appunto. Cioè la verità cui si può, ed è comunque necessario, giungere applicando le norme processuali: una verità tutt'altro che assoluta, una verità relativa, ma che è pur sempre la verità che lo Stato ritiene la maggiormente (anzi, l'unica) accettabile in quel dato momento storico, quale risultato (mai definitivo) della sua millenaria esperienza. Dopo di che il ruolo dell'avvocato è obbligato. Egli è il difensore del suo assistito, non il giudice dello stesso. Certo, è infinitamente meglio che non lo abbia visto uccidere. Anzi, è bene che neppure sappia, e quindi chieda, al suo assistito se è colpevole. Ma in ogni caso il suo compito non è quello di stabilire se è o meno “colpevole”, che è un problema assoluto che non è assolutamente in grado di risolvere e, tanto meno, se è o meno degno di essere difeso, che è un problema già risolto una volta per tutte in senso positivo da tutte le legislazioni dei paesi democratici. Il suo compito, per fortuna, è infinitamente limitato e cioè quello di stabilire se vi sono e quali sono “gli elementi che la vicenda giudiziaria offre a favore del cliente” e farli valere, con tutta la professionalità di cui dispone. Naturalmente nell'interesse del suo assistito, ma almeno in eguale misura nell'interesse della “giustizia”, perché solo così facendo rende possibile l'equilibrato e quindi corretto funzionamento del meccanismo processuale, che in tal modo può giungere all'altrettanto corretto accertamento della verità processuale. Se tradisce la sua funzione, nella demoniaca presunzione di collaborare al perseguimento della cosiddetta giustizia sostanziale, non tradisce solo il suo cliente (che già è imperdonabile), ma tradisce anche (e prima ancora) la giustizia processuale, e cioè l'unica giustizia che abbiamo e possiamo avere, se non vogliamo sostituirci a Dio. E naturalmente l'unica giustificazione possibile di questa limitazione di responsabilità è il rigoroso rispetto delle norme processuali. La violazione delle quali rende l'avvocato complice dell'assistito. Insomma, il problema non è certo quello comunemente dibattuto se difendere o meno un criminale — anche se “conosciuto” (ma sempre e soltanto molto parzialmente) come tale — la cui soluzione positiva non solo è scontata, ma è necessaria, e proprio ai fini di giustizia, ovviamente processuale, che è relativa ma senza alternative. Il problema è il modo in cui viene esercitata la difesa, poiché se non fosse rigorosamente rispettosa della legge perderebbe ogni giustificazione morale, prima che giuridica. Mentre se lo è, perciò stesso, assume il più alto valore morale, prima che giuridico. Del tutto indipendentemente dall'esito del processo che, peraltro, dipende anche dalla controparte e, più ancora dal giudice e che, soprattutto, è pur sempre un esito relativo: giudizio degli uomini, imperfetto per definizione. Tant'è che le notti insonni dell'avvocato sono dominate dall'”incubo” di non aver fatto e di non fare abbastanza e mai (salvo qualche eccezione più unica che rara) dal rimorso per aver fatto troppo, per il proprio cliente. E questo perché, anche a prescindere da una totale consapevolezza e ragionata accettazione, in tutti gli avvocati il “credo” nel menzionato principio della doppia fedeltà è così profondamente radicato da essere quasi connaturato nel loro comportamento e da poter essere violato solo con profonde, insanabili lacerazioni. Ferdinando Cionti avvocato in Milano IL VERO LEGISLATORE Inutile stare a ripeterci che ci sono troppe leggi, che sono scritte male, che non ci si capisce niente: nella cupa notte legislativa è spuntato un astro splendente: dischetto con le leggi vigenti. Operosi intarsiatori continuano, giorno e notte, a inserire nella loro immensa opera compilativa le modificazioni che il legislatore, notte e giorno, inserisce nella sconfinata e intricata foresta denominata ordinamento giuridico: sono quasi alla pari. Il legislatore ha ormai solo un piccolo vantaggio temporale, ma è trascurabile nella modalità on line. Se non ci fossero i dischetti l'attività legale si paralizzerebbe perché la nostra soglia di tolleranza alle fatiche della ricerca, sapendo che c'è il dischetto, si è abbassata, come si è abbassata la nostra tolleranza al caldo sapendo che c'è il condizionatore. Nessuno di noi avvocati avrebbe ormai più la pazienza di ricostruire un testo legislativo nella sua consistenza attuale, andando a prendere la legge originaria e ripercorrendo negli anni, tutte le mutilazioni, aggiunte, modifiche, eliminazioni, abrogazioni, addizioni e varianti che ne hanno macellato il testo. Sarebbe un lavoro bestiale, lunghissimo e oltretutto con risultati incerti. Invece c'è il dischetto e, con qualche di “clic” sulla tastiera, il programma ci dice immediatamente qual è il testo vigente di qualsiasi legge, da Maria Teresa in qua (1); e ci segnala come e quando il testo è stato modificato e da quali leggi. Lo stesso fanno i giudici: controllano sospettosi le affermazioni contenute nei nostri scaltri atti difensivi e quando citiamo una sentenza, la vanno a vedere sul repertorio, quando citiamo una legge, la vanno a vedere sul dischetto, come noi. Ma chi controlla il dischetto? Io non lo so, penso nessuno, anche perché è inutile. In realtà è lui ormai il vero legislatore perché la legge la scovano gli avvocati e la applicano i giudici, ma entrambi si rifanno ad un medesimo testo che, per colpa dell'attuale logorrea 1 L'Editto 1° febbraio 1751, sulle cave di marmo di Massa e Carrara era considerato il più antico testo legislativo vigente sinché, il 4 maggio 1999, è stato sostituito da un regolamento emanato dal Comune di Carrara, in applicazione della legge regionale della Toscana 33/98. Fonte un dischetto DVD. legislativa, è affidato ai compilatori dei dischetti. Che sia conforme o meno alla Gazzetta Ufficiale è in fondo poco importante: l'importante è che sia….. uguale per tutti. Speriamo in bene. Guido Salvadori del Prato avvocato in Milano IL NUOVO RULING INTERNAZIONALE DOPO LA RIFORMA FISCALE 1. L'istituto La norma di cui all'art. 8 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, ha introdotto nel nostro ordinamento tributario una nuova, ulteriore, forma di interpello. Ai sensi del comma 1 di tale previsione “le imprese con attività internazionale hanno accesso ad una procedura di ruling di standard internazionale, con principale riferimento al regime dei prezzi di trasferimento, degli interessi, dei dividendi e delle royalties”. Gli aspetti operativi della disciplina in commento sono regolati dai commi successivi dell'art. 8, ove si legge: “la procedura si conclude con la stipulazione di un accordo, tra il competente ufficio dell'Agenzia delle entrate e il contribuente, e vincola per il periodo d'imposta nel corso del quale l'accordo è stipulato e per i due periodi d'imposta successivi, salvo che intervengano mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti al fine delle predette metodologie e risultanti dall'accordo sottoscritto dai contribuenti. In base alla normativa comunitaria, l'amministrazione finanziaria invia copia dell'accordo all'autorità fiscale competente degli Stati di residenza o di stabilimento delle imprese con i quali i contribuenti pongono in essere le relative operazioni. Per i periodi d'imposta di cui al comma 2, l'Amministrazione finanziaria esercita i poteri di cui agli articoli 32 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, soltanto in relazione a questioni diverse da quelle oggetto dell'accordo. La richiesta di ruling è presentata al competente ufficio, di Milano o di Roma, della Agenzia delle entrate, secondo quanto stabilito con provvedimento del direttore della medesima Agenzia”. La normativa di attuazione si rinviene nello schema di provvedimento 23 luglio 2004, reperibile sul sito dell'Agenzia delle Entrate, ma non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Esso definisce cosa debba intendersi per “impresa con attività internazionale”, e fornisce fondamentali precisazioni in merito alla procedura amministrativa che il contribuente interessato deve seguire. A prescindere da tali aspetti, il punto saliente dell'emanando provvedimento attiene l'indicazione delle attestazioni necessarie che l'impresa deve produrre per ottenere la disapplicazione della singola norma antielusiva. Troviamo, dunque, un'elencazione dettagliata dei casi in cui il nuovo strumento di interpello è fruibile dal contribuente. Si tratta, nella specie, delle seguenti ipotesi: — la quantificazione del valore normale ai fini del c.d. transfer pricing, ossia delle operazioni di cui all'art. 110, comma 7, del DPR 22 dicembre 1986, n. 917; — l'applicazione ai singoli casi concreti di norme, anche di origine convenzionale, concernenti l'erogazione o la percezione di dividendi, interessi o royalties a o da soggetti non residenti; — l'applicazione di analoghe prescrizioni afferenti l'erogazione o la percezione di altri componenti reddituali a o da soggetti non residenti; — l'applicazione di analoghe disposizioni riguardanti l'attribuzione di utili o perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un'impresa residente ovvero alla stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente. Particolari dettagli sono previsti, inoltre, con riferimento ai criteri di stipula, modifica e rinnovo dell'accordo con l'Amministrazione. 2. Prime considerazioni Il primo interrogativo che si può porre l'interprete riguarda il rapporto fra tale nuovo istituto e i preesistenti interpelli conosciuti nel nostro ordinamento tributario. Questi ultimi sono regolati dalle seguenti norme: 1) art. 21 della L. 30 dicembre 1991, n. 413 (interpello per operazioni potenzialmente elusive); 2) art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (interpello per operazioni straordinarie potenzialmente elusive); 3) art. 11 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (interpello generale di cui allo Statuto del contribuente); 4) art. 167 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Controlled foreign companies). Si è venuto in tal modo a creare un intreccio di strumenti di ruling considerevole, che potrebbe invero dar luogo a confusione. Si deve ritenere, in particolare, che le indicate forme di interpello e il nuovo ruling internazionale afferiscano fattispecie diverse e che, quindi, a seconda dell'operazione in relazione alla quale il contribuente vuole ottenere il parere dell'Amministrazione, egli debba ricorrere ad uno strumento, piuttosto che ad un altro. L'istituto in commento appare, nondimeno, un'innovazione dell'ordinamento apprezzabile. Essa, infatti, permette un maggiore confronto fra Ufficio e contribuente, non limitandosi quest'ultimo, come nelle altre fattispecie di ruling, a proporre la sua interpretazione della norma e l'applicazione della stessa al caso concreto, ma potendosi, invece, giungere ad un vero e proprio accordo intorno al trattamento fiscale di un'operazione che vincoli entrambe le parti coinvolte nel rapporto tributario. In ciò, pertanto, si può ravvisare una somiglianza con l'istituto dell'accertamento con adesione di cui al D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Le sovrapposizioni fra i due procedimenti emergono palesi laddove si raffrontino le modalità di formazione dell'accordo nei due casi. In entrambe le ipotesi, a seguito dell'istanza di parte, vi è un incontro fra funzionari e contribuente nel quale viene analizzata la documentazione rilevante. Di tale incontro e delle osservazioni svolte da ciascuna delle parti viene redatto processo verbale e la procedura si conclude con la sottoscrizione del predetto verbale. Nel caso di accertamento con adesione, tuttavia, il perfezionamento dell'accordo, e quindi il prodursi dei suoi effetti preclusivi dell'accertamento, si raggiunge con il versamento da parte del contribuente dell'importo concordato con l'Amministrazione. Nel nuovo interpello internazionale, invece, la sottoscrizione vincola già le parti, per il periodo stabilito. Più nel dettaglio, si legge nel provvedimento attuativo poc'anzi menzionato, come mediante l'accordo: “ a) sono definiti i criteri ed i metodi di calcolo del valore normale delle transazioni dedotte nell'istanza (…); b) vengono definiti i criteri di applicazione della normativa di riferimento, in tutti gli altri casi”. Si osserva, peraltro, come, pur essendo previsto il coinvolgimento di un'Amministrazione straniera nel procedimento, il compito di questa sia puramente passivo, limitato a recepire, cioè, copia del verbale di accordo o a fornire la documentazione richiesta dall'Erario italiano, sulla base delle preesistenti norme pattizie in materia di scambio di informazioni. Ciò, a detta della dottrina, rappresenta un'occasione persa per il legislatore e fonte di possibili problemi futuri, atteso che il ruolo dell'Amministrazione estera potrebbe rivelarsi di non secondaria importanza per gli Uffici italiani in sede di approvazione dell'accordo (2). Invero, la mancanza di bilateralità internazionale della posizione raggiunta può avere non trascurabili conseguenze anche in materia di doppia imposizione. Si faccia l'esempio, in ipotesi, di una pratica di trasferimento di beni intercompany che avvenga in base ad un accordo, raggiunto con l'Amministrazione italiana in virtù del meccanismo di interpello di cui si discorre, e in relazione alla quale, pertanto, sia concordato l'impatto fiscale in Italia di un elemento positivo di reddito. Ebbene, nulla assicura che, in mancanza di ruling anche con lo Stato di residenza dell'interlocutore estero della società italiana, questo riconosca una deduzione di costi corrispondenti alla complementare materia imponibile emersa in Italia. Se, in altre parole, la cessione di un bene e servizio alla società estera, nei casi di cui all'art. 110 del nuovo Tuir, può comportare, a seguito del perfezionamento del nuovo interpello internazionale, l'emersione in Italia di un determinato valore imponibile, è possibile che la deduzione accordata dall'Amministrazione estera sia inferiore al detto valore concordato con quella italiana, ma non riconosciuto oltre i confini domestici. La differenza fra i due valori è, pertanto, soggetta a doppia imposizione. 2 () PALMA, Il ruling internazionale, in Il fisco, n. 2 del 12 gennaio 2004. Sul punto, chiaramente, si è espressa recente dottrina, secondo la quale “un forte limite della normativa, così come risulta formulata, è che il Ruling, in quanto unilaterale, copre solo il versante italiano, e non determina un corrispondente impegno da parte delle Autorità dello Stato dell'altra parte contraente. Ciò può indurre a pensare, forse in termini semplicistici, che lo strumento possa attrarre maggiormente le multinazionali estere, che addebitano costi alle controllate o branches italiane, che non le imprese italiane che addebitano costi alle controllate/branches estere” (3). Per altro verso è stato osservato dal medesimo autore che la nuova normativa in commento presenta notevoli aspetti di sicuro interesse per il contribuente. “I vantaggi immediati dell'adesione a questa nuova procedura”, infatti,“sono costituiti dalla tutela data al contribuente, relativamente a materie sempre più spesso oggetto di verifiche ed accertamenti. Conseguentemente, l'Amministrazione finanziaria non potrà esercitare i poteri di accertamento e controllo in relazione alle materie per le quali è stata raggiunta l'intesa con il Fisco, sempre che sussista la corrispondenza fra fatti reali e quelli rappresentati e la corretta applicazione delle metodologie indicate nell'accordo”. Alessandro Galante Massimiliano Nicodemo 3 () TACCANI, Il nuovo ruling internazionale, in Il fisco, n. 14 del 5 aprile 2004.