DA IDOLO DELLA TRIBU’ A IDOLO DEL FORO: RIFLESSIONI SUL IL CONCETTO DI CULTURA. Ugo Fabietti Quando qualche tempo fa un collega mi ha chiesto di intervenire in un convegno con qualche riflessione sul concetto di cultura, ho provato una certa esitazione, una specie di “ritrazione” di fronte all’idea di dover dire qualcosa su questo tema. La mia esitazione potrà sembrare paradossale: in fondo chi, più degli antropologi si è occupato della “cultura” ?). Ma la verità è che da circa tre decenni non esiste, per gli antropologi, una nozione più imbarazzante di questa. Tale imbarazzo si è tradotto in una serie di espressioni e di metafore dotate di un diverso spessore denotativo con cui gli antropologi hanno cercato di sfuggire (insoddisfatti) a ciò che loro stessi hanno ritenuto essere via via un insieme complesso di costumi, un’entità superorganica, una risposta all’ambiente, una configurazione di valori, un processo comunicativo, un testo, una rete di significati, un’invenzione e, infine, un impiccio e un imbroglio. Ultimo, e in certo senso riassuntivo di tutti gli altri disagi, quello di uno dei più noti antropologi di oggi, Arjun Appadurai, che così esprime il suo personale imbarazzo: “Mi trovo spesso a disagio con il sostantivo cultura…… Se penso alla ragione di ciò mi rendo conto che gran parte del disagio dovuto al sostantivo ha a che fare con il preconcetto che la cultura sia un qualche oggetto, una cosa o una sostanza, fisica o metafisica. Questa sostanziazione sembra riportare la cultura entro lo spazio discorsivo della razza, e cioè proprio entro quell’ idea per contrastare la quale era stata in origine concepita. Se implica una sostanza mentale, il sostantivo cultura privilegia di fatto quell’idea di condivisione, accordo e compiutezza che contrasta fortemente con quel che sappiamo sui dislivelli di conoscenza e sul prestigio differenziale degli stili di vita e distoglie l’attenzione dalle concezioni e dall’azione di coloro che sono emarginati e dominati. Se è invece vista come una sostanza fisica, la cultura comincia allora a puzzare di qualche varietà di biologismo, inclusa la razza, che abbiamo sicuramente superato come categorie scientifiche”. E’ da un disagio di questo tipo che deriva il mio timore a dire qualcosa sulla cultura, ma anche la necessità, credo, di “ripensare la cultura”. Partiamo da una statistica, frutto di una rapida ricerca su internet condotta un paio di anni fa negli Stati Uniti: il termine “cultura” rinviava a più di cinque milioni di pagine web (tolte tutte quelle che facevano capo a pratiche agricole - in inglese agricoltura suona “agri-culture”). Ma in riferimento alle discipline antropologiche, il numero delle pagine crollava a sessantamila, mentre il sito di Amazon, la più grande libreria on-line del mondo, riportava oltre ventimila titoli con il temine cultura di cui però solo milletrecento erano testi di antropologia (culturale). Questa statistica è sicuramente congruente al disagio degli antropologi perché significa chiaramente che oggi il termine cultura lo si ritrova per lo più “fuori” dell’antropologia. A prima vista gli antropologi sembrerebbero doversene rallegrare. In fondo hanno sudato sette camicie, e almeno sette decenni, per imporre questo concetto all’attenzione delle scienze sociali e del pensiero occidentale. Certamente in parte è così. Ma se guardiamo che cosa ha davvero significato, per il concetto di cultura, questo ritrovarsi fuori dall’antropologia, scopriremo che gli antropologi hanno molte meno ragioni di sentirsi soddisfatti. Sia chiaro che il concetto di cultura, così come è stato elaborato e utilizzato dall’antropologia ha avuto (ed ha) alcuni meriti che nessuno potrebbe negare. Senza farne una genealogia, si può dire che il concetto di cultura consentì di pensare il genere umano come capace di esprimere ovunque, in ogni epoca e luogo, una creatività materiale, comunicativa e simbolica che, per quanto diversa da luogo a luogo, da epoca a epoca, presentava caratteristiche di assoluta commensurabilità. Concettualizzata come cultura umana, questa creatività ricevette letture e specificazioni particolari, legate a contesti storici, sociali, linguistici individuali (le “culture umane”). Il concetto, usato in maniera estensiva o universalista (la cultura umana) consentì infatti di ricomprendere, stavolta usato in maniera intensiva (o particolaristica), le forme locali che questa cultura umana assumeva in punti diversi del pianeta (le culture umane). Sorvolando sulle implicazioni epistemologiche di questa mossa intellettuale che fu l’elaborazione del concetto antropologico di cultura, possiamo dire che si trattò di una mossa politicamente importante, perché in questo modo si cominciarono a prendere seriamente in conto delle realtà umane distribuite nello spazio che una visione eurocentrica aveva praticamente ignorato come elementi utili per una migliore comprensione della storia complessiva del genere umano. Dalla elaborazione del concetto di cultura l’antropologia, da parte sua, trasse un vantaggio: quella di presentarsi come la prima forma di riflessione socialmente riconosciuta, e accademicamente autorizzata a trattare di forme di vita culturali e sociali “altre”. Così come è stato impiegato dagli antropologi anche in relazione alla pratica etnografica, il concetto di cultura è venuto a significare un comportamento umano strutturato in modelli appresi. Proprio l’idea che la cultura consista di modelli mentali e comportamentali strutturati e appresi costituisce oggi il caposaldo ultimo dell’idea antropologica di cultura. Così definita, però, la cultura deve essere “spiegata”, e questo non può avvenire se non grazie ad analisi particolari e circostanziate, cioè grazie all’etnografia (senza la quale l’antropologia, è bene ricordarlo, non avrebbe senso). Come ci dice la statistica però, i contesti d’uso extra-antropologici del termine cultura sono di gran lunga più numerosi rispetto di quelli in cui il concetto è impiegato dagli antropologici. I concetti non sono le parole che li evocano, e infatti il loro significato cambia a seconda del contesto in cui vengono usati. Se nel contesto antropologico cultura rinvia a un complesso di comportamenti mentali e pratici strutturati e appresi, che deve essere sempre spiegato, cioè descritto e reso coerente, “fuori dall’antropologia” cultura è venuta a significare qualcosa di diverso, non di completamente diverso, ma diverso quel tanto che basta per rovesciarne a volte le finalità con cui gli antropologi lo hanno da sempre usato. Nel contesto non-antropologico la cultura non deve ad esempio essere spiegata, ma è qualcosa che “spiega”: spiega il comportamento, i gusti, le idee politiche, quelle relative al rapporto trai sessi, e naturalmente l’economia, l’organizzazione sociale e le visioni del mondo, sia del mondo sensibile che di quello ultrasensibile. Spiega le guerre etniche in Africa e nei Balcani, spiega le difficoltà di inserimento degli immigrati dei paesi poveri nelle megalopoli europee e nordamericane, spiega le tensioni tra bianchi e neri e ispanici nelle città degli Stati Uniti, spiega tanto i “miracoli economici” di alcuni paesi asiatici quanto le loro crisi ricorrenti. Spiega l’11 settembre e, naturalmente, lo “scontro delle civiltà”. Com’è allora che un concetto elaborato dall’antropologia come guida per la pratica etnografica, cioè per descrizioni e spiegazioni localmente circostanziate di comportamenti e di disposizioni umane socialmente apprese, al di fuori dell’antropologia è diventato un “concetto-spiegatutto”? L’elaborazione del concetto di cultura da parte degli antropologi rappresentò, ho detto prima, non solo un’importante mossa intellettuale, ma anche una mossa politica significativa, il concetto ebbe altri risvolti “politici”, e non solo nel senso che mediante esso una cultura (quella europea) si aprì alla comprensione delle culture “altre”. Formulato per la prima volta in Inghilterra nel 1871, divenne particolarmente centrale nell’antropologia americana dei primi del Novecento, per poi dispiegarsi nuovamente nell’antropologia europea successivamente alla II guerra mondiale. Senza stare a dire i perché e i percome di questo “giro”, fu in America che il concetto di cultura sviluppò le caratteristiche di un “anticoncetto”, che erano già contenute nella sua formulazione originaria del 1871. Quello di cultura infatti un concetto con forti valenze anti-. Per gli antropologi “cultura” non indica solo tutto ciò che non è natura, ma anche, e soprattutto, tutto ciò che non può essere descritto e spiegato mediante nozioni e discorsi che fanno capo a una idea di eredità culturale biologicamente trasmessa. Negli anni di formazione di questo concetto l’idea in voga era quella di “razza” la quale veniva usata per distinguere indifferentemente delle diversità, tanto di carattere culturale e che somatico. Il carattere peculiare del contesto in cui tutto ciò avvenne (l’antropologia culturale e le scienze sociali americane della prima metà del Novecento) ebbe un impatto decisivo sullo stile intellettuale degli antropologi. Se la cultura era ciò che doveva difendere le scienze sociali americane dalla razziologia e la società americana dal razzismo, gli antropologi si guardarono di fatto dall’esportare questa loro posizione nella sfera pubblica, e preferirono, per una serie di ragioni anche comprensibili, mantenere questo discorso entro i limiti del campo disciplinare. Queste ragioni sono da ricondurre all’uso del concetto di “cultura” come concetto simbolo dell’antropologia, il portabandiera della lotta contro i darwinisti sociali, i razziologi e i razzisti; ma la cultura anche ma anche un’opzionerifugio, un bastione dietro al quale trincerarsi per distinguersi dalle discipline che proprio in quel periodo riuscivano, attraverso l’adozione e l’applicazione di metodi quantitativi, a presentarsi come “più scientifiche” dell’antropologia culturale. L’effetto lungo di questo “arrocco” (tanto per usare una metafora scacchistica) fu che cultura non indicò più soltanto ciò che non era natura o razza, ma anche ciò che avrebbe potuto essere concettualizzato in termini di “storia” e di “classe sociale”. Diventò una specie di punto di vista auto-legittimato da cui osservare un campo distinto dell’attività umana. Diventò un modo per guardare ai popoli in una loro astratta “totalità”, senza specificare quelle differenze e disomogeneità di prospettive, di potere e di interessi che sempre esistono all’interno di “una cultura”. E’ vero che non fu sempre così, soprattutto in Europa. Se però consideriamo il ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto, nella seconda metà del Novecento, nella diffusione in Europa e nel mondo di idee e di modelli di consumo, compreso il consumo delle idee, non dobbiamo stupirci se tra queste idee esportate troviamo anche il concetto antropologico di cultura (o almeno una lettura particolare di esso). Diventato un punto di riferimento irrinunciabile per l’antropologia, e assunte le caratteristiche di un vero e proprio paradigma scientifico, il concetto di cultura, si trasformò, una volta messo in circolazione fuori dell’accademia, in un concetto rigido, autoesplicativo e capace di denotare qualcosa di molto concreto, proprio come il mercato, l’arte, lo stato, l’economia ecc. della cui esistenza nessuno poteva dubitare. Reificata, la cultura da concetto descrittivo divenne esplicativo, mentre più spiegava più si irrigidiva, e più si irrigidiva più spiegava, come altre idee reificate: da idolo della tribù (la comunità antropologica) si trasformò in idolo del foro (lo spazio pubblico). Una volta reificata, la cultura è diventata non solo ciò che spiega tutto: conflitti, differenze, interessi, atteggiamenti ecc. ma anche un appiglio per giustificare tutto e tutti, secondo una malintesa idea di relatività culturale. Sul versante opposto la cultura viene oggi chiamata in causa per sostenere la tesi dello scontro di civiltà, per promuovere politiche educative spesso retrive, per riproporre in chiave debiologizzata nuove forme di razzismo, per progettare nuove forme di segregazione sociale, così come per sostenere le tesi di quegli ambienti iperliberisti che fanno una missione di civiltà del loro desiderio di esportare ovunque, e con qualsiasi mezzo, le proprie vedute in materia di politica economica. E’ sconfortante, per chi frequenta le discipline antropologiche, assistere oggi a un simile utilizzazione del concetto di cultura quando si credeva che il suo destino fosse invece quello di liberarci dal biologismo e dal razzismo, di promuovere il pluralismo e affermare una disposizione etica ed intellettuale all’ascolto della diversità. Esportato al di fuori dell’antropologia, il concetto di cultura non ha certo contribuito a eliminare il biologismo dalle scienze sociali, né il razzismo dal discorso comune e della politica. Piuttosto li ha trasformati. Il biologismo si è abbarbicato all’idea di cultura, dal momento che non si vede come certe dinamiche biologiche potrebbero sostanzializzarsi se non in comportamenti culturali; il razzismo invece, ne è uscito debiologizzato, dal momento che non si presenta più come una teoria che pretende di fondarsi su dati biologici. Il neo-razzismo si avvale dell’idea antropologica di relatività culturale per estremizzarla al punto da sostenere che le culture umane sono tra loro radicalmente diverse, incommensurabili e per questo incomunicanti. Questo razzismo infatti fa leva, rovesciandone il senso, su due assunti emersi, guarda caso, proprio dal discorso antropologico: il primo è quello per cui le culture umane, per quanto diverse e per quanto diversamente organizzate, hanno tutte diritto a considerazione e riconoscimento. Il secondo afferma che se alle diverse culture è riconosciuta una pari dignità di esistenza, allora deve essere anche riconosciuto, a chi lo rivendica, il diritto alla differenza e alla propria identità. È dal «bricolage ideologico» tra questi due assunti e l’idea che le culture umane sono incommensurabili che il neorazzismo trae le proprie argomentazioni per proporre l’esclusione e la segregazione delle culture. Nel contesto esterno all’antropologia il concetto di cultura è diventato infatti un modo per impacchettare velocemente razza, etnia, lingua, religione e utilizzarle come marcatori della differenza. Preoccupa il fatto che questo modo di maneggiare il concetto stia diventando una merce d’esportazione in tutto il mondo. Samuel Huntington, già noto anche da noi per il suo libro Scontro di civiltà (1995), ha curato nel 2000 un libro intitolato Culture Matters, (“Questione di cultura”). La tesi di fondo degli autori che hanno contribuito a questo libro è che i divari e gli squilibri socio-economici tra differenti regioni del pianeta, sarebbero il prodotto di eredità e disposizioni culturali, il tutto in barba alle teorie dello scambio ineguale e delle strutture della dipendenza. Su altri versanti la cultura la cultura è spesso invocata per rivendicare un proprio diritto alla differenza, ma anche per affermare la propria supposta superiorità nei confronti di altri. Anche quando si presta a un uso relativistico, la cultura propria e degli altri è oggetto di discorsi che evocano una scala graduale di importanza e di valore, come avviene ad esempio nei discorsi sullo sviluppo. In questo li antropologi hanno, come ho detto, le loro responsabilità. Sorvolo su quelle teorico-epistemologiche più complesse. Una di queste responsabilità è però senz’altro quella di aver utilizzato il termine cultura in riferimento a unità d’analisi sempre più piccole e al tempo stesso estremamente generiche: non solo la cultura trobriandese o balinese, ma anche la cultura dei contadini, dei pescatori, del cibo, del turista e dell’impresa. Se con il termine cultura si vuole indicare una entità circoscritta, localizzata e descrivibile nella totalità dei suoi elementi componenti, è evidente che oggi tale concetto è destituito di fondamento. Qualcuno ha parlato di “esagerazione della cultura”, qualcun altro di “eccesso”. Questa “esagerazione” fu il frutto di intenzioni originariamente non del tutto disprezzabili, perché corrispose al tentativo di presentare ai lettori occidentali i popoli altri come capaci di elaborare esperienze umane ampiamente condivise e dotate di senso. Ma questa “esagerazione” ebbe effetti di reificazione e, trasportata nella sfera pubblica, andò ad alimentare il culturalismo. Il fatto è che non furono più solo gli antropologi a “esagerare” le culture, ma anche, e soprattutto, coloro che si sentirono, grazie a questo concetto, in grado di perseguire finalità e interessi propri. Un problema connesso all’uso indiscriminato del concetto di cultura consiste proprio nel fatto che le stesse nuove forme di soggettività che emergono oggi nei vari luoghi del pianeta (soggettività religiose, etniche, politiche, sessuali, giuridiche, di genere ecc.) sono le prime a fare riferimento alla “cultura” come ad un parametro di legittimazione del diritto alla differenza, autonomia, indipendenza, riconoscimento ecc. La risposta dell’antropologia, di fronte a queste utilizzazioni del concetto è ovviamente critica, ed è consistita nel sottolineare come tali soggettività siano non solo delle costruzioni, ma addirittura delle invenzioni spesso finalizzate a produrre nuove e scandalose esclusioni. Ma cosa si è guadagnato col dire che queste soggettività sono delle invenzioni e delle costruzioni? Spesso, quello che gli antropologi hanno guadagnato da questa critica è nientemeno che l’accusa di….razzismo o, nel migliore dei casi, quella di voler negare agli altri il diritto di rivendicare la propria autenticità. Meglio sarebbe allora analizzare come queste soggettività si producono nella dialettica della vita reale e nell’immaginario che, grazie alla diffusione planetaria dei media, sta diventando una delle più potenti risorse nella costruzione di queste soggettività. Forse la principale ingenuità da parte degli antropologi è stata quella di pensare che, operando nello spazio neutro dell’accademia, avrebbero potuto influenzare positivamente la società politica e civile, mentre invece mettendo in circolazione un concetto come quello di cultura, hanno soltanto contribuito, in maniera del tutto paradossale, a rafforzare i pregiudizi della società o a ridicolizzare la stessa idea di cultura, come nel caso di una pubblicità che mi è capitato di vedere di recente, e in cui una ditta di sanitari magnificava la propria….. “cultura del bagno”. Sono infatti ben pochi coloro che ormai si prendono la briga di chiedere agli antropologi cosa sia la cultura (e tra questi vi è il collega che mi ha sollecitato a compiere qualche riflessione in merito). Ma non è questo il punto. Mi sembra importante infatti far notare come al di fuori dell’accademia gli antropologi abbiano reso un miglior servizio alla società e all’antropologia tutte le volte che non si sono accontentati di arzigogolare sul concetto di cultura, ma quando hanno invece investito teoricamente alcune categorie culturali politicamente significative. Non nel senso che si sarebbero dati alla politica, ma nel senso che hanno analizzato le pratiche e i discorsi del culturalismo, del razzismo e dell’etnicità senza limitarsi a dire che in fondo la cultura, la razza e l’etnia sono soltanto delle invenzioni. Se si pensa alla frequenza con cui la cultura è tirata in ballo per spiegare ciò che accade nel mondo, dovremmo forse chiederci se non sia il caso di cominciare a mettere tra parentesi il concetto stesso di cultura. E’ un concetto a cui gli antropologi (me compreso) sono particolarmente affezionati proprio per le ragioni che ne hanno promosso l’elaborazione e l’utilizzazione e che prima ho cercato di riassumere brevemente. Tuttavia bisogna chiedersi se il fatto di perseverare nella sua utilizzazione non generi una sorta di legittimazione, di assuefazione o addirittura, dell’uso del concetto in contesti extra-accademici. Cosa voglio dire quando mi azzardo (e non sono certo il solo) a dire che forse il concetto di cultura dovrebbe essere messo tra parentesi? Infatti non vorrei essere frainteso. Spiegare le recenti diatribe sul crocifisso nelle scuole italiane, o sull’opportunità di evocare Babbo Natale ai giovani studenti musulmani invocando la diversa “cultura” delle parti in causa, appare altrettanto inadeguato che riferirsi alla cultura per spiegare le diverse concezioni giuridiche presenti nelle diverse aree del pianeta. Abbiamo bisogno della “cultura” per spiegare le sevizie sui prigionieri iracheni? O per comprendere i motivi che un paio d’anni fa spinsero delle donne cecene a cercare di farsi saltare per aria con gli ostaggi in un teatro di Mosca, oppure quando una ventina di anni fa centinaia di adepti di una setta guidata da un predicatore americano scelsero di compiere un suicidio di massa? Tutto questo ha forse a che vedere con cose come “la cultura” occidentale e quella orientale, quella cristiana e quella musulmana? Prendiamo un esempio concreto: la distruzione delle statue del Budda avvenuta nel 2000 nella Valle di Bamyan, in Afghanistan per opera dei taleban. Certo possiamo rifarci alla “iconofobia” della “cultura” musulmana… Ma a parte il fatto che anche il cristianesimo ha una lunga tradizione iconofobica che va dall’VIII al XIX secolo, i veri motivi per cui i taliban fecero saltare le statue è perché queste rientravano nel patrimonio dell’umanità stilato dall’UNESCO, una categoria costruita, a giudizio dai talebani, da una cultura, quella occidentale, coi cui principi i talibani non avevano nessuna intenzione di identificarsi. Se i talibani non sono gli unici musulmani a non riconoscersi in questa “cultura”, tuttavia non a tutti i musulmani sarebbe venuto in mente di distruggere le statue. Se dovessimo applicare il modello culturalista, cosa dovremmo dire dei movimenti estremisti ebraici che vorrebbero radere al suolo il Tempio della Roccia costruito a Gerusalemme dal califfo Omar e poi ricoperto d’oro dai crociati per sostituirlo con un nuovo Tempio? Se non affrontiamo analisi puntuali e articolate delle motivazioni sociali, politiche, psicologiche che muovono e gli esseri umani, e ci rifugiamo nella “cultura” avremo fatto il gioco solo di quanti lo scontro delle civiltà lo vogliono davvero. Allo stesso modo, non è sufficiente dire che i film che vediamo alla televisione, la diffusione della coca-cola e dei MacDonald nel mondo sono il segno dell’esportazione della cultura americana su scala planetaria: forse sarebbe meglio interrogarsi sugli interessi che muovono questi fenomeni, sui discorsi che li promuovono, sui modelli di accettazione o di rifiuto nei loro confronti e sulle motivazioni e sull’immaginario che stanno alla base di questi opposti atteggiamenti….. Poiché il valore d’uso dei concetti dipende dal contesto storico-politico del loro impiego, del concetto di cultura vanno certamente mantenuti i suoi significati di base, cioè quelli che fanno capo all’idea di modelli di comportamento e di ragionamento strutturati e appresi. Questa idea va declinata però attraverso descrizioni di come questi modelli siano costruiti, selezionati, utilizzati per produrre progetti che si confrontano tanto con la dimensione della vita locale quanto con le forze della globalizzazione (tecnologie, media, modelli di consumo, rappresentazioni del mondo); e su come queste forze vengano utilizzate, manipolate e reinterpretate localmente in funzione delle esperienze, delle aspettative, degli interessi, dell’immaginario e dei progetti egemonici o di resistenza degli interessati. Concludo queste mie riflessioni con una domanda retorica. Perché gli antropologi (ma non solo loro) dovrebbero affidare la propria comprensione del mondo a una parola che l’uso extra-antropologico ha trasformato in un idolo del foro e in un feticcio?