ARGOMENTI Albert Camus: oscillazioni Sergio Givone1 Grazie per essere venuti così numerosi ad ascoltare uno che tenta di capire un testo bellissimo, ma misterioso, enigmatico, sfuggente. È una parola davvero difficile da interpretare, ma proviamoci, ponendoci all’altezza del testo stesso che fin dalle prime righe ci interpella e ci interroga. Albert Camus quando scrive Il deserto è un ragazzo di 24 anni, sta cercando la sua via, un varco verso la filosofia, verso il pensiero e lo trova là, dove gli si pone un’alternativa, quella fra l’esprimere e il testimoniare. Lui esclude l’esprimere, sceglie il testimoniare. L’esprimere gli sembra un gesto equivoco, peggio, un gesto ingannevole, perché esprimere ai suoi occhi significa imporre alle cose il proprio punto di vista, fingere di trar fuori dalle cose una profondità nascosta, quella profondità che lui chiama spirito, ma in realtà è solo un simulacro dell’io. E l’io, volendo esprimere, cioè trar fuori dalle cose la loro verità, le inquina, impone ad esse la propria immagine. Occorre convertire lo sguardo, fare proprio il contrario, disporsi a guardare le cose in modo che possano rivelare ingenuamente, semplicemente, la loro verità, senza questa forzatura dell’io, al punto che si possa parlare, come lui osa dire, della verità delle rose tardive. Ma qual è la verità delle rose tardive? È certamente una verità, ammesso che possa essere pensata in questo modo, che si dà a uno sguardo davvero capace di disporsi ad accoglierla – non a sovrapporsi ad essa e ad appropriarsene – con un gesto non solo libero, ma leggero, liberante, tale da disporsi nei confronti delle cose e del mondo con una sovrana capacità di accoglienza. In questo senso occorre saper guardare. La sua è una filosofia dello sguardo e noi sappiamo quanta filosofia e quanta letteratura successiva in Francia si sia intitolata precisa- 1. Testo della conferenza tenuta a Brescia su invito della Ccdc il 13.2.2014 non rivisto dall’autore. 63 mente allo sguardo. Questo testo è pieno di lampeggiamenti, più che di ragionamenti, e questi lampeggiamenti sono per l’appunto le immagini del mondo che si danno a uno sguardo capace di coglierne la verità, non lo spirito nascosto nelle pieghe delle cose, non il cuore che non sappiamo bene cosa sia, ma la superficie, ciò che solo l’occhio può guardare. Da questo punto di vista il suo è, anche se non dichiarato, un tentativo di ritornare alle origini della filosofia greca, che è una filosofia dello sguardo. Theorèin, questa parola che è tutt’uno con la filosofia, da cui teorema, significa per l’appunto guardare, con uno sguardo come i greci chiamavano euparàdektos, che sa cogliere le cose secondo una verità tutta piena, una verità che non viene tradita, che non è prospettica. Quello che Camus cerca a Firenze nel 1937 è appunto una filosofia dello sguardo. Noi sappiamo che lo scritto Il deserto è certamente del 1938, ma ci sono delle tracce che ci fanno pensare che probabilmente la redazione, quella così piena, densa e bella di cui noi disponiamo, è stata costruita sulla base di appunti che aveva preso dopo una passeggiata al Giardino del Cavaliere. Tutto denota una visita appena fatta, con particolari che possono essere riprodotti solo su un taccuino che un viaggiatore si porta con sé. Quei cachi, per esempio. Io sono stato al Giardino del Cavaliere, è un giardino che sta a cavallo fra la città e la campagna, la sommità di Bo64 boli. È così chiamato perché si vede da una parte la distesa di colline che diradano e declinano verso Siena e dall’altra parte invece la città. Camus parla di cachi. Questi cachi lo hanno colpito. Il succo che sembra quasi di percepire, lui lo vuole rendere. Non ci sono cachi nel Giardino del Cavaliere e poi è strano che ci siano cachi in quel giardino, anche perché Boboli è un giardino che è stato ricostruito nell’800 come giardino all’italiana e quindi tenendo separati – come si usava fare nell’800 – le verdure commestibili e i frutti dai fiori. Ma nel ‘700 si faceva proprio il contrario, si intrecciavano fiori e frutti e allora il sospetto è che magari ci fosse una traccia di questa antica abitudine a intrecciare fiori e frutti in un giardino all’italiana. E così è. Grazie al direttore del Giardino di Boboli, siamo riusciti a trovare una fotografia che denota la presenza negli anni ‘30 di un caco che era rimasto lì: infatti il Giardino del Cavaliere è un po’ dimesso e appartato. Mi trattengo un po’ a lungo su questo particolare, perché è davvero rivelatore di quello che sto cercando di dire: noi abbiamo di fronte una filosofia dello sguardo. Se vogliamo parlare della verità delle rose tardive, della verità del succo di un frutto così gustoso come un caco, dobbiamo parlare di qualcosa che esiste veramente, che è lì, davanti ai nostri occhi, che si offre a noi e di cui noi dobbiamo appunto farci interpreti, ma prima ancora custodi. Ma torniamo al nostro testo. Camus lo redige nel 1938, sarà pubblicato separatamente nei Taccuini, come testo d’occasione, e poi nel libro Nozze, come parte integrante di esso. Questi taccuini che riproducono gli appunti di viaggio sono importantissimi, perché ci dicono qualche cosa che il testo, una volta che è stato riprodotto nella raccolta Nozze, non dice più. Innanzitutto che è dedicato a Jean Grenier e questo davvero ci avvicina al nostro sunto di base, perché Jean Grenier è stato il suo professore più amato, è stato il professore con cui ha discusso una tesi in filosofia dedicata a metafisica cristiana e neo-platonismo, dedicata dunque a quello scontro, che è anche un odi et amo, dove uno si sposa sempre con due, uno scontro tra due grandi, grandissimi, che sono stati Plotino e Agostino. Lo scontro considerato dal punto di vista di Agostino, perché Plotino non ha conosciuto Agostino, ma Agostino ha conosciuto Plotino, si è confrontato con lui e ha capito che lì era in gioco davvero qualcosa di essenziale. Due mondi si contrapponevano: il mondo pagano oramai al tramonto e il mondo cristiano che cercava di dare una risposta a questo naufragio, o quantomeno a questo tramonto del paganesimo. Jean Grenier gli aveva suggerito di studiare il rapporto tra Agostino e Plotino e l’interpretazione che Agostino aveva dato di Plotino, ponendo alla radice di una questione che affascinerà Camus per tutta la vita: la questione dell’uno e del due, che è – come Plotino sapeva bene – quella che ci invita a ritrovare l’unicità nelle cose, che sono tante, conflittuali e contraddittorie e che ci invitano ad una dispersione, cioè a non vedere l’essenziale che è in esse. La filosofia dell’uno dice di stare attento, che tutto il molteplice sta nel segno di una cattiva infinità. Tutto è uno ed è a quell’uno che tu ti devi riportare, spogliandoti di ogni cosa. Non preoccuparti di essere quello che sei o quello che credi di essere, rendi il tuo sguardo puro, cioè capace di accogliere la cosa secondo verità e quindi non per come tu la vorresti, non nella prospettiva che tu imponi alla cosa, ma lasciando che la cosa sia. La grande parola di Plotino, forse la sua parola più enigmatica e anche la sua più profonda: impara a lasciar essere le cose, come esse vogliono essere, non come tu le vorresti. E quando avrai imparato questo, avrai imparato tutto. Ma in che segno sta questo tutto? Nel segno dell’uno, di quell’uno che è sorgivo, perché è la sorgente stessa. Quell’uno che è in tutte le cose, ma che prima ancora che nelle cose è in te, ma non in te come prospettiva sul mondo, in te come puro occhio, come puro sguardo gettato sul mondo. In te come sguardo al tempo stesso luminoso e umile, perché capace di lasciare che le cose siano quali sono veramente. Ma cosa credete che sia la verità delle rose tardive, se non quella che è colta da uno sguardo capace di spogliarsi 65 della propria presunzione e di abbandonarsi al mondo, non lasciandosi sedurre ma, al contrario, accogliendolo, accettandolo, inchinandosi di fronte ad esso. Tutta la grande mistica nascerà da qui. Certo che sarà filtrata da Agostino lettore di Plotino, Agostino che in Plotino aveva colto proprio questo: una filosofia dell’uno nel cuore del due. Tutto è dualità nel mondo, tutto è contrapposizione tra l’uno e il due, tra l’io e l’infinità degli altri. Tutto è opposizione, ma questa opposizione, l’alterità di questa opposizione è la cosa che riposa in se stessa, sono le rose tardive che sono quello che sono. Dirà Angelus Silesius, un grande lettore sia di Plotino che di Agostino, molti anni dopo in un celeberrimo distico: “La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”. Ma perché fiorisce? È una domanda filosofica, ma ci si può porre una domanda del genere di fronte ad una rosa? Forse che una rosa fiorisce perché tu ne possa godere il profumo? Forse perché possa rendere più bello il mondo? No. Chi nella rosa vedesse questo non vedrebbe nulla, ma chi non vede nulla vede tutto. Chi non vede il nulla che è alla radice delle cose, vede tutto, perché vede le cose nel loro essere, così come sono, quali sono, liberamente e quindi veramente. La verità delle rose tardive, questo va ricercando Camus. Ma va cercando anche un’altra cosa, che sembrerebbe essere il contrario 66 di questa. Se questa è una filosofia dell’uno, Camus è al tempo stesso tentato da un’altra filosofia, quella che per l’appunto potremmo chiamare una filosofia del due, una filosofia intimamente dualistica, fondata sulla contraddizione. Camus cerca una filosofia che lo porti a dire “sì” nel momento stesso in cui è più forte la rivolta, la negazione, il bisogno di dire “no”. Una filosofia che gli permetta di cogliere di nuovo la verità delle cose nella contraddizione. Una filosofia che di fronte al male, al dolore, a tutto ciò che fa scandalo (lo scandalo del male è il grande tema di Camus), proprio momento in cui la sola cosa da fare è rivoltarsi (la rivolta sarà un altro grande tema di Camus) riconosca che la ragione della rivolta poggia su un più profondo consenso, su un “sì”. Non è forse l’amore per la vita una passione sconfinata per l’essere, non per l’essere come vorrei che fosse, ma per l’essere così com’è? Non è forse questa dedizione all’essere quella che fa sì che io mi scandalizzi quando l’essere, la vita, è offesa, negata, conculcata o addirittura annientata? Guardate che una malattia, anche la più banale delle malattie, è una forma di annientamento della vita, appartiene alla vita. E invece anche una malattia – a maggior ragione quando colpisce un innocente, un bambino – fa scandalo. Tutto fa scandalo. Tutto si oppone a se stesso. Ma io mi posso scandalizzare solo se il presupposto di questo scandalo è l’amore per la vita, è un “sì” incondizionato dato alla vita. Non c’è invece nessuno scandalo per uno che non ama la vita perché sa da sempre che la vita è sgradevole e umiliante come spesso è, dolorosa e contraddittoria. Se la vita è sofferenza, un venir fuori dal nulla e un finire dal nulla, dov’è lo scandalo se interviene in questo nostro passaggio la malattia, il male e la morte? Ma se la vita ti appare infinitamente altro da questo, e cioè come la stessa gloria di Dio (come dirà Camus), sia pure quel Dio che non esiste, allora la non esistenza di Dio, cioè il male, la malattia, la morte, tutti i segni che sembrano denunciare la non esistenza di Dio (il fatto che gli innocenti soffrano ecc.), tutto ciò scandalizza, obbliga a provare scandalo. Vi è una duplicità, la ricerca dell’uno di fronte a un mondo pieno di contraddizioni e questa ricerca del due a partire da una fede nella vita, da un sì alla vita che suona come se io lo traducessi: amo la vita non perché è meravigliosa, ma amo la vita proprio perché è piena di contraddizioni, perché questo è il suo fondamento. Ecco, la filosofia dell’uno (Plotino), tenuta insieme con una filosofia del due (Nietzsche), gli era stata suggerita proprio da Jean Grenier, il suo professore di filosofia. Quando era poco più che studente – oggi diremmo studente della magistrale – Grenier gli aveva suggerito di leggere Agostino e Plotino, ma al tempo stesso anche Nietzsche, che di fatto va in una dire- zione contraria. Altro che spogliazione, altro che liberarsi di se stesso e gettare sul mondo e sulle cose uno sguardo pieno d’amore, quindi uno sguardo unificante, che abbraccia tutte le cose in uno; liberarsi di se stesso e risalire a quella sorgente, a quell’unità dove tutte le cose sono uno. Nietzsche sostiene invece la profonda, ineliminabile contraddittorietà dell’essere. La contraddizione più grande consiste in quello che lui chiamava ja sagen, il dire sì al no, il dire sì al negativo, il dire sì alla contraddizione stessa, scoprire la felicità nella più acuta sofferenza, dire sì al mondo non perché il mondo potrebbe essere quale non è, ma proprio perché è com’è, contradditorio, in un intreccio di bene e male, dove non c’è più il bene e non c’è più il male perché c’è l’essere così com’è, c’è la vita che chiede soltanto di essere fatta nostra, appropriata. Da una parte Plotino che invita a spogliarsi di sé, a dimenticare se stessi, con un gesto profondamente ascetico, di svuotamento di sé; dall’altra un gesto di segno contrario, un gesto di appropriazione: io mi approprio anche di ciò che mi ripugna, io dico sì anche a ciò che fa scandalo. Lo scandalo non esiste, tutto merita il mio sì, perché tutto è mio. A questo punto rileggiamo il passo che è stato letto: “Afferravo – dice Camus – l’oscillazione che conduce certi uomini dall’ascesi al godimento e dalla spogliazione a profondersi nella voluttà”. C’è un’oscillazione che 67 ciascuno di noi può sperimentare, un’oscillazione data dal gesto attraverso cui ci spogliamo di noi stessi, ci dimentichiamo di noi stessi e allora finalmente la vita ci appare nella sua verità, nella sua bellezza, nel suo splendore, al gesto solo apparentemente contrario, che consiste nell’afferrare la vita, nel farla propria, nel riconoscerla come la cosa più mia. Questo balancement, questa oscillazione, questo passaggio da Agostino-Plotino (la spogliazione di sé, la purezza dello sguardo) a Nietzsche (uno sguardo vorace, assorbente, appropriante). Ecco, questo balancement Camus lo ha scoperto proprio nella città dove si era prefigurato di fare esattamente le esperienze che poi avrebbe fatto, Firenze. “Firenze! Uno dei pochi luoghi d’Europa in cui ho capito – attenzione, questa è la frase forse più importante – che nel cuore della mia rivolta dormiva un consenso”. Ecco il senso vero del balancement, dell’oscillazione. Firenze rivela a Camus che è possibile rivoltarsi: il rivoltoso è colui che dice no al mondo con il suo carico di male, sofferenza, morte. Badate, rivoltarsi non è una cosa da tutti, come potrebbe sembrare. Sono molti di meno di quelli che noi crediamo coloro che sono davvero capaci di rivoltarsi, di provare scandalo di fronte a queste realtà negative. Sono solo coloro nei quali dorme un consenso, che hanno preventivamente detto sì alla vita, cioè hanno saputo gettare 68 sulla vita uno sguardo tale che ne ha afferrata la verità più profonda, quella in cui la vita è la gloria di Dio, è la sua manifestazione. In quegli stessi anni Georges Bernanos ha terminato il celebre Diario di un curato di campagna con quella frase sconcertante che sembra ricalcata su queste righe: “Tutto è grazia”. Attenzione, come sapeva bene Bernanos, “tutto è grazia” non va interpretata nel senso che non c’è il male, che il male è solo apparente e dunque non c’è la sofferenza. È esattamente il contrario. “Tutto è grazia” lo dice appunto quel povero parroco di campagna, che ha un senso fortissimo del male e che lo prova sulla sua stessa pelle. Proprio perché nel mondo tutto è male, si può dire che tutto è grazia. Lui non dice: “Tutto è bene”. Lui dice che tutto è grazia, quindi è più che bene. Il bene, in fondo, agli occhi del curato di campagna, è l’opposto del male. Il bene è là dove non c’è il male. Non così la grazia: la grazia, a differenza del bene, è là proprio dove c’è il male. È una sorta di liberazione da ciò di cui non si vede liberazione possibile. La grazia è quel gesto, non so come chiamarlo altrimenti, quel movimento dello spirito che, per l’appunto, ci trasporta al di là di ciò che tuttavia resta, al di là del male che non può essere puramente cancellato, perché se lo cancello allora mi limito a sostituirlo con il bene. Aveva 24 anni Albert Camus quando arriva per la prima volta in Italia. Era stato in Savoia a curarsi da una malattia ai polmoni che lo avrebbe tormentato tutta la vita e che lo aveva colpito a 16 anni. Dopo il soggiorno in una clinica in alta montagna, le sue condizioni erano visibilmente migliorate, non era guarito, ma stava molto meglio. Allora si concesse un viaggio in Italia e volle andare a Firenze. È quello che altri celebri viaggiatori prima di lui avevano fatto, ma con un atteggiamento molto diverso. Goethe, per esempio, passa a Firenze e dà ordine al cocchiere di mettere le valige sul calesse per proseguire il suo viaggio verso sud. A Goethe non importava nulla di Firenze, era convinto che fosse la copia di un momento classico, che solo nel mondo greco e successivamente nel mondo romano, si era realizzato in tutta la sua pienezza. Firenze era dunque la copia di una copia: già i romani avevano copiato i greci, figuriamoci i fiorentini che avevano riportato il classico in auge attraverso i romani, quindi copiando una copia. Camus invece vuole andare proprio a Firenze, dove era accaduta la rinascita del mondo classico e addirittura la possibilità, secondo Nietzsche, di riportare in auge la religione pagana. In questa grande operazione culturale decisivi erano stati i neo-platonici fiorentini, che avevano tradotto Platone e lo avevano letto e interpretato alla luce di quello che conoscevano – non tantissimo – di Plotino. Camus aveva appena redatto la tesi di Laurea, il suo maestro gli aveva consigliato di leggere Plotino, Agostino (ma Camus si era soffermato soprattutto su Plotino e sul neo platonismo) e Nietzsche. Dietro i grandi maestri del Rinascimento fiorentino c’è Marsilio, il fondatore dell’accademia platonica, prima nella Villa medicea di Careggi, poi a Santo Spirito. E alla scuola di Marsilio c’è un ragazzo che avrebbe segnato in profondità, come nessun altro, il Rinascimento fiorentino, Michelangelo. Michelangelo a 16-17 anni era a scuola di Marsilio, questa è una cosa che fa venire i brividi solo a pensarci. E possiamo pensare il Rinascimento senza pensare a Michelangelo e alle influenze che su Michelangelo ha avuto Marsilio, il grande interprete di Plotino? Noi non sappiamo come e quanto, ma certamente lo ha influenzato, soprattutto se pensiamo all’ultimo Michelangelo. Infatti il suo percorso artistico va in quella direzione: Michelangelo è alla ricerca di quell’unità nella contraddizione, di quel senso che tiene in uno ciò che è scisso, lacerato, drammaticamente conflittuale. Nella Sagrestia Nuova vediamo l’espressione di un pensiero tragico, che è appunto l’uno per così dire spezzato, ma che resta uno, anche se porta dentro di sé la contraddizione, la lotta, il conflitto di luce e tenebra, di forma informe, di caos e cosmo. Il passaggio dalla Sagrestia Vecchia realizzata dal Brunelleschi e decorata da Donatello – dove tutto è armonia, unità, perfezione – alla Sagrestia Nuova è non altro che il passaggio alla dimensione in cui l’uno si spezza in un conflitto con se stesso, 69 conosce il dramma della vita e della morte, l’agonia. Tutto è agonico nella Sagrestia Nuova. E cos’è agonia se non la lotta tragica, se non l’emblema di quella tragicità che Michelangelo ha incarnato meglio di chiunque altro? Di nuovo: filosofia dell’uno, dove filosofia dell’uno significa unità, armonia, perfezione, compostezza, e filosofia del due, filosofia tragica, filosofia della contraddizione, della tensione, della lotta, dell’agonia, della ferita che non si rimargina. Camus è stato messo su quella strada che sarebbe stata la sua da Jean Grenier, che gli aveva fatto studiare Plotino, il filosofo che getta sul mondo uno sguardo come solo i pagani sapevano fare, per cui tutto è meraviglioso e bello e, dall’altra parte, gli aveva fatto studiare il filosofo tragico per eccellenza, Nietzsche: il sì lo devi dire in presenza del male, dentro il male, in forza del male. Il tragico Nietzsche e il pagano Plotino accompagnano fin da allora Camus in questo suo viaggio a Firenze, dove queste due figure si trovano esemplificate, si può dire, in ogni passaggio e lui va proprio dove non solo ritiene che questa esperienza possa essere fatta, ma dove ritiene di poter quasi toccare con mano questa oscillazione. Camus ha trovato questa oscillazione al Giardino del Cavaliere, al Colle di Belvedere, dove ha avuto la possibilità sperimentare il passaggio da una ascesi più totale, da una purificazione dello sguardo così piena da implicare lo spogliarsi di sé completo, a una 70 jouissance, a un godimento e un’appropriazione altrettanto totale delle cose. Va al Giardino del Cavaliere e lì scrive queste pagine che ci danno da pensare e che sono cariche di un’esperienza tanto complessa, ma profondamente filosofica, perché i due poli che la compongono rimandano a due tradizioni di pensiero che Camus non mette insieme facendo pasticci, sovrapponendole una all’altra; due tradizioni di pensiero di cui egli tiene conto, comprendendone la lezione, accettandole e adottandole entrambe. Sembra che una escluda l’altra, ma sia la filosofia di Plotino che quella Nietzsche sono a loro volta contraddittorie, per cui Camus interpreta la filosofia dell’uno di Plotino come se lo sbocco naturale di questa filosofia fosse un’ascesi gioiosa. Mi spoglio di tutto, non esisto più, lascio parlare le cose, ma le cose mi parlano e parlandomi mi appaiono nel loro splendore e mi colgono a verità. Quindi, la sua filosofia dell’uno è ascesi, ma c’è anche una dualità dentro questo uno, perché le cose a cui ho rinunciato, rinunciando a me stesso, mi vengono restituite nella loro pienezza, tanto che mi si rivelano come non le ho mai viste, e le amo come non ho mai amato il succo di quel caco e la meraviglia, la dolcezza, la delicatezza, la tenerezza di quella rosa, proprio in forza del mio essermi fatto come nulla. Mi sono fatto come nulla, mi sono spogliato e proprio perché mi sono fatto come il nulla, incontro il tutto. E la stessa cosa vale per Nietzsche. La vita vuole il mio sì, e io glielo do. In Plotino l’origine è il no, l’ascesi e alla fine c’è il sì. In Nietzsche all’origine c’è il sì. La vita è infinitamente più forte di ciò che io voglio e non voglio, del fatto che io debba soffrire, per esempio, o che le cose non vadano come io credo. Ma proprio perché originario è il sì, proprio perché mi sono consegnato totalmente ad essa, senza riserve, proprio perché il mio sì alla vita è amore pieno e totale, allora tutto mi disturba. Tutto ciò che fa scandalo, fa davvero scandalo, proprio perché amo la vita. Avendo detto sì originariamente alla vita, l’ho abbracciata con tutte le forze di cui dispongo e allora non sopporto più che la gente soffra, che i bambini muoiano ecc. Camus non poteva dire meglio: “Ho capito che nel cuore della mia rivolta dormiva un consenso – e continua – nel suo cielo misto di lacrime e di sole, imparavo a dir sì alla terra e ad ardere nella fiamma cupa delle sue feste”. Lui vuole testimoniare, non esprimere (ricordate la frase iniziale, quella da cui siamo partiti). Esprimere implica un gesto prevaricatore, il gesto di chi si impone alle cose. Testimoniare vuole invece gentilezza, umiltà, mitezza. Ma il testimone è davvero tale nel silenzio, nella fiamma, nell’immobilità. Tutto questo lo trova al Giardino di Boboli. Camus ci va, compra il suo biglietto, attraversa il giardino storico che sembra interessargli fino a un certo punto, sale sul colle, il cosiddetto Giardino del Cavaliere, che effettivamente è il solo punto da dove si vede la città e la collina come la si vede dal Forte Belvedere, al quale non poteva andare, perché nel 1937 era ancora occupato dai militari e lo è stato fino al 1968-69. E cosa si vede da quel punto? Questo: “Nel suo cielo misto di lacrime e di sole imparavo a dire sì alla terra”. Ma come lo si impara? In una filosofia dello sguardo, attraverso la spogliazione. La spogliazione ci porta a trovare la testimonianza e a contrapporre la testimonianza all’espressione del mio io, la testimonianza che la vita merita il mio sì: “imparavo a dir di sì alla terra e ad ardere nella fiamma cupa delle sue feste”. Credo che Camus facesse allusione a una festa fiorentina. In questo i fiorentini sono stati davvero speciali. Qui andrebbe citato Nietzsche, per il quale Firenze sembra essere un luogo deputato alla rinascita di quel paganesimo tragico dove la festa ha una sua profonda tragicità. Le feste dei fiorentini sono state per lunghi secoli questo: “feste che ardono in una fiamma cupa”. Vi racconto una di queste feste. Quando il Vescovo di Firenze arrivava dalla Porta di San Pier Maggiore su un cavallo bianco per prendere possesso della città, la piccola piazza era occupata da tutti coloro che volevano gareggiare per la conquista del cavallo (questa tradizione è durata secoli, è stata proibita soltanto nel ‘600). Sotto un rumore assordante di cembali, tamburi, trombe e altro, il 71 cavallo veniva liberato dai finimenti e alcuni ardimentosi si sfidavano per la sua conquista, sotto gli occhi del Vescovo. Tutto era permesso e, salvo qualche caso fortunato, faceva parte del gioco che qualcuno ci lasciasse la pelle. Questa era, tutto sommato, una delle feste fiorentine meno cruente. Questa è una festa tipicamente tragica e drammatica: i contendenti si tagliavano la gola per conquistare un cavallo. Mi pare che in quegli anni un cavallo valesse la paga di un anno intero di 7-8 operai. Voi capite bene come un proletario, che non aveva nulla, fosse disposto a giocarsi la vita per appropriarsi del cavallo. Dal Giardino del Cavaliere Camus getta uno sguardo su Firenze e vede la festosità della tragedia, che si situa in un luogo di festa e ha un suo splendore. Fa questo mettendo insieme due percorsi, due vie filosofiche, quella di Plotino e quella di Nietzsche, che noi siamo abituati a pensare come due vie separate, che portano (come spesso accade in filosofia) in direzioni opposte e questo ci rivela davvero la grandezza del filosofo, che consiste nell’aver costruito un pensiero dove le due vie contribuiscono a creare davvero una prospettiva di rara profondità, per arrivare al punto in cui si può gettare uno sguardo sulla terra, il cui splendore e la cui luce gli parlano senza sosta di un Dio che non esiste. Perché viene da dire che Dio non esiste là, dove i disgraziati si tagliano la gola per impossessarsi di un cavallo. Eppure questo avviene dopo che è stato conquistato un sì in forza di un no, ma un sì che permette di accettare di riconoscere un senso anche a ciò che richiederebbe soltanto la nostra rivolta. E, viceversa, la nostra rivolta è per così dire rafforzata e resa ancora più urgente proprio da questo sì. È una filosofia coraggiosa, che sfiora in continuazione la contraddizione, il paradosso, ma proprio per questo è una filosofia che merita di essere ripresa. Il deserto di Albert Camus Vivere, certo, è un po’ il contrario di esprimere. Secondo i grandi maestri toscani, è testimoniare tre volte, nel silenzio, nella fiamma e nell’immobilità. Ci vuole molto tempo per capire che i personaggi dei loro quadri si incontrano ogni giorno nelle vie di Firenze o di Pisa. Ma, allo stesso modo, non sappiamo più vedere il vero viso di coloro che ci circondano. Non guardiamo più i nostri contemporanei, avidi soltanto di ciò che in essi serve ad orientarsi o a dar norma alla nostra condotta. Al volto preferiamo la sua poesia più volgare. Ma Giotto o Piero della Francesca sanno benissimo che la sensibilità di un uomo non è nulla. E cuore, ne hanno tutti. Ma i grandi sentimenti semplici ed eterni attorno ai quali gravita l’amore di vivere, odio, amore, lacrime e gioie crescono a profondità d’uomo e modellano la fisionomia del suo destino – come nella deposizione del Giottino, il dolore che fa stringere i denti a Maria. Nelle immense maestà delle chiese toscane, vedo certamente una folla di angeli dai visi indefinitamente ricalcati, ma in ognuna di queste facce mute ed appassionate riconosco una solitudine. […] 72 Vorrei distinguere un po’ più da vicino una verità che sentivo allora nel cuore stesso della mia rivolta, della quale essa non era che il prolungamento, una verità che andava dalle piccole rose tardive del chiostro di Santa Maria Novella alle donne di quella domenica mattina a Firenze, coi seni liberi negli abiti leggeri e le labbra umide. All’angolo di ogni chiesa, quella domenica, c’erano banchi di fiori, rigogliosi e brillanti, imperlati di gocce. Ci trovavo allora una specie di “ingenuità” e nello stesso tempo una ricompensa. In quei fiori come in quelle donne, c’era un’opulenza generosa ed io non vedevo come desiderare gli uni differisse molto dall’appetire le altre. Bastava lo stesso cuore puro. Non avviene molto spesso che un uomo si senta il cuore puro. Ma almeno, in quel momento, suo dovere è di chiamare verità ciò che l’ha singolarmente purificato, anche se questa libertà può ad altri sembrare bestemmia, come nel caso di ciò che pensavo quel giorno: avevo trascorso la mattinata in un convento di francescani, a Fiesole, pieno dell’odore dei lauri. Ero rimasto a lungo in un cortiletto gonfio di fiori rossi, di sole, di api gialle e nere. In un angolo c’era un annaffiatoio verde. Prima avevo visitato le celle dei monaci, e visto i loro tavoli guarniti d’un teschio. Ora questo giardino testimoniava le loro ispirazioni. Ero ritornato verso Firenze, lungo la collina che scendeva verso la città offerta con tutti i suoi cipressi. Quello splendore del mondo, le donne e i fiori, mi sembravano come la giustificazione di quegli uomini. Non ero sicuro che non fosse anche quella di tutti gli uomini che sanno che un punto estremo di povertà è sempre vicino al lusso e alla ricchezza del mondo. Fra la vita di questi francescani, chiusi fra colonne e fiori, e quella dei giovani della spiaggia Padovani ad Algeri che passano tutto l’anno al sole, sentivo una risonanza comune. Se si spogliano, è per una vita più grande (e non per un’altra vita). È almeno il solo uso valido della parola “spogliazione”. Essere spoglio conserva sempre un senso di libertà fisica e questo accordo della mano e dei fiori – questa amorosa intesa della terra e dell’uomo staccato dall’umano – ah! mi ci convertirei se non fosse già la mia religione. No, non può essere una bestemmia – e nemmeno se dico che il sorriso interiore dei san Francesco di Giotto giustifica quelli che hanno il gusto della felicità. Perché i miti stanno alla religione come la poesia sta alla verità, maschere ridicole poste sulla passione di vivere. Debbo dire di più? Gli stessi uomini che, a Fiesole, vivono davanti ai fiori rossi hanno nella cella il teschio che alimenta le loro meditazioni. Firenze alla finestra e la morte sul tavolo. Una certa continuità nella disperazione può generare la gioia. E ad una certa temperatura di vita, l’anima e il sangue mescolati vivono comodamente su delle contraddizioni, indifferenti tanto al dovere che alla fede. […] A Firenze fui felice e tanti altri prima di me. Ma che altro è la felicità se non il semplice accordo fra un essere e l’esistenza che conduce? E quale più legittimo accordo può unire l’uomo alla vita se non la duplice coscienza del suo desiderio di durare e del suo destino di morte? Almeno s’impara a non contare su nulla e a considerare il presente come la sola verità che ci venga data “in sovrappiù”. Sento quelli che mi dicono: l’Italia, il Mediterraneo, terre antiche in cui tutto è a misura dell’uomo. Ma dove mai? mi si indichi la via. Lasciate che apra gli occhi per cercare la mia misura e la mia soddisfazione! O meglio, sì, io vedo Fiesole, Djemila e i porti nel sole. La misura dell’uomo? Silenzio e pietre morte. Tutto il resto appartiene alla storia. Eppure non bisognerebbe fermarsi qui. Perché non è detto che la felicità sia ad ogni costo inseparabile dall’ottimismo. È legata all’amore – che non è la stessa cosa. E io conosco ore e luoghi in cui la felicità può apparire cosi amara che se ne preferisce la promessa. Ma in quelle ore e in quei luoghi non avevo abbastanza cuore per amare, cioè per non rinunziare. Qui invece bisogna dire questo entrare dell’uomo nelle feste della terra e della bellezza. Perché in quell’istante egli abbandona al cospetto del dio gli spiccioli della propria personalità, come il neofita gli ultimi veli. Sì, esiste una felicità più alta in cui la felicità sembra futile. A Firenze salivo nel punto più alto del giardino di Boboli, fino ad una terrazza di cui si scopriva il Monte Oliveto e le colline della città fino all’orizzonte. Gli olivi erano pallidi su ogni collina come minuscole fumate e nella loro foschia leggera si stagliavano le vette più dure dei cipressi, verdi quelli più vicini e neri in lontananza. Grosse nuvole macchiavano il cielo di cui si vedeva l’azzurra profondità. Verso la fine del pomeriggio cadeva una luce argentea in cui tutto diventava silenzio. Ma s’era levata una brezza che 73 mi sentivo soffiare in viso. Con quella, le nuvole si separarono dietro le colline come un sipario che si apre. Al tempo stesso sembrò che i cipressi della cima salissero con un balzo nell’azzurro improvvisamente scoperto. Insieme salirono lentamente tutta la collina e il paesaggio di olivi e di pietre. Vennero altre nuvole. Il sipario si chiuse. E la collina ridiscese insieme ai cipressi e alle case. Poi di nuovo – e in lontananza su altre colline sempre più sbiadite – la stessa brezza che qui e là apriva o chiudeva le spesse pieghe delle nuvole. In quel grande respiro del mondo, lo stesso soffio finiva a pochi secondi di distanza e riprendeva di tanto in tanto il tema di pietra e d’aria di una fuga a misura del mondo. Ogni volta il tema s’abbassava di un tono: seguendolo un po’ più lontano, mi calmavo un po’ di più. E giunto al termine di quella prospettiva sensibile al cuore, con un’occhiata abbracciavo quella fuga di colline che respiravano tutte insieme e con essa come il canto di tutta la terra. Sapevo che milioni d’occhi hanno contemplato quel paesaggio e per me era come il primo sorriso del cielo. Mi metteva fuori di me nel senso profondo del termine. Mi assicurava che tutto era inutile senza il mio amore e quel bel grido di pietra. Il mondo è bello, e fuor d’esso non c’è salvezza. La grande verità che pazientemente quel paesaggio mi insegnava è che lo spirito non è nulla, e il cuore neppure. La pietra scaldata dal sole o il cipresso che il cielo scoprendosi fa più alto limitano il solo universo in cui abbia un senso “aver ragione”: la natura senza uomini. E questo mondo mi annulla. Mi porta sino in fondo. Mi nega senza collera. Nella sera che cadeva sulla campagna fiorentina mi sarei avviato verso una saggezza in cui tutto era già conquistato, se non mi fossero venute le lacrime agli occhi e il grosso singhiozzo di poesia che mi empiva non m’avesse fatto dimenticare la verità del mondo. […] Bisognerebbe fermarsi su questa oscillazione: istante singolare in cui la spiritualità ripudia la morale, la felicità nasce dall’assenza di speranza, lo spirito trova nel corpo la propria ragione. Se è vero che ogni verità porta la propria amarezza in sé, è anche vero che ogni negazione contiene una fioritura del “si”. E il canto d’amore senza speranza che nasce dalla contemplazione può anche rappresentare la più efficace regola d’azione. Uscendo dal sepolcro, il Cristo risorgente di Piero della Francesca non ha uno sguardo umano. Non ha dipinto in viso nulla di felice – ma solo una selvaggia grandezza senza anima che non posso fare a meno di intendere come un decisione di vivere. Perché il saggio esprime poco, come l’idiota. Ed è una reciprocità che mi manda in estasi. Ma debbo questo insegnamento all’Italia o me la sono estratto dal cuore? Certo è là che mi è apparso. Perché l’Italia, come altri luoghi privilegiati, mi offre lo spettacolo di una bellezza in cui gli uomini muoiono ugualmente. Anche qui la verità deve corrompersi, e che cosa vi è di più esaltante? Anche se la desidero, che farei d’una verità che non debba corrompersi? Non è alla misura. E sarebbe finzione amarla. Non tutti capiscono che un uomo non abbandona mai per disperazione quel che costituiva la sua vita. Disperazione e colpi di testa portano ad altre vite ed indicano soltanto un fremente attaccamento alle lezioni della terra. Ma a un certo grado di lucidità può accadere che un uomo si senta il cuore chiuso e volti le spalle, senza rivolta né rivendicazione, a quello che fino allora scambiava per la propria vita, cioè la propria agitazione. […] Ma questo particolare deserto è sensibile solo a coloro che son capaci di vivervi senza mai ingannare la propria sete. Allora, e allora soltanto, esso si popola delle acque vive della felicità. A Boboli pendevano a portata di mano degli enormi cachi dorati la cui polpa spaccata lasciava uscire un denso sciroppo. Da quella collina lieve a quei frutti succosi, dalla segreta fraternità che mi metteva in accordo col mondo alla fame che mi spingeva verso la polpa arancione al di sopra della mia mano, afferravo l’oscillazione che conduce certi uomini dall’ascesi al godimento e dalla spogliazione a profondersi nella voluttà. Ammiravo, ammiro questo legame che unisce l’uomo al mondo, il doppio riflesso nel quale può intervenire il mio cuore e dettare la sua felicità fino a un preciso limite dove il mondo può completarla o distruggerla. Firenze! Uno dei pochi luoghi d’Europa in cui ho capito che nel cuore della mia rivolta dormiva un consenso. Nel suo cielo misto di lacrime e di sole imparavo a dir di sì alla terra e ad ardere nella fiamma cupa delle sue feste. Provavo… ma quale parola? Quale dismisura? Come consacrare l’accordo dell’amore e della rivolta? La terra! In questo gran tempio disertato dagli dei, tutti i miei idoli hanno piedi d’argilla. 74