78_81 pambieri tanzi:Layout 3 19-11-2010 16:52 Pagina 2 L’INTERVISTA/ Giuseppe Pambieri e Lia Tanzi «Il teatro è un innamoramento, ti arrivano emozioni e vibrazioni che non si provano con il cinema o con la televisione, perché tu vedi qualcuno che è vivo, che è lì sul palco, recita, e vive e soffre» PAOLA RENELLI l 30 novembre debutteranno al Teatro Manzoni di Milano con Cena a sorpresa di Neil Simon, per la regia di Giovanni Lombardo Radice. Lo spettacolo ha già riscosso un grandissimo successo e registrato il I Una coppia che 78 78_81 pambieri tanzi:Layout 3 19-11-2010 16:52 Pagina 3 SPETTACOLO tutto esaurito dovunque è stato presentato finora, grazie al valore dell’opera in sé, ma soprattutto all’eccellenza di una coppia di attori che non ha bisogno di presentazioni: Giuseppe Pambieri e Lia Tanzi, insieme sulla scena, insieme nella vita. Giuseppe, iniziamo da lei. Ci parli di questo vostro ultimo lavoro, Cena a sorpresa, in cui recitate in coppia «Lo spettacolo, diretto da Giovanni Lombardo Radice, sta avendo un grandissimo successo e secondo me in questa seconda edizione è migliorato. Oltre a mia moglie, è entrata quest’anno nel cast anche Maria Letizia Gorga al posto di Benedetta Buccellato. Il testo è stato scritto da Neil Simon nel 2000 e in Italia viene proposto per la prima volta. I sei personaggi di Cena a sorpresa (tre coppie di ex, invitate dall’avvocato che ne ha curato il divorzio) sono tutti protagonisti perché si tratta di un lavoro corale: oltre a mia moglie, a Maria Letizia Gorga e a me ci sono infatti Giancarlo Zanetti, Simona Celi e Miki De Marchi». Qual è il suo ruolo e quello di sua moglie Lia? «Io sono un letterato e uno scrittore frustrato, mia moglie invece è una scrittrice di successo, però senza la mia stessa levatura intellettuale. Io le ho inculcato l’amore per la letteratura e lei, attraverso una scrittura facile, un po’ alla Liala, diciamo, diventa famosa e questo è anche un po’ il motivo che ci ha portato al divorzio. Il pubblico si diverte moltissimo, ma lo spettacolo offre anche spunti di riflessione e la possibilità di ritrovarsi come coppia, con i problemi e il vissuto di chi è in coppia, appunto». Giuseppe, quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel condividere, come fa lei con sua moglie, questo tipo di lavoro? «I vantaggi sono tanti e gli svantaggi pochissimi (sorride). Anche perché noi non lavoriamo sempre insieme. Per esempio, è la prima volta dopo tre anni che recitiamo in coppia d’inverno, quindi non si tratta di una costante. Ovviamente, soprattutto quando io curo la regia degli spettacoli, ma non solo in questo caso, tra noi c’è una grande complicità sulla scena e questo il pubblico lo recepisce ed è molto importante per la riuscita dei personaggi. Ma è importante anche lavorare separatamente per scongiurare l’eventualità che si instauri un pizzico si noia». E lei, Lia, la pensa allo stesso modo? «Io contesto che diventi noioso lavorare sempre in coppia. Non è noioso per il pubblico che chiede proprio questo, perché quando la gente vede che mio marito non è con me gli domanda quando saremo di nuovo insieme in scena. Insomma, se per mio marito è noioso, per me non lo non scoppia 79 78_81 pambieri tanzi:Layout 3 19-11-2010 16:52 Pagina 4 SPETTACOLO è (sorride), anzi, è abbastanza divertente, è curioso, “complice”, anche perché ormai sono tutti scoppiati e noi siamo tra i pochi che stanno ancora felicemente insieme. Credo che Giuseppe non abbia usato il termine esatto. Il problema è che a volte ci sono dei testi che è giusto che lui faccia perché sono personaggi interessanti da esplorare e con cui confrontarsi, ma magari in quel testo non c’è un ruolo per me. E quindi è ovvio che lui non debba rinunciare a qualcosa di importante e di utile per la sua carriera: perciò, di comune accordo, abbiamo deciso che se c’è un ruolo interessante per lui o per me, che però non preveda anche la presenza dell’altro, lo facciamo comunque, anche separatamente. Per ciò che riguarda i vantaggi, sul palco ci si capisce al volo, non c’è neanche bisogno di parlare, ma il vantaggio più grosso è che il pubblico ci ama molto insieme e noi questo affetto lo sentiamo, per cui si lavora bene e meglio». Lia, come e quando ha deciso di fare l’attrice? «Quando ero molto giovane ero indecisa se fare l’architetto, occuparmi di moda o di teatro come costumista-scenografa o come attrice (allora frequentavo una scuola di moda, l’università e il Piccolo di Milano). Ad un certo punto mi sono detta che dovevo prendere una decisione e ho chiesto consiglio a mia madre, la quale mi ha risposto: “fai l’attrice, sei così brava a dire le bugie…”. Per fortuna ero in grado di farlo, altrimenti sarei stata una donna frustrata e forse avrei abbandonato tutti dopo due anni. Ma non c’è un ruolo in cui mi capita di pensare: “ecco, sono un’attrice”. Piuttosto, di fronte ad un nuovo ruolo mi interrogo sempre su come riuscire a farlo e mi chiedo anzi se magari un’altra può farlo meglio di me. Insomma, mi metto sempre molto in discussione: è come se mi trovassi in questa situazione un po’ per caso, un po’ per volontà e difficilmente dico a me stessa di essere una brava attrice, lascio che a dirlo siano gli altri». Suo marito le dice che è brava? «Sì, ringraziando Dio, sì, poi mi dà molti consigli, anche in scena, lui è straordinario per i tempi comici. Rispetto ai ruoli brillanti ho avuto due grandi inse80 gnanti: Oreste Lionello, con cui ho lavorato ne L’anatra all’arancia, e mio marito, eccellente anche riguardo al registro drammatico. Insomma, quando si lavora in due, si parla, ci si confronta, si tratta sempre di una collaborazione. Poi ho avuto la scuola di Giorgio Strehler, un’esperienza grandissima, un incontro straordinario, ma ogni regista ti dà comunque qualcosa». Lia, anche sua figlia Micol fa l’attrice proseguendo la tradizione di famiglia «Sì, ma con un certo distacco, visto il periodo che non è proprio il massimo per la cultura e quindi, pur facendo l’attrice, privilegia anche molto la sua vita personale condividendo un altro lavoro con suo marito: insomma, non si fa mancare niente…». Quale ruolo, Lia, ha amato o ama di più? «Quello di Goneril nel Re Lear di Strehler sicuramente è stato un ruolo che ho amato tantissimo, ma anche Clitennestra, Giocasta nell’Edipo, e tra gli altri, anche Caterina ne La bisbetica domata, in cui ho lavorato in coppia con mio marito». La bisbetica domata ha avuto un grandissimo successo: il personaggio di Caterina ha qualche tratto in comune con lei? «No. Io e mio marito abbiamo un carattere vivace, ci confrontiamo molto e se c’è da discutere discutiamo, insomma non siamo quelli che se c’è qualcosa che non va se lo tengono dentro o ci rimuginano su, ma i problemi, quando si affrontano, si risolvono sempre». Lei è una bella donna, suo marito un bell’uomo, siete gelosi l’uno dell’altra? «La gelosia c’è sempre, siamo tutti e due persone passionali, però andando avanti con gli anni interviene anche un po’ di saggezza. Prima magari si facevano delle scene che non aveva senso fare, ora invece, prima di farle, uno aspetta a capire se sia il caso oppure no. Comunque, visto che non ci sono motivi, si tratta sempre di una gelosia all’acqua di rose». Lia, l’ultimo complimento che ha ricevuto per il suo lavoro e quale definizione darebbe del teatro a chi non ne conosce la magia? «Proprio ieri sera, a teatro, una signora del pubblico mi ha detto: “domani è il mio compleanno e voi mi avete fatto il regalo più bello che potessi desiderare”. Riguardo a cosa sia il teatro, non si può imporre a qualcuno di andarci, ma la cosa straordinaria è che chi ci viene per la prima volta, se ha la fortuna di assistere ad uno spettacolo che vale, poi ci ritorna di sicuro, perché il teatro è un innamoramento, ti arrivano emozioni e vibrazioni che non si provano con il cinema (e io parlo da grande appassionata di cinema), o con la televisione, perché tu vedi qualcuno che è vivo, che è lì sul palco, recita, e vive e soffre». Giuseppe, la sua sterminata carriera teatrale, televisiva e cinematografica è costellata di successi. Ma il grande pubblico l’ha conosciuta quando, nel ’72, ha interpretato per la tv il ruolo di Remo, giovane nipote, bello e scapestrato, di Sarah Ferrari e Rina Morelli nello sceneggiato di Mario Ferrero, Le sorelle Materassi «Ho recitato con le due più grandi attrici teatrali di quel momento e non solo di quel momento, diversissime tra loro: la prima, Sarah Ferrari, di formazione più accademica; la seconda, Rina Morelli, un grumo di istinto poderoso, e ho un ricordo molto piacevole e tenero di quell’esperienza. Poi è stato stupendo il fatto che la sera prima non mi conosceva nessuno e la mattina dopo ero famosissimo (ride). Allora uno sceneggiato televisivo lo vedevano venti milioni di persone, una cosa incredibile e oggi inimmaginabile». E’ riuscito subito a smettere i panni di Remo? «Io sono un eclettico, mi piace proprio cambiare, entrare nei personaggio, dal più efferato al più sprovveduto, e poi uscirne: insomma, non mi rimangono addos- 78_81 pambieri tanzi:Layout 3 19-11-2010 16:52 Pagina 5 «L’uomo, nel suo intimo, ha sempre avuto bisogno del teatro, che è la rappresentazione di sé, del vedersi cioè proiettato in qualcosa che riproponga la sua vita in modo magico, poetico, fantastico» so. Ho questa capacità e sono felice di averla. Fuori dal palcoscenico o dal set, la vita mi assorbe come fa con tutti: penso al mio Milan, alle mie cose, cioè stacco…». Lei non è solo il grande attore che tutti conosciamo, ma anche un grande regista, cosa ha provato a passare da un ruolo all’altro? «Il passaggio è stato quasi naturale per- ché un attore che ha una certa esperienza e bravura è inevitabile che prima o poi abbia le coordinate giuste per passare alla regia, soprattutto in teatro, che è il mio mondo. E devo dire che mi piace molto dirigere gli attori, amarli, vederli, farli progredire nel personaggio. Ho bisogno di attori molto duttili perché io sono uno che tempesta di indicazioni, ma soprattutto facendo leva sulla mia esperienza, sia in campo comico che drammatico, cerco di offrire una guida che spesso è utile. Quindi, con me l’attore vive una grande intensità, io sono riuscito a far recitare molto bene degli attori che erano considerati un po’ mediocri. Il lavoro sull’attore mi diverte e piace moltissimo e chi può far- lo meglio di un attore stesso che ha accumulato una grande esperienza in questo campo?». Qual è il regista che le ha dato più emozioni? «Ne ho conosciuti tanti, dai più grandi ai meno grandi, ma il ricordo più bello, più intenso, più importante è quello di Strehler, anche perché io nasco dalla scuola del Piccolo e frequentavamo ancora la scuola quando siamo stati tutti coinvolti nel Gioco dei potenti dall’Enrico VI di Shakespeare, un grande spettacolo con settanta attori, con uno Strehler al massimo dello splendore e della forza intellettuale, una vera esplosione in palcoscenico. Quei mesi passati sul palco con lui sono stati formativi al massimo e il modello degli spettacoli di Strehler, dal Galileo fino al Re Lear, a cui ho partecipato con mia moglie, mi è rimasto dentro. Poi, quello che mi ha aiutato ad “esplodere”, a venir fuori, avevo 23 anni, con Le mosche di Sartre, è stato Franco Enriquez, sottovalutato dalla critica, ma sicuramente un grande. Tra gli altri, ho lavorato anche con Zeffirelli, e con Ronconi in Venezia salva e con Ronconi c’è stato un rapporto molto forte, molto bello. Ma mentre Strehler puntava tutto sulla poetica teatrale e in ogni suo gesto c’era un equilibrio fantastico in rapporto agli attori e alla scena, con Ronconi c’è una grande voglia di innovazione, di sperimentazione. Ma il mio cuore batte ancora al Piccolo di Strehler». Nonostante lei abbia interpretato innumerevoli personaggi, ce n’è uno che per qualche motivo ancora le manca? «Riccardo III, che mi perseguita nella mente e io faccio altrettanto con lui, ma non riusciamo ad incontrarci sul palcoscenico. Magari accadrà presto, vedremo…». Giuseppe, se dovesse definire il teatro per chi non lo conosce ancora… «Il teatro è una scatola magica dove si entra e ci si ritrova in qualche modo rappresentati. L’uomo, secondo me, nel suo intimo, ha sempre avuto bisogno di questa rappresentazione di se stesso, di vedersi cioè proiettato in qualcosa che riproponga la sua vita in modo magico, poetico, fantastico». E’ stato il primo laureato d’Italia in Medicina e Comunicazione alla Sapienza di Roma, presso la quale ha collaborato per lungo tempo con maestri come Mario Morcellini e Alberto Abruzzese, per poi collaborare col Comune di Roma, al fianco del Prof. Aiuti. Per molti anni ha redatto i testi di importanti trasmissioni televisive di Raiuno e oggi, che sta per essere pubblicato il suo primo romanzo, Stefano Mungari sta preparando, come attore, un’opera teatrale scritta e diretta da Danilo Gattai. Cosa pensi di non dire ancora oggi a te stesso? «Scrivendo e recitando mi sono abituato a passare attraverso tutte le mie emozioni, riconoscendole e affrontandole senza averne paura. Sono convinto infatti che, se riusciamo ad affrontare in questo modo noi stessi siamo in grado di superare ogni situazione». Scrivendo, sei mai stato costretto a nascondere qualcosa che avresti invece voluto rivelare? «Nello scrivere il mio ultimo romanzo mi sono sentito costretto a nascondere anche a me stesso, e con grande dolore, quello che sarebbe stato il futuro dei miei personaggi una volta terminata la storia». Cosa nascondi ad un tuo collega autore? «Come faccio con tutte le persone che mi circondano, cerco sempre di nascondergli le maldicenze che sento dire sul suo conto e che potrebbero ferirlo, impedendo così a tali malignità di continuare il loro inutile corso». Quale verità mascheri al tuo migliore amico? «Purtroppo il migliore amico che la vita mi ha riservato è una persona con una fortissima sensibilità, al quale è quindi impossibile nascondere anche il più intimo dei sentimenti. Questo, però, è anche il motivo che lo rende l’amico ideale». Recitare invece significa nascondere o dire la verità? «Negli anni ho imparato che ciò che cerchiamo di nascondere è proprio ciò che arriva, a chi ci osserva, con maggiore intensità. Sul palcoscenico come nella vita».