Unità 2 - Simone per la scuola

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Unità 2
Le relazioni fra Individuo e Società
Contenuti
•1
•2
La socializzazione e l’insi- La socializzazione e
dia delle creature altre: il l’insidia delle creature
lupo mannaro
altre: il vampiro
•3
•4
Il ruolo di aggregazione La zampogna tra mito e
della musica popolare
folklore
•5
La tammorra e i canti
d’amore e morte
Sembrerà strana la compresenza − all’interno di questo modulo − di due argomenti molto differenti tra loro: la paura per la creatura altra (come il lupo mannaro e il
vampiro) e il ruolo socializzante della musica popolare. In realtà, se ben analizziamo questi due oggetti della ricerca antropologica, ci rendiamo conto del fatto che
entrambi riguardano la coesione sociale. Ponendosi ora come opposti fra loro (il
«mostro», infatti, costituisce l’insidia più sconvolgente dell’ordine sociale, mentre
la musica è un’attività artistica che tende ad affratellare), ora come strani compagni
di strada (si ricordi che la musica popolare della tammorra serve ad esorcizzare la
paura del mostruoso e che l’inventore della zampogna sembra sia stato il dio Pan,
segnato dai tratti della bruttezza caprina, anticipatore di quello che sarà il cristiano
Lucifero).
❱❱ 1.La socializzazione e l’insidia delle creature altre: il lupo mannaro
La coesione interna a una società è un elemento indispensabile per la sua sopravvivenza e per il rafforzamento dei valori teorici e delle pratiche quotidiane in cui
si esplica la sua vita. Naturalmente tale coesione sociale è spesso solo un obiettivo
che resta all’orizzonte. Negli ultimi secoli essa è stata minata alla base dalle guerre, dai conflitti economico-sociali, dalla precarietà esistenziale e dalla disgregazione dell’Io.
Le società arcaiche, pur conoscendo tutti questi fattori di rischio, sono riuscite a
fronteggiarli, puntando su costanti azioni di socializzazione (garantita, da una parte,
da un saldo e comune orizzonte mitico, dall’altra da una vasta serie di prassi rituali
ben codificate). Per loro il Negativo, che irrompeva nella storia, era incarnato da
«creature» altre, che fuoriuscivano dai canoni tradizionali. Nei loro confronti essi
nutrivano paura e angoscia, ma contro di loro avevano elaborato una «cultura» atta a
prevenire o attenuare la loro ostilità, risiedente già nel fatto che tali «creature» erano
considerati dei «mostri». Noi qui ci occupiamo dei due esseri mostruosi per eccellenza: il lupo mannaro e il vampiro.
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MODULO 1
Geografia della ricerca antropologica
❱ 1/1 Storia e miti del lupo mannaro
«Era una piovosa notte d’inverno e la luna
piena si affacciava tra i nuvoloni mossi dal
vento. Ero quasi arrivato a casa, allorquando
all’altezza della stalla sentii i cavalli nitrire
nervosamente. Guardai l’orologio: mancavano due minuti a mezzanotte. All’improvviso un rumore di passi attirò la mia attenzione. Mi voltai e vidi un lupo mannaro, che
ululava e agitava le braccia. Mi rifugiai su
una scala, perché mi avevano detto che questi esseri non possono salire più di tre gradini. Quando poi feci il segno della croce,
egli si rotolò per terra nelle pozzanghere e
Jack Nicholson interpreta il lupo mannaro nel film Wolf. La belva è fuori
dopo scappò. Questo finché il lupo non ardi Mike Nichols del 1994
rivò ad un crocevia; solo allora il male gli
passò».
Quella che avete letto non è la descrizione di una scena di Wolf, il film avente come
protagonista un Jack Nicholson, che con enorme successo ha fatto leva sulla psicosi
ancestrale del lupo mannaro o licantropo, ma è una delle tante testimonianze raccolte da un informatore popolare: essa documenta come il mito del licantropo, ripescato
dalla cinematografia, non sia affatto sopito nella mentalità collettiva.
Vale dunque la pena di riflettere sugli aspetti di questa credenza, per comprendere la
quale è necessario scavare nella natura misteriosa del lupo. Il lupo: la bestia per eccellenza, che ci accompagna e ci tormenta fin dall’infanzia. Sin da quando ascoltiamo
per la prima volta la terribile favola di Cappuccetto o studiamo sui banchi delle elementari l’incredibile leggenda di Romolo e Remo. Il lupo, spesso identificato con il
Male o con il Maligno, resta uno degli arcani più inquietanti dell’immaginario collettivo.
❱ 1/2 Simboli e misteri del lupo
Il lupo, come del resto tutti gli animali misteriosi, ha, nel suo significato simbolico,
un aspetto duplice: terribile e sotterraneo da un lato, benefico e apportatore di vita
dall’altro. Cominciamo dal primo aspetto.
Il lupo è innanzitutto un animale psicopompo, cioè accompagnatore delle anime
nell’Aldilà. Ciò è attestato sia da un canto funebre rumeno, secondo cui un lupo
conduce il morto «per la via piana verso il Paradiso», sia da un mito dei Pellerossa
Algonchini, che lo presenta come il fratello di Menebuch, il quale domina sul regno
dei Trapassati. Di pelle di lupo era vestito Ade, il dio greco degli Inferi; e orecchie di
lupo aveva il dio etrusco della Morte. In tutta la tradizione nordica il lupo è temuto
come divoratore di astri, in quanto la sua gola profonda inghiottisce l’astro luminoso
per eccellenza, cioè il Sole. Da questa credenza deriva l’espressione proverbiale
«tempo dei lupi» per indicare la notte e l’inverno.
Dall’altra parte, però, ad attestare la sua sconvolgente positività, si accampa proprio
il suo carattere luminoso (suggerito dal fatto che esso è capace di vedere nel buio) e
celeste («Lupo celeste» viene chiamata la Stella Sirio). Il Lupo, che rappresenta il
Cielo, è il compagno della Cerva bianca, che rappresenta la Terra: da queste sacre
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Unità 2
Le relazioni fra Individuo e Società
nozze nascono, secondo i Mongoli, gli eroi, come il potente Gengis Khan. Proprio da
questi miti scaturiscono sia la credenza nel potere fecondatore del lupo, che le donne
dell’Anatolia invocano per vincere la sterilità, sia quella nella sua dirompente forza
che lo fa assurgere a prototipo dell’indomabile ribelle.
❱ 1/3 I caratteri del lupo mannaro
Proprio la duplicità del simbolismo spiega come i tre elementi della licantropia, evidenti nella testimonianza iniziale (cioè la trasformazione di un uomo in lupo, il vagabondaggio notturno e il ruolo salvifico della croce), segnino un percorso che lascia
intravedere un’interpretazione del Mistero. Dal primo elemento, quello della trasmutazione ferina, deriva etimologicamente l’espressione lupo mannaro o vermenaro (da
lupus hominarius), una cui variante è ’o lupenare. In tutte le lingue europee è presente un termine che indica l’uomo-lupo: in inglese e in tedesco werwolf, in francese
loup-garou, in svedese varulven, in russo volklulaku.
Il secondo elemento, il vagabondaggio notturno, ci introduce in un’ottica psicoanalitica; il fatto stesso che esso si verifica solo di notte ci riconduce alla sfera dell’incubo. Tipico infatti è il sogno del «viaggio», che può simboleggiare un desiderio rimosso, tra cui quello di ribellione e di indipendenza rispetto al padre. Secondo le testimonianze popolari, è lupo mannaro colui che nasce nella notte di Natale: si tratterebbe di una violazione della Norma, in quanto questo giorno è riservato alla nascita di
Cristo, rispetto a cui si stabilisce una peccaminosa indipendenza.
La terza e ultima fase è quella della «reintegrazione nella Norma», che è realizzata
dalla Croce di Cristo, nei cui confronti il licantropo sa di aver peccato di hybris o
tracotanza. Per questo sia il lupo mannaro sia le sue potenziali vittime ricorrono alla
Croce per «proteggersi» dalla «malattia» della licantropia.
❱ 1/4 La magia, il lupo e il licantropo nella letteratura antica
Il lupo mannaro ha un’insospettata tradizione letteraria. Sin dall’antichità, sia poeti
attenti alle corde del Misterioso, sia «scienziati», che tentavano di fornire delle risposte attendibili, si sono interrogati sull’arcana figura del licantropo.
Iniziamo da un brano di Virgilio (1), considerato nel Medioevo il Mago per eccellenza. «Meri in persona mi diede queste erbe e questi veleni: spesso lo vidi grazie ad essi
trasformarsi in lupo e nascondersi nelle selve, spesso lo vidi evocare le anime dai
profondissimi sepolcri e trasportare le messi da un campo all’altro.» (Bucoliche, VIII,
95-99). Questi versi, oltre che fornire una spiegazione della trasformazione in lupo
mediante potenti erbe, chiariscono anche quali siano le due azioni dei lupi mannari.
Una, correlata evidentemente alla realtà ctonia ed occulta, consiste nell’evocazione
delle anime dei defunti: in tal caso lo stesso lupo mannaro è una variante dello stregone. La seconda azione rimanda a un pratica rituale tipica del «mondo magico»
mediterraneo: il gioco della falce, un combattimento fra un uomo mascherato da
(1) Virgilio… Mago: Nella tarda antichità una interpretazione cristologica e profetica della quarta egloga delle Bucoliche aveva
connotato la figura di Virgilio di valenze esoteriche e magiche. Nel Medioevo Virgilio diventa oggetto di una rinnovata e crescente attenzione da parte degli intellettuali ecclesiastici: Bernardo di Chartres commenta i primi sei libri dell’Eneide, interpretandoli allegoricamente come quello biblico della Genesi. Il poeta latino diventa così la guida ideale per intraprendere la via
della conoscenza e della sapienza, tant’è vero che Dante sceglierà il grande poeta mantovano come «duca» nel suo viaggio.
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MODULO 1
Geografia della ricerca antropologica
La licantropia, secondo
la tradizione popolare,
si manifesta nelle notti
di luna piena
animale e dei mietitori, fra cui primeggiavano coloro che erano assistiti da poteri magici, rappresentati
dalla falce. Attrezzo simbolicamente
relazionato, per le sue due estremità
appuntite, alla Luna, che domina sovrana nella licantropia.
Il carattere occulto emerge anche da
un passo del Satyricon (cap. 62) di
Petronio (2), che definisce forte come
il diavolo («tamquam Orcus») il militare, che si trasforma in lupo mannaro, il quale, tra l’altro, viene chiamato con un termine singolare: versipellis, perché si pensava che i peli gli
crescessero all’incontrario dentro la
pelle. Ma i particolari misteriosi non
finiscono qui nel racconto petroniano, il quale infatti sottolinea che la metamorfosi
in lupo si verifica, quando il licantropo si avvicina a delle «stele» funerarie.
E passiamo alla Naturalis Historia (VIII, 34) di Plinio il Vecchio (3), che, rispetto a
Virgilio, rigetta il mito del lupo mannaro, eppure si rivela un informatore prezioso
per la dovizia dei particolari forniti sugli effetti «formidabili» del lupo (come ad
esempio, la capacità che ha di togliere la voce all’uomo, da esso guardato per primo)
e sul carattere magico della coda di quest’animale, che conterrebbe un talismano
amoroso. Evidente è l’allusione erotico-sessuale della coda, in cui si concentra la
virilità intesa anche come forza.
Concluderemo questa breve carrellata sulle fonti letterarie del lupo mannaro e sul simbolismo del lupo con le tesi esposte da Artemidoro nel Libro dei sogni. Interessante è lo
strano nesso lupo/fiumi/anni: egli scrive che gli anni venivano chiamati lucabanti, cioè
«che camminano come lupi», «a causa di una caratteristica di questi animali, poiché
attraversano i fiumi uno dopo l’altro, come le stagioni completano l’anno susseguendosi l’una all’altra» (II, 12). Il lupo, dunque, nell’immaginario onirico e collettivo, indica
qualcosa che passa e che muta, che va da un luogo ad un altro, che cambia dunque anche
status e caratteristica, che si impone con la forza del titano e dell’anticonformista.
❱❱ 2. La socializzazione e l’insidia delle creature altre: il vampiro
❱ 2/1 La metamorfosi del Mostro
Da tempo i mostri abitano in noi. Scacciati dagli estremi confini della Terra, hanno
eletto come loro dimora i segreti labirinti dell’animo dell’uomo. Il mostro di cui si
(2) Il Satyricon di Petronio, opera che ci è giunta mutile nella parte iniziale e molto lacunosa, è una satira della corruzione e del
cattivo gusto della società romana del tempo di Nerone.
(3) Plinio il Vecchio: Gaio Plinio Secondo (23/24-79 d.C.), detto Plinio il Vecchio, per distinguerlo dal nipote Gaio Plinio Cecilio, fu tra i maggiori eruditi dell’età imperiale. Nato a Como, ma educato a Roma, si dedicò a studi retorici e grammaticali.
Durante l’impero dei Flavi ricoprì importanti funzioni pubbliche e divenne consigliere di Vespasiano e poi di Tito. Preposto alla
flotta di capo Miseno, trovò la morte alla fine di agosto nel 79 nella famosa eruzione del Vesuvio: la sua tragica fine ci è narrata con ricchezza di particolari in una lettera (VI, 20) di Plinio il Giovane.
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Le relazioni fra Individuo e Società
parlerà, il vampiro, si impone per la sua raccapricciante animalità fisica; e invece
anch’esso si nutre dei frutti dell’inconscio collettivo e familiare. Certo, è difficile o
scomodo per l’individuo spalancare le porte dell’edificio della propria coscienza, non
solo nei piani superiori, depurati dalla aerea luce del Sole, ma soprattutto in quelli
inferiori, maleodoranti di muffa e intricati dalle ragnatele del Tempo. Eppure è qui
che bivaccano i Mostri ed è qui dobbiamo stanarli con i loro nomi antichi, come
antica è la Paura, madre nolente di tante nostre azioni.
❱ 2/2 Definizione e nomi del vampiro
Philip Burne-Jones Il
vampiro, 1897.
Nell’opera del pittore
inglese il vampiro è
una figura femminile
che sovrasta un uomo
in stato di incoscienza
Cominciamo a fare un po’ di luce, entrando nel cono d’ombra del Vampiro, di cui
proponiamo una definizione classica. Secondo G. C. Horst, «il vampiro è un defunto
che continua a vivere nella tomba, da dove esce di notte per succhiare il sangue di un
essere vivente; in tal modo si nutre evitando la decomposizione».
Misteriosa è l’etimologia della parola vampiro, usata generalmente in tutta l’Europa
verso la fine del XVIII secolo. Alcuni studiosi, come il filologo sloveno F. Miklošić,
ritengono che sia un termine slavo, ricollegabile al vocabolo turco uber, che significa
«essere diabolico»: evidenti sono le mutazioni fonetiche da «u» a «v» e delle labiali
da «b» a «p». Altre varianti slave sono infatti: per la Bulgaria e per la Serbia, vapir;
per la Polonia, upier; upiry o vopyr per la Russia. Secondo altri, deriva dal verbo lituano wempti, che significa «bere». Non va sottovalutata l’ipotesi di un collegamento etimologico con i verbi greci anapèiro («impalare») e empyrèuo («bruciare») e con
i termini latini imperium («comando») e impurus («impuro»).
Questo riferimento etimologico-geografico ci consente di ricordare che fu la
Chiesa greco-ortodossa (in opposizione
al dogma della Chiesa cattolica romana
sulla non decomposizione dei corpi dei
Santi) a sostenere che, al contrario, a
non decomporsi sono i cadaveri degli
eretici e degli scomunicati. Come la
Chiesa cattolica romana insegnava che
gli eretici possono trasformarsi in lupi
mannari, così la Chiesa greco-ortodossa insegnava che gli eretici dopo morti
diventano vampiri. Ancora oggi, peraltro, in Grecia molte delle imprecazioni
o maledizioni richiamano questa credenza: «Possa la terra non accoglierlo»;
«Possa la terra non digerirti»; «Che tu
possa rimanere incorrotto». Il gesuita
Padre François Richard attribuì nel 1657
la credenza nei vampiri al fatto che «i
preti e i vescovi greci, nel lanciare il
bando di scomunica contro una persona,
aggiungono l’anatema che dopo la
morte il corpo di questa persona dovrà rimanere incorruttibile».
Il vampiro è conosciuto storicamente sotto molti altri nomi (più di 50), anche al di
fuori dell’area turca e slava, ad esempio: vrukolakes, brykolakas, barbalakos, bordo5
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akas, bourdoulakos in greco moderno, baital in sanscrito e blutsaunger in tedesco.
Moltissimi sono i suoi nomi anche in Romania. Ricordiamo solo il vîrcolac, che le
tradizioni popolari ritengono sia un bambino non battezzato dai genitori: egli appare
con la luna piena e della luna può causare l’eclisse parziale o totale. Da non trascurare la iele, una donna-vampiro, che ha il potere di paralizzare le sue vittime o di
farle impazzire.
Un ultimo nome significativo è quello di un vampiro greco chiamato burculacas, di
cui le fonti dicono: «Lo chiamavano così − sostiene Leone Allacci (4) nel suo saggio
del 1642 Su alcuni opnioni dei Greci − a causa della sua disgustosa sporcizia; boùrka, infatti significa luogo puzzolento, non fango comune, ma un letame fetido, melmoso, impregnato di liquame, da cui esala un fetore molto malsano; làkkos è una
fogna o cloaca dove si raccolgono le materie che rendono fetida l’atmosfera».
Altrettanto ripugnante è l’accostamento del Vampiro al pipistrello. I motivi potrebbero essere questi. «Il pipistrello − scrivono R. Florescu e R. T. Mc Nally − è l’unico
mammifero in grado di volare e di sfidare le leggi di gravità, vecchio sogno dell’uomo, che, per volare, ha dovuto fabbricarsi delle ali artificiali e poi delle macchine
volanti. Il pipistrello, inoltre, è un essere che assomiglia per molti aspetti all’uomo e
questo spiega quel misto di attrazione e repulsione che molti provano verso questo
animale. Non si tratta di un topo volante, come si pensa comunemente, ma di una
particolare specie di mammifero che scientificamente si chiama chirottero. Le cosiddette ‘ali’ del pipistrello sono in effetti membrane che tengono unite fra di loro le ossa
delle ‘mani’ lunghissime e come l’uomo il pipistrello ha il capo eretto».
❱ 2/3 Il vampiro nel mondo greco-romano
Uno dei primi riferimenti nella letteratura greca al ruolo del sangue come necessario ai morti per comunicare con i vivi ricorre nell’Odissea, nel passo in cui Ulisse,
collocato in una condizione liminare fra l’Ade e il mondo dei vivi, per dare energia
alle ombre e, in particolare, all’indovino Tiresia affinché possa profetizzare, «ordina ai compagni di scuoiare e bruciare le bestie che giacevano uccise dal bronzo
spietato». Solo a questo punto, l’anima dell’indovino tebano si rivolge a Ulisse
esclamando: «Allontana la tua acuminata spada, affinché io possa bere di questo
sangue e ti dica parole veraci».
Vere e proprie antenate dei vampiri sono, nella mitologia greca, le Èmpuse e le Lamie.
Del primo tipo parla intorno al 220 d. C. Filostrato, sofista di Lemno, nella sua biografia sul pitagorico Apollonio di Tiana (I sec. d. C.), testimone di un caso di vampirismo. Egli cita uno spettro femminile, chiamata appunto Èmpusa, che, ingannando
un giovane di cui finse di essere innamorato, era uno di quegli «esseri», che con i
«piaceri del sesso» «allettano coloro che vogliono divorare»: «è loro abitudine cibarsi di corpi e giovani, perché il loro sangue è più puro».
Anche le Lamie (dal greco laimòs = «gola» o lamyròs «ingordo»), sotto forma di
orribili donne perseguitano, nelle loro notti insonni, i bei giovani e i bambini di cui
bevono il sangue e mangiano la carne. Lamia (come narrano Diodoro Siculo e Plutarco) era stata una volta amante di Zeus, ma la gelosa Giunone la fece impazzire, per
cui Lamia uccise i propri figli, divenendo un essere mostruoso, che vagava alla ricer-
(4) Leone Allacci: teologo di lingua greca e di espressione latina, nato a Chio nel 1586 e morto a Roma nel 1669. Studioso di
medicina, fu tra i primi a occuparsi dell’esistenza dei vampiri nel De Graecorum hodie quirundam opinationibus.
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ca di bambini che essa rapiva alle madri. Per
una strana contaminazione delle tradizioni,
attestata da Robert Graves, varie fonti narrano di un’unione fra Lamia ed Èmpusa per
gli scopi omicidi di cui abbiamo detto.
Di Lamia abbiamo traccia anche nella letteratura latina. Ne parla nella sua Ars poetica
Orazio, che accenna alla credenza, secondo
cui era possibile estrarre dal corpo della
Lamia, se veniva catturata, i corpi dei bambini ancora vivi che erano stati da lei inghiottiti. Anche Apuleio nelle Metamorfosi narra
una storia similare a proposito di un tale, di
nome Socrate, ferito di notte da una donna,
che gli conficca una spada nella gola e poi,
infilata la mano nel foro, gli strappa il cuore.
Una lamia, mitologico demone che acquistava sembianze umane per seMa la cultura latina conosce anche altri perdurre gli uomini e succhiarne il sangue
sonaggi vampireschi: i lemures e le larvae. I
primi erano degli spettri che distruggevano
la salute degli abitanti delle case; le seconde avevano un corpo aereo formato dal vapore del sangue. Singolare è l’etimologia di lemures, variante di Remures, termine che
a sua volta è collegabile all’uccisione di Remo da parte del fratello Romolo: il fantasma
del gemello ucciso tormentò, secondo la leggenda, Faustolo e Acca Laurenzia, finché
non fu placato con sacrifici.
❱ 2/4 Il personaggio storico di Dracula
Il principe Vlad III di Valacchia, detto Dracul (cioè «Drago»: dall’appellativo aggiunto al proprio casato dal padre Vlad II, appartenente all’Ordine del Dragone), nacque
nel 1431 nel borgo di Sighisoara, a 300 km da Bucarest. Posto nel 1448 a soli diciassette anni, sul trono di Valacchia, dai Turchi come loro vassallo, Vlad III, dopo pochi
mesi di regno, dovette fuggire per una congiura di palazzo. Rifugiatosi in Ungheria,
preparò la riscossa, che avvenne nel 1456: con un’esigua banda di fedelissimi, irruppe
nel territorio turco, distruggendo i
villaggi e sterminando gli abitanti.
E nella primavera dello stesso anno
fece «impalare» (cioè trapassare con
pali aguzzi) «nel suo palazzo di Tirgoviste 500 proprietari terrieri o boiari − compresi mogli e servi − solo
per stabilire le regole della perfetta
fedeltà che i cortigiani dovevano al
loro sovrano. Altre cifre notevoli: una
notte di San Bartolomeo del 1460
ventimila persone massacrate nella
città di Amlas; l’anno seguente, per
sua stessa autografa ammissione:
«Abbiamo ucciso 23.884 turchi e
bulgari, senza contare coloro che sono
Il castello di Bran in Transilvania, residenza, secondo la leggenda, del vampiro Dracula
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MODULO 1
Geografia della ricerca antropologica
stati bruciati vivi nelle case che abbiamo incendiato e quelli a cui i nostri soldati
hanno tagliato la testa» (Piero Soria).
Queste azioni meritarono a Vlad III anche l’appellativo di Tepes, che significa «Impalatore»; ma la lotta contro gli invasori turchi contribuì a farlo considerare un eroe
e un salvatore della patria.
Il Sultano Maometto II cercò di fermare Vlap Dracul Tepes, sferrando un formidabile attacco contro la Valacchia con un esercito composto di duecentomila uomini. Ma, quando il sovrano giunse nel regno di Vlad e vide nella capitale Tirgoviste l’impressionante spettacolo di ottomila prigionieri turchi «impalati», ne
provò talmente orrore che diede l’ordine della ritirata. Nel 1462, dopo un altro
attacco dei Turchi, Dracul si rifugiò prima in un castello tra i monti della Transilvania, poi in Ungheria. Nel 1476, a soli quarantacinque anni, Vlad III Dracul Tepes
morì in battaglia, forse ucciso da un sicario. La sua testa fu portata al cospetto del
Sultano e il suo corpo fu bruciato.
❱ 2/5 Casi storici di vampirismo
Una delle prime storie di vampirismo dell’età medievale riguarda un calzolaio della
Slesia, suicidatosi il 20 settembre 1591. Scoperta, solo dopo alcune settimane, la vera
causa della morte dell’uomo, celata dalla famiglia per pudore, le autorità decisero di
riesumare la salma. Da allora terrificanti apparizioni e raggelanti omicidi ebbero come
protagonista il fantasma del calzolaio. Il 18 aprile 1592 il corpo del suicida, dissepolto, fu ritrovato incorrotto e recante un segno magico: un’escrescenza a forma di rosa
sull’alluce destro.
I primi casi di vampirismo nella storia moderna si verificarono in Slesia nel 1591, in
Boemia nel 1618 e in Polonia nel 1624. L’epidemia di Vampirismo riguardante persone non battezzate o scomunicate e morte in maniera misteriosa, che infastidivano
o perseguitavano i vivi, raggiunse il culmine nella seconda metà del Seicento nelle
nazioni dell’area balcanica (Grecia, Bulgaria, Romania e Serbia). Numerose dicerie
sui vampiri riguardarono anche la Grecia. L’isola di Santorini, in particolare, rimase
famosa per la presenza di vampiri.
Singolare è il caso di un vampiro istriano, di nome Giure Grando: ne parla un documento tedesco redatto da Johann Weichard Valvasor e pubblicato nel 1689. Nel 1672,
sedici anni dopo la sua morte, egli diventa un revenant, cioè un «ritornante», un
«morto che ritorna sulla Terra»: appare, infatti, al parroco che l’aveva sepolto, alla
moglie vedova e ad alcuni conoscenti. Molte di queste persone, dopo le apparizioni
del vampiro, morirono misteriosamente. Allora si decise di ispezionare la sua tomba:
il cadavere li accolse ridendo. Un certo Stipan Milasich riuscì, dopo tanti tentativi
andati a vuoto, a decapitarlo. A quel punto, il cadavere emise un grido e la tomba fu
inondata di sangue. Da allora nessuno più ricevette le tremende «visite» di Giure
Grande.
Nel 1720 l’epidemia vampirica si allargò in Serbia, in Transilvania, e soprattutto in
Ungheria (1726 e 1832). Il più famoso caso del XVIII secolo riguardò un contadino
ungherese, di nome Peter Poglojowitz. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1725, egli fu
dissotterrato e si trovò che dalla sua bocca usciva del sangue fresco e che il suo corpo era ancora intatto; perciò i contadini ne bruciarono il cadavere. Trent’anni dopo
l’Imperatrice Maria Teresa cercò di frenare questo diluvio di notizie, inviando nel
1755 medici esperti nel villaggio di Hemersdorf perché esaminassero il corpo di
Rosina Polakin, morta con il sospetto di essere una vampira.
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E dai casi di vampirismo non furono immuni nemmeno gli Stati Uniti. Nel 1874 a
Rhode Island, negli Stati Uniti, un uomo esumò il cadavere della figlia e ne bruciò il
cuore, convinto che la morta potesse attentare alla vita degli altri membri della famiglia: quasi nello stesso periodo, a Chicago il corpo di una donna morta di consunzione fu dissepolto e i suoi polmoni bruciati, per la stessa ragione.
per approfondire
❱
Amore e Morte nel vampirismo: la sessualità dei non-morti
Alla base del vampirismo agisce una serie di pulsioni inconsce: innanzitutto quella riguardante Eros e Thanatos, ossia Amore e Morte. Esiste − scrive Ernest Jones (5) in Psicoanalisi dell’incubo −una «perversione
ancora più forte dell’istinto d’amore, che è il desiderio di morire insieme alla persona amata. In alcuni […]
quest’ardente desiderio diventa una vera passione e tutto l’amore si concentra in questa idea […]. Un morto che ama amerà per sempre e non si dimenticherà mai di dare e ricevere carezze».
È contemplata una vera e propria insaziabilità dei morti, che è stata lucidamente descritta da Heinrich Heine nella sua dedica al dottor Faust. Così parla Helena ritornando dalla tomba:
Tu mi hai chiamato dalla tomba,
Con il tuo volere stregato,
Mi fai sentir viva, provare appassionato amore,
Io bevo la tua essenza, bevo l’anima tua,
Il morto, lo sai, mai può saziarsi.
Questo sconcertante tema è largamente presente nella moderna letteratura; esempi emblematici ne sono
la Marquise von O di Henrich von Kleist; Justine del Marchese de Sade e Le Vampire di Charles Baudelaire.
Ma è sorprendente che esso abbia ampia cittadinanza anche nelle fonti storiche più antiche. M. D. Conway
pubblicò nel 1789 una notizia sensazionale: che Carlo Magno dormì per lungo tempo con il cadavere della
moglie.
«L’idea ancestrale − scrivono due studiosi come G. Pilo e S. Fusco − che post mortem sia possibile in determinati casi la prosecuzione di talune attività precipue dell’esistenza in vita, è all’origine della leggenda del
Vampiro. Due sono le attività tipiche dei vivi che, in diversa ma consimile forma, si pensava potessero essere trasferite anche nel mondo dei trapassati: il sesso e l’alimentazione. L’attività sessuale dei defunti, in
particolare, era considerata piuttosto intensa; e, ad evitare che il morto la soddisfacesse al di fuori del sepolcro, lo si forniva di una compagna simbolica o, in taluni casi, reale. […] I vedovi maschi della Nuova
Guinea erano usi tener sempre presso di sé un’accetta da guerra da cui difendersi dalla moglie morta. […]
Meglio dotati di spirito pratico, i Romani antichi avevano, dal canto loro, raggiunto un modus vivendi con i
familiari trapassati, cui accordavano un breve periodo di tempo (da uno a tre giorni) in cui era loro permesso di circolare liberamente tra i vivi. In quei giorni i membri della famiglia si astenevano da qualsiasi occupazione pubblica e non trattavano alcun affare, evitando anche di uscire di casa; allo spirare del periodo
concesso, il pater familias gettava alle proprie spalle una manciata di fave nere come tributo agli insoliti
ospiti casalinghi, nonché segnale perché ritornassero alle proprie sedi».
La trascrizione letteraria più nota di questa condizione è quella della Fidanzata di Corinto (1797), scritta da
Johann Wolgang Goethe cento anni prima del Dracula di Brahm Stocker e tradotta da Benedetto Croce. La
protagonista è la fanciulla Filinnio, alla quale la madre aveva vietato, in vita, di unirsi carnalmente al fidanzato. Da costui, perciò, ella torna, da morta, a richiedere quel rapporto a lei negato: Dalla tomba mi levo a
ricercare/ il bene, che mi manca, dell’amore;/ il mio sposo perduto ad abbracciare,/ ed a suggere il sangue del
suo cuore.
(5) Ernest Jones (1908-1939): psicanalista britannico, fu biografo di Freud: Vita e opere di Sigmund Freud.
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MODULO 1
Geografia della ricerca antropologica
Insaziabile, dunque, di carne e di sangue è il Vampiro. Ne è testimonianza la raccapricciante «deposizione»
di Antoine Lèger, ghigliottinato nel 1824 in seguito a sentenza del Tribunale di Versailles, perché accusato
di essere un vampiro e un assassino:
«Il giudice: Ma lei che cosa voleva fare di quella bambina?
Léger: Vostro Onore, mangiarla.
Il giudice: E perché ha bevuto il suo sangue?
Lèger: Vostro Onore, ebbi sete».
❱ 2/6 Vampiri e delitti familiari
Un elemento sconcertante nella storia del vampirismo è il fatto che il non-morto
visiti i suoi parenti più stretti, creando proprio ad essi fastidi e angosce nonché
facendoli oggetto di aggressioni spesso mortali. L’antenato del Vampiro che colpisce i propri parenti è, nel mito greco, Lamia, di cui abbiamo già parlato. Altri racconti similari riguardano l’area balcanica. In Romania, ad esempio, le tradizioni
popolari parlano dei moroi, che, appartenenti alla specie dei non-morti, si identificano spesso con lo spirito di un bambino non battezzato, che perseguita e tortura
la propria madre.
testimonianze
I non-morti
Il canonico agostiniano William di Newburgh, nella sua Historia rerum anglicarum,
narrò la vicenda di un uomo che il giorno dopo la sua sepoltura, avvenuta la
vigilia dell’Ascensione del 1196, apparve alla moglie. Quest’ultima, la terza
notte, chiese la compagnia di altre persone, che allontanarono il morto con
delle grida. Il defunto, allora, cominciò ad infastidire i suoi fratelli e a vagabondare per il paese: fu, per questo considerato, un non-morto. Avvertito di ciò, il
vescovo, pensando che l’uomo fosse spirato in peccato mortale, consigliò di
riesumare il cadavere e di porgli sul petto una carta di assoluzione, firmata
dallo stesso vescovo. L’espediente funzionò: non si verificarono, infatti, ulteriori apparizioni.
Celebre è, poi, il caso di qualche secolo dopo, riferito dal conte di Cadreras nel
1720, che peraltro indusse l’Imperatore Carlo IV a istituire una Commissione
d’inchiesta. L’episodio è davvero agghiacciante: un uomo ritornò dalla tomba
dopo sedici anni e uccise i suoi due figli succhiando loro il sangue.
Negli stessi anni tale tesi, cioè del «vampiro come incubo familiare» è ripresa e teorizzata da un sacerdote: il frate domenicano Agostino Calmet, che scrisse nel 1751 il
suo Trattato delle apparizioni degli spiriti e sui vampiri e sui ritornanti di Ungheria
e di Moldavia: «Anche in Lapponia − egli sostiene − si trovano de’ vestigi di questi
Redivivi, e dicesi, che si vedono in que’ paesi Spettri in quantità, che compariscono
tra la gente, parlano, mangiano cogli altri, senza potersene liberare: e siccome que’
popoli credono, che questi siano i Mani de’ loro parenti, non hanno per garantirsi
dalle lor vessazioni mezzo più efficace, quanto sotterrare i cadaveri de’ suoi parenti
defunti sotto il focolare, forse perché si consumin più presto. Generalmente credono
che i Mani o le Anime uscite dal corpo sieno d’ordinario malfacenti fino che rientrino in altri corpi».
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Le relazioni fra Individuo e Società
Tra l’altro, va detto che Calmet non credeva all’esistenza dei
vampiri, perché riteneva che fossero persone ancora vive, seppellite prematuramente o per errori di valutazione medica circa
lo stato di morte apparente o perché durante le epidemie venivano seppellite indiscriminatamente gli affetti da pestilenze,
senza controllare il loro stato di morte. Questo naturalmente
provocava forti sensi di colpa in coloro che si rendevano conto
di essere responsabili di un seppellimento prematuro.
L’interpretazione di questo fenomeno è lucidamente presentato
da Ernest Jones: «Il meccanismo è simile a quello dei terrori
infantili; ad esempio, la paura della rappresaglia perché si è
commessa una cattiva azione e si sono avuti cattivi pensieri.
Una persona che ha un odio rimosso − non un odio comune,
cosciente − è incline ad avere brutti sogni, o magari ha paura
dei fantasmi, il che indica che in realtà ha paura di essere giustamente punito da colui al quale ha augurato sventura. Questi
cattivi pensieri hanno una parte importante nell’Inconscio e in
definitiva nascono dagli ostili desideri di morte nutriti dal bambino contro il genitore nemico o un altro rivale».
E l’illustre psicoanalista aggiunge: «Spesso il vampiro si
presenta trasformato in animale, soprattutto in farfalla e serpente, che sono due delle più comuni personificazioni del
padre».
Testimonianze
Il Vampiro nella letteratura tra Settecento e Ottocento
Testimonianze del fenomeno del Vampirismo si trovano anche nella letteratura
dei vari Paesi.
Il Vampiro, infatti, è stato il protagonista di opere letterarie di grandi scrittori. Qui
presentiamo solo i titoli più significativi:
• La nuova Giustina (1797) di Marchese de Sade: è narrata la storia di alcuni libertini che bevono il sangue altrui per entrare in una condizione animale, priva
di una legge morale.
• Ghristabel (1797-1800) di Samuel Taylor Coleridge: viene inaugurato il filone
dell’amore saffico (in questo caso di Geraldine) accanto al tema vampiresco.
• Giaurro (1813) di Lord Byron: il protagonista è un vampiro che succhia il sangue
dei suoi più stretti parenti.
• Il Vampiro (1816) di John William Polidori: l’autore, medico di Byron, inventa il
personaggio di Lord Ruthven, un nobile vampiro dallo sguardo affascinante e
assassino, che non riesce a placare la sua sete di sangue. La sua vittima è la
giovane e sensuale Lanthe.
• Vampirismo (1821) di E.A.T. Hoffmann: l’opera esplora per la prima volta i temi
dell’inconscio e dell’angoscia.
• Il Vij (1835) di Nikolaj Gogol’: il grande scrittore russo riprende una leggenda
vampirica.
• La morte amorosa o Clarimonde (1836) di Theophile Gautier: ispirata a Goethe,
l’opera ha come protagonista una vampira seduttrice e spregiudicata.
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Geografia della ricerca antropologica
• Il vampiro, La metamorfosi del vampiro, La fontana di sangue ne I fiori del male
(1840-1844) di Charles Baudelaire: sonetti dedicati a Gautier.
• Varney il vampiro o La festa del sangue (1845-1847) di Anonimo (forse T.P.
Prest e J.M. Rymer): nell’Italia delle epidemie vampiriche (1730-1735), il vampiro Sir Francis Varney giunge fino a Napoli.
• Carmilla (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu: riprende ed accentua il tema
dell’amore lesbico, già presente in Ghristabel. La giovane Laura ospita nel suo
castello la sua coetanea Carmilla, le cui attenzioni morbose determinano il suo
deperimento fisico.
• L’albergo maledetto (1875) di Louis Noir: è la storia di una lunga fuga, dalla
Francia fino a Napoli, di una nobildonna russa inseguita da un vampiro.
• Per il sangue è la vita (1880) di Francis Marion Crawford: tratta un caso di
vampirismo, ambientato in un piccolo paese della Calabria.
• Dracula (1897) di Bram Stoker: è uno dei grandi capolavori della «letteratura
nera», in cui il protagonista, Dracula, assurge a simbolo del Vampiro.
❱ 2/7 Bram Stoker e il romanzo Dracula
Abraham Stoker, meglio conosciuto con il nome di Bram, nacque a Dublino nel
1847. Bimbo assai gracile, delicato e malaticcio, fino all’età di otto anni non riusciva a reggersi in piedi, premurosamente assistito dalla madre che lo intrattenne con
racconti dell’orrore. Ispirato dal sangue dei sadici delitti di Jack lo squartatore,
dalla tradizione folkorica irlandese e dalla fitta letteratura settecentesca sul Vampiro,
Stoker nel 1897 scrive Dracula, considerato ormai un capolavoro della letteratura
mondiale. Non mancano nell’opera influenze da parte di Oscar Wilde e del suo romanzo Il ritratto di Dorian Gray: Dracula, anch’egli sessualmente anomalo, vuole,
come Dorian, essere una creatura eternamente giovane.
«Tre − scrivono Sebastiano Fusco e Gianni Pilo − furono gli spunti di cui si valse
l’irlandese Bram Stoker per tracciare la figura di Dracula, personaggio che con gli
anni sarebbe divenuto una delle icone più cospicue dell’immaginario orrorifico moderno. Il primo fu la lettura di Carmilla, che gli suggerì il tema vampirico; il secondo
fu la figura dell’attore vittoriano Henry Irving, di cui Stoker era segretario, che gli
servì come modello per il Principe delle tenebre, in vista di una possibile riduzione
scenica della trama che andava progettando. Il terzo fu un sogno, che, a quanto sembra, è all’origine di tutto e che ispirò l’ambigua sottotraccia erotica che costituisce un
elemento fondamentale del romanzo.
Era una notte di marzo del 1890 quando Stoker, svegliatosi da un incubo, tracciò in
fretta queste righe su un foglio di carta: Un giovane esce e vede tre fanciulle.Una di
loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola. Il vecchio Conte interviene.
Con rabbia e furia diaboliche.«Quest’uomo mi appartiene. Io lo voglio». L’esile
traccia così trascritta era quanto restava della visione notturna che aveva fatto svegliare di soprassalto lo scrittore. Il foglietto, ritrovato fra le sue carte, è oggi conservato a Filadelfia nella Rosenbach Library, che in un apposito fondo custodisce tutte
le testimonianze note relative all’autore di Dracula».
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Le relazioni fra Individuo e Società
detto da loro
Il vampiro nella storia dell’arte tra Seicento e Ottocento
«Dal Quattrocento al Settecento figure
vampiresche compaiono in innumerevoli dipinti di genere mistico o allegorico (raffiguranti le danze dei morti).
Hieronymus Bosch (1450-1516) rappresentò «il diavolo creatore del disordine». Egli, che fu il primo a materializzare in immagine il fenomeno onirico, nella sua indagine psicologica
dell’inconscio, espressa in un linguaggio visivo mostruoso, rappresentò il
demoniaco con scopi moralistici, restando ancorato alla tradizione medievale dell’arte didascalica. E sulla scia
Hieronimus Bosch Particolare del Trittico della tentazione di Sant’Antonio
dell’indagine psicologica dell’inconscio
operata da Bosch, la dissociazione tra
l’ego e l’alter ego iniziò prima nella pittura che nella narrativa, più soggetta al controllo politico-religioso
dell’Europa conservatrice.
Ma delle vere e proprie novità nella rappresentazione del Maligno giungono tra la fine del Settecento e gli
inizi dell’Ottocento come dimostra Francisco Goya (1746-1828) in Le conseguenze (della serie dei disegni I
disastri della guerra), opera in cui il pittore raffigurò il male “come un grosso pipistrello vampiro che succhia
il sangue a un uomo addormentato − l’umanità incosciente”» (Carla Corradi Musi).
❱❱ 3. Il ruolo di aggregazione della musica popolare
❱ 3/1 Caratteri generali della musica popolare
La musica popolare, in gran parte anonima, svolge, ancor più della musica colta, un forte
ruolo aggregante. Essa ha origine tra i ceti subalterni, costituiti da artigiani, contadini e
diseredati. Costoro vedono nei testi nei canti e nelle danze popolari, spesso animati da
struggente protesta o profonda malinconia, un veicolo di compensazione rispetto al Negativo che essi si trovano a sperimentare e che, grazie alla musica, fronteggiano insieme.
Tra le varie aree della Penisola si evidenziano alcune caratteristiche peculiari. Ad
esempio, al Nord a livello di melodia, il canto è semplice, mentre a livello di armonia
è polifonico (come si verifica, però, anche in Sardegna); invece al Sud la melodia è
più ricca e articolata, mentre l’armonia si fonda su un ritmo più cadenzato.
Le tipologie dei canti popolari sono varie:
— canti religioso-popolari, dedicati alla Madonna o ai santi durante le feste organizzate in loro onore;
— canti d’amore, che fungono, avvalendosi di una melodia delicata, da lode della
donna amata o le dichiarano una passione non corrisposta;
— canti di lavoro e di protesta, caratterizzati da un ritmo molto accentuato e intonati durante le varie fasi del lavoro nei campi;
— canti politici, aventi come tema le epopee risorgimentale e partigiana (talvolta si
tratta di canzoni, che, come Bella ciao, sono state scritte per altre occasioni e poi
adattate ad un evento politico importante come la Resistenza);
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MODULO 1
Geografia della ricerca antropologica
— canti di emigrazione, che narrano le speranze e le sofferenze di coloro che sono
costretti a lasciare la loro area di origine;
— serenate e stornelli di argomenti vari (dalla passione d’amore all’impegno politico), diffusi soprattutto nelle regioni centrali dell’Italia.
Per quanto riguarda gli strumenti, ne troviamo alcuni in comune con la musica ufficiale (come il violino, più usato nelle aree settentrionali), altri che possono essere
definiti di »confine» fra musica popolare e musica colta (come la fisarmonica, la
zampogna e il mandolino nelle aree meridionali) e altri a cui si ricorre solo nell’esecuzione dei canti folk, come la ciaramella a fiato nel Centro-sud, l’organetto nelle
regioni appenniniche, la tammorra e il putipù (un tamburo a frizione) in Campania,
la chitarra battente in Puglia, lo scacciapensieri in Sicilia e le launeddas in Sardegna.
passato e presente ❱ Danze e canti popolari del Nord: la musica occitana
Quando nel Tredicesimo secolo i linguisti italiani tentarono una prima classificazione delle lingue «romanze», presero come fondamentale riferimento il monosillabo che solitamente indica l’affermazione. Su
questa base Dante individuò tre distinti idiomi: la lingua
d’oc (l’occitano o provenzale), la lingua d’oil (il francese) e la lingua del sì, cioè l’italiano. E per designare
l’insieme dei territori nei quali veniva usata la lingua
d’oc, venne coniato, nel 1290, il termine geograficoculturale di Occitania, la cui radice «oc» deriva dal
latino hoc est.
La storia della lingua occitana è molto antica e, nel
corso dei secoli, si intreccia
con lo sviluppo della poesia
trobadorica nel Sud della
Francia e con vicende storico-religiose di notevole
importanza come la crociata
contro i Catari. Proprio la
persecuzione contro l’eresia
catara nel XIII secolo portò
alla dispersione della comunità di lingua occitana nelle
regioni limitrofe, in Spagna
e nelle vallate del Piemonte
e della Liguria. L’affermarsi
delle lingue ufficiali dei
Paesi ospitanti portò lentamente alla scomparsa
dell’idioma occitano ma non
interruppe altre tradizoni, come quelle della musica e della
danza, eredità della civiltà provenzale.
Le valli occitane piemontesi formano un territorio di circa
4.500 km², con oltre 200.000 residenti nel solo Piemonte,
che si stende sul versante orientale delle Alpi nelle provin14
ce di Torino (Val di Susa, Val Chisone,Val Germanasca,
Pinerolese, Val Pellice, Valle Infernotto) e di Cuneo (Val
Po, Val Varaita, Val Maira, Val Grana, Valle Stura, Val
Gesso, Val Vermenagna, Alte valli del Tanaro,Valle Pesio).
L’occitano parlato nelle vallate piemontesi presenta forti
analogie con gli omonimi dialetti delle Alpi di Provenza,
territorio con cui queste valli hanno mantenuto nei secoli stretti legami.
L’appartenenza all’area linguistica occitana è ancora in
discussione, tuttavia, per le alte valli del Tanaro (valli
Pesio, Ellero e Corsaglia, a sud-est di Cuneo), ma i comuni valligiani hanno in ogni
caso dichiarato l’appartenenza alla minoranza linguistica storica occitana,
accedendo così ai benefici
previsti dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482 «Norme in materia di tutela
delle minoranze linguistiche storiche».
Un elemento importante
che accomuna il territorio
occitano è il ricco repertorio di musiche e danze legato soprattutto ai momenti di festa. Le terre occitane,
in virtù della loro natura
varia e diversificata, hanno
espresso nel corso dei secoli una musica tradizionale che si distingue per la grande ricchezza di canti, melodie, balli e strumenti utilizzati. Le danze sono le stesse
che si ritrovano nella danza nobile del XVII secolo: giga,
currenta, contradança, borrea. A queste si sono aggiunti
in epoca moderna polke, mazurche e scottish. Il reperto-
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Le relazioni fra Individuo e Società
La ghironda dei Lou Dalfin, noto gruppo di musica occitana
rio musicale occitano conta una grande varietà di danze,
23 nella sola Val Varaita, e vari tipi di strumenti musicali, tra cui sette diverse tipologie di cornamuse, diversi tipi
di flauti e oboi, un patrimonio sterminato di canti dalle
funzioni e caratteristiche più disparate. Nelle
valli occitane sono attivi gruppi musicali e musicisti che hanno elaborato interessanti contaminazioni di tradizione, rock, jazz e reggae. Tra gli
strumenti musicali, uno è un vero e proprio simbolo, diffuso in tutta l’Occitania: la ghironda,
strumento a corde azionato da manovella, che ha
origini nella musica popolare del Medioevo. Un
tempo, in queste valli, la ghironda era lo strumento tipico dei suonatori ambulanti che fino al periodo compreso tra le due guerre mondiali partivano, soprattutto dalle valli Maira e Stura, per
guadagnarsi da vivere con la loro musica. Alla
ghironda si aggiungono i suoni del violino (quello popolare, utilizzato con una tecnica e uno stile
differenti rispetto a quello classico), dell’organetto, della fisarmonica semidiatonica (semiton),
talvolta di antichi strumenti aerofoni a sacco,
come la zampogna, o vari tipi di oboe. Dalla metà
del XIX secolo si aggiunge al variegato panorama
strumentale occitano la fisarmonica, che dapprima
affianca e poi, in molti casi, soppianta gli strumenti di concezione più arcaica. Ricordiamo
infine lo scacciapensieri, presente nelle culture popolari
di mezzo mondo; nelle valli è noto come arebeba e veniva utilizzato per accompagnare la danza.
❱❱ 4. La zampogna tra mito e folklore
❱ 4/1 La zampogna e il tempo della festa
La zampogna è composta da un otre, in pelle
di capra o di pecora,
dove l’aria viene raccolta e da un insufflatore. È fornita di due
chanter, ovvero canne
diteggiabili, ad ancia
doppia. La zampogna si
suona introducendo
l’aria nell’otre tramite
l’insufflatore (chiamato
anche cannetta o soffietto). L’aria fa vibrare le
due ance inserite sulle
canne melodiche
Ispirata da movenze arcane, provenienti da
mondi «altri», capace di toccare le corde
dell’immaginario, la musica popolare a dicembre celebra il suo trionfo attraverso lo
strumento della zampogna. La zampogna,
infatti, è legata da tempo immemorabile al
presepe, che in questi giorni comincia già a
far capolino nel ciclo calendariale. La zampogna scende in campo quando l’universo
intero − secondo la mentalità arcaica e popolare − è allo zenith della sua crisi, mentre
esso attonito contempla il Sole, che, in dolce languore (nel senso di «sentimentale
abbandono», ma anche di «lenta estinzione»), gradualmente viene meno.
Grava sul mondo la minaccia di precipitare
nel gelido buio, nella notte indifferenziata
del Caos, là da dove lo trasse Dio incarnato
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Geografia della ricerca antropologica
o, meglio, il Verbum, la Parola, che si manifestò, in un tempo fuori del tempo, come
«soffio creatore» capace di dare l’anima, la psychè, che significa anche «soffio» e, in
un tempo nel tempo, come suono-parola che salva.
Dinanzi all’avvento di Dio sulla Terra le creature sono come sospese in un’aura
meta-mondana tipica della aspettazione: e, mentre tutto è fermo («si fermarono i
cieli» scrive Sant’Alfonso in un suo suggestivo canto natalizio) si fa strada la melodia
delle zampogne, con i suoi toni ora bassi e profondi, ora alti e acuti, che, pur aumentando la mestizia brumale, tocca i nostri cuori, che sono come un liuto sospeso.
per appronfondire
❱
La zampogna nel mito
Il mito vuole che l’inventore della zampogna sia il dio Pan, segnato dai tratti della bruttezza (corna, barba,
coda, zampe di capra), anticipatore di quello che sarà per i cristiani Lucifero (nella sua versione popolare).
Pan ha una sua forza, legata al fiato: è capace di mettere in fuga i Titani con un urlo (Esiodo, Teogonia): di
qui il senso del concetto di panico. Pan è un dio dalle movenze dionisiache: si vanta di essersi accoppiato
con tutte le Menadi, ubriache di Dioniso (Ovidio, Metamorfosi) e salta dalla gioia, quando Zeus, con un
soffio, ricompone prodigiosamente le membra di Pelope.
Tutti emblematici i suoi amori: da Onfale (che deriva da omphalòs, in greco «ombelico»), Eco (che diventa
semplice voce) e Siringa (mutata in canna sibilante). Da questa canna fuoriesce un suono «simile ad uno
che si lamenti, quasi fosse la voce di un morto» (Ovidio).
❱ 4/2 La storia della zampogna
La zampogna, strumento musicale antico, usato dai Romani negli scontri armati, nel
Medioevo (sotto forma di oboe popolare) figura, nella duecentesca Sacra Rappresentazione della Natività del Duomo di Pisa, come strumento adoperato dai pastori. Da
allora nasce il rapporto presepe-zampogna, destinato a rinsaldarsi nel periodo tra il
Trecento e il Seicento, grazie alla tradizione del presepe francescano, che la considera un elemento fisso e canonico.
Nel XVII secolo la zampogna viene utilizzata come sottofondo per i brani recitativi,
presentati dalle compagnie teatrali popolari, che si esibivano durante la celebrazione
della Messa nella notte di Natale. È, del resto, questo il periodo in cui viene scritta e
stampata una serie di «pastorali», eseguite per realizzare un aggancio con il pubblico
popolare, suggerito dalla temperie controriformistica, che tende al registro del coreografico e dello scenografico.
La zampogna si afferma definitivamente con il presepe napoletano del Settecento,
laddove lo zampognaro è spesso fuso-confuso con i protagonisti popolari del presepe
stesso, come è documentata da un Annuncio ai pastori e da una Natività facenti parte di collezioni private. In una gli zampognari non intonano la loro musica, ma si
uniscono meravigliati agli attoniti pastori; in un’altra lo zampognaro è collocato vicino al gruppo dei dormienti, che hanno un alto valore metaforico, in quanto il loro
sonno ha un sapore iniziatico: sonno = morte metaforica. Dal sonno si emerge mutati, come mutazione estrema è la morte simbolica, vista come «morire al peccato» e
rinascere alla Grazia.
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Le relazioni fra Individuo e Società
❱ 4/3 La zampogna nelle feste del Sud
La zampogna è usata, al di fuori del periodo natalizio, anche in altre feste nel Meridione legate alla cultura del mondo pastorale, come, ad esempio, la festa della Madonna
Nera di Viggiano (Potenza). Alla Vergine Nera situata sul Monte è tributato un culto
specifico che si manifesta in specifici atti rituali: costruzione di accampamenti, abitudine di dormire nel recinto del tempio, scene di trance, desiderio di toccare la statua.
Assieme alla zampogna in questa festa altri due elementi fungono da protagonisti: il
pellegrinaggio e la danza. Entrambi rimarcano una condizione tipica della cultura
popolare: questa, pur nel suo sanguigno approccio con l’Eros, tende rigorosamente a
separare maschi e femmine. Mentre infatti gli zampognari aprono o seguono la processione, le donne recano sulla testa, per grazia ricevuta, le pesanti «cinte», cioè delle
strutture lignee riccamente addobbate. Allo stesso modo, rigidamente «maschili» sono
le danze effettuate, nei momenti di riposo, in provvisori ricoveri, chiamati catuscedde.
❱❱ 5. La tammorra e i canti d’amore e morte
❱ 5/1 La storia della tammorra
Strumento musicale antico e moderno, dal ritmo affascinante e travolgente, la tammorra è parte integrante della storia della cultura mediterranea, che senza di essa
risulterebbe monca e incompleta. Nota fin dall’antica Fenicia, da cui ci sono giunte
statuette raffiguranti sacerdotesse della dea Astarte recanti un tamburo a cornice, e
dall’antica Pompei, nei cui scavi essa è raffigurata in mano a uno strumentista, la
tammorra, sacra e profana al tempo stesso, è un elemento indispensabile per creare,
nella struggente musica popolare del Sud, un legame con gli altri e con la propria
terra. E terra di tammorra per eccellenza è l’area del Vesuvio, monte sul quale sono
fiorite le leggende più arcane e sulfuree.
Quinto Settimio Tertulliano (150-222 circa) introdusse l’opinione secondo cui il
cratere del Vulcano campano era lo sfiatatoio delle fiamme dell’Inferno. La credenza
rimase tenacemente sedimentata nell’immaginario collettivo, se, più di millecinquecento anni dopo, Johann Caspar Goethe, padre di Wolfgang, annotò in una sua lettera del 1740, scritta durante un viaggio in Italia, che il Vesuvio veniva considerato «la
porta dell’Inferno, anzi la residenza del Diavolo».
❱ 5/2 Il fascino della tammorra
Ballare e cantare, in terra vesuviana, al suono della tammorra è un’azione purificatoria, un rito di iniziazione, da cui si esce mutati. La tammorra unisce i danzatori,
eliminando distanze e differenze, e trascina in una danza che incanta e affascina (nel
senso del fascinum latino). I danzatori si avvinghiano in un pulsare di sensazioni, in
un corteggiamento sensuale e pubblico.
Emblematica è anche la disposizione di coloro che cantano accompagnandosi con la
tammorra: essi infatti si sistemano in cerchio, figura geometrica che, richiamando i
cicli celesti, rappresenta per antonomasia il simbolo dell’Armonia. E come tale, rinviando anche alla ruota, esso indica anche il ciclo del Tempo e della Vita e, dunque,
la possibilità di interiorizzarlo. Nel cerchio, immagine archetipica della totalità della
psiche, tutte le angosce dei fedeli popolari, in nome della Vergine Taumaturga (a cui
spesso i tammorrari si rivolgono), sono perciò ridotte a conoscenza, affrontate e
superate.
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Geografia della ricerca antropologica
❱ 5/3 Canti d’amore e morte
La tammorra ha i suoi luoghi deputati, uno
dei quali è, in Campania, l’asse fra due
montagne che, slanciate entrambe verso il
cielo, sembrano guardarsi da lontano: quella di Somma (Na) in terra vesuviana e quella dell’Avvocata verso Cava de’ Tirreni (Sa).
Cominciamo dai canti intonati con la tammorra a Somma Vesuviana fin dal Sabato
in Albis per varie settimane in onore della
Madonna di Castello. Tutto comincia nel
lontano 1631, allorquando una delle solite
tremende eruzioni del Vesuvio colpisce la
città di Somma Vesuviana. Qui, nella Chiesa della Madonna di Castello viene ritrovaLa tammorra è un grosso tamburo a cornice con la membrana di pelle
ta la statua della Vergine bruciata e con la
essiccata (di capra o di pecora) tesa su un telaio circolare di legno. Actesta mozzata; e da questa statua ha origine
compagna sia il canto che il ballo tradizionale, da sola o con altri strumenti a percussione. Nella foto un famoso tammorraro, Ugo Maiorano,
un miracolo: la figlia paralizzata del suo
leader de La paranza dell’Agro
restauratore si mette a camminare.
Tra le canzoni originali di Somma ve n’è una
che ha come protagonista una donna non vista dal proprio uomo, che però la sente
mentre ella chiama al cibo le galline. Particolare questo importante, perché è in relazione con un antico rituale, di cui parla anche James Frazer nel suo Ramo d’oro, in
cui il grande antropologo analizza la paura, tipica delle classi subalterne, di perdere
l’anima; quest’ultima poteva essere richiamata e reintegrata nel corpo, spargendo del
granturco a terra e invitandola a mangiarlo, come se fosse una gallina.
Anomali e imprevedibili sono anche i testi delle canzoni intonate con la tammorra in
onore della Madonna Avvocata a Cava de’ Tirreni. Essi narrano della disperazione
di un giovane, che arriva troppo tardi al capezzale della propria amata, ormai morta
per amore. Egli ha solo il tempo di accendere per un quarto d’ora una lampada presso la bara, prima che ella per sempre vada a «far compagnia ai morti». E, fra l’ossessionante e lugubre allegria delle tammorre, si canta la bellezza di questa fanciulla, la
cui bocca, futura preda dei vermi, una volta emetteva «fiori» di grazia e di bellezza.
I fiori: ecco l’elemento fondante di questa festa, allietata da canti. Infatti la statua
della Madonna Avvocata è circondata da rose, che non sono, in questo caso, solo il
fiore mariano per eccellenza. Non si dimentichi che una volta la Pentecoste, a cui è
collegato il rito dell’Avvocata, era chiamata «Pasqua rosata» o «Pasqua delle rose»,
perché in molte chiese, per ricordare la discesa dello Spirito Santo, si facevano piovere delle rose durante la Messa. Il simbolismo della rosa, secondo Elèmire Zolla,
richiama, a causa della struttura dei suoi petali, la convergenza verso l’unità: le persone, che intonano insieme i canti, celebrano un’unità ritrovata e si dispongono ad
«andare oltre» il livello del quotidiano.
❱ 5/4 La tammorra evocatrice dell’eternità
Altrettanto singolare è l’esecuzione di canti in onore della Madonna di Montevergine
a Sarno (Salerno) nella Chiesa di San Matteo dall’8 al 12 settembre.
In questa occasione rituale settembrina, innanzitutto, vi è la richiesta da parte del
fedele alla Vergine di consentirgli l’accesso alla zona sacra, mediante l’apertura del
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Le relazioni fra Individuo e Società
portone della chiesa, che rappresenta la «Porta dell’Inferno». Questa, però, non va
vista come simbolo di annientamento, ma di salvezza. Essa salva nell’Aldiquà: la
Madonna di Montevergine, come recita un altro canto, salva un giovane dall’accusa
di aver ucciso un uomo attraverso una lettera (elemento di mediazione e di «passaggio») caduta miracolosamente dal cielo. Ma soprattutto salva nell’Aldilà: «E se non
ci vediamo qua/ ci vediamo nell’Eternità»: così concludono i fedeli nella Chiesa di
Sarno e nel Santuario di Montevergine, accomiatandosi dalla Madonna e proiettando
le speranze dell’Aldilà su questa Terra, in cui tutti viviamo questa difficile ma splendida storia della nostra esistenza.
detto da loro
Le notti della Taranta
La taranta pizzica ancora, ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E in Salento si balla senza rimorso.
Quest’anno la Notte della Taranta (dal 12 al 27 agosto), il più importante Festival europeo di musica tradizionale, si apre sotto il segno di Ernesto de Martino. Che, esattamente cinquant’anni fa, pubblicò La terra
del rimorso, il libro che ha segnato la nascita dell’antropologia italiana e ha fatto del tarantismo il simbolo
di un Mezzogiorno dell’anima. Stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Memoria
remota di un binario morto del progresso. Di un passato arcaico che restava impresso nei corpi sofferenti
del popolo contadino. Nei gesti e nelle danze, nelle ossessioni e nelle devozioni di un’umanità lontana
dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale. Una perturbante archeologia sociale che sopravviveva negli
usi e costumi di quella corte dei miracoli che popolava il profondo Sud fino alla prima metà del Novecento.
Dove una storia andata in polvere aveva lasciato il posto ad un’antichità degradata, fatta di sopravvivenze
umane e di relitti culturali, Come il tarantismo, la danza della piccola taranta. Antidoto ritmico contro il
male oscuro di una terra in trance che identificava i suoi dolori antichi e nuovi con il morso di un ragno
immaginario, da curare con la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni fino allo sfinimento. E alla guarigione. Concessa per grazia di San Paolo, signore e padrone di tutte le tarantole. Fino al
nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Morso e rimorso. E questo l’inesorabile algoritmo
del tarantismo.
Incomincia proprio nella terra di Puglia spaccata dal sole
e dalla solitudine, come diceva Salvatore Quasimodo, la
discesa di de Martino negli inferi di un Mezzogiorno che
è al tempo stesso una ferita meridiana dell’essere e un
labirinto personale. Un itinerario che si snoda tra le
altezze rarefatte della ragione idealistica e le convulsioni ritmiche delle tarantolate salentine, tra la severità
sussiegosa e distante dello storicismo crociano e l’immersione commossa nelle arcaiche profondità del Sud.
Sono ragioni prima politiche e poi teoriche – due dimensioni che nella sua opera non si separeranno mai a
guidare il cammino del grande intellettuale napoletano
oltre le colonne d’Ercole di Eboli, verso il finisterre salentino. Nel tacco dello Stivale il raffinato filosofo, cresciuto alla scuola di Benedetto Croce, trova quel che
altri grandi antropologi come Claude Lévi-Strauss e Bronislaw Malinowski cercano in terre lontane. Una
nuova coscienza dei limiti e delle virtù della propria civiltà. Un modo di guardare sé e la propria società
nello specchio di una differenza abissale. Che espone il ricercatore al rischio di veder vacillare le proprie
certezze, di rimettere in questione i fondamenti stessi della propria identità, del proprio ruolo.
Esattamente come accade a de Martino mentre ascolta la nenia funebre intonata da una lamentatrice scarmigliata e vestita di nero con suoni, parole e gesti da tragedia greca. Lungi dal considerare il pianto in
metrica della donna come una pittoresca sopravvivenza pagana, il grande studioso si interroga piuttosto su
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Geografia della ricerca antropologica
se stesso e sul suo mondo, sullo scandalo di una faglia storica così profonda da rendere una sua concittadina, e contemporanea, lontana da lui quanto un’aborigena australiana. Oggetto di ricerca, se non di esperimento. Scheggia di un’altra storia non più nostra, avrebbe detto Pasolini.
Un’umanità oppressa, dove la magia aiuta gli uomini a far fronte alla precarietà dell’esistenza e rappresenta
una medicina simbolica condivisa, contro quella che de Martino definisce, con termine preso in prestito da
Heidegger, la crisi della presenza.
Insomma, tra gli indios americani o fra i contadini italiani, il viaggio antropologico è sempre e comunque
un’uscita da sé, un distacco dai limiti angusti del proprio angolo di mondo per cercare, nelle alterità vicine
e lontane, un’immagine più compiuta della propria condizione. A questa critica culturale de Martino contribuì
anche con la fondazione della leggendaria «collana viola» di Einaudi, concepita insieme a Cesare Pavese,
con lo scopo dichiarato di sprovincializzare la cultura italiana, stretta tra crocianesimo, marxismo e pensiero cattolico. Rendendo in questo modo finalmente accessibili autori proibiti come Carl Gustav Jung, Károly
Kerényi, Mircea Eliade, Marcel Mauss, Emile Durkheim. Ma, quel che più conta, questa critica de Martino la
sbattè in faccia all’Italia del miracolo economico, che si cullava nell’illusione delle magnifiche sorti e progressive, nell’escatologia del benessere, nell’incipiente religione del consumo. E che era improvvisamente
costretta a contemplare con stupore orrificato le spose di San Paolo − così venivano soprannominate le
donne morse dal ragno − che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull’asse smarrito
della loro esistenza. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti
sciamani. O si arrampicavano sull’altare di San Paolo a Galatina con l’agilità spiritata di ragni equilibristi.
Salmodiando l’invocazione rituale che strappava il cuore degli astanti: «Ah! Santu Paulu men de le tai-ante,
facitece ‘na grazia a tutte quante».
Quello che de Martino mezzo secolo fa rivelava al paese con La terra del rimorso era il lato oscuro dello
sviluppo, quella non-storia sofferente che offriva alla trasformazione del paese un doppio tributo: quello
di chi emigrava e quello di chi restava. Spaesamento da una parte e povertà dall’altra. Le tarantolate
erano storicamente e anagraficamente sorelle di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, delle donne dolenti dei
capolavori di Rossellini, di Germi, di Castellani. Ma anche della folla stracciata e sognante di Miracolo a
Milano.
La Terra del rimorso è un libro di antropologia, ma anche di letteratura. Ed è questo a renderlo, ora come
allora, capace di parlare anche al grande pubblico. Con la forza degli argomenti, ma anche con la potenza
delle immagini. insomma è proprio la sua poetica a salvare de Martino dal rischio di rinchiudersi in uno
specialismo arido, in una filologia accademica petulante, che dietro la maschera del rigore nasconde la frigidità del cuore e della mente. La sua officina antropologica non ha mai smesso di produrre pensiero. E
pratiche sociali. Ispirando nei primi Anni Novanta la politica di giovani amministratori − uno per tutti Sergio Blasi, già sindaco di Melpignano (Lecce) − che, invece di vergognarsi di quell’eredità e di seppellire la
tarantola sotto una coltre di cemento, hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in un bene
culturale e in una chance di futuro. E così la Notte della Taranta, esorcizzato finalmente il rimorso, ha fatto
del ragno un simbolo positivo. Un modello di sviluppo che parla e pensa salentino. E la pizzica, che fu
l’emblema del ritardo storico del Mezzogiorno, diventa il motore di un distretto culturale e turistico capace
di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing, ecologia e benessere. Adesso, in un Sud
che non vuole diventare Nord, il miracolo economico lo fa la taranta. Da buon socialista, anche Ernesto de
Martino ne sarebbe compiaciuto.
Marino Niola, «Il Venerdì di Repubblica», 5 agosto 2011
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Le relazioni fra Individuo e Società
Prove di verifica
1. Rispondi alle seguenti domande utilizzando lo spazio a disposizione:
a) Qual è il significato del «mostro» rispetto alla coesione interna di una società?
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b) Elenca alcuni dei significati simbolici del lupo, citando se possibile racconti, miti o opere letterarie in cui compare questo animale.
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c) Che cosa rappresentava il cratere del Vesuvio secondo un’antica credenza riportata dallo scrittore latino Tertulliano?
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d) Hai letto romanzi o visto film che hanno per protagonisti i vampiri? Usando la metafora, prova a
scrivere un breve racconto dal titolo «I vampiri di oggi».
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Geografia della ricerca antropologica
Prove di verifica
e) La danza popolare ha accompagnato la storia dell’umanità, riflettendo le caratteristiche geografiche, climatiche e sociali di ciascun popolo, oltre a riprodurre i momenti più significativi del vivere collettivo quotidiano e di festa. Svolgi una ricerca sulla danza popolare e scrivi un breve
saggio sui rapporti tra la danza e la civiltà che l’ha prodotta, scegliendo una specifica area geografica dell’Europa o del resto del mondo.
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f) Qual è il significato del cerchio nella danza della tammorra?
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g) Da che cosa deriva il termine taranta?
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h) Quale celebre antropologo studiò il tarantismo come fenomeno tipico della cultura di alcune zone
del Sud-Italia?
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