LE OPINIONI
PER UN RITORNO ALLA GIURISDIZIONE
RIFLESSIONI E PROPOSTE NELL'AMBITO DELLA CONSULTA
SULLA GIUSTIZIA DAL PUNTO DI VISTA DELL'UTENTE.
La diagnosi
Si parte da un dato reale, indiscusso: le difficoltà della
macchina giudiziaria a rispondere alle attese di giustizia.
Sennonché, a fronte della crisi della giurisdizione si avverte una
vera e propria fuga dalla giurisdizione.
A) in ambito civile il fenomeno è noto: sempre più massiccio
ricorso all'arbitrato, alle commissioni di conciliazione (cfr. rito del
lavoro etc. …);
B) in ambito penale la tendenza è da un lato di perseguire
strade che sembrano porsi su una linea più che di depenalizzazione,
di vera e propria degiurisdizionalizzazione (cfr. estensione dei limiti
del patteggiamento), motivata sui tempi lunghi di un rito ordinario
paradossalmente sempre più complicato;
C) più in generale, nell'ambito di questo processo di
degiurisdizionalizzazione, si assiste al trasferimento di potestà
investigative, accertatorie e sanzionatorie ad organi amministrativi
quali Autority, Consob, Banca d'Italia, Prefetture; enti — tutti — che
(talvolta) difettano della necessaria indipendenza e autorevolezza;
D) vi sono – invece – recenti provvedimenti legislativi in
controtendenza quali quello relativo alla responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche o, ancora, l'introduzione
della competenza penale del Giudice di pace con funzioni
tipicamente mediatorie e conciliative e con tipologie sanzionatorie
non strettamente criminali.
L'analisi
A fronte di tali indiscutibili tendenze, la prima domanda che ci
si pone — che ci si deve porre — partendo sempre dal punto di vista
dell'utente è: tutto questo è un bene?
In altri termini, questa linea di tendenza si traduce poi
effettivamente in procedure più efficaci?
Alcune riflessioni scaturiscono da esperienze concrete e recenti.
I recenti scandali finanziari hanno dato conto di come gli organi
(amministrativi) preposti al controllo non siano stati in grado di
prevenire fenomeni di proporzioni inedite: in altri termini, ad un
sacrificio di garanzia (giurisdizionale) non corrisponde, dunque, in
via automatica, un aumento di efficacia.
Eppure si insiste in questa strada: pare significativo che i
recenti provvedimenti per la tutela del risparmio continuino a
insistere nella direzione di attribuire maggiori poteri ad Autorità
amministrative, non prendendo in considerazione la possibilità di un
intervento giurisdizionale.
Per quanto poi attiene al profilo delle garanzie di difesa
individuale, è inutile sottolineare il pericolo che consegue
all'affidamento di poteri immediatamente sanzionatori a
procedimenti amministrativi (vedi, ad esempio, procedure
investigative e sanzionatorie di Banca d'Italia, Consob, esercizio non
garantito di poteri prefettizi, etc., etc.…).
Le proposte
È possibile proporre come tema di discussione il ritorno alla
giurisdizione?
Di fronte alla crisi della giurisdizione non ha più senso
affrontare in radice i nodi più che cercarne illusoriamente la
soluzione attraverso vie di fuga?
Quali, peraltro, le questioni da affrontare partendo dai temi più
semplici?
In estrema sintesi, questi i “nodi” più importanti:
A) normativo e procedimentale;
B) ordinamentale;
C) organizzativo/logistico;
D) deontologico.
Per ottenere una giustizia efficiente e garantista occorre — da
subito e partendo da iniziative di più agevole attuazione — valutare:
A) l'introduzione di sezioni specializzate, preparando i Giudici,
con adeguate scuole di formazione professionale, ad affrontare
anche i temi più complessi; in buona sostanza, una volta che si
sceglie la “strada della giurisdizione” è ovvio che bisogna investirvi,
con uomini e mezzi adeguati;
B) nei singoli Tribunali l'affiancamento di figure manageriali in
grado di supportare i magistrati per tutto ciò che non sia strettamente
giurisdizionale (cfr. recente riforma del sistema sanitario);
C) iniziative di riforma volte all'accelerazione dei procedimenti
ordinari nel rispetto — sempre, ovviamente — dell'autentico
principio del contraddittorio;
D) la creazione di codici di autodisciplina che pongano la
giurisdizione su un piano — su uno status — che non consenta — ad
esempio — il ricorso a forme di agitazione non confacenti alle
funzioni esercitate (vedi il sempre maggiore ricorso all'improprio
strumento dello sciopero).
Francesco Arata
avvocato di Milano
IERI E OGGI
La pubblicità degli Studi Legali
È noto che il principio “antipubblicitario”, che costituiva un
punto fermo nel nostro DNA di vecchi avvocati, ha subito e subisce
progressive erosioni e sfaldamenti, sotto una triplice pressione:
A) l'affermata identificazione degli “Studi Legali” con le
aziende commerciali, con conseguente sbandieramento dei principi
di libera concorrenza e di soggezione alle regole del mercato, etc.
etc.
B) la pressione dei Colleghi “giovani”, ormai parte
maggioritaria dell'Avvocaura, che solo attraverso la pubblicità
ritengono di avere la possibilità di acquisire clienti;
C) last, but not least: la sempre più pressante presenza degli
Studi Associati che — dovendo competere sul terreno europeo — si
sentono assai poco vincolati dalle restrittive norme italiane. Norme
che — in relazione a quanto sopra, e navigando il CNF con al
timone Remo Danovi — sono state via via variate nel C.D. (ultima
versione 26.10.02) introducendo la abbastanza equivoca distinzione
fra Informazione e Pubblicità.
Piuttosto che addentrarmi in una gesuitica distinzione fra le due
espressioni, vorrei affrontare concretamente i casi più spinosi, con
qualche riflessione conclusiva:
1) Gli Avvocati, homines pubblici per definizione, hanno
sempre amato sentir parlare di sé, e vedere la propria immagine su
riviste e quotidiani – ed ora nelle televisioni. In particolare chi tratta
il penale, e quindi può fornire ai giornalisti notizie di cronaca (nera,
ma anche di colletti bianchi) interessanti, ha sempre cercato di
intrattenere rapporti amichevoli con i cronisti. Sappiamo dello
“scandalo”, ormai vecchio, delle “Toghe d'oro” (quarum
giustamente Dall'Ora); più recentemente vi sono stati articoli che
segnalavano avvocati “in line”, internazionalisti, grandi Studi
Associati etc. Ritengo che — a fronte di tali tipi di segnalazioni e
salvo i casi che eccedano, per smaccata piaggeria, i limiti del buon
gusto — vi sia poco da fare: il Collega dirà sempre, come è stato
detto in passato: “l'iniziativa è del girnalista; che ce ne posso io se
sono famoso”? Recentemente vi sono state anche lamentele, da parte
di altri Ordini, per l'apparizione in T.V. di nostri Colleghi, titolari di
rubriche giuridiche, ma sinceramente non vedo come possa essere
inibita tale forma di “promozione” e divulgazione del diritto (e di se
stessi).
2) Le “brochures”: sono lecite ex art. 17, IA, ma debbono
essere inviate a soggetti determinati; la frase può creare qualche
equivoco: è ovvio che, se spendo alcune migliaia di Euro per far
stampare la mia foto, e per tessere le mie lodi (sia pure limitandomi
“all'informativa”: dove lavoro; quanti anni ho, chi collabora con me;
quali cariche o funzioni ho coperto etc. etc.) non è per farlo sapere
ad amici, clienti o colleghi, che già mi conoscono. Lo faccio per i
terzi; per allargare la mia clientela, ed allora cercherò su Pagine
Gialle, sugli annuari della Camera di Commercio o altrove i nomi e
indirizzi di aziende, con le quali per ora non sono in contatto, e a
queste manderò la mia brochure. Io chiamo ciò pubblicità, ma mi
pare che rientri in quanto l'attuale codice gia consente; se questa mia
interpretazione è troppo estensiva, ritengo che un chiarimento da
parte del C.N.F. su questo punto possa essere opportuno.
Certamente, resta fermo (e di ciò molti Colleghi si dimenticano) il
divieto di indicare “specializzazioni” — non conseguenti a titolo
universitario — e i nomi dei clienti, anche se questi (veri o presunti)
costituiscono, nell'ottica di molti. il miele con cui “attraper les
clients”.
3) Chi non ha i soldi per farsi stampare, su carta patinata, una
bella brochure, ricorre a “fogli volanti” contenenti le solite
“informative”, a volte inserite sui parabrezza delle auto parcheggiate
o infilati nelle caselle delle lettere condominiali. Sappiamo di un ex
Collega, che faceva distribuire i suoi, nei pressi della Stazione, fra
gli extracomunitari. Ciò che soprattutto ritengo censurabile in questi
casi è non tanto l'oggetto (“più povero”, spesso grezzo, ma
deontologicamente non diverso dalla brochure) quanto il mezzo
usato per farlo circolare.
4) Réclame (preferisco questo termine a quello, del resto
analogo, di pubblicità) su riviste e giornali: ho visto recentemente
delle inserzioni, su pubblicazioni italiane ed estere, di Colleghi
italiani: studi associati di indubbio livello, che mi stupisce ritengano
necessario ricorrere a tale mezzo. Probabilmente in altri Paesi
europei ciò non colpisce negativamente; io ritengo opportuno
mantenere il divieto.
5) Siti internet. È ormai un “must” per chi voglia presentarsi
con un certo tono di modernità e professionalità, e il mezzo
impiegato non mi pare crei problemi particolari: terrei fermo, quanto
già l'Ordine di Milano ha (anticipando il CNF) a suo tempo detto
circa i contenuti permessi, e a quelli vietati; in particolare: no a
consulenze gratuite (tipiche dell'accaparratore); no alle
specializzazioni; ho visto che alcuni, nell'indicare i problemi di cui si
occupano, sono omniscienti (vanno dal tributario al fallimentare; dal
diritto del lavoro al societario; dal commerciale al famigliare etc.);
no ai nomi dei clienti.
***
È chiaro che l'apertura — già in essere, quanto meno dal 2002
— alla pubblicità, comporterà una ulteriore diminuzione di spazio
per i Colleghi meno provveduti di disponibilità economiche e
operanti in studi mono o bicellulari, ma — pur avendo questi ultimi
tutta la mia simpatia — non vedo come lo si possa impedire: resterà
ancora spero, la valutazione personale delle capacità dell'avvocato,
che verrà raccomandato dai suoi clienti (il passaparola) e — perché
no? — da alcuni Colleghi quando si tratta di questioni
“specialistiche” (penale, amministrativo, lavoro, societario,
fallimentare etc.)
Certo: chi non può farsi conoscere tramite pubblicità, o grazie
ad indiscussa capacità professionale, visti gli attuali costi di uno
studio legale anche modesto, rischia di trovarsi “espulso” dal
mercato.
Enrico Biagi
avvocato di Milano
VERITÀ E PROCESSO
Remo Danovi — nel recensire il libro di Ettore Randazzo,
L'avvocato e la verità, Palermo, Sellerio 2003 — ripropone il tema
“inestricabile” del rapporto tra verità e processo “che vive negli atti
e nelle coscienze senza appaganti soluzioni”, condividendo la
conclusione cui giunge Randazzo, per la quale « costantemente
l'avvocato deve valorizzare tutti gli elementi che la vicenda
giudiziaria offre in favore del cliente; deve difenderlo con tutte le
forze di cui dispone, con la professionalità che ha acquisito, con la
saggezza, l'esperienza, lo studio e perfino “la logorante e creativa
ansia notturna”! Infatti, “noi svolgiamo una funzione essenziale,
splendida e rigorosa, che va onorata al meglio delle nostre
possibilità, nel rispetto intransigente dell'interesse dell'assistito
secondo il dettato delle regole normative e deontologiche” », in
applicazione del principio della doppia fedeltà (verso l'ordinamento
e verso la parte assistita), che da sempre rappresenta il credo
dell'avvocatura, restando la verità “una meta ideale e
irraggiungibile”.
In proposito, Danovi ricorda una “favola” orientale sul dilemma
della verità che riporto con le sue parole « è la favola dei tre
cavalieri che si avvicinano a un pozzo nel deserto e un saggio
osserva la scena. Il primo cavaliere arriva al pozzo e, mentre si
disseta, perde una borsa piena di monete d'oro: non se ne accorge e
si allontana per proseguire il viaggio. Arriva un secondo cavaliere:
vede la borsa, la raccoglie e si allontana. Arriva al pozzo un terzo
cavaliere. Nel frattempo il primo cavaliere si accorge di aver perduto
la borsa; ritorna al pozzo; ritiene che il terzo cavaliere abbia rubato e
nascosto il denaro; lo affronta e lo uccide. A questo punto il saggio
che ha osservato la scema si rivolge sconsolato al profeta: “quale
mai giustizia è questa che permette a un ladro (il secondo cavaliere)
di allontanarsi indisturbato e a un assassino (il primo cavaliere) di
uccidere un innocente?”. Ma il profeta risponde: “non parleresti così
se tu conoscessi la verità. Il secondo cavaliere non è un ladro, perché
la borsa di monete d'oro gli apparteneva, essendogli stata sottratta
tempo prima. E quanto poi al terzo cavaliere, questi si è macchiato di
gravi violenze nei confronti dei famigliari del primo cavaliere, onde
giustamente è stato ucciso!” ».
La “favola” dimostra tanto semplicemente, quanto
inconfutabilmente, l'imperscrutabilità del disegno divino,
motivandola con l'impossibilità di conoscere tutta la realtà, di cui
riusciamo ad apprendere solo una porzione infinitesimale, cosicché
la “verità” che ci sembra più evidente, nel migliore dei casi, è
parziale, non è tutta la verità, come dire che non è la verità. Ma se la
verità è inattingibile, cos'è quella che accerta il processo?
È la verità processuale, appunto. Cioè la verità cui si può, ed è
comunque necessario, giungere applicando le norme processuali:
una verità tutt'altro che assoluta, una verità relativa, ma che è pur
sempre la verità che lo Stato ritiene la maggiormente (anzi, l'unica)
accettabile in quel dato momento storico, quale risultato (mai
definitivo) della sua millenaria esperienza.
Dopo di che il ruolo dell'avvocato è obbligato. Egli è il
difensore del suo assistito, non il giudice dello stesso. Certo, è
infinitamente meglio che non lo abbia visto uccidere. Anzi, è bene
che neppure sappia, e quindi chieda, al suo assistito se è colpevole.
Ma in ogni caso il suo compito non è quello di stabilire se è o meno
“colpevole”, che è un problema assoluto che non è assolutamente in
grado di risolvere e, tanto meno, se è o meno degno di essere difeso,
che è un problema già risolto una volta per tutte in senso positivo da
tutte le legislazioni dei paesi democratici. Il suo compito, per
fortuna, è infinitamente limitato e cioè quello di stabilire se vi sono e
quali sono “gli elementi che la vicenda giudiziaria offre a favore del
cliente” e farli valere, con tutta la professionalità di cui dispone.
Naturalmente nell'interesse del suo assistito, ma almeno in
eguale misura nell'interesse della “giustizia”, perché solo così
facendo rende possibile l'equilibrato e quindi corretto funzionamento
del meccanismo processuale, che in tal modo può giungere
all'altrettanto corretto accertamento della verità processuale. Se
tradisce la sua funzione, nella demoniaca presunzione di collaborare
al perseguimento della cosiddetta giustizia sostanziale, non tradisce
solo il suo cliente (che già è imperdonabile), ma tradisce anche (e
prima ancora) la giustizia processuale, e cioè l'unica giustizia che
abbiamo e possiamo avere, se non vogliamo sostituirci a Dio.
E naturalmente l'unica giustificazione possibile di questa
limitazione di responsabilità è il rigoroso rispetto delle norme
processuali. La violazione delle quali rende l'avvocato complice
dell'assistito.
Insomma, il problema non è certo quello comunemente
dibattuto se difendere o meno un criminale — anche se “conosciuto”
(ma sempre e soltanto molto parzialmente) come tale — la cui
soluzione positiva non solo è scontata, ma è necessaria, e proprio ai
fini di giustizia, ovviamente processuale, che è relativa ma senza
alternative. Il problema è il modo in cui viene esercitata la difesa,
poiché se non fosse rigorosamente rispettosa della legge perderebbe
ogni giustificazione morale, prima che giuridica. Mentre se lo è,
perciò stesso, assume il più alto valore morale, prima che giuridico.
Del tutto indipendentemente dall'esito del processo che, peraltro,
dipende anche dalla controparte e, più ancora dal giudice e che,
soprattutto, è pur sempre un esito relativo: giudizio degli uomini,
imperfetto per definizione. Tant'è che le notti insonni dell'avvocato
sono dominate dall'”incubo” di non aver fatto e di non fare
abbastanza e mai (salvo qualche eccezione più unica che rara) dal
rimorso per aver fatto troppo, per il proprio cliente.
E questo perché, anche a prescindere da una totale
consapevolezza e ragionata accettazione, in tutti gli avvocati il
“credo” nel menzionato principio della doppia fedeltà è così
profondamente radicato da essere quasi connaturato nel loro
comportamento e da poter essere violato solo con profonde,
insanabili lacerazioni.
Ferdinando Cionti
avvocato in Milano
IL VERO LEGISLATORE
Inutile stare a ripeterci che ci sono troppe leggi, che sono scritte
male, che non ci si capisce niente: nella cupa notte legislativa è
spuntato un astro splendente: dischetto con le leggi vigenti.
Operosi intarsiatori continuano, giorno e notte, a inserire nella
loro immensa opera compilativa le modificazioni che il legislatore,
notte e giorno, inserisce nella sconfinata e intricata foresta
denominata ordinamento giuridico: sono quasi alla pari. Il legislatore
ha ormai solo un piccolo vantaggio temporale, ma è trascurabile
nella modalità on line.
Se non ci fossero i dischetti l'attività legale si paralizzerebbe
perché la nostra soglia di tolleranza alle fatiche della ricerca,
sapendo che c'è il dischetto, si è abbassata, come si è abbassata la
nostra tolleranza al caldo sapendo che c'è il condizionatore. Nessuno
di noi avvocati avrebbe ormai più la pazienza di ricostruire un testo
legislativo nella sua consistenza attuale, andando a prendere la legge
originaria e ripercorrendo negli anni, tutte le mutilazioni, aggiunte,
modifiche, eliminazioni, abrogazioni, addizioni e varianti che ne
hanno macellato il testo. Sarebbe un lavoro bestiale, lunghissimo e
oltretutto con risultati incerti.
Invece c'è il dischetto e, con qualche di “clic” sulla tastiera, il
programma ci dice immediatamente qual è il testo vigente di
qualsiasi legge, da Maria Teresa in qua (1); e ci segnala come e
quando il testo è stato modificato e da quali leggi.
Lo stesso fanno i giudici: controllano sospettosi le affermazioni
contenute nei nostri scaltri atti difensivi e quando citiamo una
sentenza, la vanno a vedere sul repertorio, quando citiamo una legge,
la vanno a vedere sul dischetto, come noi.
Ma chi controlla il dischetto? Io non lo so, penso nessuno,
anche perché è inutile. In realtà è lui ormai il vero legislatore perché
la legge la scovano gli avvocati e la applicano i giudici, ma entrambi
si rifanno ad un medesimo testo che, per colpa dell'attuale logorrea
1
L'Editto 1° febbraio 1751, sulle cave di marmo di Massa e Carrara era considerato il più
antico testo legislativo vigente sinché, il 4 maggio 1999, è stato sostituito da un regolamento
emanato dal Comune di Carrara, in applicazione della legge regionale della Toscana 33/98. Fonte
un dischetto DVD.
legislativa, è affidato ai compilatori dei dischetti. Che sia conforme
o meno alla Gazzetta Ufficiale è in fondo poco importante:
l'importante è che sia….. uguale per tutti.
Speriamo in bene.
Guido Salvadori del Prato
avvocato in Milano
IL NUOVO RULING INTERNAZIONALE
DOPO LA RIFORMA FISCALE
1. L'istituto
La norma di cui all'art. 8 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, ha
introdotto nel nostro ordinamento tributario una nuova, ulteriore,
forma di interpello.
Ai sensi del comma 1 di tale previsione “le imprese con attività
internazionale hanno accesso ad una procedura di ruling di
standard internazionale, con principale riferimento al regime dei
prezzi di trasferimento, degli interessi, dei dividendi e delle
royalties”.
Gli aspetti operativi della disciplina in commento sono regolati
dai commi successivi dell'art. 8, ove si legge: “la procedura si
conclude con la stipulazione di un accordo, tra il competente ufficio
dell'Agenzia delle entrate e il contribuente, e vincola per il periodo
d'imposta nel corso del quale l'accordo è stipulato e per i due
periodi d'imposta successivi, salvo che intervengano mutamenti
nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti al fine delle predette
metodologie e risultanti dall'accordo sottoscritto dai contribuenti.
In base alla normativa comunitaria, l'amministrazione
finanziaria invia copia dell'accordo all'autorità fiscale competente
degli Stati di residenza o di stabilimento delle imprese con i quali i
contribuenti pongono in essere le relative operazioni.
Per i periodi d'imposta di cui al comma 2, l'Amministrazione
finanziaria esercita i poteri di cui agli articoli 32 e seguenti del
decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600,
soltanto in relazione a questioni diverse da quelle oggetto
dell'accordo.
La richiesta di ruling è presentata al competente ufficio, di
Milano o di Roma, della Agenzia delle entrate, secondo quanto
stabilito con provvedimento del direttore della medesima Agenzia”.
La normativa di attuazione si rinviene nello schema di
provvedimento 23 luglio 2004, reperibile sul sito dell'Agenzia delle
Entrate, ma non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Esso definisce cosa debba intendersi per “impresa con attività
internazionale”, e fornisce fondamentali precisazioni in merito alla
procedura amministrativa che il contribuente interessato deve
seguire.
A prescindere da tali aspetti, il punto saliente dell'emanando
provvedimento attiene l'indicazione delle attestazioni necessarie che
l'impresa deve produrre per ottenere la disapplicazione della singola
norma antielusiva.
Troviamo, dunque, un'elencazione dettagliata dei casi in cui il
nuovo strumento di interpello è fruibile dal contribuente.
Si tratta, nella specie, delle seguenti ipotesi:
— la quantificazione del valore normale ai fini del c.d. transfer
pricing, ossia delle operazioni di cui all'art. 110, comma 7, del DPR
22 dicembre 1986, n. 917;
— l'applicazione ai singoli casi concreti di norme, anche di
origine convenzionale, concernenti l'erogazione o la percezione di
dividendi, interessi o royalties a o da soggetti non residenti;
— l'applicazione di analoghe prescrizioni afferenti l'erogazione
o la percezione di altri componenti reddituali a o da soggetti non
residenti;
— l'applicazione di analoghe disposizioni riguardanti
l'attribuzione di utili o perdite alla stabile organizzazione in un altro
Stato di un'impresa residente ovvero alla stabile organizzazione in
Italia di un soggetto non residente.
Particolari dettagli sono previsti, inoltre, con riferimento ai
criteri di stipula, modifica e rinnovo dell'accordo con
l'Amministrazione.
2. Prime considerazioni
Il primo interrogativo che si può porre l'interprete riguarda il
rapporto fra tale nuovo istituto e i preesistenti interpelli conosciuti
nel nostro ordinamento tributario.
Questi ultimi sono regolati dalle seguenti norme:
1) art. 21 della L. 30 dicembre 1991, n. 413 (interpello per
operazioni potenzialmente elusive);
2) art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (interpello
per operazioni straordinarie potenzialmente elusive);
3) art. 11 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (interpello generale di
cui allo Statuto del contribuente);
4) art. 167 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Controlled
foreign companies).
Si è venuto in tal modo a creare un intreccio di strumenti di
ruling considerevole, che potrebbe invero dar luogo a confusione.
Si deve ritenere, in particolare, che le indicate forme di
interpello e il nuovo ruling internazionale afferiscano fattispecie
diverse e che, quindi, a seconda dell'operazione in relazione alla
quale il contribuente vuole ottenere il parere dell'Amministrazione,
egli debba ricorrere ad uno strumento, piuttosto che ad un altro.
L'istituto in commento appare, nondimeno, un'innovazione
dell'ordinamento apprezzabile.
Essa, infatti, permette un maggiore confronto fra Ufficio e
contribuente, non limitandosi quest'ultimo, come nelle altre
fattispecie di ruling, a proporre la sua interpretazione della norma e
l'applicazione della stessa al caso concreto, ma potendosi, invece,
giungere ad un vero e proprio accordo intorno al trattamento fiscale
di un'operazione che vincoli entrambe le parti coinvolte nel rapporto
tributario.
In ciò, pertanto, si può ravvisare una somiglianza con l'istituto
dell'accertamento con adesione di cui al D.Lgs. 19 giugno 1997, n.
218.
Le sovrapposizioni fra i due procedimenti emergono palesi
laddove si raffrontino le modalità di formazione dell'accordo nei due
casi.
In entrambe le ipotesi, a seguito dell'istanza di parte, vi è un
incontro fra funzionari e contribuente nel quale viene analizzata la
documentazione rilevante.
Di tale incontro e delle osservazioni svolte da ciascuna delle
parti viene redatto processo verbale e la procedura si conclude con la
sottoscrizione del predetto verbale.
Nel caso di accertamento con adesione, tuttavia, il
perfezionamento dell'accordo, e quindi il prodursi dei suoi effetti
preclusivi dell'accertamento, si raggiunge con il versamento da parte
del contribuente dell'importo concordato con l'Amministrazione.
Nel nuovo interpello internazionale, invece, la sottoscrizione
vincola già le parti, per il periodo stabilito.
Più nel dettaglio, si legge nel provvedimento attuativo poc'anzi
menzionato, come mediante l'accordo:
“ a) sono definiti i criteri ed i metodi di calcolo del valore
normale delle transazioni dedotte nell'istanza (…);
b) vengono definiti i criteri di applicazione della normativa di
riferimento, in tutti gli altri casi”.
Si osserva, peraltro, come, pur essendo previsto il
coinvolgimento di un'Amministrazione straniera nel procedimento, il
compito di questa sia puramente passivo, limitato a recepire, cioè,
copia del verbale di accordo o a fornire la documentazione richiesta
dall'Erario italiano, sulla base delle preesistenti norme pattizie in
materia di scambio di informazioni.
Ciò, a detta della dottrina, rappresenta un'occasione persa per il
legislatore e fonte di possibili problemi futuri, atteso che il ruolo
dell'Amministrazione estera potrebbe rivelarsi di non secondaria
importanza per gli Uffici italiani in sede di approvazione
dell'accordo (2).
Invero, la mancanza di bilateralità internazionale della
posizione raggiunta può avere non trascurabili conseguenze anche in
materia di doppia imposizione.
Si faccia l'esempio, in ipotesi, di una pratica di trasferimento di
beni intercompany che avvenga in base ad un accordo, raggiunto con
l'Amministrazione italiana in virtù del meccanismo di interpello di
cui si discorre, e in relazione alla quale, pertanto, sia concordato
l'impatto fiscale in Italia di un elemento positivo di reddito.
Ebbene, nulla assicura che, in mancanza di ruling anche con lo
Stato di residenza dell'interlocutore estero della società italiana,
questo riconosca una deduzione di costi corrispondenti alla
complementare materia imponibile emersa in Italia.
Se, in altre parole, la cessione di un bene e servizio alla società
estera, nei casi di cui all'art. 110 del nuovo Tuir, può comportare, a
seguito del perfezionamento del nuovo interpello internazionale,
l'emersione in Italia di un determinato valore imponibile, è possibile
che la deduzione accordata dall'Amministrazione estera sia inferiore
al detto valore concordato con quella italiana, ma non riconosciuto
oltre i confini domestici.
La differenza fra i due valori è, pertanto, soggetta a doppia
imposizione.
2
() PALMA, Il ruling internazionale, in Il fisco, n. 2 del 12 gennaio 2004.
Sul punto, chiaramente, si è espressa recente dottrina, secondo
la quale “un forte limite della normativa, così come risulta
formulata, è che il Ruling, in quanto unilaterale, copre solo il
versante italiano, e non determina un corrispondente impegno da
parte delle Autorità dello Stato dell'altra parte contraente. Ciò può
indurre a pensare, forse in termini semplicistici, che lo strumento
possa attrarre maggiormente le multinazionali estere, che
addebitano costi alle controllate o branches italiane, che non le
imprese italiane che addebitano costi alle controllate/branches
estere” (3).
Per altro verso è stato osservato dal medesimo autore che la
nuova normativa in commento presenta notevoli aspetti di sicuro
interesse per il contribuente.
“I vantaggi immediati dell'adesione a questa nuova
procedura”, infatti,“sono costituiti dalla tutela data al contribuente,
relativamente a materie sempre più spesso oggetto di verifiche ed
accertamenti. Conseguentemente, l'Amministrazione finanziaria non
potrà esercitare i poteri di accertamento e controllo in relazione
alle materie per le quali è stata raggiunta l'intesa con il Fisco,
sempre che sussista la corrispondenza fra fatti reali e quelli
rappresentati e la corretta applicazione delle metodologie indicate
nell'accordo”.
Alessandro Galante
Massimiliano Nicodemo
3
() TACCANI, Il nuovo ruling internazionale, in Il fisco, n. 14 del 5 aprile 2004.