200 ANNI
1816-2016
GUIDA AI PARCHI CITTADINI
04 PARCO DI
VILLA AUGUSTA
ASSESSORATO ALL’AMBIENTE E VERDE URBANO.
Area XI Attività Verde Pubblico
La presente collana è stata curata dai tecnici dell’Attività Verde Pubblico del Comune di Varese Dott.
For. Chiara Barolo, Arch. Lorenza Castelli, Dott. Agr. Ilaria Merico, Dott. For. Pietro Cardani.
Si ringrazia Silvia Motta per l’attività di ricerca bibliografica riguardante la mitologia degli alberi svolta
durante il periodo di servizio di leva civica regionale.
PRESENTAZIONE
Cari Varesini e cari turisti,
Un ringraziamento al Geom. Michele Giudici dell’Area IX - Ufficio Sistema Informativo Territoriale.
Riferimenti bibliografici
• Botanica Forestale – Volume Primo e secondo – Romano Gellini e Paolo Grassoni – Cedam Padova
1997;
• Cottini P. - “I Giardini della Città Giardino” – Edizione Lativa – dicembre 2004;
• Sulla Condizione dei Parchi Pubblici della Città di Varese – Tomo I-II-III-IV a cura del Prof. Salvatore
Furia – 1978- Atti in possesso del Comune di Varese - Attività Verde pubblico .
• Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Jacques Brosse – BUR Rizzoli
Saggi, 1991 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Milano;
• La Natura ed i suoi simboli – Piante, fiori e animali – Lucia Impelluso - Dizionari dell’Arte Edizioni
Varese è la nostra città-giardino. E come poterla scoprire meglio se non con
queste guide e mappe, molto comode e pratiche?
I parchi sono un bene prezioso che negli ultimi anni abbiamo preservato e
cercato di migliorare, anche ampliandone gli spazi verdi.
Varesini e turisti hanno la possibilità di scoprirne la ricchezza, dal patrimonio
arboreo e botanico alle peculiarità architettoniche presenti nei giardini principali.
Non mancano le info turistiche per raggiungere i sei parchi cittadini.
Palazzo Estense e Villa Mirabello, Villa Toeplitz, Villa Augusta, Castello di Masnago,
Villa Baragiola e Villa Mylius: le guide passano dai cenni storico-artistici alla
descrizione e al posizionamento, con le mappe, degli alberi monumentali.
Grazie al lavoro attento dell’assessorato al Verde pubblico, le guide sono state
ampliate e ristampate.
Non mi resta che augurarVi un buon giro all’aria aperta accompagnato da
un’ottima lettura.
Il Sindaco di Varese
Attilio Fontana
Cari tutti,
Della stessa collana
Giardini Estensi e Parco di Villa Mirabello
Parco di Villa Torelli Mylius “Achille Cattaneo”
Parco del Castello di Masnago (Mantegazza)
Parco di Villa Baragiola
Parco di Villa Toeplitz
Progetto grafico e impaginazione: Magoot Comunicazione Costruttiva - www.magoot.com
Stampa: Bosetti Group S.r.l. - Gorla Maggiore (VA) - Maggio 2016
In questo 2016, anno del Bicentenario dell’elevazione di Varese a Città, è un
piacere avere l’opportunità di presentare al pubblico i libretti della collana,
“Guide ai Parchi Cittadini” quale contributo per testimoniare la bellezza e la
ricchezza della Città Giardino.
Nelle guide si trovano aneddoti e cenni della storia delle famiglie che hanno
creato questi parchi meravigliosi, che li hanno vissuti e che ce li hanno tramandati.
Si trovano le descrizioni degli alberi autoctoni, di quelli esotici, dei più rari e più
preziosi, oltre ai bellissimi alberi monumentali, tanto amati dalla Città, e alcuni
vero e proprio simbolo Bosino.
I Giardini sono Storia e Cultura insieme; rappresentano l’essenza della capacità e sensibilità degli uomini di plasmare il territorio nel rispetto della Natura
dei luoghi, con l’obiettivo di poter godere appieno delle meraviglie che offre.
Sono parchi pubblici, sono di tutti: ad ognuno di noi, quindi, il diritto di goderne
appieno delle bellezze che offrono, ma anche il dovere di rispettarli e averne
cura, per il presente, per il futuro.
L’Assessore al Verde Pubblico e Tutela Ambientale
Riccardo Santinon
CENNI STORICI
All’interno del perimetro dell’attuale Parco di
Villa Augusta, ad inizio 1700 si rileva una modesta residenza con annessa casa del mezzadro (massaro) che si occupava di orto, prato e
“aratorio vitato”. Per tutto il 1800 la proprietà
fu della famiglia Baroffio di Varese che la cedette al milanese Avv. Andrea Canadelli (18661944). La villa residenziale che vediamo oggi,
attuale sede dell’Azienda municipalizzata per la
gestione di acqua, gas e rifiuti, è stata commissionata, tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900
proprio dal Canadelli, discendente da una famiglia di formazione militare della Catalogna
nota sin dal ‘700. La villa e parte del giardino,
di impianto informale, risalirebbero, pertanto,
ai primi del Novecento come testimoniato dal
confronto fra il Catasto del Lombardo Veneto,
il successivo Cessato Catasto Lombardo, il Catasto d’impianto del 1905 ed il preciso rilievo
aerofotogrammetrico dell’Ing. Nistri del 1934.
Progettata dall’Ing. Pisoni ed in fase costruttiva nel 1901, già nel 1905 consisteva di tre
piani con 32 vani. Già nel 1904 la proprietà fu
rivenduta per scopi speculativi finché nel 1911
villa e giardino divennero sede prediletta per le
vacanze estive dei coniugi Angelo Zamboni e
Augusta Testoni, quest’ultima bolognese d’origine. Vedova fin dal 1914, la signora Augusta
passò a Varese l’ultima parte della sua vita
fino alla morte avvenuta nel 1949. Il giardino
che vediamo oggi è frutto delle scelte estetiche della Sig.ra Augusta, al cui nome proprio
fu dedicato il complesso: viali curvilinei che
delimitano varie aiuole di forma irregolare, contornate da roccaglie tardo romantiche di ceppo
dell’Olona (nota anche come pietra spugna),
aree prative punteggiate da esemplari arborei
e arbustivi le cui dimensioni rispecchiano le diverse epoche di impianto. La villa, isolata da
una compatta coltre vegetale, è in posizione di
rilievo rispetto al giardino, che è posto in lieve
declivio, dove i diversi livelli sono collegati fra
loro da numerose scalinate. La vegetazione è
caratterizzata da numerosi alberi maestosi, fra
i quali due cedri d’Atlante monumentali (Cedrus
atlantica subsp. libani) contornanti un gazebo
in stile neoclassico (probabilmente risalenti
all’impianto originario), un gruppo di faggi purpurei, un monumentale esemplare di quercia
da sughero, unico esponente di tale specie
presente nei parchi comunali oltre a quello del
parco di Villa Mylius, di più modeste dimensioni. Oltre alle numerose conifere troviamo filari
di tigli e di platani nuovi che hanno sostituito
degli ippocastani.
Dopo un triennio di gestione da parte dell’Ospedale del Circolo di Varese al quale pervenne in donazione per volere testamentario della
Testoni, dal 1952 al 1968 villa ed annesso
giardino furono ceduti e gestiti dall’Istituto delle Suore Ausiliatrici delle Anime del Purgatorio,
con sede a Roma. Spese di gestione via via
crescenti motivarono la scelta delle religiose di
vendere il complesso all’Amministrazione comunale di Varese, per 230 milioni di lire, che divenne, quindi, proprietaria di uno “…dei migliori
esempi d’impianti signorili d’inizio Novecento”
(Paolo Cottini, in bibliografia) dal 12 dicembre
del 1968. È del 27 ottobre del 1952 il Decreto
del Ministro della Pubblica Istruzione che stabilisce, ai sensi della legge n° 1497/39 – Legge
Bottai sulle bellezze paesaggistiche, il notevole
interesse pubblico del parco “in quanto la sua
ricca vegetazione, composta di pregevoli essenze arboree, di alto e basso fusto, costituisce una
nota paesistica di non comune bellezza”.
Nel 1969 pare che le condizioni delle piantagioni, recinzioni, attrezzature e pertinenze
(serre, statue, rustici, accessi) fossero in normale stato di manutenzione come da verbali di
consegna degli immobili. L’apertura ufficiale al
pubblico avvenne in data 5 aprile 1970. Dopo
appena 8 anni, nel 1978, il prof. Salvatore Furia (in bibliografia), definisce il paesaggio desolato e fatiscente… con serre in completo decadimento (le medesime, fotografate nel 1978,
sono state demolite nel 1994 per far spazio ad
un prato lungo la via N. Bixio, fuori dal disegno
della Sig.ra Testoni Augusta). Il Prof. Furia descrive perfettamente i fenomeni di degrado e
di deperimento che si verificano quando parchi
nati per essere un Hortus caesaris o Villa di Delizia per pochi, come nel caso in esame, sono
aperti al pubblico utilizzo: sovrappopolamento,
costipamento e lisciviazione del terreno alla
base degli alberi, atti vandalici, maleducazione,
erosione dei viali, urti meccanici, contropartita
inesorabile che accomuna, purtroppo, il verde
collettivo. Il Prof. Furia quasi 40 anni fa: “il giar-
dino sta morendo ogni giorno sotto lo sguardo
che può essere indifferente, sadico, o, peggio
ancora interessato ad altri scopi, a determinare consciamente o inconsciamente la distruzione”. Dal 1994 il Parco è gestito dall’Attività Verde pubblico del Comune di Varese che ne cura
la manutenzione, il restauro, il risanamento arboreo sempre d’intesa con la Soprintendenza
alle Belle Arti e Paesaggio. Ne è incentivato,
come altrove, il ringiovanimento arboreo derivante anche dagli effetti insidiosi di condizioni
climatiche anomale (come le siccità del 2003
e l’ondata di calore che causò in Europa più
di 70.000 morti in eccesso e con effetti maggiori a carico delle persone di età superiore a
75 anni, residenti nei centri urbani, affette da
malattie croniche, disabilità funzionale, in condizioni di solitudine e disagio socioeconomico
come indicato dal Ministero della Salute nel
2014): alberi anziani, patriarchi, radicati nei
centri urbani, affetti da cronici danni, vulnerabili agli effetti delle alte temperature e delle
ondate di calore in funzione della «suscettibilità» individuale (stato di salute, caratteristiche
ambientali) ci hanno lasciato o sono in procinto
di farlo nonostante dispendiose cure. A ciò si
aggiungono fortunali devastanti mai prima registrati in Varese come quello del 7 luglio 2008
e, al Parco Augusta, il turbine con grandine del
13 luglio del 2011 che spezzò un faggio rosso
monumentale e sradicò alcuni cedri dell’Himalaya, prontamente sostituiti per le generazioni
a venire.
DESCRIZIONE BOTANICA
1. ACERO DI MONTE
*Fam. Aceraceae
Acer pseudoplatanus L.
Albero deciduo che può raggiungere grandi dimensioni, fino a 30-40 m di altezza, a longevità
elevata (300-500 anni), con fusto diritto e chioma ampia. Le foglie sono opposte (come in tutti
gli aceri) sui rametti, a 5 lobi grossolanamente
dentati, verdi scure sulla pagina superiore e
glauche su quella inferiore; i fiori, ermafroditi,
sono portati su grappoli pendenti, a foglie già
emesse; le samare hanno ali disposte a V. Il
suo areale si estende in tutta l’Europa media,
dai Pirenei al Caucaso; in Italia è comune sia
sulle Alpi sia sugli Appennini, si trova in associazione con abete bianco, abete rosso e faggio, tipico delle boscaglie prealpine. Il legno
prodotto da questo albero era molto ricercato
dai tornitori e dagli incisori, oggi viene utilizzato
soprattutto nell’industria del mobile.
2. ACERO RICCIO
*Fam. Aceraceae
Acer platanoides L.
L’acero riccio, albero caducifoglio, è simile all’acero di monte, da cui si distingue per le foglie a
5 lobi con apici acuti, i fiori riuniti in corimbi terminali, eretti, che compaiono prima dell’emissione delle foglie, le samare ad ali più aperte.
La specie si spinge, allo stato spontaneo, più a
nord rispetto all’acero di monte, arrivando fino
alla Scandinavia, mentre in Italia lo si ritrova soprattutto nelle regioni settentrionali e centrali.
3. AGRIFOGLIO
*Fam. Aquifoliaceae
Ilex aquifolium L.
Albero di medio-piccole dimensioni (non supera
gli 8 m) con foglie sempreverdi, coriacee, lucide con margine diritto o, più spesso, spinoso.
Questa pianta ha un accrescimento molto lento, produce legno duro adatto per lavori di ebanisteria, sculture, manici di ombrelli e attrezzi.
Il frutto è una drupa lucida rossa, il suo consumo è sconsigliato perché è purgativa e provoca
intossicazione. Simbolo della persistenza della
vita vegetale, dovuto al verde brillante del fogliame e alla presenza dei frutti rossi in pieno
inverno, per gli antichi Romani piantarne uno in
casa serviva ad allontanare i malefici. Per i popoli germanici svolgeva il medesimo compito:
appeso nelle case e nelle stalle teneva lontani
i sortilegi, ma i rami d’agrifoglio, completi di
bacche, venivano anche utilizzati nella decorazione delle dimore per rendere onore agli spiriti
della foresta (usanza che viene ancora mantenuta in molte regioni francesi, in Svizzera e
in Germania). Si capisce dunque che l’azione
dell’agrifoglio è duplice: da una parte raffigura la sopravvivenza dei vegetali e la speranza
della loro rinascita, dall’altra, grazie alle spine,
caccia gli spiriti maligni.
4. ALLORO o LAURO
*Fam. Lauraceae
Laurus nobilis L.
Arbusto o alberello sempreverde, alto fino a 12
m, con foglie lanceolate od ovali, coriacee, di
colore verde scuro, lucide sulla pagina superiore, molto aromatiche; produce piccoli fiori
gialli a forma di stella all’ascella delle foglie,
seguiti da bacche ovali dapprima verdi e poi
nerastre. Diffuso intorno al Mediterraneo, fra
i boschi di leccio e di roverella. Nella Grecia
antica il lauro era considerato pianta sacra ad
Apollo, mentre i Romani lo adoperavano come
simbolo di successo. Si parla dell’alloro in un
racconto contenuto nelle Metamorfosi di Ovidio in cui è protagonista una ninfa, Dafne. Divinità minore che amava vivere libera e indipendente, percorrendo la solitudine delle foreste,
fu concupita da Apollo che, vantandosi di poter
sfuggire al potere di Eros, ne fu soggiogato e
si innamorò di Dafne. Insensibile verso l’amore del pretendente, la ninfa chiese al padre
Peneo di mutarla in un albero, l’alloro. Apollo,
non potendo averla in sposa, ne fece l’albero
a lui consacrato. Ritroviamo questo albero in
un avvenimento prodigioso riferito da Plinio.
La promessa sposa di Cesare Augusto, Livia
Drusilla, si vide cadere in grembo una gallina
di una sorprendente bianchezza, lasciata precipitare da un’aquila, senza che si ferisse. Nel
becco portava un ramoscello d’alloro carico di
bacche, evento prodigioso per cui gli aruspici
(sacerdoti dediti alla divinazione) ordinarono di
custodire l’animale e la sua prole, oltre che di
piantare il ramo e di vegliare su di esso. Fu
così che la casa di campagna dei Cesari prese il nome di Ad Gallinas (Alle Galline), luogo
in cui nacque un boschetto di allori. Da quel
momento l’alloro divenne la corona di Augusto
e così, dopo di lui, quella di tutti gli altri imperatori. Nel Medioevo l’alloro coronava i giovani
dottori che avevano discusso con buona riuscita la tesi: il termine “laurea” deriva proprio dal
nome della pianta, Laurus nobilis.
5. ARAUCARIA
*Fam. Araucariaceae
Araucaria araucana (Mol.) K. Koch
Bizzarra conifera originaria delle Ande cilene e
argentine, fu introdotta in Gran Bretagna intor-
no al 1840. La giovane pianta ha forma perfettamente conica, mentre con l’avanzare dell’età
la parte bassa del fusto rimane spoglia facendo assumere all’albero la forma di un ombrello; può raggiungere i 25 m di altezza e oltre 1
m di diametro; le foglie sono simili a squame
molto appuntite e rigide e in età matura, nella
parte alta della chioma compaiono grossi coni
lunghi 10-17 cm.
6. BAGOLARO o SPACCASASSI
*Fam. Ulmaceae
Celtis australis L.
Albero di media grandezza (altezza fino a 1520 m), con corteccia grigia e liscia simile a
quella del faggio, foglie lanceolate dentate ai
margini, fiori poco visibili da cui si sviluppano
piccole drupe nere. Il suo areale comprende
una fascia lungo il Mediterraneo con limite
settentrionale rappresentato dal versante sud
delle Alpi; è presente anche in Caucaso, Siria e
Mesopotamia; allo stato selvatico si trova sporadicamente in stazioni rupestri e nel contesto
della vegetazione mediterranea. Viene assai
utilizzato nelle alberate cittadine.
7. BOSSO
*Fam. Buxaceae
Buxus sempervirens L.
Arbusto o piccolo albero sempreverde che
può raggiungere anche i 10 m di altezza; ha
crescita lenta ed elevata longevità, potendo
arrivare fino a 600 anni di età. Ha foglie opposte, piccole (10-25 mm), a margine intero e
leggermente ricurvo verso la pagina inferiore,
di colore verde scuro lucente sulla pagina superiore e più chiaro su quella inferiore. Viene
molto utilizzato allo stato arbustivo per la creazione di siepi e in “ars topiaria”. Il suo areale
comprende le regioni del Caucaso fino a tutta
l’Europa meridionale, spingendosi, lungo le
coste atlantiche, fino all’Inghilterra; allo stato
spontaneo lo si trova, sporadicamente, nei boschi di querce, più frequentemente di roverella.
Emblema della castità per la sua caratteristica
di autofecondarsi con notevole discrezione,
era opposto al mirto, le cui foglie somigliano a
quelle del bosso, che era invece consacrato ad
Afrodite. Agli uomini era quindi vietato deporre
i suoi rametti sugli altari della dea dell’amore,
pena la perdita della virilità. Il suo legno durissimo rappresentava per gli antichi la fermezza
e la perseveranza e, per questo motivo, ancora oggi viene utilizzato nella fattura di martelli
nelle logge massoniche. Era inoltre oggetto di
un culto arcaico dell’albero, dedicato ad Ade,
dio degli Inferi, e soprattutto alla dea Cibele
che, nel pantheon greco, incarnava la potenza
selvaggia della vegetazione scaturita dalle profondità sotterranee.
rosissimi, compaiono in estate, ma il polline
matura in autunno, liberandosi in nuvole gialle
al vento; i coni, eretti, lunghi 5-7 cm, nettamente incavati all’apice, sono costituiti da squame
strettamente appressate che, a maturazione
avvenuta (dopo 2 anni dall’impollinazione), si
disarticolano e cadono a terra insieme ai semi.
Molto utilizzato come pianta ornamentale, soprattutto nella varietà “glauca”, tollera l’inquinamento urbano.
8. CEDRO DELL’ATLANTE
9. CIPRESSO DI LAWSON o
DELLA CALIFORNIA
*Fam. Pinaceae
Cedrus atlantica Manetti
Originario delle montagne dell’Atlante (Algeria
e Marocco), introdotto in Europa presumibilmente nel 1839 e in Italia nel 1842; raggiunge
grandi dimensioni: altezze fino a 40 m e diametri superiori ai 150 cm, pertanto ha bisogno di
molto spazio; ha forma più slanciata del cedro
del Libano e cima nettamente eretta anche
nelle piante adulte, oltre che rami ascendenti;
aghi di 15-20 mm, piuttosto rigidi, glaucescenti, riuniti in ciuffi sui rami corti, singoli su quelli
di accrescimento; gli amenti maschili, nume-
*Fam. Cupressaceae
Chamaecyparis lawsoniana (A. Murr.) Parl.
Albero originario della costa occidentale del
Nord America che può raggiungere notevoli
dimensioni nel suo areale naturale: 50 m di
altezza (in Europa 25 m) e 2 di diametro; è
anche assai longevo, potendo raggiungere età
di 500 anni. Dal portamento eretto piramidale
con cima arcuata e pendente, ha foglie squamiformi lunghe 1,5 mm, opposte e appressate
al ramo, strobili globosi di 8 mm di diametro
rosso-bruni a maturità, formati da 8-10 squa-
me (che, una volta aperte, assomigliano a chiodi) ognuna contenente 2-4 semi alati. Adatto
a climi a elevata umidità atmosferica e piogge distribuite durante l’anno, con inverni miti,
molto resistente al vento. È detto anche “falso
cipresso” e ne esistono moltissime varietà ornamentali distinte per portamento (sono state
selezionate anche forme nane e prostrate), forma e colore della chioma.
10. CORNIOLO GIGANTE
*Fam. Cornaceae
Cornus controversa Hensl.
Piccolo albero alto fino a 13 m, originario di
Cina, Corea e Giappone che, a differenza di
tutte le altre specie di Cornus aventi foglie opposte, ha foglie alterne, lucide con nervature
evidenti, che diventano rosso porpora in autunno, prima della caduta; la sua fioritura è assai
appariscente, costituita da corimbi, larghi fino
a 10 cm, di fiori bianchi, seguiti da bacche nere
e lucide.
11. FAGGIO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L.
Albero che raggiunge i 30-35 m di altezza con
diametro anche superiore a 1,5 m; normalmente può vivere sino a 150 anni di età, ma in
circostanze particolarmente favorevoli può raggiungere anche 300 anni. La pianta si riconosce facilmente per la corteccia grigia e liscia,
le foglie ovali dal margine intero e leggermen-
te ondulato di colore verde scuro a maturità e
rossastre in autunno; i frutti, detti faggiole, a
maturità si aprono in 4 valve liberando 2 semi.
Il faggio è una delle specie più importanti in
Italia sia per l’estensione dei suoi boschi sia
per l’uso del legno nell’industria del mobile,
nonché per la sua bellezza ornamentale; è
specie esclusiva dell’emisfero settentrionale
ed è presente in tutta Europa, dalla Spagna
all’Ucraina, fino alla Norvegia meridionale. Un
tempo si utilizzava la corteccia del faggio, febbrifuga e tonica, anche contro la dissenteria. Il
catrame del suo legno, distillato a secco, il creosoto, potente antisettico scoperto nel 1832
da Reichenbach, viene usato dall’industria
farmaceutica come disinfettante dei polmoni
nella composizione di molti sciroppi. La varietà
Asplenifolia, ornamentale, si caratterizza per le
foglie a margine molto inciso e lamina stretta;
il faggio pendulo, a differenza delle altre varietà, che si distinguono per il colore e la forma
delle foglie, si caratterizza per il portamento
del fusto e dei rami, eretto fino a una certa altezza e poi piangente; il faggio rosso ha foglie
di colore porpora al momento dell’emissione e
violetto scuro a maturità.
Nell’antica Roma l’esistenza di un quartiere
chiamato Fagutal, che ancora prima era stato un bosco sacro di faggi (secolo I a. C.), fa
pensare che in epoche remote il faggio fosse
oggetto di culto. Così, anche cento anni più tardi, all’epoca di Plinio, di fianco ad un faggio
sacro si trovava un tempio dedicato a Jupiter
Fagutalis (dal latino fagus). In Lorena e nelle
Ardenne lussemburghesi si credeva che non
ci fosse folgore che potesse colpire questo albero, cosa che lo metteva in contrapposizione
con la quercia e il frassino.
In un settore geograficamente limitato che
comprende la Francia orientale, la Svizzera e
la Baviera, la naturale apparizione di esemplari
dalle foglie porporine destava l’emozione popolare; si credeva fosse un segno di deplorazione divina per l’annuncio di feroci battaglie
o per il sangue versato di un delitto. Ancora
oggi, nella foresta di Verzy, in Francia, si possono ammirare dei vecchissimi esemplari di faggio i cui tronchi e i rami più bassi formano un
ammasso confuso di linee contorte e ritorte,
malformazioni dovute ad una presunta mutazione provocata dalla caduta di un meteorite
radioattivo, avvenuto moltissimo tempo fa. A
Terranova di Pollino, in Lucania, nel mese di
giugno si svolge la festa della Pita, rito arboreo
piuttosto antico celebrato in onore di Sant’Antonio da Padova. Nonostante Pita, nel dialetto
locale, designi il nome dell’abete, spesso è il
faggio a fare da protagonista. Si tratta della
rappresentazione rituale dell’unione tra due
piante, una di sesso maschile (solitamente un
abete o un faggio), l’altra di sesso femminile
(una “cima” generalmente sempreverde). Entrambe vengono tagliate e, mentre la “sposa”
viene doverosamente ornata con fiori e nastri,
il faggio “sposo”, viene pulito dai rami, dalla
corteccia e levigato. Il faggio e la cima vengono
poi innestati, a sigillare il loro “rudimentale”
matrimonio, simbolo arcaico di rigenerazione
della natura, auspicio di fertilità. In seguito
vengono innalzati e i più coraggiosi, a suon di
braccia, si dilettano nell’arduo tentativo di raggiungere la cima. I faggi che troviamo nei giardini ottocenteschi (“romantici”, “all’Inglese”)
sono spesso delle varianti della specie selvatica (morfotipi selezionati e riprodotti a scopo
ornamentale), ricercate dalle famiglie facoltose proprio per la loro diversità rispetto alla
forma rurale: così s’incontrano i faggi a foglia
di felce (F.s. “Asplenifolia”); a foglie profondamente e regolarmente dentate (F.s. “laciniata”
o “heterophylla”); a foglie rosse (F.s. “Purpurea”); tricolori (F.s.”Tricolor”); gialle dorate (F.s.
“Zlatia”); a ramificazione pendula-piangente
(F.s. “Pendula”) o addirittura colonnare (F.s.
“Dawyck”); nana e prostrata (F.s. “Cochleata”);
a corteccia rugosa (F.s. var. “Quercoides”).
Purtroppo, negli ultimi 15 anni, decine di faggi, amanti del clima oceanico, intristiscono
con vistose microfillie, colpiti spesso da cancri
(lesioni) alla fragile corteccia devitalizzata dal
sole cocente del 2003 e del 2005 che li ha
predisposti ad attacchi di parassiti secondari
altrimenti confinati (carie del legno, marciumi
radicali, cancri rameali etc.). “Le temperature
registrate in Giugno e in Agosto sono RECORD.
Anche Luglio è stato molto caldo, ma ci sono
stati anni con temperature più alte. Record anche i 35° di giugno e 36° di Agosto. Nel complesso l’Estate 2003 è stata la più calda dal
1965 grazie alle temperature dei mesi di Giugno e di Agosto – Le precipitazioni totali dell’Estate hanno raggiunto i 285.7 mm - contro una
media estiva in 37 anni di 415,2 lt/mq - tra le
più secche dal 1965” con un deficit di 129,5
lt/mq” come da dati in possesso del Centro
Geofisico Prealpino. La ancor peggiore siccità
del 2005 con maggio di oltre 2 gradi più caldo
della media e un deficit di acqua mensile di –
98,8 lt/mq quando la vegetazione era in pieno
sviluppo; tra giugno e agosto il deficit idrico,
rispetto ai dati registrati dal 1965, è di 171,7
lt/mq. Si ricorda che ad agosto 2005 vi fu l’abbassamento eccezionale del livello del lago di
Varese pari a – 1,5 m dallo zero idrometrico
che fece seccare molti secolari carpini bianchi
sull’Isolino Virginia. Le siccità estive 20032005, alle quali si aggiunge il calore estremo
di luglio 2015, sono state terribili anche per
l’anziano patrimonio botanico varesino: le conseguenze sono state immediate ma si notano
ancora a distanza di anni, come è normale avvenga con gli alberi: A subirne maggiormente
gli effetti i soggetti anziani, patriarchi, radicati
nei centri urbani, affetti da malattie croniche,
vulnerabili agli effetti delle alte temperature
e delle ondate di calore in funzione della «suscettibilità» individuale (stato di salute, caratteristiche ambientali), della capacità di adattamento e del livello di esposizione (intensità e
durata)”. Come per l’uomo. In tutta la città di
Varese, invero, è evidente che vi siano vistosi
e documentabili segni di deperimento a carico
di alcune specie che denotano un precoce invecchiamento multifattoriale non escluso il termine della loro vitalità e vigoria in un ambiente
estraneo da migliaia di anni se non da qualche
milione di anni alla zona d’origine.
12. FAGGIO ROSSO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L. f. purpurea (Ait.) Schneid.
Il faggio cultivar “Purpurea” ha foglie di colore
porpora al momento dell’emissione e violetto
scuro a maturità. Si rinvia a quanto detto per
il faggio a foglia di felce per quanto riguarda i
Giardini Estensi. Al parco Toeplitz un patriarca
è in fase di sostituzione dopo una lenta agonia
le cui ragioni sono indicate nella parte generale riguardante la specie. Miglior stato di salute
mostrano due monumentali faggi rossi, uno
nei pressi del Castello Mantegazza e l’altro a
monte della Villa Baragiola. Discreto lo stato
fitosanitario di tre esemplari del parco Augusta, perduti per sempre altri due soggetti dopo
il fortunale del 13 luglio 2011 che s’abbattè
su Giubiano, prontamente sostituiti con giovani
piante.
13. GINKGO
*Fam. Ginkgoaceae
Ginkgo biloba L.
Questa specie caducifoglia, unica rappresentante della sua famiglia, è originaria della Cina,
dove veniva coltivata nei giardini dei templi
perché considerata albero sacro, simbolo di
immortalità, ed è grazie a ciò che ha potuto
arrivare fino ai giorni nostri. Il botanico tedesco Engelbert Kaempfer (1651-1716) descrisse per la prima volta la specie. Si tratta di un
albero antichissimo e primitivo, vivente già almeno 200 milioni di anni fa, epoca a cui risalgono i fossili ritrovati in giacimenti di carbone.
Raggiunse l’apogeo di diffusione sul globo nel
Giurassico e nel Cretaceo, ovvero da 200 a 65
milioni di anni fa. Il nome del genere Ginkgo
pare derivi dal cinese yin kuo che significa “albicocca d’argento”. Altro nome scientifico è
Salisburia adiantifolia (Smith): il genere in onore del botanico inglese R. A. Salisbury, il nome
della specie ad indicare la somiglianza delle
foglie con quelle del capelvenere (Adiantum capillus-veneris). Fu introdotta in Olanda intorno
al 1730 ed il primo esemplare in Italia, pare,
presso l’Orto Botanico di Padova; qui viene coltivata a scopo ornamentale: può raggiungere i
30 m di altezza e anche i 6 m di diametro, le foglie hanno tipica forma di ventaglio; si tratta di
una specie con individui maschili e femminili; i
frutti sono costituiti da un involucro carnoso, di
odore molto sgradevole a maturità. Le foglie di
ginkgo contengono numerose sostanze (terpeni, polifenoli, flavonoidi) utilizzate in medicina e
in cosmetica. Sei esemplari di Ginkgo, ancora
esistenti, sono sopravvissuti alle radiazioni prodotte dalla bomba atomica caduta sulla città di
Hiroshima; questa pianta è inoltre il simbolo
della città di Tokyo. Si presta ad un utilizzo in
città perché tollera bene l’inquinamento, non
manifesta debolezza nei confronti di patologie
fungine e parassiti animali, sopporta bene la
siccità e temperature invernali fino a -35°C. In
Giappone i semi vengono arrostiti e mangiati
come rimedio agli effetti di abbondanti libagioni. L’esemplare dei Giardini Estensi fu messo a
dimora dal proprietario di allora Cesare Veratti,
ovvero fra il 1850 ed il 1882. L’esemplare del
Parco Mirabello è stato verosimilmente piantato fra il 1865 ed il 1875 ad opera di Gaetano
Taccioli.
14. IPPOCASTANO
*Fam. Hippocastanaceae
Aesculus hippocastanum L.
L’ippocastano nasce spontaneamente nel nord
della Grecia, in Macedonia, Albania e Bulgaria.
Viene chiamato anche “marrone d’India” per
una sua supposta, ma errata, origine più orientale. È un albero imponente, capace di giungere oltre i 35 metri di altezza ed i 5 metri di
circonferenza del tronco. Fu portato in Europa
dai Bizantini: si iniziò la coltivazione nei giardini imperiali di Vienna nel 1576, quando ne
furono inviati i semi da Costantinopoli da parte
dell’Ambasciatore del Sacro Romano Impero,
Von Ungnad. A Parigi il primo ippocastano fu
portato dal botanico Bachelier che lo impiantò
nel 1615. Successive sono quindi le introduzioni a Versailles e presso i Giardini del Lussemburgo di Maria de’ Medici, oggi sede del
Senato francese. I primi esemplari italiani furono coltivati nell’Orto botanico di Padova già dal
1557. Il botanico naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605) chiamò la specie
“Castanea equina” quando la vide nel giardino
mediceo di Pratolino. Il richiamo al cavallo è
duplice: la cicatrice fogliare somiglia ad uno
zoccolo di cavallo; ai cavalli con malattie polmonari, febbricitanti, veniva fornito sollievo con
la farina delle “castagne matte” non commestibili, ovvero il seme dell’ippocastano (il frutto
è la capsula verde-marrone, spinosa e globosa
che lo avvolge). I lunghi fiori in pannocchie di
20-30 cm sono bisessuali, ricordano dei candelabri. Dapprincipio i petali bianchi presentano delle macchie gialle per attirare le api e
altri imenotteri; con l’esaurimento del nettare
i petali assumono colore arancione e poi rosso, colore non più percepibile dagli insetti. Il
seme amaro e non commestibile per l’uomo è
stato utilizzato per l’alimentazione del bestiame. L’alto contenuto in saponina naturale ne
ha permesso l’utilizzo per lavare la biancheria.
Alla fine del XIX secolo i medici scoprirono la
efficace azione della “castagna equina” nei
disturbi di origine venosa, in generale come
rimedio delle malattie dovute ad una circolazione difettosa. I guaritori raccomandavano di tenere in tasca un marrone dell’ippocastano per
i medesimi motivi. Il legno dell’ippocastano è
fragile (il peggior comportamento alla resistenza alla compressione longitudinale in campioni
di legno verde pari a ca. 1,4 q.li/cmq contro i
2,8 e i 2,7 q.li/cmq della rovere e del platano),
dal comportamento poco elastico prima della
rottura, poco durevole. La specie è geneticamente poco incline a riparare le ferite inferte
al tronco e alla chioma, ferite che diventano
vie di colonizzazione di funghi da carie capaci
di mangiare i tessuti legnosi e minando, in tal
modo, la stabilità meccanica dell’intero albero.
Per tali difetti, nel tempo, i filari ottocenteschi
sono stati sostituiti da alberate composte dai
più addomesticabili e resistenti tigli e platani.
I più grossi esemplari del Parco Mirabello sono
stati impiantati dopo la costruzione delle scuderie (ex Liceo Musicale, oggi sede di Varese
Corsi), ovvero dopo il 1839, più verosimilmente fra il 1865 ed il 1875 ad opera di Gaetano
Taccioli.
15. LECCIO o ELCE
*Fam. Fagaceae
Quercus ilex L.
Albero sempreverde che può raggiungere i 25
m di altezza e 1 m di diametro, ma più spesso
lo si trova come piccolo albero; è però assai
longevo, potendo vivere oltre i 500 anni. Le foglie sono spesse e coriacee, di colore verde
lucente sulla pagina superiore, bianco tomentose su quella inferiore; sulle piante giovani
le foglie sono spesso dentate al margine, su
quelle adulte sono a contorno per lo più intero.
Il suo areale gravita intorno al bacino del Mediterraneo, in cui è la specie principale e più
rappresentativa della macchia mediterranea,
ma piccoli nuclei spontanei isolati si possono
trovare in Val Padana, fra cui le coste dei laghi insubrici. In Arcadia, regione storica della
Grecia meridionale, la quercia leccio era dedi-
cata a Pan; divinità della natura selvaggia, il
cui nome significa “tutto”, era ritenuto figlio di
Driope, nome che viene da drus, la quercia, la
quale probabilmente era una ninfa del leccio.
In tempi remoti si credeva che fosse oracolare, così nell’Aventino si estendeva un bosco di
lecci, presunta dimora di una ninfa, Egeria, la
soprannaturale consigliera in scienze sacre del
re Numa. Un leccio molto antico, antecedente
alla fondazione della città di Roma, si innalzava
sul monte Vaticano, detto anche la collina degli
indovini; portava un’iscrizione etrusca in bronzo secondo la quale la pianta era stata oggetto
di un culto religioso da parte dei predecessori dei Romani. Tre querce ancora più antiche
erano venerate a Tivoli, presso le quali venne
consacrato re l’eroe Tiburnus, fondatore della
città. Albero oggetto di venerazione, assunse
nel tempo un carattere funesto. In Acarnania,
regione storica della Grecia occidentale, e nelle isole Ionie si narrava che, quando a Gerusalemme fu deciso di crocifiggere Cristo, tutti
gli alberi rifiutarono di donare il loro legno per
lo strumento del sacrilego supplizio, ma tra
questi vi era un Giuda. Quando fu il momento
di tagliare la croce, tutti i tronchi andarono in
mille pezzi tranne la quercia leccio, che rimase
in piedi lasciando che il suo tronco diventasse
lo strumento della Passione.
16. LIQUIDAMBAR o
STORACE AMERICANO
*Fam. Hamamelidaceae
Liquidambar styraciflua L.
Questo bell’albero piramidale di origine americana (est degli USA), è coltivato in Europa
come specie ornamentale: ha foglie palmate
a 5-7 lobi con margini dentati, che assumono
un’intensa colorazione dal giallo al rosso in
autunno; i fiori, insignificanti, sono seguiti da
caratteristici frutti globosi irti di aculei, penduli;
la corteccia diventa spessa e suberosa, contenente una resina liquida, da cui il nome di “liquidambar” datole da un naturalista spagnolo
che per primo descrisse la pianta, nel 1519.
17. MAGNOLIA SEMPREVERDE
*Fam. Magnoliaceae
Magnolia grandiflora L.
Magnolia sempreverde proveniente dal sud
degli USA, caratterizzata da grandi foglie ovali,
coriaceee, verdi scure superiormente e di color
ruggine o verde chiaro inferiormente a seconda della varietà, con grandi fiori bianco crema
che sbocciano durante l’estate; ha un portamento piramidale e, nei climi abbastanza caldi,
può raggiungere i 20 m di altezza. Le magnolie
sono piante antichissime e vengono considerate come le prime Angiosperme comparse sulla
Terra.
18. MANDORLO
*Fam. Rosaceae
Amygdalus communis L. / Prunus dulcis
(Mill.) D.A. Webb
Pianta molto longeva, raggiunge gli 8-10 m
d’altezza. I rami, di colore grigiastro, portano
gemme a legno e a fiore che possono essere
isolate o a gruppi di 2-3 e diversamente combinate. Le foglie sono lanceolate e seghettate; i
fiori, bianchi o leggermente rosati, compaiono
fra gennaio e marzo, sono ermafroditi, costituiti
da 5 petali, 5 sepali e da 20-40 stami. Il frutto
è una drupa che presenta esocarpo carnoso,
di colore verde, a volte con sfumature rossastre, spesso peloso, talvolta glabro, ed endocarpo legnoso contenente il seme, la mandorla. È originario dell’Asia centro occidentale e,
marginalmente, della Cina. Venne introdotto in
Sicilia dai Fenici, provenienti dalla Grecia, tanto che i Romani lo chiamarono “noce greca”.
Si diffuse in seguito anche in tutti i paesi del
Mediterraneo. Albero modesto, dalle dimensioni ridotte, si nota principalmente nel periodo
della fioritura, ma è il suo frutto, la mandorla,
ad essere protagonista di credenze e miti. La
parte commestibile del frutto, racchiusa in un
robusto guscio, ha fatto sì che per molti popoli diventasse simbolo dell’essenziale celato
sotto l’apparenza. Così tutti gli esoterismi, da
quello ebraico al musulmano, usarono proprio
la mandorla per rappresentare il cuore dell’essere divino nell’uomo. Per il Cristianesimo la
mandorla è il Cristo, la cui natura divina resta
celata dalla natura umana, o ancora prima, nel
corpo della Vergine Madre. Per questo motivo,
nell’iconografia medievale, la figura sacra del
Cristo e, talvolta, della Vergine, sono rappresentati nel seno della mandorla mistica, che
simboleggia inoltre la luce da loro emanata,
la loro aura. Secondo una tradizione ebraica
è proprio ai piedi di un mandorlo che si troverebbe la via d’accesso alla misteriosa città
sotterranea di Luz (“mandorla” in ebraico),
dimora di immortalità, dove Giacobbe ebbe la
sua famosa visione. Nel linguaggio dei mistici,
così come nel folclore, la mandorla ha sempre
rappresentato il segreto che è insito nell’uomo, la vita nuova che è immortalità. Troviamo
la mandorla, nel mito orientale di Attis, rappresentare il seme sparso da Zeus che diede
nascita all’ermafrodito Agdisti, poi castrato
dagli dèi, dal cui sangue nacque un mandorlo
(in altre versioni l’albero è un melograno). Il
frutto di questo albero, mangiato dalla vergine
Nana, fecondandola, diede origine al dio Attis.
Nei tempi eroici, Fillide, figlia del re di Tracia,
aspettando invano l’amato Acamante, morì di
crepacuore o impiccandosi, a seconda delle
versioni, e si trasformò in mandorlo per volere
di Era, dea degli amori fedeli. Quando Acamante giunse, trovando la sua amata tramutata
in albero, l’abbracciò e sui rami, ancor prima
delle foglie, come accade per questa essenza,
apparvero degli incantevoli fiori bianchi.
19. MELOGRANO
*Fam. Punicaceae
Punica granatum L.
Piccolo albero rustico, resistente all’aridità
estiva e alle temperature invernali mediterranee, è originario della Persia. Presenta foglie
lucide opposte o sub opposte, strette e allungate, intere, larghe 2 cm e lunghe 4-7 cm. I fiori
sono di colore rosso, di circa 3 cm di diametro;
hanno tre-quattro petali (che aumentano in alcune varietà orticole, coltivate solo per i fiori i
quali, in alcune varietà, sono di colore bianco
o rosato). Il frutto, detto melagrana, è una bacca denominata balausta, con buccia spessa e
coriacea di forma rotonda o leggermente allungata, con diametro da 5 a 12 cm. In posizione
apicale (opposta al picciolo) è assai caratteristica la robusta corona a quattro-cinque pezzi,
residuo del calice fiorale. L’interno della melagrana può contenere oltre 600 semi, detti arilli,
a forma prismatica, che in alcune varietà sono
circondati da una polpa traslucida colorata dal
bianco al rosso rubino (nella varietà commestibile, dolce e profumata). Il nome deriva dal latino malum (= mela) e granatum (= con semi).
In lingua anglosassone era noto con il nome
di “apple of Grenada” (mela di Granada), non
a caso la città spagnola di Granada ha nel suo
stemma un frutto di melograno: granada, in
spagnolo, come la grenade, in francese antico,
significano proprio melograno. Il termine, “granata”, dà origine al sostantivo con cui viene
indicata l’attuale bomba a mano, che inizial-
mente era costituita da un guscio rotondeggiante contenente un gran numero di pallini di
metallo. Il nome scientifico (Punica granatum
L.) è legato alla denominazione pliniana: Plinio
il Vecchio, scrittore latino, riteneva questa pianta originaria del Nord Africa, poiché a Roma i
melograni giungevano da quei territori. Da qui
“malum punicum”, ovvero melo fenicio.
Albero simboleggiante sia la vita che la morte,
è sacro a molte dee, in particolare ad Afrodite
(Venere) che, secondo la leggenda, lo avrebbe piantato per la prima volta a Cipro, isola
a lei dedicata. Il personaggio più noto legato
ad esso è senza dubbio quello di Persefone (o
Proserpina). Figlia di Demetra (antica divinità
materna della Terra e della fertilità), fu rapita e
condotta negli Inferi da Ade, che bramava d’averla in sposa. La madre, adirata, condannò la
Terra all’inverno perpetuo (la morte apparente
della Natura) finché Zeus, preoccupato, inviò il
suo messaggero da Ade per chiedere la liberazione della dea. Il dio obbedì, ma prima che
Persefone potesse fare ritorno nel mondo dei
vivi, le offrì dei semi di melagrana; inconsapevolmente, mangiandone alcuni, ella acconsentì
a divenire sua sposa e di conseguenza a rimanere legata anche al regno dell’oltretomba.
Essa fu condannata così a dover passare metà
di ogni anno nell’aldilà e metà sulla Terra, cercando di lenire il dolore di sua madre Demetra.
Da questo racconto presero origine dei rituali,
nei quali, nell’antica Grecia, le ateniesi erano
solite mangiare il frutto e berne il succo in ono-
re di Demetra, per assicurare la fecondità della
terra. Un altro mito greco narra che l’albero sia
stato originato dal sangue versato da Dioniso
bambino, nato da una relazione clandestina tra
Zeus e Semele, e smembrato dai Titani per volere di Era, adirata per l’infedeltà dello sposo.
In una leggenda frigia (la Frigia è una regione
storica dell’Asia Minore, attualmente parte della Turchia asiatica) si narra che il melograno
trasse nuova forza dal sangue di Agdistis, indomita divinità androgina generata da Agados,
la roccia, e da Zeus, dio del cielo e del tuono.
Malvagio e violento, Agdistis oltraggiò tutti gli
dèi al punto che un giorno Dioniso, dio dell’ebbrezza, volle vendicarsi; gli portò in dono del
vino e lo accompagnò a bere in cima a un albero di melograno finché il dio androgino, ubriaco,
si addormentò in bilico su di un ramo. Con una
cordicella Dioniso legò i suoi genitali maschili
al ramo e, una volta sceso a terra, scosse l’albero con forza. Nel brusco risveglio, Agdistis
precipitò, strappandosi i genitali. Nell’istante
in cui il suo sangue toccò terra l’albero divenne
rigoglioso e carico di frutti. Nei giorni successivi, la dea Nana colse un frutto e lo posò sul
grembo, ma esso sparì, fecondandola. Fu così
generato Attis, antichissima divinità legata
non solo al melograno, ma anche al mandorlo ed al pino sacro. Presso gli antichi Romani
si usava ornare il capo delle spose con rami
di melograno come augurio di fertilità, mentre
in molte tombe lo si trovava in bassorilievo a
simboleggiare la morte. In molte tombe egizie
furono trovati semi e frutti, per accompagnare
il viaggio dei defunti. Nell’iconografia cristiana,
quando la melagrana è raffigurata in mano al
Gesù Bambino, simboleggia la resurrezione,
mentre in mano alla Madonna allude alla sua
castità; fra le molte rappresentazioni si ricorda
la Madonna del Magnificat (conosciuta anche
col nome di Madonna con il bambino e cinque
angeli) e la Madonna della melagrana, entrambe del pittore italiano Sandro Botticelli. Il frutto
viene menzionato nella Bibbia come uno dei
sette prodotti della Terra Promessa; nel Cantico dei Cantici si recita “I tuoi germogli sono un
giardino di melagrane, con i frutti più squisiti”.
Ancora oggi per molte culture il frutto del melograno è considerato simbolo di fecondità, per
la sua forma tondeggiante e per i molti semi
contenuti in esso. In Africa e in India le donne
ne bevono il succo per sconfiggere l’infertilità;
in Turchia viene utilizzato come metodo divinatorio: a seconda del numero di chicchi usciti
dal frutto scagliato a terra è possibile prevedere il numero di bambini che avrà la futura partoriente; in Cina la tradizione vuole che le coppie
di sposi consumino il frutto la prima notte di
nozze come buon auspicio.
20. PARROTIA o LEGNO DI FERRO
*Fam. Hamamelidaceae
Parrotia persica (DC.) C. A. Mey
Questo piccolo albero caducifoglio, come dice
il nome specifico, proviene dall’attuale Iran e
dal Caucaso, dove può raggiungere i 15 m di
altezza; nelle nostre regioni, coltivato a scopo
ornamentale, rimane allo stato arbustivo. Ha
foglie ovali a margine ondulato e nervature
rosse, fiori con stami cremisi che compaiono
prima delle foglie; queste ultime assumono
una bella colorazione rossa in autunno; negli
esemplari più vecchi la corteccia si desquama
come quella dei platani.
21. PLATANO IBRIDO
*Fam. Platanaceae
Platanus x acerifolia (Ait.) Willd, sinonimo
Platanus × hispanica Mill. ex Münchh.
Il P. x acerifolia è un ibrido tra il P. occidentalis
(di origine americana) e il P. orientalis (di origine balcanica che, in Italia, si trova allo stato
spontaneo solo in Sicilia), originatosi nel 1663
nell’orto botanico di Oxford dove le due specie si incrociarono spontaneamente, da cui il
nome di London plane. Grande albero di 30-40
m, che può vivere sino a 300-500 anni, il platano ibrido è il più utilizzato nei parchi e nelle
alberate cittadine, in quanto, rispetto alle specie parentali, è meno esigente in umidità, più
rustico, capace di fotosintetizzare da tronco e
rami nei quali si scorge il verde della clorofilla.
Ha maggiore capacità di tollerare le potature e
resiste bene all’inquinamento delle città, grazie anche al desquamarsi della corteccia che,
rinnovandosi frequentemente, offre lo spettacolo di un incomparabile ed elegante mosaico
di lamine rosso-brune o verdastre su un fondo
liscio e chiarissimo. R. Graves, poeta inglese
(1895-1985), osserva che il platano, come il
serpente, cambia pelle ogni anno: sono quindi entrambi simboli di rigenerazione. Platano
deriva dal greco platanos, derivato da platus,
largo e piatto, che evoca la parte piatta della
mano, il palmo: le sue foglie a 5 lobi molto
appuntiti ricordano infatti la mano aperta. Fra
gli esemplari storici provinciali si ricordano i filari di platani che nel 1800 furono piantati ai
lati della napoleonica strada del Sempione che
univa Milano al valico omonimo e di cui rimangono pochissimi superstiti (Somma Lombardo,
Gallarate). Negli interventi urbanistici della seconda metà del 1800, per la costruzione dei
viali (Boulevards), furono impiantati soprattutto
in Francia platani ibridi sotto il regno di Napoleone III e sotto la regia del prefetto Haussman:
molte città europee ne seguirono l’esempio (si
ricorda il Paseo del Prado a Madrid, la Rambla di Barcellona, viale Certosa e Parco Sempione a Milano, Prato della Valle a Padova, il
Passeggio Dandolo e quel che rimane dell’ottocentesco boulevard di Viale Aguggiari a Varese
etc.). La diffusione del platano fu iniziata ben
prima dallo stesso Napoleone Bonaparte nelle città via via conquistate. Fin dall’antichità il
Platanus orientalis è l’albero delle passeggiate pubbliche, che protegge dal sole e adorna
le piazze e i viali, coltivato estesamente nella
torrida Grecia classica. Originario delle regioni
balcaniche, in Italia si trova allo stato spontaneo solo in Sicilia. Viene piantato più frequentemente nelle zone meridionali del Mediterra-
neo come albero da ombra. I Romani lo introdussero in Italia nel 390 a.C.; solo nel 1561
raggiunse le Isole Britanniche, dove a partire
dal 1636 subì la concorrenza del platano occidentale americano (Platanus occidentalis L.).
L’ibrido fra le due specie soppiantò entrambi
unendo in esso le migliori doti dei due. Il platano orientale fu un tempo albero sacro della
Lidia (provincia dell’Asia minore), ai tempi del
re Creso, leggendario per la sua ricchezza; il nipote Pizio offrì a Dario, re di Persia, un platano
d’oro. Nell’isola di Creta il platano era venerato come appartenente alla Grande Dea (Madre
Terra) rappresentata in numerose statuette col
gesto benedicente della mano aperta, evocata
dalla forma delle foglie della pianta stessa. Nel
Peloponneso vi erano boschi di platani sacri,
dedicati a Elena, moglie di Menelao, il quale
ne avrebbe piantato un esemplare prima di
partire per la guerra di Troia. Nell’antica Atene
scrittori, filosofi e artisti conversavano sotto i
platani orientali della passeggiata dell’Accademia e Socrate giurava “sul platano”. Anche i
Romani li consideravano benefici perché tenevano lontani i pipistrelli di cattivo augurio; ne
utilizzavano le infiorescenze sferiche nell’antidoto contro il veleno di serpenti e scorpioni.
Nel Sud-Est dell’Europa e in Asia occidentale
esistono ancor oggi esemplari millenari, dei
quali il più celebre è quello della città greca
di Cos, nell’isola omonima, i cui rami enormi,
puntellati da colonne antiche, coprono tutta la
piazza e il cui tronco è largo 14 m: una leggen-
dai piccoli passeriformi. Ha legno molto forte
ed elastico che, anticamente, veniva utilizzato
per la fabbricazione di archi. Sopporta bene le
potature, per cui può essere foggiato in varie
sagome. Il suo areale comprende Europa, Caucaso e Himalaya; proprio della fascia montana
temperata, si mescola al faggio, all’agrifoglio
e agli aceri. In natura è una specie protetta,
anche se diviene più frequente sulla Majella,
sul Gran Sasso, sul Gargano. Insieme all’agrifoglio, è una specie relitta del periodo terziario.
Protettore dei defunti, veniva chiamato albero
della morte, in quanto velenoso e si credeva
che chi si fosse addormentato sotto i suoi rami
sarebbe morto. Distrutto quasi dovunque non
solo per utilizzarne il legno per la costruzione
di armi, ma anche per la tossicità delle sue
foglie, è sopravvissuto fino ai tempi moderni
grazie alla protezione dei morti: è proprio il
suo utilizzo nei cimiteri ad avergli permesso di
attraversare i secoli. Dotato di una vita prodigiosa costituiva all’opposto una promessa di
immortalità. Data la longevità di alcuni esemplari rinvenuti in Francia è molto probabile che
da racconta che, sotto la sua ombra, il fondatore della Medicina, Ippocrate, ricevesse i suoi
pazienti 2500 anni fa. Gli esemplari più maestosi del Parco Mirabello, tutti ibridi, sono stati
impiantati dopo la costruzione delle scuderie
(ex Liceo Musicale, oggi sede di Varese Corsi)
ovvero dopo il 1839, più verosimilmente fra il
1865 e il 1875 ad opera di Gaetano Taccioli.
22. SUGHERA
*Fam. Fagaceae
Quercus suber L.
Albero sempreverde che raggiunge i 20 m di altezza con chioma molto espansa in larghezza.
Il tronco costituisce uno dei più facili caratteri
di riconoscimento, poiché presenta una scorza grigiastra, spessa parecchi centimetri che
tende a staccarsi in blocchi pesanti e compatti
(sughero). Come tutte le querce presenta una
ghianda ovoidale che raggiunge i 3 cm di lunghezza. La scorza della sughera è l’unica fonte
commerciale di sughero, nota già ai Greci e ai
Romani per le proprietà galleggianti e isolanti;
le più belle sughere si trovano in Sicilia, nel
Lazio, nella costa meridionale della Toscana,
ma soprattutto in Sardegna. Monumentale l’esemplare presente al Parco di Villa Augusta; di
recente introduzione al Parco Mantegazza e al
Parco Torelli-Mylius.
23. TASSO
*Fam. Taxaceae
Taxus baccata L.
Arbusto o albero alto fino a 12-15 m, con diametri considerevoli negli esemplari molto vecchi; è specie a lenta crescita e molto longeva
(può raggiungere anche 2000 anni); in Europa
esistono individui di 1500 anni. Il tronco può
essere indiviso o ramificato sin dalla base, la
corteccia si desquama in piccole placche; le
foglie sono lineari, flessibili, acute ma non pungenti. Le foglie e i semi del tasso sono altamente tossici, mentre la parte rossa del seme
(arillo) dolce e gradevole è uno dei cibi preferiti
il tasso sia stato anticamente oggetto di culti
pagani, inoltre, essendo un albero sacro del
druidismo, molti oggetti cultuali, compreso il
bastone druidico, erano fatti di legno di tasso.
Shakespeare lo cita sia nell’Amleto, in quanto
pianta velenosa utilizzata per avvelenare il re,
sia nel Macbeth, in cui le streghe inglesi utilizzavano le talee nel “calderone di Ecate”. È
proprio alla dea degli Inferi che i Romani sacrificavano dei tori neri decorati con ghirlande di
tasso per placare gli spiriti infernali.
24. TSUGA
*Fam. Pinaceae
Tsuga canadensis (L.) Carr.
Proveniente dalle fredde regioni nordorientali
del Nord America, questa conifera raggiunge i
25 m di altezza, con una chioma di forma piramidale e sottili rami penduli all’estremità; gli
aghi sono lunghi 6-12 mm, di colore verde scuro con 2 bande grigiastre sulla pagina inferiore; i coni maschili sono piccoli, quelli femminili,
lunghi sino a 2 cm, liberano in autunno i semi
alati che vengono dispersi dal vento.
Vinci
Il Parco di Villa Augusta si trova in località Giubiano,
a due passi dal centro cittadino nella zona sud-est,
nei pressi dell’Ospedale Del Ponte.
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