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Dissanguare l’economia americana:
il sogno di Bin Laden diventa realtà
La lotta ai simboli: distruggere le icone del capitalismo
occidentale
Bastano pochi istanti per decapitare un ostaggio. Un taglio netto e una vita umana finisce. Si tratta di una procedura veloce e incredibilmente pulita, che i boia jihadisti conducono con il sangue freddo di veri professionisti
della morte. La decapitazione con il coltello non è un fenomeno nuovo; negli anni Ottanta, durante la jihad antisovietica in Afghanistan, i mujaheddin perfezionano
questa tecnica giustiziando centinaia di soldati sovietici.
Negli anni Novanta viene esportata nel Kashmir, nell’Asia centrale, in Cecenia e nei Balcani – dovunque si
combatte la jihad.
Video dei boia jihadisti che tagliano la testa ai loro
nemici con coltelli affilati circolano liberamente nel sottobosco del terrorismo islamico; fino al 2003 se ne potevano acquistare alcune copie fuori della moschea di
Finsbury Park, a nord di Londra. Questi filmati sono
strumenti potentissimi di propaganda perché carichi di
simbolismo.
Il rito del taglio della testa è simile a quello della zi-
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bah, la tecnica di macellazione della carne halal, imposta
dalla religione musulmana. Si sgozza l’animale quando è
ancora vivo perché mangiare cadaveri è un atto impuro
e proibito: haram, l’opposto di halal. La morte è veloce e
indolore. La carcassa dell’animale viene poi appesa per
farne fuoriuscire tutto il sangue, anche questo considerato haram. Dissanguare l’animale è dunque un atto di
purificazione.
La zibah, un rito antico, ripetuto costantemente nelle
macellerie musulmane, è dunque la chiave di lettura allegorica del modo barbaro in cui vengono uccisi i nemici della jihad e al tempo stesso simboleggia l’obiettivo
economico dell’11 settembre: dissanguare l’economia
americana fino alla bancarotta.
Nel 1998 al Qaeda inizia a prendere di mira gli interessi statunitensi in Medio Oriente e da allora, a livello
macroeconomico, prende piede un rituale simile alla decapitazione degli ostaggi.
Il terrorismo islamico di Bin Laden vuole annientare
l’epicentro del capitalismo occidentale, vale a dire l’economia statunitense, per privarlo della ricchezza che lo
tiene in vita. L’atto di «dissanguare l’America fino alla
bancarotta», un’immagine ricorrente nei discorsi di Bin
Laden, non è solo un momento distruttivo, mira anche
a purificare i nemici dell’Islam, e cioè le corrotte élite
oligarchiche che governano gran parte del mondo musulmano. Senza l’appoggio americano queste élite non
avrebbero i muscoli per contrastare l’insurrezione islamica che vuole rovesciarle.
Nell’immaginario collettivo jihadista, dissanguare
l’economia americana fino alla bancarotta è dunque una
tattica importante della guerra di liberazione economica
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che, come le crociate, potrebbe coinvolgere più di una
generazione. Questo in qualche misura è il prologo ideale e il progetto economico dell’11 settembre.
Naturalmente, si tratta solo di retorica ed elaborazioni
fantastiche; Bin Laden e la sua organizzazione non sono
certo in grado di fiaccare l’economia statunitense. Paradossalmente, però, dopo l’11 settembre, questi sogni iniziano a prendere forma proprio perché ingenuamente
l’America cade nella trappola ideologica tesagli dal saudita. Dopo la tragedia delle Torri gemelle costruisce essa
stessa la retorica che ingigantisce il potere di al Qaeda.
Con tenacia e determinazione, la propaganda americana
dipinge l’avversario come un nemico vero, temibile, di
grandi proporzioni e con ramificazioni un po’ dovunque, anche e soprattutto in Iraq.
Nel settembre 2001 pochi sanno che tutto questo
non ha alcun riscontro nella realtà. Fino a quel momento, infatti, al Qaeda è pressoché sconosciuta nel
mondo musulmano. E, soprattutto, l’Iraq di Saddam
Hussein non ha nessun tipo di legame con Bin Laden.
Saddam, come s’è visto, teme i fondamentalisti islamici, li considera un pericoloso elemento d’instabilità e li
tiene ben alla larga dal suo Paese. Ma non basta; nel giro di pochi mesi, al Qaeda viene pesantemente indebolita dagli attacchi delle forze di coalizione e degli americani stessi, dall’invasione dell’Afghanistan e dalla caduta dei talebani.
La conferma ufficiale che Bin Laden ha come obiettivo la distruzione dell’economia americana, comunque,
arriva nell’agosto 2004. L’Fbi scopre che prima dell’11
settembre al Qaeda si è procurata diversi filmati di ricognizione di potenziali bersagli economici negli Stati
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Uniti; tra questi ci sono la borsa di New York, la Banca
Mondiale e il Fondo monetario. Sono le icone del capitalismo occidentale. L’11 settembre è dunque anche e
soprattutto il tentativo di decapitare fisicamente l’economia statunitense: un colpo inflitto con professionalità
e trasmesso in diretta sugli schermi del mondo intero.
Il prologo della crisi attuale
A livello macroeconomico l’impatto è quasi immediato.
La chiusura dei mercati blocca repentinamente i flussi
di capitale negli Stati Uniti. Nell’impossibilità di liquidare le loro posizioni, investitori statunitensi ed esteri
subiscono consistenti perdite. I sauditi vedono scomparire 24 miliardi di dollari. Quando si scopre che quindici dirottatori su diciannove provengono dal loro Paese, molti si affrettano a rimpatriare i propri fondi nel timore che alle perdite già subite si aggiungano rappresaglie di natura personale, economica e legale. Nei due
mesi successivi all’attacco fuoriescono ben 200 miliardi
di dollari, circa un quarto della somma complessiva degli investimenti sauditi in America. Un anno dopo,
quasi 700 miliardi di dollari hanno preso il volo verso
Oriente; gran parte apparteneva a mediorientali che
hanno seguito l’esempio dei sauditi.
L’effetto più consistente dell’attacco arriva però a novembre 2001, quando il dollaro inizia a svalutarsi e la
crescita economica statunitense rallenta. Se nel breve periodo la reazione alla guerra contro il terrorismo di Bush
è positiva, e quindi il dollaro si rafforza, la risposta dei
mercati nel medio e lungo termine è assolutamente ne-
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gativa. Nel prossimo capitolo analizzeremo come la fuga
dei grandi investitori dal dollaro sia legata anche all’introduzione del Patriot Act che, come abbiamo già visto,
è una legislazione d’emergenza che impone il monitoraggio di tutte le transazioni in dollari.
Ma per il momento limitiamoci a registrare il fatto
che prima della fine del 2001 le piazze Affari del villaggio globale danno tutte segni di nervosismo nei confronti della politica aggressiva di Bush, non si fidano delle
scelte dell’amministrazione e guardano all’Europa. L’euro, la moneta unica adottata dall’Unione europea, offre
un’alternativa solida e concreta al dollaro come non era
mai accaduto prima. La sfiducia nella valuta americana
pone fine a un decennio di crescita economica eccezionale (5,8 per cento annuo) alimentata da un flusso continuo di capitali.
Già all’inizio del 2002 l’economia americana perde
colpi, o volendo usare la terminologia tanto cara a Bin
Laden «inizia a dissanguarsi». Illustri economisti individuano la ragione scatenante di questo processo proprio
nella guerra contro il terrorismo del presidente americano. Tra questi c’è Joseph Stiglitz, premio Nobel per
l’economia, che attribuisce l’impoverimento della nazione proprio a questo conflitto. E in effetti, i dati sembrano proprio confermare tale ipotesi. Dopo l’11 settembre precipitano sia i consumi che la crescita economica nel Paese (nel 2003 il Pil scende al 3,5 per cento)
e di conseguenza sale il tasso di disoccupazione.
Nel corso del primo mandato di Bush più di un milione di persone perde il lavoro. Negli Stati Uniti non
accadeva niente di simile dai tempi della Grande depressione. Si tratta di cifre enormi, anche se a distanza di
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qualche anno ci sembra poca cosa di fronte alla catastrofica disoccupazione creata dalla crisi del credito. E infatti tra novembre e dicembre 2008, gli ultimi due mesi del
secondo mandato Bush, un altro milione di americani si
è ritrovato disoccupato.
Nei primi anni 2000, comunque, il rallentamento della crescita economica produce una drastica riduzione delle indennità salariali. Pur di conservare il loro posto, i lavoratori accettano i tagli, cosicché nel 2003 il reddito familiare reale diminuisce nel complesso di 1500 dollari.
A intaccare ulteriormente il potere d’acquisto della nazione interviene l’impennata del prezzo del petrolio che
dai 18 dollari al barile del 2001 passa ai 40 nel 2004. Secondo uno studio di Merrill Lynch, ogni aumento dell’1
per cento alle pompe corrisponde a una perdita di un miliardo di dollari per l’economia. Se accettiamo questa stima abbiamo rapidamente la proporzione di quello che in
pochi anni accade all’economia statunitense. Dall’11 settembre 2001 alla fine del 2004 il costo del carburante
passa da poco meno di un dollaro a due dollari al gallone; tradotto in potere d’acquisto circa 100 miliardi di
dollari scompaiono dalle tasche degli americani.
È il prologo della crisi del credito, ma nessuno sembra
disposto ad accorgersene. Né la popolazione né Wall
Street sono coscienti dell’impatto che la guerra contro il
terrorismo ha sull’economia americana perché il guru
della Federal Reserve, Alan Greenspan, lo neutralizza tagliando vigorosamente i tassi d’interesse.
Il credito facile diventa uno stimolo possente per
neutralizzare le regole dell’economia. Di fronte alla caduta dei salari e al caro prezzi la domanda dovrebbe
contrarsi e invece succede esattamente il contrario. La
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gente viene incitata a indebitarsi e lo fa furiosamente; le
istituzioni pubbliche e private seguono l’esempio. Così
s’innesca quella spirale perversa che porterà, nel 2008,
allo scoppio di una delle crisi del credito più grandi della storia.
Con pochissime varianti, il fenomeno prende piede in
tutto l’Occidente, l’andamento delle economie europee
segue quello dell’economia guida: gli Stati Uniti. Nel frattempo anche l’indebitamento dello Stato cresce, ma nessuno ci fa caso perché il debito pubblico americano viene
finanziato sul mercato internazionale. Cina e Giappone, i
colossi asiatici, ne diventano i maggiori acquirenti.
L’economia terroristica
Dal 2001 a oggi la classe politica ha cercato di farci credere che la guerra contro il terrorismo è il prezzo che bisogna pagare per distruggere una volta per tutte questo fenomeno. E anche se Barack Obama sembra intenzionato
a rifiutare questo mantra e a tendere la mano al mondo
musulmano, egli dovrà necessariamente fare i conti con
le conseguenze disastrose di queste menzogne. Non è infatti possibile voltare pagina da un giorno all’altro.
Dall’11 settembre a oggi l’economia del terrorismo ha
continuato a crescere perché i gruppi eversivi hanno
sfruttato sapientemente i vantaggi della deflazione e noi
non siamo stati capaci di impedirlo. Anche il bombardamento dei media, che ha sostenuto la propaganda dei
neoconservatori riguardo ai poteri di al Qaeda, si è rivelato vantaggioso. Naturalmente, il cittadino comune è
all’oscuro di questi sviluppi. Per comprenderli è necessa-
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rio rivisitare brevemente le tappe salienti del sistema economico che poggia sulla violenza.
La fine della guerra fredda permette al capitalismo occidentale di spiegare le sue potenti ali su tutto il pianeta.
Negli anni Novanta, la deregulation abbatte le barriere
economiche tra i mercati finanziari internazionali; capitale, merci e forza economica iniziano a circolare liberamente. Anche le organizzazioni armate approfittano della deregulation e stabiliscono contatti: e fare affari per loro diventa sempre più facile.
La deregulation facilita anche l’osmosi tra la nuova
economia del terrore e l’antica e consolidata economia
illegale e criminale. Nasce così un sistema economico su
scala internazionale che ha un fatturato di 1500 miliardi
di dollari, una cifra superiore al Pil del Regno Unito, le
cui componenti sono: le fughe di capitali, circa 500 miliardi di dollari che si spostano clandestinamente da un
Paese all’altro senza che nessuno sembri notarlo e tantomeno denunciarlo; altri 500 miliardi di dollari che corrispondono al cosiddetto prodotto criminale lordo, soldi generati dal crimine organizzato; 500 miliardi di dollari pari all’ammontare della nuova economia del terrore, denaro prodotto dalle organizzazioni terroristiche vere e proprie.
Da dove vengono i fondi alla base dell’economia del
terrore?
Un terzo proviene da attività lecite che vanno dalle
donazioni ai salari dei membri delle organizzazioni armate. I restanti due terzi derivano da attività criminali e
illegali, e come al solito la più rilevante fonte di entrate è
il traffico di stupefacenti. Prima dell’11 settembre, è bene specificare, le finanze di al Qaeda sono una frazione
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del fatturato annuo del terrorismo, l’organizzazione è infatti piccola rispetto a gruppi armati come l’Ira e l’Olp
che hanno sviluppato un’economia fiorente nei territori
da loro controllati, dando vita agli stati-guscio.
Lo stato-guscio può essere definito uno stato embrionale, un proto-stato, perché possiede l’infrastruttura
economica della nazione ma non il nucleo politico, non
gli viene riconosciuto il diritto di autodeterminazione. È
questo il caso dell’Olp e del popolo palestinese in Libano negli anni Settanta.
Gli stati-guscio fioriscono nelle zone di guerra e dove
c’è instabilità politica: dopo l’11 settembre l’Afghanistan
e l’Iraq diventano luoghi ideali. Questi stati possono essere piccoli quanto il quartiere di una città. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, Sadr City, un sobborgo degradato di Baghdad, si trasforma in uno statoguscio controllato dalle milizie sciite. Gli stati-guscio
fioriscono anche nelle zone dove è assente l’autorità centrale. In questo senso l’esempio migliore è la regione tribale pakistana, in Waziristan, dove – non a caso – dal
2001 risiede Bin Laden e i talebani trovano appoggio e
protezione. E come conseguenza, anche il distretto di
Quetta, in Pakistan, controllato proprio da questi leader, si trasforma in uno stato-guscio.
Il processo di formazione degli stati-guscio è presto
detto. I gruppi armati s’impossessano del territorio con
la forza, distruggono l’infrastruttura socio-economica
preesistente e la sostituiscono con la propria. La popolazione si trova praticamente in trappola e deve sottostare
alle logiche dei nuovi arrivati per sopravvivere. A Sadr
City le milizie sciite pattugliano le strade e conducono
operazioni di pulizia etnica – sono i responsabili degli
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attacchi alle famiglie sunnite che non si sono ancora decise a traslocare – gestiscono anche gli ospedali e le scuole. Di fatto governano l’intero territorio. Lo scopo dei
miliziani è ridurre la popolazione alla dipendenza economica e sociale dall’economia di guerra e così facendo
costringerla a diventarne parte integrante. In tal modo
la popolazione di Sadr City si trova ad assecondare l’azione delle squadre di Moqtada al Sadr perché sono i miliziani stessi a garantire il funzionamento degli ospedali
e il sussidio ai più bisognosi, esattamente come avevano
fatto a suo tempo gli Hezbollah con le popolazioni del
sud del Libano.
Dall’11 settembre in poi gli stati-guscio si moltiplicano all’interno del mondo musulmano. La guerra contro
il terrorismo destabilizza progressivamente una serie di
aree chiave: dall’Iraq all’Indonesia, dal Corno d’Africa al
Pakistan incluso il Medio Oriente. Naturalmente il proliferare dei nuovi gruppi armati assetati di potere implica un considerevole aumento dello sforzo militare da
parte delle forze di coalizione, degli Stati Uniti e delle
Nazioni Unite. Si aprono molti fronti. E ancora una volta questo sforzo si traduce in una maggiore spesa pubblica e nell’impennata del debito pubblico degli stati
protagonisti della guerra.
Mentre la war on terror viene venduta come la virtuosa esportazione dei princìpi della democrazia in chiave
occidentale, i suoi effetti reali sono disastrosi. Accanto al
numero impressionante di morti civili, nel mondo musulmano troviamo l’accresciuta instabilità di alcune zone
del pianeta e l’aumento sostanziale dei deficit di bilancio
dei paesi occidentali.
Ancora più scoraggianti sono i risultati della lotta con-
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tro i finanziamenti al terrorismo. È questo infatti l’aspetto più dinamico dell’attività terroristica, quello che trae
il massimo vantaggio dalla globalizzazione e che fino a
oggi ha dimostrato una straordinaria capacità di adattamento alle legislazioni antiterroristiche, mutando di
continuo e restando in tal modo relativamente immune
alle misure adottate proprio per ostacolarne la crescita.
Il miglior esempio di questo dinamismo si riscontra,
non a caso, ancora una volta in Iraq e in Afghanistan.
Un rapporto commissionato dal governo americano e
pubblicato nel giugno 2006 dimostra che in quel momento l’insurrezione irachena era ormai riuscita a diventare autosufficiente. Bisogna tenere presente che l’espressione «insurrezione irachena» include le milizie e gli
eserciti privati sciiti, i gruppi armati sunniti e i jihadisti
di al Qaeda in Iraq.
All’inizio del conflitto queste organizzazioni erano finanziate dall’Iran, dall’Arabia Saudita, dagli esuli iracheni, da simpatizzanti e fautori della causa jihadista e dal
denaro proveniente dai forzieri di Saddam Hussein. Ciò
che sconvolge è che, secondo il rapporto, nel giro di soli
tre anni questa nebulosa è riuscita a produrre tra i 70 e i
200 milioni di dollari l’anno, una cifra superiore al costo dell’insurrezione.
Per paradossale che possa sembrare, è proprio dalle attività della guerriglia irachena che scaturisce nuovo denaro che può essere impiegato per finanziare l’attività
eversiva oltre confine. E infatti molti ritengono che una
parte dei fondi impiegati da al Qaeda e dai talebani per
lanciare nel 2006 la campagna di primavera in Afghanistan provenisse proprio dall’Iraq. È possibile. Ci sono
conferme che nel 2005 Al Zawahiri, luogotenente di
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Osama bin Laden, chiese ad Al Zarqawi, leader di al
Qaeda in Iraq, di inviare denaro in Afghanistan, ma da
allora non ci sono state altre richieste.
Come ha fatto l’insurrezione irachena a conquistare
l’autosufficienza economica? La risposta è semplice:
sfruttando l’economia di guerra all’interno di un mercato globalizzato, e cioè la proliferazione degli stati-guscio.
Secondo il rapporto statunitense, le fonti di reddito
principali sono tre: furto di petrolio importato, sequestri
e contrabbando d’armi. Dal 2004 al 2006 l’Iraq importa
tra i 4 e i 5 miliardi di dollari di petrolio l’anno, circa il
30 per cento viene rubato e rivenduto sul mercato nero
interno ed estero dai gruppi eversivi e dalle bande criminali. Il rapporto parla poi di un vero e proprio boom
nell’industria dei rapimenti. La maggior parte delle vittime è irachena anche se gli stranieri, soprattutto se giornalisti, vengono scambiati per somme molto consistenti.
Il contrabbando di armi è la terza attività, e forse la
più proficua, dell’economia eversiva irachena. Saddam
Hussein non possedeva armi di distruzione di massa, ma
aveva il più grande arsenale di armi convenzionali dopo
quello degli Stati Uniti. Con la caduta del regime questo
finisce in mano ai guerriglieri e ai criminali comuni che
per settimane saccheggiano il Paese. E, grazie alla cooperazione con la criminalità organizzata, nel 2006 le armi
irachene raggiungono la Somalia, il Sudan e il Libano.
Lo stesso modello di autofinanziamento lo ritroviamo
in Afghanistan. Anche qui il terrorismo ha sempre meno
bisogno di finanziatori esterni. Dopo l’11 settembre, l’Isi,
i servizi segreti pakistani, e i leader islamici della regione
tribale sostengono economicamente al Qaeda e i talebani
in ritirata. Paradossalmente, lo possono fare anche grazie
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ai massicci aiuti esteri statunitensi concessi al Pakistan, in
quanto «fedele» alleato nella guerra contro il terrorismo.
Ma ben presto questi fondi diventano superflui.
Dal 2002 al 2006 il ricostituito esercito talebano e al
Qaeda trasformano Quetta, sede del loro quartier generale, in uno stato-guscio. I fondi provengono dalla fiorente attività di contrabbando della zona. Quetta è diventata il più importante mercato di falsi della regione e
nella città si smerciano beni contraffatti d’ogni tipo. Come in Iraq anche qui i sequestri contribuiscono all’economia di guerra: nel 2006 i talebani rilasciano un giornalista italiano in cambio della liberazione di sei prigionieri appartenenti al loro gruppo e molto probabilmente di un cospicuo riscatto.
L’Afghanistan ha poi una risorsa preziosissima che condiziona tutti i rapporti di forza: la droga. A sostenere la
rimonta talebana è il boom della produzione di papavero
da oppio. Nel 2006 il raccolto rende il 35 per cento in
più che nel 2005 e nel 2008 l’Afghanistan si assicura il
92 per cento del mercato mondiale di oppio. Prima
dell’11 settembre la sua quota era meno del 70 per cento.
C’è poi un’ulteriore conseguenza perniciosa e inquietante legata ai vantaggi della retorica apocalittica di Bush:
la drastica riduzione del costo unitario dell’attività eversiva in Occidente.
Mentre l’esecuzione dell’11 settembre costa ad al
Qaeda 500mila dollari, agli ideatori della strage di Madrid ne bastano 20mila e a chi ha procurato le bombe
suicide londinesi meno di 15mila. Osama bin Laden
non addestra più i suoi uomini nei campi in Afghanistan, cosa costosissima. La proliferazione di pagine web
jihadiste supplisce alla loro chiusura, in questo modo si
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indottrina e si addestra a prezzi stracciati una nuova generazione di jihadisti.
I corsi per corrispondenza degli aspiranti terroristi naturalmente hanno poca efficacia, è difficile che un bravo
attentatore sia autodidatta, ma il pericolo non è la professionalità dei futuri terroristi quanto la trasformazione
di al Qaeda da organizzazione armata di piccola portata
in un credo ideologico antimperialista globale: l’alqaedismo. Ed è la guerra in Iraq che rende possibile questa
metamorfosi.
Per la nuova generazione di jihadisti, l’11 settembre diventa un evento iconico e al tempo stesso il canovaccio e
il canone d’ispirazione per gli attacchi futuri. Quello che
cambia ogni volta invece è la quantità di denaro a disposizione e la professionalità dei terroristi. In questa chiave
gli attentati di Madrid e Londra sono repliche in scala ridotta dell’evento simbolo. L’impatto sull’opinione pubblica è comunque fortissimo e ha risonanza in tutto il
mondo perché mette subito in moto la macchina propagandistica occidentale. Come vedremo nel capitolo «La
politica della paura» il mantra della paura gonfia nell’immaginario collettivo l’impatto della violenza politica.
A tenere alta la tensione nei periodi di calma sono la
propaganda politica e la stampa. Nel 2004 e nel 2005,
fonti dell’Fbi sostengono che le istituzioni simbolo del
capitalismo occidentale sono ancora nel mirino di al
Qaeda; naturalmente si tratta di un errore di valutazione grossolano. Dopo l’attacco subìto in Afghanistan
l’organizzazione non è più in grado di ripetere un attentato di quella portata. Ciononostante scatta l’allarme a Washington e New York, edifici interi sono evacuati e le città rimangono paralizzate per alcuni giorni.
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A questo punto è possibile fare un bilancio delle politiche antiterroristiche utilizzando gli strumenti dell’analisi dei costi e benefici. Lungi dal pacificare il mondo, la
guerra contro il terrorismo sembra aver dato vita a un
conflitto asimmetrico. Mentre per gli insorti iracheni
200 milioni di dollari sono più che sufficienti per condurre una guerriglia che mette in gravissima difficoltà le
forze americane, per Washington i costi di questa guerra
sono astronomici. Il bilancio preventivo mensile del
Pentagono per l’Iraq, votato ad agosto 2008, è di 8 miliardi di dollari, quello congiunto con l’Afghanistan è di
12 miliardi!
La risposta di Washington all’escalation dei costi bellici è l’abbattimento del tasso d’interesse e la sfrenata
emissione di buoni del tesoro. Ma la crisi del credito ha
cambiato le carte in tavola. Il finanziamento di questo
conflitto ormai compete con i piani di salvataggio dell’economia americana. Cos’è più importante: esportare
la democrazia «made in America» o salvare l’America
stessa? Ecco l’interrogativo che come quello di Amleto
rode l’amministrazione Obama.
L’eredità di Bush è proprio questa, averci lasciato da
gestire un conflitto asimmetrico aperto, e cioè potenzialmente irrisolvibile, che succhia denaro allo Stato e al
contribuente senza produrre nulla di buono. In epoca di
seria recessione come quella che viviamo, la gestione
prolungata di questa guerra può diventare fatale e compromettere le risorse necessarie per sostenere l’economia
americana e quella mondiale quando ne ha più bisogno.
La nuova retorica di Barack Obama non basta a risolvere questi problemi, ci vuole un cambiamento radicale
di politica estera, che difficilmente il Congresso ameri-
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cano sarà disposto a intraprendere. Il presidente, va detto, è solo la punta dell’iceberg. Per quanto popolare sia,
la leadership di Obama durerà dai quattro agli otto anni; chi tiene le redini del potere e detta a grandi linee la
politica interna ed estera americana è il Congresso. Ma
questi concetti diventeranno più chiari nel corso di questo libro. Prima è bene analizzare a fondo gli sconcertanti legami tra la guerra contro il terrorismo e altri settori
dell’economia: il riciclaggio di denaro sporco e la crisi
del credito.
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