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LA CITTÀ POLIFONICA
SAGGIO SULL’ANTROPOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE URBANA
(Massimo Canevacci)
Il titolo dell’libro sottolinea il bisogno di sperimentare un metodo polifonico adeguato all’oggetto, e
l’oggetto di questa antropologia - anzichè le tradizionali periferie - è il centro della grande
metropoli.
E’ il contesto dentro il quale si producono non solo la discriminazione della marginalità o i miasmi
dell’inquinamento, ma anche la seduzione del mutamento, l’innovazione di modelli culturali, stili di
vita, forme della comunicazione, la produzione di nuovi paesaggi visuali, la creazione di pensiero
astratto.
Sulla base di questa polifonia urbana, l’autore spinge verso una moltiplicazione dei linguaggi (di
tipo saggistico, visuale, letterario) per la decodifica della comunicazione urbana.
In una prima parte, si sottopongono a critica le visioni eurocentriche delle città americane da parte
di Levi-Strauss; si assumono W. Benjamin, I. Calvino, Giumares Rosa come guide antropologiche
urbane, si focalizza sulla grande metropoli, che nella post-modernità si è trasformata in prodruttice
di cultura, consumo, comunicazione.
Nella seconda parte, si interpreta una delle + grandi metropoli del mondo - Sao Paulo del Brasile sperimentando un linguaggi di tipo etnoletterario, dopo averla fotografata lungo una mappa di 48
luoghi.
CAPITOLO III
SAO PAULO E NEW YORK “DENTRO” LEVI-STRAUSS
Secondo SIMMEL, quando lo spazio vitale viene a mancare vi è un eccesso di vicinanza (es. grandi
metropoli) ed allora le persone non potendo avere spazio fisico, lo ricercano con il pensiero astratto.
Questo per comprendere come solo in certe grandi città si ha una certa potenzialità comunicativa.
La comunicazione urbana è stata determinante nella nascita dello strutturalismo di L. Strauss.
LEVI-STRAUSS:
Geertz afferma che Tristi Tropici è l’opera chiave per conoscere il pensiero di Levi - Strauss (si
parla di Sao
Paulo, come di una città nella quale il parallelo del tropico la attraversa nel suo centro e le infonde
una certa tristezza perché sembra unificare la grande metropoli con il piccolo villaggio indigeno).
In tristi tropici si parla dello squallore e la ripugnanza per la civiltà urbana (come per Baudelaire
che nel
Cigno “canta” una Parigi distrutta dalla modernità).
La “grande città”, non è solo il “testo” che l’antropologo straniero osserva ed interpreta (come LeviStrauss); è anche un contesto che condiziona il proprio lavoro: è la stessa “grande metropoli” che
osserva il suo ospite, in particolare se straniero (vedi lavoro nella II° parte di Canevacci e il
concetto in Calvino).
STRUTTURALISMO:
Per Strauss ogni oggetto di studio costituisce una “struttura” (insieme
organico e globale, astratto, i cui elementi costitutivi non hanno valore
funzionale autonomo, ma lo assumono in funzione delle loro
relazioni).
Un esempio può essere la tavola degli elementi chimici: in quanto i
costumi dei popoli, organizzati in “modelli astratti di relazione”, come
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degli elementi chimici costituiscono la tavola degli elementi, questi
costituiscono la struttura di una città.
Afferma sempre nei Tristi Tropici: “Le città del Nuovo mondo passano dal nuovo al decrepito senza
fermarsi in una via di centro ”.
Levi-Strauss le definisce “senza dimensione temporale”, ATEMPORALI, non considerando la
possibilità di concepire un’ altro modo di organizzare il tempo.
Questo perché egli è colpito da un ETNOCENTRISMO DI STAMPO EUROPEO, che elogia la
storia del vecchio continente e il suo concetto di scorrimento del tempo.
Il luogo senza tempo “è” la città americana; che è priva di quell’ “antico” che in Europa suggerisce
il passare dei secoli.
CRONOTOPO (cronos = tempo; topos = spazio):
E’ una complesso spazio-temporale.
Clifford, usando la categoria del cronotopo studia gli antropologi stessi basandosi sui loro testi;
applicherà questo metodo anche per Levi-Strauss.
E’ usato in fisica, nella teoria della relatività, nella quale si cerca di mettere in luce il legame fra le
misure spaziali e le misure temporali.
La categoria del cronotopo lega insieme i livelli spaziali e quelli temporali come unitari per
rappresentare le differenze antropologiche.
Tempo e spazio nelle realtà metropolitane si fondono, si uniscono, questo perché in città come SaoPaulo passato e presente camminano insieme.
Il nuovo spazio-tempo è Sao-Paulo è New-york.
Le miscele di gruppi etnici, di grattacieli, di linguaggi, costumi tutti provenienti da mondi diversi
eppure conviventi nello stesso luogo, sviluppano una percezione SINCRONICA di spazio-tempo.
CAPITOLO IV
WALTER BENJAMIN ANTROPOLOGO DELLA METROPOLI
Anche Baudelaire come Sant’Elia vede la grande metropoli dell’800 trasformarsi velocemente
davanti alla modernità. La poesia “Il cigno” di Baudelaire, non è un elogio al mutamento urbano,
che tutto trascina e frantuma, bensì una denuncia di una Parigi distrutta, cambiata.
Parigi è la metropoli della modernità in cui gli abitanti sono trasformati in prigionieri; la città è
cantata solo per essere rimpianta.
Benjamin è colui che ha amato Baudelaire e Parigi con lo sguardo e la memoria di una vero
narratore.
Il “narratore” racconta storie vissute, vivendole e facendole vivere a coloro che le ascoltano. Vive
in prima persone il rapporto con l’ascoltatore, al suo contrario troviamo il “romanziere”, che si tira
in disparte, non esprime un’esperienza vissuta, ma si isola per scrivere.
L’unione delle due definizioni fa nascere un profilo dell’antropologo, come essere “BIFRONTE”,
che eredita l’esperienza del narratore usando le tecniche del romanzo.
Narrare una città, ossia descriverla ed interpretarla, vuol dire PRODURRE DISORIENTAMENTO.
Solo disorientandosi e disorientando il narratore urbano (city-teller) contribuisce a dare un’idea di
cosa comunica la città.
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Il narratore Benjaminiano “rende familiare ciò che è straniero e, al contrario, estraneo ciò che è
familiare” (Crapanzano; azione di “displacement”).
Sembra la storia biografica di Benjamin, e del suo enorme lavoro su Parigi, narrata con la forma del
“COLLAGE”. E’ il narratore di città, il primo “antropologo spontaneo” (story-teller, o meglio cityteller).
Da un brano del suo saggio Baudelaire a Parigi, egli afferma di voler far emergere il significato ad
esempio di una città, attraverso un “montaggio” del materiale raccolto.
CAPITOLO V
CECILIA E SAO-PAULO: DAPPERTUTTO LA CITTA’
Calvino, è una attento studioso di miti e leggende, che ricercava nelle tradizioni popolari quelle
invenzioni narrative che poi avrebbe trasfigurato nei suoi romanzi; egli è affiancato ad un
personaggio a lui diversissimo, Pasolini.
Entrambi hanno vissuto l’antropologia culturale come un approccio al diverso, al bizzarro; sono
entrambi “antropologi spontanei”.
Testo straordinario di sperimentazione, anche nel numerare i capitoli è
CITTA’ INVISIBILI:
strutturalmente nuovo, questi infatti vanno a ritroso inseguendo uno schema a
cerchio che collega la prima parola con l’ultima.
Riesce a sperimentare nuovi percorsi letterari, dove si fondono sintassi e
principi matematici. Importante sono i 5 puntini che chiudono ogni capitolo, a
segno di qualcosa di cui non si può parlare o che semplicemente si è
interrotto.
Le forme-città di Calvino sono infinite e metaforicamente sono associate ad
un ponte immaginario con cui si passa in quella zona grigia che separa e
mischia fantastico e realistico.
E’ molto minuzioso nelle descrizioni delle città.
Utilizza 2 metodi di narrazione:
- 1 solo soggetto narrante (antropologo) ed un unico punto di vista
(osservatore)
- punto di vista narrativo “interno”, quello dell’osservato (lo sguardo del
cammelliere), che è tra l’altro ciò che ha cercato di fare Canevacci nella II°
parte,
dare voce all’oggetto osservato e allo stesso tempo “osservare”.
La sua migliore rappresentazione di Sao-Paulo, che lui non ha mai visto, è la sua Cecilia, città
continua, macrometropoli, che è dappertutto.
Forse quando Calvino scriveva su questa città invisibile – Cecilia, – stava “vedendo” proprio quella
che sarebbe stata chiamata la grande Sao-Paulo, la macrometropoli, un luogo mescolato.
Anche da Sao-Paulo è difficile uscirne!
"[...] Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì
nel 1939. Su quell'esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le
difficoltà, i rischi, i timori che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano
procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne
venne fuori Tristi tropici, Questo libro è attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a
raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito. In certe pagine egli non esita a
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mettere sotto accusa il mestiere dell'etnologo, condizionato da un'ambiguità che mina, almeno in
parte, la legittimità scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che
governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del pensiero selvaggio; dall'altro è
consapevole che ogni intervento, anche il più neutrale, può risultare devastante per la realtà che si
intende indagare. E' la ragione per cui odia viaggiare. Lo dichiara sin dall'inizio. Trisit tropici si
apre con un'affermazione sconcertante: 'Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a
raccontare le mie spedizioni'. L'odio è un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con
cura. E le prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si trova, in maniera
così esplicita, solo in un altro autore: Jean-Jacques Rousseau. Entrambi condividono lo stesso
subbuglio psichico, il medesimo impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto ciò che
è civilizzazione. Il peso di quell'oblio bilancia l'amore che nutre per l'innocenza perduta, per quello
stato di natura che, con qualche sforzo di immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribù del
Bororo, dei Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Lévy-Strauss visita, fotografa, filma, racconta. E'
uno sforzo immane quello a cui l'etnologo si sottopone in quegli anni, segnati da fatiche, privazioni,
pericoli e dalla convinzione che un mondo opposto per stile e sostanza all'Occidente stia lentamente
morendo. Ai suoi occhi il Brasile è un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal fugace
splendore di alcune città alla loro decadenza, dalla ricchezza della terra alla desolazione dei frutti.
Quel mondo, che descrive con raro talento narrativo, è condannato alla sparizione. E il fatto di
ricordarne così ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle altrui
miserie: di accelerarne la fine. Considera Tristi tropici un'opera di corruzione del lavoro
dell'etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che Baudelaire svolge sull'impressionismo e
Manet in particolare. E le adatta alle proprie convinzioni. Non è che gli impressionisti non
sapessero dipingere, ma cercavano l'illusione di un'arte spontanea. La stessa illusione è convinto si
celi nella sua narrazione: ciò che vede è davvero dettato dallo sguardo dello scienziato o è puro
colore di superficie? Si è presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi tropici. Il
lettore è sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli, dalle esperienze improvvise, dalle
imprevedibili deviazioni sull'India e le caste, sul buddismo e l'Islam. Ma a uno sguardo più attento
si avverte che sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa
appello alle semplici regole dello strutturalismo. Nonostante ciò egli considera Tristi tropici un
libro impudente, scritto più con le passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro
ci si imbatte nell'omaggio a Rousseau che egli considera il più etnologo tra i filosofi. Frainteso,
dileggiato, disprezzato. Rousseau è stato il modo in cui l'Occidente ha provato a leggere e capire il
cuore dell'altro senza oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che
l'Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo trapiantare. Una tale prospettiva non
era priva di equivoci e pericoli. Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civiltà
interamente trasparente. Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e LéviStrauss divergono. Le culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non
sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è
interamente bene o male. Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non
possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi
tropici è soprattutto un grande libro sulla desolazione umana. [...] "Il mondo", si legge alla fine di
Tristi tropici, "è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui". Siamo i privilegiati del pianeta. Solo
perché l'arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno collocato in quel posto
che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e la lancia della volontà di potenza. Abbiamo
detronizzato la natura, le sue componenti. Costruito città e imperi. Viviamo in società sempre più
complesse, sorrette da equilibri precari. "Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non
esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso".
Dopotutto Lévinas non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientata visione che Lévi-Strauss
coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga né ci consola. Ci fa sentire impotenti. Ed è
la medesima frustrazione provata nell'assistere alla caduta di King Kong dall'Empire State Building.
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Nella foresta ipermoderna di Manhattan non c'era più spazio per la natura e il sacro. Tristi tropici ci
racconta la stessa lancinante estromissione. Le nostre vite artificiali che Rousseau detestava in
maniera profonda, immaginando improbabili alternative, Lévi-Strauss le coglie come il destino più
intimo e rovinoso di quel soggetto che abbiamo chiamato umano.
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