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L’INTERVISTA/ Giuseppe Pambieri e Lia Tanzi
«Il teatro è un innamoramento, ti arrivano emozioni
e vibrazioni che non si provano con il cinema
o con la televisione, perché tu vedi qualcuno
che è vivo, che è lì sul palco, recita, e vive e soffre»
PAOLA RENELLI
l 30 novembre debutteranno al Teatro Manzoni di
Milano con Cena a sorpresa di Neil Simon, per la
regia di Giovanni Lombardo
Radice. Lo spettacolo ha già riscosso un
grandissimo successo e registrato il
I
Una coppia che
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tutto esaurito dovunque è stato presentato finora, grazie al valore dell’opera in
sé, ma soprattutto all’eccellenza di una
coppia di attori che non ha bisogno di presentazioni: Giuseppe Pambieri e Lia
Tanzi, insieme sulla scena, insieme nella vita.
Giuseppe, iniziamo da lei. Ci parli di questo vostro ultimo lavoro, Cena a sorpresa, in cui recitate in coppia
«Lo spettacolo, diretto da Giovanni Lombardo Radice, sta avendo un grandissimo successo e secondo me in questa seconda edizione è migliorato. Oltre a mia
moglie, è entrata quest’anno nel cast anche Maria Letizia Gorga al posto di Benedetta Buccellato. Il testo è stato scritto da Neil Simon nel 2000 e in Italia viene proposto per la prima volta. I sei personaggi di Cena a sorpresa (tre coppie
di ex, invitate dall’avvocato che ne ha curato il divorzio) sono tutti protagonisti perché si tratta di un lavoro corale: oltre a
mia moglie, a Maria Letizia Gorga e a me
ci sono infatti Giancarlo Zanetti, Simona
Celi e Miki De Marchi».
Qual è il suo ruolo e quello di sua moglie Lia?
«Io sono un letterato e uno scrittore frustrato, mia moglie invece è una scrittrice di successo, però senza la mia stessa levatura intellettuale. Io le ho inculcato
l’amore per la letteratura e lei, attraverso una scrittura facile, un po’ alla Liala,
diciamo, diventa famosa e questo è anche un po’ il motivo che ci ha portato al
divorzio. Il pubblico si diverte moltissimo,
ma lo spettacolo offre anche spunti di riflessione e la possibilità di ritrovarsi come
coppia, con i problemi e il vissuto di chi
è in coppia, appunto».
Giuseppe, quali sono i vantaggi e gli
svantaggi nel condividere, come fa lei
con sua moglie, questo tipo di lavoro?
«I vantaggi sono tanti e gli svantaggi pochissimi (sorride). Anche perché noi
non lavoriamo sempre insieme. Per
esempio, è la prima volta dopo tre anni
che recitiamo in coppia d’inverno, quindi non si tratta di una costante. Ovviamente, soprattutto quando io curo la regia degli spettacoli, ma non solo in questo caso, tra noi c’è una grande complicità sulla scena e questo il pubblico lo recepisce ed è molto importante per la riuscita dei personaggi. Ma è importante anche lavorare separatamente per scongiurare l’eventualità che si instauri un pizzico si noia».
E lei, Lia, la pensa allo stesso modo?
«Io contesto che diventi noioso lavorare
sempre in coppia. Non è noioso per il pubblico che chiede proprio questo, perché
quando la gente vede che mio marito non
è con me gli domanda quando saremo di
nuovo insieme in scena. Insomma, se
per mio marito è noioso, per me non lo
non scoppia
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è (sorride), anzi, è abbastanza divertente,
è curioso, “complice”, anche perché ormai sono tutti scoppiati e noi siamo tra
i pochi che stanno ancora felicemente insieme. Credo che Giuseppe non abbia
usato il termine esatto. Il problema è che
a volte ci sono dei testi che è giusto che
lui faccia perché sono personaggi interessanti da esplorare e con cui confrontarsi, ma magari in quel testo non c’è
un ruolo per me. E quindi è ovvio che lui
non debba rinunciare a qualcosa di importante e di utile per la sua carriera: perciò, di comune accordo, abbiamo deciso
che se c’è un ruolo interessante per lui
o per me, che però non preveda anche
la presenza dell’altro, lo facciamo comunque, anche separatamente. Per ciò
che riguarda i vantaggi, sul palco ci si capisce al volo, non c’è neanche bisogno
di parlare, ma il vantaggio più grosso è
che il pubblico ci ama molto insieme e
noi questo affetto lo sentiamo, per cui si
lavora bene e meglio».
Lia, come e quando ha deciso di fare l’attrice?
«Quando ero molto giovane ero indecisa
se fare l’architetto, occuparmi di moda
o di teatro come costumista-scenografa
o come attrice (allora frequentavo una
scuola di moda, l’università e il Piccolo
di Milano). Ad un certo punto mi sono detta che dovevo prendere una decisione e
ho chiesto consiglio a mia madre, la quale mi ha risposto: “fai l’attrice, sei così
brava a dire le bugie…”. Per fortuna ero
in grado di farlo, altrimenti sarei stata una
donna frustrata e forse avrei abbandonato
tutti dopo due anni. Ma non c’è un ruolo in cui mi capita di pensare: “ecco, sono
un’attrice”. Piuttosto, di fronte ad un nuovo ruolo mi interrogo sempre su come riuscire a farlo e mi chiedo anzi se magari
un’altra può farlo meglio di me. Insomma, mi metto sempre molto in discussione: è come se mi trovassi in questa
situazione un po’ per caso, un po’ per volontà e difficilmente dico a me stessa di
essere una brava attrice, lascio che a dirlo siano gli altri».
Suo marito le dice che è brava?
«Sì, ringraziando Dio, sì, poi mi dà molti consigli, anche in scena, lui è straordinario per i tempi comici. Rispetto ai ruoli brillanti ho avuto due grandi inse80
gnanti: Oreste Lionello, con cui ho lavorato ne L’anatra all’arancia, e mio marito, eccellente anche riguardo al registro
drammatico. Insomma, quando si lavora in due, si parla, ci si confronta, si tratta sempre di una collaborazione. Poi ho
avuto la scuola di Giorgio Strehler,
un’esperienza grandissima, un incontro
straordinario, ma ogni regista ti dà comunque qualcosa».
Lia, anche sua figlia Micol fa l’attrice proseguendo la tradizione di famiglia
«Sì, ma con un certo distacco, visto il periodo che non è proprio il massimo per
la cultura e quindi, pur facendo l’attrice,
privilegia anche molto la sua vita personale condividendo un altro lavoro con suo
marito: insomma, non si fa mancare niente…».
Quale ruolo, Lia, ha amato o ama di più?
«Quello di Goneril nel Re Lear di Strehler
sicuramente è stato un ruolo che ho amato tantissimo, ma anche Clitennestra, Giocasta nell’Edipo, e tra gli altri, anche Caterina ne La bisbetica domata, in cui ho
lavorato in coppia con mio marito».
La bisbetica domata ha avuto un grandissimo successo: il personaggio di
Caterina ha qualche tratto in comune
con lei?
«No. Io e mio marito abbiamo un carattere vivace, ci confrontiamo molto e se
c’è da discutere discutiamo, insomma
non siamo quelli che se c’è qualcosa che
non va se lo tengono dentro o ci rimuginano su, ma i problemi, quando si affrontano, si risolvono sempre».
Lei è una bella donna, suo marito un bell’uomo, siete gelosi l’uno dell’altra?
«La gelosia c’è sempre, siamo tutti e due
persone passionali, però andando avanti con gli anni interviene anche un po’ di
saggezza. Prima magari si facevano delle scene che non aveva senso fare, ora
invece, prima di farle, uno aspetta a capire se sia il caso oppure no. Comunque,
visto che non ci sono motivi, si tratta sempre di una gelosia all’acqua di rose».
Lia, l’ultimo complimento che ha ricevuto
per il suo lavoro e quale definizione darebbe del teatro a chi non ne conosce
la magia?
«Proprio ieri sera, a teatro, una signora
del pubblico mi ha detto: “domani è il mio
compleanno e voi mi avete fatto il regalo più bello che potessi desiderare”. Riguardo a cosa sia il teatro, non si può imporre a qualcuno di andarci, ma la cosa
straordinaria è che chi ci viene per la prima volta, se ha la fortuna di assistere ad
uno spettacolo che vale, poi ci ritorna di
sicuro, perché il teatro è un innamoramento, ti arrivano emozioni e vibrazioni
che non si provano con il cinema (e io parlo da grande appassionata di cinema), o
con la televisione, perché tu vedi qualcuno
che è vivo, che è lì sul palco, recita, e vive
e soffre».
Giuseppe, la sua sterminata carriera teatrale, televisiva e cinematografica è costellata di successi. Ma il grande pubblico l’ha conosciuta quando, nel ’72, ha
interpretato per la tv il ruolo di Remo,
giovane nipote, bello e scapestrato, di
Sarah Ferrari e Rina Morelli nello sceneggiato di Mario Ferrero, Le sorelle Materassi
«Ho recitato con le due più grandi attrici teatrali di quel momento e non solo di
quel momento, diversissime tra loro: la
prima, Sarah Ferrari, di formazione più accademica; la seconda, Rina Morelli, un
grumo di istinto poderoso, e ho un ricordo
molto piacevole e tenero di quell’esperienza. Poi è stato stupendo il fatto che
la sera prima non mi conosceva nessuno e la mattina dopo ero famosissimo
(ride). Allora uno sceneggiato televisivo
lo vedevano venti milioni di persone, una
cosa incredibile e oggi inimmaginabile».
E’ riuscito subito a smettere i panni di
Remo?
«Io sono un eclettico, mi piace proprio
cambiare, entrare nei personaggio, dal più
efferato al più sprovveduto, e poi uscirne: insomma, non mi rimangono addos-
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«L’uomo, nel suo intimo, ha sempre avuto bisogno
del teatro, che è la rappresentazione di sé, del
vedersi cioè proiettato in qualcosa che riproponga
la sua vita in modo magico, poetico, fantastico»
so. Ho questa capacità e sono felice di
averla. Fuori dal palcoscenico o dal set,
la vita mi assorbe come fa con tutti: penso al mio Milan, alle mie cose, cioè stacco…».
Lei non è solo il grande attore che tutti conosciamo, ma anche un grande regista, cosa ha provato a passare da un
ruolo all’altro?
«Il passaggio è stato quasi naturale per-
ché un attore che ha una certa esperienza
e bravura è inevitabile che prima o poi abbia le coordinate giuste per passare alla
regia, soprattutto in teatro, che è il mio
mondo. E devo dire che mi piace molto
dirigere gli attori, amarli, vederli, farli progredire nel personaggio. Ho bisogno di attori molto duttili perché io sono uno che
tempesta di indicazioni, ma soprattutto
facendo leva sulla mia esperienza, sia in
campo comico che drammatico, cerco di
offrire una guida che spesso è utile. Quindi, con me l’attore vive una grande intensità, io sono riuscito a far recitare molto bene degli attori che erano considerati
un po’ mediocri. Il lavoro sull’attore mi
diverte e piace moltissimo e chi può far-
lo meglio di un attore stesso che ha accumulato una grande esperienza in questo campo?».
Qual è il regista che le ha dato più emozioni?
«Ne ho conosciuti tanti, dai più grandi ai
meno grandi, ma il ricordo più bello, più
intenso, più importante è quello di Strehler, anche perché io nasco dalla scuola del Piccolo e frequentavamo ancora la
scuola quando siamo stati tutti coinvolti nel Gioco dei potenti dall’Enrico VI di
Shakespeare, un grande spettacolo con
settanta attori, con uno Strehler al massimo dello splendore e della forza intellettuale, una vera esplosione in palcoscenico. Quei mesi passati sul palco con
lui sono stati formativi al massimo e il modello degli spettacoli di Strehler, dal Galileo fino al Re Lear, a cui ho partecipato con mia moglie, mi è rimasto dentro.
Poi, quello che mi ha aiutato ad “esplodere”, a venir fuori, avevo 23 anni, con
Le mosche di Sartre, è stato Franco Enriquez, sottovalutato dalla critica, ma sicuramente un grande. Tra gli altri, ho lavorato anche con Zeffirelli, e con Ronconi
in Venezia salva e con Ronconi c’è stato un rapporto molto forte, molto bello.
Ma mentre Strehler puntava tutto sulla
poetica teatrale e in ogni suo gesto c’era
un equilibrio fantastico in rapporto agli attori e alla scena, con Ronconi c’è una
grande voglia di innovazione, di sperimentazione. Ma il mio cuore batte ancora
al Piccolo di Strehler».
Nonostante lei abbia interpretato innumerevoli personaggi, ce n’è uno che per
qualche motivo ancora le manca?
«Riccardo III, che mi perseguita nella mente e io faccio altrettanto con lui, ma non
riusciamo ad incontrarci sul palcoscenico. Magari accadrà presto, vedremo…».
Giuseppe, se dovesse definire il teatro
per chi non lo conosce ancora…
«Il teatro è una scatola magica dove si
entra e ci si ritrova in qualche modo rappresentati. L’uomo, secondo me, nel suo
intimo, ha sempre avuto bisogno di questa rappresentazione di se stesso, di vedersi cioè proiettato in qualcosa che riproponga la sua vita in modo magico, poetico, fantastico».
E’ stato il primo laureato d’Italia in Medicina e Comunicazione alla Sapienza di Roma,
presso la quale ha collaborato per lungo tempo con maestri come Mario Morcellini e Alberto Abruzzese, per poi collaborare col Comune di Roma, al fianco del Prof. Aiuti. Per
molti anni ha redatto i testi di importanti trasmissioni televisive di Raiuno e oggi, che sta
per essere pubblicato il suo primo romanzo, Stefano Mungari sta preparando, come
attore, un’opera teatrale scritta e diretta da
Danilo Gattai.
Cosa pensi di non dire ancora oggi a te stesso?
«Scrivendo e recitando mi sono abituato a
passare attraverso tutte le mie emozioni, riconoscendole e affrontandole senza averne paura. Sono convinto infatti che, se
riusciamo ad affrontare in questo
modo noi stessi siamo in grado di superare ogni situazione».
Scrivendo, sei mai stato costretto a nascondere qualcosa che avresti invece voluto rivelare?
«Nello scrivere il mio ultimo romanzo mi sono
sentito costretto a nascondere anche a me
stesso, e con grande dolore, quello che sarebbe stato il futuro dei miei personaggi una
volta terminata la storia».
Cosa nascondi ad un tuo collega autore?
«Come faccio con tutte le persone che mi circondano, cerco sempre di nascondergli le
maldicenze che sento dire sul suo conto e
che potrebbero ferirlo, impedendo così a tali
malignità di continuare il loro inutile corso».
Quale verità mascheri al tuo migliore amico?
«Purtroppo il migliore amico che la vita mi
ha riservato è una persona con una fortissima sensibilità, al quale è quindi impossibile nascondere anche il più intimo dei sentimenti. Questo, però, è anche il motivo che lo rende l’amico ideale».
Recitare invece significa nascondere o dire
la verità?
«Negli anni ho imparato che ciò che cerchiamo di nascondere è proprio ciò che arriva, a chi ci osserva, con maggiore intensità. Sul palcoscenico come nella vita».