B. Sassani

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PREMESSA
Pubblico su Judicium il testo della Relazione al convegno perugino su
Alessandro Giuliani del giugno 2010, ora nel volume Alessandro Giuliani:
l’esperienza giuridica fra logica ed etica, curato, per Giuffrè, da Francesco
Cerrone e Giorgio Repetto.
A soli due anni di distanza da quel convegno, l’Università italiana si ritrova
preda del cancro in progress degli “indici bibliometrici”. La situazione è comica
e umiliante ad un tempo. Ecco un’Università in cui Alessandro Giuliani farebbe
oggi la parte dell’intruso.
Bruno Sassani
ALESSANDRO GIULIANI E LA FILOSOFIA DELLA NON FILOSOFIA
(JURISPRUDENCE RESTS NOT ON PURE REASON)
1.
In quella struggente testimonianza della cerimonia per il fuori ruolo di Alessandro
Giuliani, che è il volumetto “Per Alessandro Giuliani” spicca un saggio di Letizia
Gianformaggio, intitolato “Elogio di un filosofo continentale pronunciato da una analitica”.
E vorrei partire da questo titolo per dire quel che posso dire di Alessandro Giuliani, prima
mio professore, poi mio maestro, in fine mio paterno amico. Naturalmente senza alcuna
intenzione polemica nei confronti della compianta studiosa che ha scritto cose molto belle.
Giuliani un continentale? L’idea di un “continentale” contrapposto ad un “analitico” è
quella di un signore che vorrebbe sistemare le cose (e che mette le parole al servizio di
questo fine) ma che, credendo di sistemare cose si fa volentieri ingannare dalle parole. Si
tratta comunque di un tipo che non cammina senza appoggiarsi al bastone di un sistema, al
più – per gli eclettici – cambiando bastone a seconda del percorso che deve percorrere, e
così scivolando di sistema in sistema secondo utilità. Alessandro Giuliani apparteneva a
questa categoria? Chi lo ha conosciuto nell’incalzare delle sue domande, ha difficoltà a
riconoscerlo in tale veste, perché ben sa che in lui le risposte erano provvisori punti
d’appoggio e si trasformavano subito in nuove domande.
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Ma possiamo pensare a Giuliani come ad un analitico? Tanto meno. A me la parola
analitico fa venire in mente la storiella che una volta ho letto in Bertrand Russell (non
ricordo dove) a proposito del tizio che, essendosi perso, chiede la strada per la località X e,
ricevendo dal suo acuto interlocutore la richiesta di una maggiore precisione (“per andarci
di giorno o nelle ore notturne, a piedi o in macchina, per il percorso più breve o per quello
panoramico?”, e così via), è costretto dal fuoco delle controdomande ad affinare a mano a
mano il quesito ma che alla fine, dopo tanta analisi e tante precisazioni, si sente rispondere:
non lo so. In Giuliani non v’era spazio per la ricerca nichilistica, per la ars gratia artis, e in
questo si ritrovava, secondo me, lo spirito del giurista, il giurista che porta la responsabilità
della scelta. Chi lo ha conosciuto sa che una delle sua frasi era “clarity is not enough”: la
chiarezza è un bene in sé, ma comporta il rischio della fallacia secundum quid et simpliciter,
cioè dell’artificiale riduzione del problema reale ad un problema formale, formalizzato
appunto in funzione della sua risolvibilità more mathematico. Fondamentalmente la stessa
convinzione che, in un contesto diverso, avrei ritrovato anni dopo in De Finetti che la
esprime come “molto meglio una risposta approssimata alla vera questione che spesso è
vaga, piuttosto che una risposta esatta a una questione falsata che può essere resa precisa”.
2.
Alessandro Giuliani non è un filosofo con un sistema e contemporaneamente non è un
filosofo che si limita a chiarire le scelte possibili. In realtà per Giuliani era ambigua
l’espressione stessa filosofia del diritto. Amava raccontare che quando si era per la prima
volta presentato al concorso a cattedra, illustri commissari avevano scritto: “Interessante,
ma questa non è filosofia del diritto”. Facile ironizzare oggi a distanza di decenni, ma in un
certo senso quei signori avevano ragione. Giuliani non ricostruiva la storia dei classici
problemi giuridico-filosofici, non spiegava agli ignari il quid jus, non faceva sistemica, non
costruiva e decostruiva dottrine pure, non strizzava l’occhio alla sociologia politica,
insomma non indossava alcuno dei mantelli che ammettevano all’epoca uno studioso a
fregiarsi del titolo di “filosofo del diritto”. In più, nessuno avrebbe potuto classificarlo come
idealista, o come marxista, cattolico, esistenzialista, strutturalista e così via. E non rientrava
neppure nella genia (allora abbastanza nuova, nella nostra accademia) dei cultori dell’analisi
del linguaggio, perché il suo peccato originale aveva sì a che fare con il linguaggio ma in
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una maniera del tutto nuova per una “filosofia del diritto” poco filosoficamente impreparata
ai cambi di prospettiva.
Una pallida analogia con l’analisi del linguaggio si trova nella nouvelle réthorique che
Giuliani (legato anche spiritualmente a Chaïm Perelman) meditò e portò all’attenzione della
cultura giuridica italiana. Centrale in essa è il problema del linguaggio, delle sue fallacie,
delle trappole. Nei fori non si esercita la logica formale, non vince chi è più rigoroso ma chi,
nello scontro degli interessi, sa convincere prima e meglio. Nella situazione di conflitto la
logica formale è un’arma come altre, e neppure la più potente. Nei fori non si fa scienza e
l’utopia della “scienza del diritto” si tocca con mano: le parti lottano con tecniche
argomentative cariche di valori e di disvalori, quei valori e disvalori che compongono la
lotta tra il diritto e il torto, e le regole tornano ad essere quelle antiche della quaestio (della
sua positio, del suo status), del corretto contraddittorio, ma anche delle capacità intellettuali
e caratteriali delle parti, e della capacità del giudice di impedire abusi e di penetrare nella
sostanza della controversia.
La presunzione storica dei padri dei sistemi è quella di aver relegato il conflitto alla
patologia del divenire giuridico. Ma la situazione di conflitto è fisiologica nel mondo del
diritto: l’utopia del sistema dove tutto è pre-regolato (tutto è già accaduto in prospettiva) è
rivelata proprio dal fatto che il suo cuore, il Tatbestand, troneggia luminoso nella norma ma
nel conflitto se ne ritrova l’ombra esangue. Perché la fattispecie invocata è negata, sminuita,
fraintesa e la ars disputandi si risolve nella lotta per la sua rilevanza. Con il ritorno
prepotente della ragion pratica della controversia e del catalogo antico degli argomenti per
prevalere, comprensivo del complementare catalogo delle fallacie e dei sofismi.
3.
Si fa una certa fatica a inquadrare Giuliani come filosofo. Anche facendo la debita tara
degli scarti di significato della parola, resta sempre un’eccedenza, un residuo di pensiero a
cui l’etichetta non riesce ad incollarsi. Ho sempre pensato che egli esemplificava la figura
del giurista universale. Una figura ideale, che possiamo solo immaginare in opposizione
alla figura evocata dal termine giurista che ci fa pensare a qualcuno calato in un sistema
delimitato nel tempo e nello spazio. Nel progressivo universalizzarsi delle scienze forse solo
il diritto offre un tale camicia di forza: il giurista, pratico o teorico, è l’officiante di un
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organismo di regole vigenti, dove la vigenza è una mera convenzione (non universale e
illusoriamente duratura) perché è legata ad un potere non solo localizzato ma anche colto in
un suo momento particolare. E’, questa, la forza dell’idea del giurista c.d. positivo, figura
evidentemente condizionata dall’appartenenza ad un ordinamento doppiamente circoscritto
nello spazio e nel tempo, e compressa dalle finalità di ragion pratica imposte da tale
appartenenza. Fortunatamente però qualche spirito superiore può ancora essere giurista tout
court. Ad Alessandro Giuliani era costituzionalmente estraneo quello che è l’assioma stesso
del moderno interprete della legge: l’obbligo di muoversi all’interno di un insieme dato di
regole di riconoscimento, eventualmente criticabili ma, per definizione, incontournables. E
Giuliani giurista lo era nel profondo, perché riassumeva in sé i caratteri costitutivi
dell’esperienza giuridica, quei caratteri senza i quali nessuno potrebbe aspirare a pensare
more juridico.
Giurista universale Alessandro Giuliani lo è stato a pieno titolo per aver dialogato
incessantemente con il processualista italiano e con il costituzionalista austriaco, con il
civilista spagnolo e con il lawyer di common law (avvocato inglese o giudice statunitense).
E per aver interrogato incessantemente i maestri del diritto delle generazioni precedenti
senza finalità astrattamente ricostruttive (o peggio, classificatorie) ma per dare fondamenta
alla comprensione del presente e all’organizzazione del futuro.
C’è però una cosa che ricollega prepotentemente Giuliani alla filosofia: per lui il diritto
assurge a modello stesso del dibattito filosofico, sicché attraverso esso si pratica
(consapevolmente o no) una disciplina filosofica. La filosofia rientra prepotentemente dalla
finestra ma è una filosofia che nel frattempo ha perduto la sua aura di pensiero astratto,
depurato dal mondo come da una scoria, e si è nutrita degli elementi di umanità propri del
diritto.
4.
L’aspetto veramente peculiare di Alessandro Giuliani non è aver dedicato la sua vita
alla ricerca, cosa comune a molti grandi spiriti, ma di non aver mai spezzato il filo
dell’unica ricerca che per lui valesse la pena compiere. Quella della comprensione
dell’esperienza giuridica al di là delle sue forme contingenti, una comprensione che non era
mai la dimostrazione di una tesi ma lo svelamento di quello che la superficie non rivelava,
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cioè di quello che effettivamente contava. Dall’energia di questa ricerca egli era
letteralmente posseduto: il suo istinto gli faceva continuamente sospettare che cose tra loro
distanti ed eterogenee corresse un filo e la sua mente si allargava continuamente ad indagare
ceppi comuni e reciproci influssi. Si allargava di conseguenza anche il perimetro
dell’indagine e così rampollavano nuovi e inaspettati filoni di ricerca che egli – privo di
ogni gelosia e personalismo – affidava a chiunque avesse la volontà di contribuire
(compiendo talvolta peccati di ingenuità nei confronti di interlocutori intellettualmente, o
spiritualmente, non all’altezza). Così egli è stato l’ispiratore e, assieme a Nicola Picardi, il
motore delle grandi ricerche collettive che per alcuni decenni hanno coinvolto le migliori
menti del giure contemporaneo: quella sull’educazione giuridica e quella sulla formazione
del giudice.
La sua innata avversione agli impianti asseverativi gli impediva – complice la profonda
influenza della sua parentesi scozzese di studi – di pensare in termini rigidamente
affermativi, preferendo sempre ragionare in termini di migliore probabilità; in questo gli
faceva da guida la feconda tecnica delle rules of exclusion proprie dello spirito scettico e
pratico dei filosofi insulari e dei giuristi di common law. Da questo punto di vista egli era
una straordinaria eccezione nell’università degli spiriti comuni, che vuole che chi
intraprende una ricerca, la pratichi per un tempo dato (più o meno lungo), dia conto dei suoi
risultati a mo’ di conclusione, per poi sostituirla (se tutto va bene, e se non si tirano i remi in
barca) con un diverso oggetto. Per Giuliani le cose stavano diversamente, poiché la sua era
la ricerca infinita, il divenire progressivo della conoscenza che non permette a chi
intraprende il cammino di vedere la meta finale. Il tracciato si ramifica perché la curiosità e
l’insoddisfazione del ricercatore non vanno in linea retta: chi vuole procedere a tutti costi su
una retta viola la legge della complessità del mondo e riduce tutto ad un gioco
d’intelligenza. Compie un abuso e la sua punizione è la sterilità del risultato.
L’idea dell’abuso è una costante in Giuliani: l’abuso è la ricorrente tentazione dell’animo
umano e le teorie diventano giochi intellettuali – di esse si abusa – senza l’aiuto ed il freno
della saggezza, che è la conoscenza temperata dal senso del giusto e dei limiti della volontà.
Il diritto è la saggezza dell’umanità ma è l’interrogazione continua che facciamo dei grandi
filosofi che ci avvia ad una comprensione non meramente occasionale e contingente. E’
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infatti proprio dei grandi filosofi del passato – in testa l’amato Aristotele – non essersi
accontentati di riflettere sulla ragion pura ma avere invece indagato la predisposizione
all’errore dell’animo umano; non solo l’errore pratico ma anche quello teoretico può
dipendere dall’inganno dei sensi e spesso dalle passioni, dalle debolezze, dall’inganno della
volontà ovvero dalla volontà di ingannare. Di qui la presenza viva e costante, nella
riflessione giulianea, degli Elenchi sofistici di Aristotele e, con essi, della importanza, per il
giurista impegnato nell’agone, di non confondere dialettica e sofistica. La sofistica è abuso,
abuso logico ma ancor prima abuso morale, frutto e matrice dell’ingiusto, e il giurista di
Giuliani – che non si riconosce nei sistemi ed è impregnato di ragion pratica – deve tuttavia
agire sapendo che il rischio incombente della dialettica è il suo scivolare nella sofistica.
5.
Nel suo laconico Commiato Giuliani ricorda “mio padre, che era magistrato, e dal
quale ho appreso il senso della giustizia”. E’ una confessione che spiega bene quel che è
stato. Il “senso della giustizia”, trasmesso da chi da esso era stato animato, è penetrato nella
ricerca e l’ha dominata impedendo ogni tentazione di abusarne: prima di appartenere alla
logica, l’errore appartiene alla dimensione morale. E questo purtroppo mostrano di non aver
compreso quei critici di Giuliani che, ingannati dalle proprie predisposizioni culturali e
mossi solo dalla ricerca di conferme, hanno disegnato (e disdegnato) la sua speculazione
una théorie de la plaidoirie, come l’arte di avere ragione propria dell’avvocato (cioè di chi
mira a prevalere anche attraverso l’induzione all’errore degli altri), riduttivamente
ignorando la figura del giudice (cioè a chi deve depurare dall’errore gli argomenti offerti per
decidere). Grave fraintendimento che ho discusso e cercato di confutare in Alessandro
Giuliani o la civiltà del diritto (mio contributo al citato Per Alessandro Giuliani: se vuole, il
paziente lettore può leggere lì qualcosa di più: pag. 96 ss.); qui mi limito a riportare il passo
in cui scrivevo «Alessandro Giuliani ha costantemente messo in guardia dalla tendenza di
pensare alla dialettica come alla legittimazione dell’errore, al ragionamento persuasivo
“costi quel che costi”. Poiché la dimensione dialettica è invece dominata dalla
preoccupazione dell’errore, preoccupazione che dà alla ricerca un carattere fortemente
selettivo. Certe vie sono impercorribili, e proprio lo studio della sofistica ci porta nel campo
dei divieti logici e perciò stesso della responsabilità morale: “Il valore logico della verità
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non è indipendente dal suo valore assiologico, l’argomento falso è anche ingiusto e
viceversa: il sofista non solo utilizza argomenti falsi, ma anche viola i principi
dell’uguaglianza e della giustizia”».
6. Voglio ora dire alcune cose da studioso del processo e della giurisdizione. Trascurabile in
sé, la mia vicenda è però emblematica del modo in cui Giuliani intendeva il rapporto con chi
gli si avvicinava. Non mi sarei dedicato alla procedura se non mi avesse spinto a studiarla e,
per questo, non fossi stato da lui affidato alla sensibilità di Nicola Picardi, che all’epoca
manifestava già le sue inclinazioni di storico tanto delle idee quanto delle istituzioni
processuali. Un altro professore di filosofia del diritto mi avrebbe probabilmente messo a
studiare Kelsen, ovvero Croce, Santi Romano, Bentham, l’illuminismo, l’ideologia della
rivoluzione e via dicendo (in fondo era questo che mi aspettavo). Giuliani però riteneva che
per aver voce nel territorio della Jurisprudence occorresse prima munirsi di un’esperienza
giuridica: il giovane doveva cioè dapprima calarsi negli istituti, verificarne i meccanismi,
studiarne la storia, aprirsi alla suggestione dei raffronti. Considerato nella sua prospettiva, il
termine “istituto giuridico” è però ambiguo, trattandosi non di ciò che il sistema adottato
ufficialmente in un dato ordinamento chiama istituto, ma piuttosto di un nucleo logico che
trascende le sue configurazioni contingenti. Compito dello studioso era scoprire questa
aristotelica entelecheia (forma ed energia ad un tempo) attraverso una comparazione
tridimensionale di cui, al più, potevano indicarsi i punti di partenza, ma non gli sviluppi. E
qui entriamo nella communis opinio per cui Giuliani dava un ruolo fondamentale alla
comparazione. In realtà quella di Giuliani non era comparazione nel senso ordinario del
termine, perché la ricerca in senso orizzontale era integrata non solo da una ricerca in senso
verticale, ma anche dalla considerazione di quanto le costruzioni dei giuristi fossero spesso
la riorganizzazione ad hoc di topoi propri della speculazione teoretica, metafisica, logica e
teologica. Ad un tempo Giuliani rovesciava l’idea tradizionale di ordinamento, dato che lo
studioso ha l’onere di dover pensare all’ordinamento come ad un intero di cui i singoli
ordinamenti locali, fotografati in un dato momento storico, sono solo frammenti che il
ricercatore deve ricucire se vuol comprendere.
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Ma non si comprende Giuliani se non se ne considera la propensione all’indagine storica
(confermata anche dall’insegnamento che egli tenne di Storia del diritto italiano). Storia
intrecciata delle idee, degli autori e delle istituzioni alla ricerca della dimensione collettiva
del diritto. Anche questo credo che Giuliani volle esprimere nel suo Commiato quando, al
ricordo del padre, associò quello dei “miei maestri: Riccardo Orestano, Chaïm Perelman e
Michel Villey”. Un romanista, un matematico divenuto teorico dell’argomentazione, un
filosofo del diritto, tutti caratterizzati dal rifiuto della speculazione “pura” a favore della
ricerca storica, del ripiegamento sulle fonti attraverso cui il pensiero si libera della gabbia in
cui si imprigiona muovendosi all’interno di una struttura chiusa. Tre maestri accomunati
dallo scetticismo per i sistemi, per i traguardi, per le soluzioni definitive.
Giuliani ha riflettuto e scritto molto su molti temi (tecnica della legislazione, gerarchia
delle fonti, successione delle leggi, ordine economico, nascita e trionfo della burocrazia
ecc.) ma il cuore del suo pensiero (la goethiana pianta primordiale) è sempre stata la
controversia. La controversia – e quindi il processo – è l’incarnazione dell’esperienza
giuridica, anzi è la metafora dell’avventura della conoscenza nelle c.d. scienze sociali.
Parlare di logica giuridica ha un senso solo in situazione di conflitto: il diritto nasce per
regolare il conflitto, ma le sue soluzioni sono illusoriamente predeterminate. Di qui
l’educazione alla controversia; di qui la critica del “Diritto processuale” continentale
ritagliato sulla pandettistica di Diritto civile, e dell’equivocità della stessa massima della sua
strumentalità al diritto sostanziale, bussola preziosamente semplificatrice, ma che,
interpretata in maniera rigida crea l’illusione che le soluzioni siano inevitabili in quanto già
scritte. E’ però la stessa osservazione del diritto processuale che si incarica di smentire
quest’illusione: la disciplina del processo è irta di preclusioni, divieti, decadenze, limiti
probatori, limiti ai poteri del giudice, limiti alle impugnazioni delle parti: tutto congiura a
dire che la strumentalità al diritto sostanziale è anch’essa una regola in negativo. L’accordo
sulle regole non esclude (sconta piuttosto) il conflitto nel momento dell’applicazione al
caso, che avviene in una situazione controversiale, apre il conflitto tra regole. Il sistema è un
antidoto inadeguato (di qui le accuse, di “critico della modernità”) quando ad esso ci si
affida con la presunzione di estrarne soluzioni predeterminate. Questo non significa però
avversione all’accordo sulle regole: ancora una volta l’approccio di Giuliani è critico,
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problematico. Svelare l’illusione della certezza, non significa arrendersi all’irrazionale;
significa solo che questo irrazionale non lo si può esorcizzare ignorandolo in costruzioni
pure, fughe dalla ragion pratica. Compito del giudice è di organizzare la controversia nella
complessità delle sue alternative: “minore è l’interesse verso il momento della soluzione”,
scrive Giuliani, ma questo vuol dire solo che l’ambito dell’irrazionale può essere ridotto,
non può essere eliminato: l’eliminazione è illusoria, la sua riduzione è l’impegnativo
compito che spetta al giudice.
7.
Per entrare in sintonia con il pensiero di Giuliani, bisognava disimparare molte cose di
quel che si sapeva (o si credeva di sapere). Per chi come me era immerso nello studio della
procedura continentale, occorreva perdere la fede nella preesistenza della soluzione
(comunque sempre già scritta, o contenuta nel sistema) una soluzione che l’organizzazione
della controversia ha il limitato compito di trovare. L’impostazione classica dei nostri studi
di giurisprudenza, tutti ancora saldamente fondati sui dogmi di un positivismo giuridico
post-ottocentesco, cioè sullo studio ricognitivo delle leggi seguito dalla loro organizzazione
sistematica, si rivelava, in quegli anni, singolarmente inadeguata di fronte alla necessità di
comprendere la nuova dimensione della giurisdizione, in un momento in cui la magistratura
italiana esprimeva la nascente consapevolezza di sé, dividendosi proprio sulla posizione del
giudice nell’ordinamento e nella società: basti ricordare i primi scontri tra le posizioni
conservatrici e i fautori dell’uso alternativo del diritto, le prime in nome della fedeltà alla
legge, i secondi della fedeltà alla costituzione. Smentendo chi lo considerava chiuso
nell’astrazione speculativa del suo buen retiro perugino, Giuliani misurò prima di tutti la
portata del dibattito; egli vide subito i limiti dell’impostazione in termini di contesa
ideologica: la crosta terminologica delle ideologie correnti celava due grandi problemi del
diritto contemporaneo, da un lato il problema della formazione del giurista e dall’altro il
problema della funzione del giudice al confronto con la complessità delle dimensioni
nazionali, sovranazionali e transnazionali. Il primo rinviava al tema della trasmissione della
conoscenza, cioè della educazione giuridica; il secondo al tema (altrettanto negletto) della
responsabilità del giudice. Queste idee, in seguito divenute moneta corrente, agli inizi degli
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anni settanta erano solo le intuizioni di una mente che, attenta al contingente, lo trascendeva
tuttavia in una ampia visione storica e prospettica.
I due temi erano solo artificialmente separabili, e furono svolti in maniera distinta per
esigenze organizzative, di semplificazione comunicativa ed economiche (bisognava tenere
conto delle esigenze burocratiche del socio finanziatore: il CNR). Assieme a Nicola Picardi
il filone dell’Educazione giuridica e quello della Responsabilità del giudice marciarono
però insieme, per un quarto di secolo, in una irrecuperabile temperie di ricerca e scoperta
collettiva, internazionale, interdisciplinare e (cosa non da poco in Facoltà un po’ panachées
come le Facoltà di diritto dell’epoca) intergenerazionale. Ripensare l’educazione giuridica
non significava rimettere in discussione solo i metodi di insegnamento ma anche il
contenuto stesso di tale conoscenza. E pensare il tema della responsabilità del giudice
significava superare una carenza culturale di fondo, adagiata sulle formule della
distribuzione dei poteri e della separazione concettuale delle funzioni. Significava ripartire,
ancora una volta, dalla formazione di quel giurista per antonomasia che è il giudice, ma
aggiungendo ad essa l’analisi delle tentazioni che si andavano evidenziando nel corpo
giudiziario, a partire dalla scissione schizofrenica tra la tendenza alla burocratizzazione e
quella al protagonismo interventistico. Oggi ci rendiamo conto di cosa significhi il giudiceburocrate, ma tale immagine, con la sua discendenza diretta dalla figura del giudicefunzionario immaginato (e voluto) dai codificatori ottocenteschi, era presente agli occhi
aguzzi di Alessandro Giuliani quando gli altri guardavano ma poco o nulla percepivano. E
questo vale anche per il recupero del dibattito sulla funzione delle Corti supreme, nazionali
e supernazionali: anche qui le intuizioni di Giuliani avrebbero anticipato un tema venuto
alla moda nei decenni successivi.
°°°°
Cosa resta di Alessandro Giuliani a tredici anni dalla sua scomparsa? Un insegnamento
luminoso, in cui il piano morale e quello conoscitivo si fondono. La ricerca come fine e luce
della vita dello studioso, la curiosità insaziabile e multidirezionale, l’orgogliosa umiltà di
chi vede nei risultati raggiunti non il punto d’arrivo ma una tappa intermedia, sapendo di
entrare così in sintonia con il flusso antico del sapere collettivo. E il ripudio della vita
universitaria quale campo di astuzie, tattiche, intrighi; il ripudio insomma di quel ginepraio
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di mondanità e vanagloria, passerella per gli spiriti vacui dalla cui tentazione la sua voce ci
trattiene.
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