L`immagine in questione

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Inizio-fine
11-03-2009
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L’immagine in questione
a cura di
Vincenzo Cuomo
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Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2387–7
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: marzo 2009
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Pagina 5
Indice
Premessa.......................................................................................
7
Immagini al lavoro nel pensiero di Jeanne Hersch
ALDO MECCARIELLO ......................................................................
9
ANTONIO PICARDI, TV CHANNEL .........................................
25
Il circuito iconico. Quattro tesi sulla compagnia dell’immagine
TOMMASO ARIEMMA ......................................................................
29
GIANCARLO NORESE, FLAT MOUNTAIN...............................
39
L’abbandono dell’immagine:
appunti sulla musica di Luigi Nonosulle tracce di Schönberg
LEONARDO V. DISTASO ...................................................................
43
VITO PACE, DENKRAUM.......................................................
57
L’immagine in Occidente e in Estremo Oriente
ROBERTO TERROSI ..........................................................................
61
FRANCO CIPRIANO, CATAPHYSIS ..........................................
75
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Indice
Note sulla fine dell’epoca dell’immagine (e) del mondo
VINCENZO CUOMO .........................................................................
79
ANGELO RICCIARDI, UNTITLED.............................................
97
Note bio-bibliografiche.................................................................
101
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Premessa
Il tema dell’immagine percorre tutta la cultura e la filosofia del
Novecento in particolare in quanto tema della sua “messa in crisi”.
Sia che la si intenda come “immagine interna”, sia che la si intenda come “immagine-figura”, nel Novecento l’immagine è stata radicalmente “messa in questione”.
Su questa problematica si è svolto, nella primavera del 2007, il
seminario annuale della rivista Kainos dedicato a “Le parole del Novecento”. I saggi che seguono sono stati scritti a partire da quegli incontri seminariali.
Nel suo saggio su Jeanne Hersch, Aldo Meccariello, mostra come,
per la pensatrice ginevrina, «imparare dalle immagini significa fare
esperienza dello stupore […], sostare presso le cose, arrestarsi dinanzi
all’enigma». È secondo questa prospettiva che la pensatrice rilegge, in
chiave fenomenologica, la teoria bergsoniana dell’immagine.
Tommaso Ariemma, seguendo un percorso interpretativo non molto
distante, sottolinea come l’esperienza dell’immagine abbia «a che fare
con un venire a mancare […] una falla nella presenza e nel riconoscimento, perché implica sempre un gioco tra una somiglianza e una dissomiglianza».
Leonardo Distaso, invece, studiando il problema della “rappresentatività” della musica nell’opera di Luigi Nono, indica uno dei principali punti critici di “questionamento” dell’immagine su cui il Novecento filosofico e artistico ha lavorato: la possibilità di rappresentare
l’irrappresentabile attraverso l’ascolto, trasformando l’incapacità del
“vedere” nella tragedia dell’ascolto.
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Premessa
Il saggio di Roberto Terrosi lascia il frastagliato e aporetico territorio della filosofia europea del Novecento, per invitarci ad uno sguardo
“da lontano” su tutta la questione. Ne risulta che la concezione dell’immagine che l’Occidente ha sostenuto in prevalenza, vale a dire
quella dell’immagine come “mimesi” del mondo e/o “espressione” del
sentimento dell’artista, non è coincidente affatto con quella prevalente
in Estremo Oriente (in particolare in Giappone). In Occidente l’immagine è stata quasi sempre intesa come «semplice mezzo per rendere
qualcos’altro (realtà, interiorità, fantasia)». In tal modo, dal momento
che «la realizzazione dell’immagine viene sempre dopo (sia in senso
operativo sia gerarchico)», «si svaluta continuamente la mondità dell’immagine, cioè il suo esser parte delle modalità con cui ci costituiamo il mondo». Se in Occidente è importante l’immagine come “risultato”, in Giappone è essenziale l’esecuzione, la modalità di realizzazione dell’immagine. Se l’Occidente ha prevalentemente pensato l’io
come staccato dalla natura, «in Estremo Oriente troviamo una concezione in cui l’immagine non fa da finestra tra un dentro dell’io e un
fuori della realtà».
Il saggio di Vincenzo Cuomo affronta, in conclusione, il questionamento “tecnico” dell’immagine, sia nel suo significato di “immagine
interna” legata allo schematismo corporeo, sia nel suo significato di
“immagine-figura”. Le nuove immagini-interfaccia «non possono
essere concepite né come icone mimetiche, secondo il paradigma classico, […] né possono essere interpretate all’interno del paradigma,
post-moderno, delle immagini-simulacro». Le immagini-interfaccia
sono, letteralmente, «immagini con cui è possibile fare qualcosa».
Questo trasforma alla radice le relazioni tra la “percezione”, l’“immaginazione”, la “corporeità”, e prefigura una nuova condizione antropologica caratterizzata dalla marginalizzazione del “mondo simbolico” a
favore dell’emergere di “abiti di vita” sub-simbolici o radicalmente
non-simbolici.
I testi teorici sono affiancati dagli interventi visivi di cinque artisti
contemporanei (Cipriano, Norese, Pace, Picardi, Ricciardi), selezionati da Codice EAN, associazione per l’arte contemporanea.
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Immagini al lavoro nel pensiero di Jeanne Hersch
di ALDO MECCARIELLO
1. Nel 1931 una giovane studiosa ebrea di origine polacca di nome
Jeanne Hersch, appena ventenne, presentava un lavoro all’Università di
Ginevra per conseguire la licenza in lettere. Le immagini nell’opera di
Henri Bergson1 era il titolo del saggio che entusiasmò l’anziano filosofo francese al punto di scrivere una lettera di plauso alla giovane pensatrice apprezzandone il dono dell’analisi psicologica e lo stile alla
maniera di una psicologia della filosofia2.
Le immagini nell’opera di Henri Bergson è un’opera prima che si
interroga sul senso e sulla natura della filosofia attraverso Henri Bergson o meglio attraverso l’interrogazione sul senso della sua filosofia.
Già dalle prime pagine introduttive è sorprendente l’approccio metodologico che la giovane Hersch ci suggerisce per accostarsi ad un autore, studiarne l’opera, comprenderne il movimento del pensiero: andare
oltre gli involucri ed esplorare quello che di centrale ed essenziale vi è
nell’opera filosofica risalendo a quel centro di forza in cui affiora
l’origine stessa del pensiero. In altri termini, in cosa consiste il senso
di un’opera filosofica?
1 J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, tr. it. di A.M. Carenzi, introduz. di L.
Boella, in H. Bergson, Lucrezio. Con un saggio di Jeanne Hersch, a cura R. De Benedetti,
Medusa, Milano 2001. In questo scritto giovanile del 1931 dedicato all’opera del filosofo francese, la giovane Hersch spiega come addentrarsi nell’opera di un filosofo in quanto «c’è, in
ogni opera filosofica, qualcosa di molto più centrale, di molto più essenziale, di molto più vero
della sua catena di affermazioni oggettivamente comprensibili, riducibili a elementi comuni e
paragonabili ad altre opere. L’opera è davanti a noi, più o meno modellata, scolpita, armonizzata, equilibrata. […] Ciò che contiene di più reale è il profondo movimento di pensiero che
l’ha creata, avanzando a testoni nel buio» (p. 99).
2 Ivi, p. 97.
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Aldo Maccariello
Scrive la Hersch: «tra un corso di storia della filosofia e la lettura
di un’opera, c’è la stessa differenza fondamentale che Bergson vede tra
un mosaico e un dipinto»3.
Quindi, l’opera filosofica va concepita come un dipinto, va letta
con la stessa forza con cui si vede un dipinto: quella del mosaico e del
dipinto sono potenti metafore che rinviano al motivo dell’originale e
della copia. L’espressione herschiana comincia a dissolvere un grave
pregiudizio su cui da sempre si attarda la critica filosofica e che
l’opera filosofica non coincida necessariamente con il suo contenuto
perché il suo tratto caratterizzante può essere altro: la forma, lo stile,
l’immagine.
In questi tratti forse è possibile esplorare il ritmo del pensiero,
ancora di più: il miracolo della creazione.
Al di là di qualsiasi equiparazione tra il filosofo e l’artista, è indubbio che la critica herschiana miri a ribaltare vecchi e consolidati dualismi della tradizione filosofica e a riproporre in forme nuove il rapporto tra il linguaggio e il pensiero.
Le immagini saranno dunque per me un mezzo per penetrare più a fondo nel
pensiero bergsoniano. […] Le immagini saranno solo dei punti di riferimento, i
sintomi di un atteggiamento primario, di un’intuizione fondamentale, sviluppata
in un’opera filosofica4.
Occorre poi confrontare le immagini, cercar loro un centro, un
nesso unitario capace di rappresentare e descrivere un’opera filosofica
o almeno coglierne l’intuizione fondamentale. In linea con il pensiero
di Bergson che in un famoso saggio degli inizi del ‘900, L’intuizione
filosofica5, aveva affermato che «[…] tutta la complessità della dottrina (di un filosofo), che andrà all’infinito, è dunque soltanto l’incommensurabilità tra la sua intuizione semplice e i mezzi di cui disponeva
per esprimerla», la nostra Autrice ritiene essenziale afferrare questa
intuizione da cui si diparte quel movimento che porta allo sviluppo del
sistema in dottrina delle idee. O, in altri termini, è importante scandaIvi, p. 101.
Ivi, p. 101.
5 H. Bergson, L’intuizione filosofica, in H. Bergson, Pensiero e movimento, tr. it. di F.
Sforza, a cura di p. A. Rovatti, Bompiani, Milano 2000, p. 101.
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gliare quel passaggio-movimento che dall’intuizione porta alla sua
espressione in sistema delle idee. È qui che viene alla luce il «movimento del pensiero» che è il tema, insieme a quello delle immagini, del
lavoro herschiano su Bergson6.
Cos’è il movimento del pensiero? Questo movimento – risponde la
Hersch – comprende due proprietà: è semplice ed essenziale7: è semplice perché aderisce alle nostre modalità percettive nel senso che il
pensare è un esercizio e una pratica comune a tutti ed è essenziale perché esprime ciò che ogni filosofia ha di unico e rinvia alla matrice
unica ed individuale di ogni filosofia.
Il movimento del pensiero è ciò che crea l’opera e per questo ha
qualcosa di grandioso perché differenzia il filosofo dall’artista e lo
rende esclusivo nel suo cammino di avvicinamento alla vita. Se l’artista produce una quantità esclusiva di opere d’arte, il filosofo invece
finisce per aggirarsi sempre intorno ai motivi della sua filosofia. Il filosofo ha un’unica filosofia come un’unica vita.
2. L’idea di filosofia che Jeanne Hersch sta prospettando si situa
nella sua ricezione della filosofia bergsoniana. Il fatto è che per il vecchio filosofo francese occorre riposizionare la questione della metafisica in opposizione alla concezione kantiana e alle pretese di farne una
scienza. Nel saggio del 1903, Introduzione alla metafisica, Bergson
scrive:8 «[…] la metafisica è possibile solo se consiste in uno sforzo
per risalire la china naturale del lavoro di pensiero, per collocarsi
immediatamente, con una dilatazione dello spirito, nella cosa studiata:
insomma, per andare dalla realtà ai concetti e non più dai concetti alla
realtà». Quindi, si può parlare, in termini bergsoniani, di una netta
6 Cfr. J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce, tr. it. di L. Boella e F. De
Vecchi, Baldini Castaldi Dalai editore, Milano 2006. In questo straordinario affresco della sua
vita, la Hersch racconta la gestazione delle sue opere giovanili e in particolare l’incontro con
Bergson: «Bergson, all’epoca, era molto anziano, malato, immobilizzato su una poltrona a
causa di reumatismo molto dolorosi. Chiese però di vedermi. Mi ricordo che il giorno in cui
mi recai a casa sua, in Avenue Beauséjour, ed ebbi l’impressione, io che venivo dalla provincia, con i miei vent’anni, di entrare nella mecca della filosofia» (pp. 63-64).
7 J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, cit., pp. 99-100.
8 H. Bergson, Introduzione alla metafisica, in H. Bergson, Pensiero e movimento, cit.,
pp. 172-173.
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Aldo Maccariello
linea di demarcazione tra il piano dell’«analisi» (che è il piano della
superficie) e il piano dell’«intuizione» (che è il piano della profondità):
tale distinzione non è solamente di metodo (il piano dell’analisi utilizza i concetti, quello dell’intuizione l’immagini), o allusiva a due forme
di rappresentazione del reale ma rinvia rispettivamente ai procedimenti della scienza e della filosofia. Il grave errore dei pensatori moderni
(empiristi e razionalisti per intenderci) è stato quello di aver confuso il
punto di vista dell’analisi con quello dell’intuizione, e la scienza con
la metafisica9. L’analisi scioglie una cosa nei suoi elementi costitutivi,
li separa l’uno dall’altro e ciò non può avvenire che nello spazio, mentre l’intuizione (termine su cui Bergson esita a lungo prima di adottarlo) agisce ai livelli profondi della coscienza che dello spazio sono la
negazione. Eppure la filosofia si è spesso illusa di poter trattare una
realtà profonda con lo stesso metodo analitico mentre essa può operare per atti intuitivi per cui «ci si trasporta all’interno di un oggetto, in
modo da far coincidere con ciò che esso ha di unico e, per conseguenza di inesprimibile. L’analisi, al contrario, è l’operazione che riporta
l’oggetto a elementi già conosciuti, vale a dire comuni a questo oggetto e ad altri»10. Analizzare significa dunque esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è.
«Ogni analisi è in questo senso una traduzione, uno sviluppo in
simboli, una rappresentazione presa da punti di vista successivi, da cui
si segnano altrettanto punti di contatto tra l’oggetto nuovo, che si è
incontrato, e altri che si crede già di conoscere»11 La metafisica ossia
la verità metafisica è per Bergson la scienza che pretende di fare a
meno dei simboli e allo stesso tempo denuncia il limite del linguaggio
e la sua impossibilità a comunicare l’indescrivibile.
«Vi è almeno una realtà che tutti noi cogliamo dall’interno – egli
scrive –, per intuizione, e non per semplice analisi: la nostra persona
nel suo scorrere attraverso il tempoi, il nostro io che dura»12.
Occorre sempre un “richiamo”, il rinvio ad un’esperienza. Certamente i concetti le sono indispensabili, come sono indispensabili alle
Ivi, p. 161.
Ivi, p. 151.
11 Ivi, p. 152.
12 Ivi.
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altre scienze ma la metafisica «non è propriamente se stessa se non
quando oltrepassa il concetto o, almeno, si libera dei concetti rigidi e
già dati per creare concetti molto diversi […] voglio dire rappresentazioni, agili, mobili, fluide quasi, sempre pronte a modellarsi sulle
forme fuggevoli dell’intuizione»13. Parliamo delle immagini che sono
meno simboliche dei concetti e che esprimono il movimento più
profondo della filosofia bergsoniana.
Il fatto che la giovane Hersch cominci a studiare le immagini nel
pensiero di Bergson significa per lei aprire nuovi orizzonti all’attività
filosofica nel senso di salvare l’intuizione dall’irrigidimento dei concetti e aprirsi a quella tensione incessante tra letteratura e filosofia che
tanta parte avrà nella sua storia personale e politica.
3. Ma cos’è propriamente un’immagine in filosofia?
A permettere al lettore di figurarsi (se représenter) o di vivere
un’idea che altrimenti sarebbe per lui solo una parola o una nozione
astratta ed estranea. Dunque a rendere concreto. Ora, come rendere
concreto ciò che è già concreto di per se stesso, ciò che è sempre presente, ciò che non è un’idea, ma una realtà che costituisce il fondo
stesso dell’io?14
L’immagine, quindi, serve a dare forma e corporeità all’idea e/o
all’intuizione del filosofo. L’immagine, come dire, è un dispositivo di
traduzione dall’astratto al concreto, dall’estraneo al proprio.
Il pensare per immagini seduce la giovane Hersch che puntualizza
e descrive così il metodo bergsoniano:
La comprensione che Bergson ottiene attraverso di esse non è una comprensione logica. In logica si capisce bene il ragionamento del pensatore […]
Bergson ci porta su un’altra strada. La difficoltà che egli incontra è di far concepire ciò che vuole. A questo scopo, moltiplica le immagini tratte dalla vita
quotidiana e dal mondo materiale, fa appello a tutta la nostra esperienza concreta, e traspone15.
Ivi, p. 158.
J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, cit., pp. 104-105.
15 Ivi, p. 134.
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L’ipotesi di un pensiero che si sviluppa in forma di immagini che
a loro volta producono concetti è ben lontana dalla facile e fuorviante dicotomia che mostri da un lato un pensiero per immagini,
visivo e mitizzante e dall’altro un pensiero razionale e scientista e di
questo la Hersch è pienamente consapevole quando legge l’opera di
Bergson registrandone il «pensare per immagini» e la sua costitutiva
ambiguità16.
Ascoltarsi. Da qui l’importanza nel Saggio, più che nelle altre opere, delle
immagini uditive. Ovviamente non si deve confrontare il numero delle immagini uditive al numero delle immagini visive […]. L’immagine della melodia, continuamente ripresa sembra essere la sorgente viva di questa filosofia17
Crea questa immagine che materializza la nozione di durata pura:
la melodia ha la funzione propedeutica di richiamo nel lettore dell’esperienza della durata pura.
A partire dalla melodia e dal suo ascolto, il lettore può a sua volta
fare esperienza della sua vita più profonda. L’immagine bergsoniana
nella ricostruzione della Hersch non si sostituisce per somiglianza alla
cosa da cogliere ma è un ponte che porta il lettore ad incamminarsi
sulla via della verità più profonda cioè ad intuire, ad ascoltare la propria durata, a sintonizzarsi con il proprio io profondo; non ci sono
parole per descrivere la durata pura, perché essa è proprio ciò che il
linguaggio distrugge, da qui il motivo del richiamo che sembra venire
da sé. Tuttavia – sostiene la Hersch18 – l’immagine della melodia suggerisce un atteggiamento passivo, evoca una sorta di abbandono al
silenzio e allo stesso tempo simbolizza un divenire continuo, una creazione incessantemente rinnovata. Entrambi, la melodia e la durata
pura, si vivono dall’interno, e Jeanne Hersch non si limita all’orecchio,
16 Cfr. J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino
1999. In una pagina leggiamo: «[…] malgrado l’assurdità delle dicotomie e l’inattendibilità di
ogni linea divisoria, di distinguere due tipi di categorie: le immagini immediatamente portatrici di sapere, quelle che lasciano che l’informazione incontri senza ostacoli la superficie delle
figure (forme spaziali e immagini verbali); e le immagini mediatamente ricche di pensiero,
quelle che necessitano di uno svolgimento interpretativo per esprimere tutta la loro profondità
poetica» (p. 272).
17 J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, cit., p. 105.
18 Ivi, p. 197.
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vuole anche vedere come dice di Bergson quando «i suoi occhi vedono più di quanto odano le sue orecchie»19.
Infatti, nonostante l’importanza delle immagini uditive, quelle
visive abbondano nell’opera bergsoniana e sono quelle più efficaci
nel senso che hanno una ricchezza di contenuto che manca a quelle
uditive. Il ricorso alle immagini per Bergson e per la Hersch è una
continua sfida al linguaggio perché si eviti il silenzio e l’astrazione del
concetto.
Prendiamo l’esempio dell’immagine dell’acqua.
Le sfumature e i riflessi evocano in modo del tutto personale la visione dell’acqua e l’opposizione tanto e l’opposizione tanto bergsoniana tra l’acqua fluida e la crosta indurita […]. L’acqua è per gli occhi ciò che vi è di più fluido, di
più cangiante, di più ricco di sfumature e riflessi. È senza limiti, senza forma. E
altre gocce d’acqua possono aggiungervisi indistintamente – vi si perdono. Gli
elementi estranei restano a galleggiare in superficie. L’immagine è adeguata da
tutti i punti di vista20.
In questo passo Jeanne Hersch ricostruisce il metodo della filosofia di Bergson che non descrive questi aspetti tutti in una volta ma li
trova man mano che sviluppa la sua idea. Qui l’immagine dell’acqua
è sempre debordante perché ha la consistenza ricca ed inesauribile
della realtà: l’immagine bergsoniana è sempre connessa all’esperienza, non è mai a se stante o separata da essa e pertanto è il segno più
evidente del modo di pensare del filosofo. L’immagine dell’acqua
esprime al massimo la tensione che la nostra Autrice coglie tra lo
sguardo e l’ascolto che è all’origine della filosofia di Bergson per il
ruolo che vi giocano le immagini in rapporto diretto con l’esperienza.
Con le immagini e per mezzo delle immagini è possibile risalire
all’intuizione originaria dell’Autore, è possibile cogliere il nucleo più
autentico del suo pensiero. Un’immagine vera, infatti, «ha ancora il
calore dell’anima, della concezione primaria nata dall’intero essere,
intelligenza, visione, sensibilità», quindi è una modalità non soltanto
cognitivo o intellettuale, ma coinvolge l’intero essere del filosofo e
tutte le sue facoltà.
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Ibidem.
Ivi, p. 109.
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Discendiamo allora all’interno di noi stessi: più profondo sarà il punto che
avremo toccato, più forte sarà la potenza che ci rinvierà in superficie. L’intuizione filosofica è questo contatto, la filosofia è questo slancio. Ricondotti al di fuori
da un impulso venuto dal fondo, raggiungeremo la scienza via via che il nostro
pensiero si dispiegherà diffondendosi21.
In altre parole, non è possibile ricostruire la mobilità del reale attraverso la fissità dei concetti e per questo le immagini, più che un surrogato del pensiero, ne costituiscono la materia viva, si offrono come
mezzo di presa diretta della realtà.
Interiormente, prima che le idee si trasformino in espressione, le
immagini sostituiscono in Bergson le parole astratte, vuote d’esperienza, e i concetti pronti. E certo le immagini sono più vicine alla realtà
da rappresentare di quanto lo siano i segni algebrici22.
In altre parole, le immagini in Bergson sono sempre al lavoro perché possiamo scomporle e ricomporle a seconda dell’uso che ne facciamo, un po’ come il gioco del mosaico praticato dai bambini.
4. Riflettendo sull’uso delle immagini nell’opera di Bergson, Jeanne Hersch traccia gradualmente la sua idea di filosofia come forma
simbolica o forma di vita, espungendone le abusate rappresentazioni
oggettivanti.
In altre parole, è necessario instaurare una relazione dinamica con
la tradizione passata, fare esperienza in prima persona di ciò viene
detto, sentirlo dentro di sé, «suscitare di nuovo quello stupore» che ha
originato la filosofia degli albori23.
Imparare dalle immagini significa fare esperienza dello stupore
ossia capire che le cose essenziali non possono comprendersi con la
sola ragione: lo stupore è sostare presso le cose, arrestarsi dinanzi
all’enigma, afferrare il senso di quelle domande radicali (radikales
Fragen) che non hanno risposta24.
H. Bergson, L’intuizione filosofica, in H. Bergson, Pensiero e movimento, cit., p. 115.
J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, cit., p. 136.
23 J. Hersch, La storia della filosofia come stupore, tr. it. a cura di A. Bramati, Bruno Mondadori, Milano 2002.
24 Cfr. J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce, cit., p. 128. La Hersch sollecitata dai due intervistatori ricorda volentieri i due corsi universitari dedicati, nel ’59 o nel
’60 l’uno a Camus e l’altro a una filosofa un po’ a parte: Simone Weil.
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Accanto allo stupore originario, Jeanne Hersch riporta alla luce l’esperienza della mimesis che ci consente di identificarci con il pensiero
dell’autore ossia mimandolo, vale a dire provare a pensare “soggettivamente” con l’autore medesimo.
Il lettore per mimare il filosofo deve cogliere tutto ciò che è soggettivo, tutto ciò che nella sua filosofia è espressione, sintomo, traccia
della soggettività e individualità del filosofo.
L’atto mimico è soprattutto un esercizio interiore che non ha nulla
a che vedere con la semplice imitazione o ripetizione25 e, nel mimo, si
condensa tutto il percorso filosofico della Hersch da Le immagini
all’Illusione della filosofia.
Cosa vuol dire mimare o rivivere?
Una profonda identificazione con l’autore. Solo a condizione di accettarlo
dapprima fondamentalmente si potrà ricreare il sistema, rifare la sua creazione.
Solo allora si può conoscerlo, parlarne con piena coscienza e, giustamente; perché basta tuffarsi in se stessi per provare la verità di ciò che se ne dice26.
Mimare per la Hersch vuol dire dunque ricreare il movimento del
pensiero del filosofo, ricostruire la sua idea guida, concentrarsi sul
meccanismo generativo del sistema. Quando c’è lo scacco di questa
operazione del mimare, «tutto ciò che dico di altri può essere messo in
dubbio»27. Nella figura del mimo, Jeanne Hersch distingue «tra l’atteggiamento del filosofo che cerca la soluzione di un problema e l’atteggiamento di chi studia una filosofia» che è poi il movimento doppio
dell’esperienza filosofica. Il senso dello studio della filosofia è «esistere pensando nella forma di una filosofia: mimare»28.
25 Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, vol.1, tr. it. e a cura di G. Vattimo, Bompiani,
Milano 1994, p. 147. Il filosofo tedesco, riflettendo sul senso ontologico della rappresentazione, scrive che: «Imitazione e rappresentazione non sono soltanto ripetizione e copia, ma conoscenza dell’essenza. In quanto non sono solo ripetizione, ma messa in luce della cosa, è implico in esse il riferimento a uno spettatore. Esse contengono un rimando essenziale a qualcuno
per il quale la rappresentazione è fatta».
26J. Hersch, L’Illusion philosophique, tr. it. di F. Pivano, L’illusione della filosofia, Einaudi, Torino 1942; prefazione di Nicola Abbagnano, p. 73.
27 Cfr. J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, op. cit.
28 L. Boella, Rendersi presenti o del combattimento amoroso tra vita e filosofia, Introduzione a J. Hersch, Rischiarare l’oscuro, cit.: «Il mimare, è una relazione che consiste nell’appropriarsi interiormente e nel ricreare il movimento di pensiero di un filosofo. Ha qualcosa a
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Aldo Maccariello
Tema questo dibattuto soprattutto nella prima parte dell’opera successiva che è L’illusione della filosofia29.
5. Il titolo dell’opera risultava indubbiamente fuorviante per l’epoca perché, agli occhi di molti professori e accademici parlare dell’illusione della filosofia significava dire che la filosofia era un’illusione o,
in altri termini, significava ribadire una volta per sempre che la filosofia rinunciava alla sua pretesa di capire o trasformare il mondo.
Anche l’Illusione della filosofia è un libro sulla natura della filoso30
fia che non può procedere senza un’illusione fondamentale che è
sempre un tendere all’evidenza scientifica anche se le è impossibile
raggiungerla. Anzi, la peculiarità più originale della filosofia, rispetto
alla scienza, è che essa è capace di dissolvere dal suo interno l’immagine o l’illusione che essa ha di se medesima, al fine di essere consapevole della fine della sua medesima illusione costitutiva.
Si ha decisione e libertà nella filosofia solo quando, per risolvere
un problema filosofico, si deve decidere dell’essere o del non essere
dell’oggetto da parte del soggetto o meglio, il tratto distintivo della
filosofia consiste, come abbiamo visto, nella sua duplicità: «C’è dunque in ogni problema filosofico – qualunque ne sia il contenuto e
chiunque sia a porselo – una duplicità: il suo senso reale è una decisione del soggetto e il suo senso esplicito è la decisione di un oggetto»31. C’è, in ogni problema filosofico, quindi, una duplicità che è l’esperienza del filosofo rispetto al problema filosofico e questa duplicità
che vedere con l’esecuzione di una composizione musicale da parte di uno strumentista, che
la ricrea, la rifà suonando il pianoforte o il violino e dandone la propria interpretazione»
(p. 17).
29 J. Hersch, L’Illusion philosophique, tr. it. di F. Pivano, L’illusione della filosofia, Einaudi, Torino 1942; prefazione di K. Jaspers, postfazione di J. Hersch, Bruno Mondadori, Milano
2005. Prenderemo in esame l’edizione del 1942.
30 Cfr. J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce, op. cit. Ad una precisa
domanda degli intervistatori se vi fosse un legame tra la sua opera prima su Bergson e L’illusione della filosofia, la Hersch così risponde: «In entrambi si tratta di cogliere ciò che il filosofo fa in profondità. In ogni grande filosofia – io credo tuttora – c’è un gesto filosofico fondamentale, nascosto sotto le operazioni intellettuali – che non può fare a meno di tali operazioni, ma è più importante di ciascuna di esse, e che occorre provare a mimare, per capire veramente il testo. E’ come un esercizio interiore. La filosofia consiste essenzialmente in esercizi
di libertà» (p. 68).
31 J. Hersch, L’illusione della filosofia, cit., p. 42.
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non può essere dimostrata attraverso un’evidenza logica (propria della
scienza) ma la si può provare attraverso l’evidenza delle cose viste e
vissute.
Questa duplicità della filosofia è un’esperienza vissuta: il divenire
«esistenza» del filosofo – che costituisce l’altra faccia del problema
filosofico – è quello che il filosofo vive mentre pensa veicolando una
molteplicità di direzioni possibili rispetto invece allo sguardo indagatore dello scienziato che si concentra esclusivamente intorno al suo
oggetto o dell’artista che bada esclusivamente alla sua opera.
La filosofia, da un lato, cerca di attribuirsi, emulando la scienza, un
fondamento oggettivo attraverso il metodo logico; dall’altro lato, invece, essa costringe il soggetto ad impegnarsi nella scelta di un punto di
vista o nell’adozione di una decisione. L’illusione è funzionale al
movimento doppio e indiretto compiuto dal filosofo. Sviluppando il
proprio processo di pensiero, il filosofo decide così della sua esistenza
e qui entra il gioco il lettore che a sua volta non cerca la «verità teorica» ma la «verità metafisica» cioè soggettiva.
Quello tra il filosofo e il lettore è un doppio legame, di andata e
ritorno perché il lettore per decifrare il sistema ossia tradurre la verità
teorica in verità soggettiva deve intraprendere a sua volta il processo
compiuto dal filosofo:
Comprendere veramente un filosofo, è riuscire a rifarlo (mimarlo)
interiormente mentre componeva la sua opera32.
In questo modo, come accade al filosofo, il lettore attualizza la propria libertà nel processo filosofico come se fosse suo e rivive la decisione esistenziale posta dal problema filosofico, divenendo egli stesso
«esistenza». Il mimo è l’atto in cui il filosofo ed il lettore escono dalla
loro solitudine scambiandosi esperienze e idealità.
La soluzione di un problema filosofico, quindi, chiama in causa
sempre il soggetto e la sua esistenza, la sua nascita e il suo risveglio.
La filosofia è esistenza, e quindi è ben lontana dall’evidenza della
scienza, dalla certezza della religione, dalla perfezione dell’arte33. Evi32
33
J. Hersch, L’illusione della filosofia, op. cit., p. 68.
Ivi, pp. 37-38.
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denza, certezza e perfezione non sono termini appropriati per impostare una qualsiasi ricerca filosofica poiché quest’ultima si appella alla
libertà del soggetto che la sottende e la motiva in ogni circostanza e in
ogni dove. Filosofare è dunque un atto di assoluta solitudine e allo
stesso tempo un momento aurorale, un inizio.
6. L’illusione non è un gioco, non è un errore, non è un errare, tanto
più quando essa si correla alla filosofia. L’illusione della filosofia è una
visione duplicata o meglio moltiplicata delle cose che cambiano posizione e mutano di senso.
La filosofia – scrive Jeanne Hersch – pretende un domandare senza
fine, un risalire alle fonti, un andare ai limiti estremi. Pretende di ricominciare tutto e tutto rimettere in questione, ed essere così la scienza
di ciò che i tedeschi chiamano radikales Fragen34.
Così la nostra Autrice apre il capitolo terzo della prima parte del
libro che ha per tema, appunto, l’illusione della filosofia. L’interrogazione su questioni radicali che concernono il senso stesso della vita
umana non può che presupporre una libera decisione del soggetto o, in
altri termini, non può che decidere dell’essere del soggetto e della sua
libertà. L’esperienza concreta e vissuta fa parte della filosofia e assume
la forma dell’esistenza. Che la vita faccia parte della filosofia e che
quindi la filosofia sia esistenza cioè vita incarnata è il filo conduttore
che lega L‘illusione della filosofia all’opera precedentemente illustrata
sulle immagini in Bergson. Facendo della vita la materia dell’esistenza e della filosofia la materia dell’illusione, Jeanne Hersch apre la filosofia ad una modalità di approccio squisitamente antimetafisica ed
antiscientista.
Per meglio esemplificare la rivisitazione che la Hersch compie
della dicotomia soggetto-oggetto35, riportiamo il brano in cui l’Autrice
si esercita in un’operazione fenomenologica:
Guardo una cascata. Ci sono parecchi modi di vederla. Può apparirmi come
una forza, esteriore a me ma volontaria e intenzionale come me, paragonabile a
una forza umana. Può apparirmi come uno spettacolo estetico che si contempla
senza interrogarlo, un insieme di colori, di movimenti, di fracasso, di freschezza
34
35
Ivi, p. 47.
Ivi, p. 33.
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che incanta i sensi. Può apparirmi come un simbolo di un mio pensiero, di un
mio desiderio, di un mio sogno. Può infine, prendendo ogni autonomia divenire
un riflesso della mia anima e una parte di me stesso, la passione o la disperazione che mi trascina. In tutti questi casi mi resta vicina e comprensibile, sia identificandosi con me stesso, sia diventando un essere, forse ostile, ma ostile a modo
mio, sia rimanendo semplicemente una fonte di godimento. Allora non esiste più
per me che sul piano pratico, psicologico o estetico, come avversario o come
simbolo sentimentale.
Ma può apparirmi anche in un altro modo. Guardandola cadere, la vedo
all’improvviso in se stessa, nuda, spogliata dai miei sentimenti, dalle mie intenzioni, dal mio godimento, e dai miei simboli. Perde allora perfino il suo nome.
Diventa prodigiosamente sconosciuta e incomprensibile. Non vuole, non sente,
non dispera. Cade. Non ha sensi. E se trascinasse via la passerella sulla quale io
mi trovassi, non avrebbe voluto, non sarebbe una collera di Dio. Una collera di
Dio, potrei immaginarla e, in qualche modo, comprenderla. È imparentata con
me e posso interiormente «rifarla». Al contrario, non ho alcun contatto con questa enorme differenza. Quella delle rocce che la circondano non mi avrebbe stupito, perché sono immobili, e l’immobilità è umanamente l’attitudine normale
dell’indifferenza. Ma ora che a causa della sua violenza e del suo fracasso l’indifferenza della cascata mi è apparsa nella sua impenetrabilità, quella di tutto il
paesaggio si impone. Vedo lo spessore compatto, opaco, della materia, nella
quale non può entrare il mio sguardo, alla quale nessuna interpretazione umana
può dare un senso, con la quale non posso né unirmi, né lottare. Ogni comunione sentimentale è morta. Il mondo che mi circonda non è un controsenso, ma
non posso esasperarmi contro di lui, - peggio ancora: non ha significato, vale a
dire che è assurdo cercagli un significato. Un abisso si è aperto tra la vita, vicina e comprensibile, e l’inaccessibile materia. Perché a questo punto cade il pregiudizio, che ci deriva dalla scienza, secondo il quale è la materia ad essere
comprensibile36.
Si ripropone con questo esempio l’alternativa radicale: essere soggetto o divenire interamente oggetto. Quindi «ci sono diversi modo di
vedere» una cascata, diverse immagini di essa si presentano alla mia
percezione: immagini dei miei sentimenti, dei miei pensieri, dei miei
sogni. La cascata può essere per me uno spettacolo, un insieme di colori, un simbolo del mio passato. O addirittura «un riflesso della mia
anima e una parte di me stesso». Ma in questo processo di assimilazione, rischio di perdere la cosa, la “cascata” che comincia a diventarmi sconosciuta, incomprensibile. Non ha più un nome per me. È una
36
Ivi, pp. 49-50.
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cosa estranea. Un mutamento brusco mi disorienta. Da cosa familiare
a cosa fredda nel suo spessore e nella sua densità, la cascata è materia, ora, incomprensibile che ignora ogni mia complicità. Mi prende un
senso di vertigine, mi sento sdoppiato perché la cascata ha prodotto in
me una scissione immedicabile. Vedo la profondità della natura riflessa in essa che non ha bisogno di un soggetto per esistere.
E tuttavia, pur dinanzi a questa classica dicotomia soggetto/oggetto, non si diventa oggetto che per un soggetto, e «il soggetto è dunque
attività totale, non significando affatto questo termine azione efficace,
ma essendo usato nel suo senso più formale, più vuoto che si oppone
polarmente la passività degli oggetti»37.
Il passaggio ci sembra cruciale perché qui si può visualizzare la
netta linea di demarcazione tra filosofia e scienza che è anche una
demarcazione di linguaggi: tra “un pensare per immagini” (della filosofia) e “un procedere per congetture e confutazioni” (della scienza);
la prima non può fare a meno della soggettività e della sua indivisibilità e impossibilità a limitare il suo mondo oggettivo, mentre la seconda ipostatizza l’oggettività e non comporta decisione o libertà giacché
i suoi problemi sono impersonali: contano solo l’intelligenza e il sapere; e ancora, per la prima la verità è soggettiva cioè si svincola dall’oggettività, mentre per la seconda, la verità è oggettiva. Tuttavia non
si può parlare di una presunta inferiorità della filosofia rispetto alle
proposizioni o agli enunciati della scienza, quanto piuttosto di una
vitale necessità della filosofia che è poi la sua essenza.
Libertà e verità dissolvono l’immagine che la filosofia ha di se
medesima ossia disfarsi delle illusioni, della false credenze. La pratica
filosofica è giro lungo o deviazione (détour) o ricoeurianamente via
lunga attraverso o intorno un oggetto concreto, finito e particolare e
quindi, essa è tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà.
Da Le immagini nell’opera di Henri Bergson (1931) all’Illusione
delle filosofia (1936), il percorso teoretico della giovane Hersch appare in controtendenza rispetto alle correnti filosofiche dominanti, in
specie l’esistenzialismo e il realismo, e condensa i risultati del suo processo di definizione della forma di filosofia. Lavorando sulla duplicità
della filosofia e sul confronto tra filosofia e scienza e filosofia e vita,
37
Ivi, p. 53.
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ella individua nelle immagini, attingendo soprattutto all’opera dei suoi
due grandi maestri Bergson e Jaspers, una modalità espressiva che
restituisce al pensiero un alone affettivo e gestuale, che riempia i concetti di percezioni, di palpabilità e di vita per meglio comprendere la
condizione dell’uomo nel mondo.
Ella ci fa sentire, come ha scritto di Bergson, «in questo stile dotato di chiarezza scientifica, l’impulso intuitivo: ha ancora il calore dell’anima, della concezione primaria nata dall’intero essere, intelligenza,
visione, sensibilità»38.
Traspare in questa concezione della filosofia come esercizio di
libertà l’insegnamento jaspersiano circa l’atteggiamento etico in cui
deve radicarsi ogni autentica attività filosofica che deve schiarire e portare alla luce, éclairer l’obscure39, il paradosso del nostro esistere.
J. Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, cit., pp. 109-110.
Cfr. J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce, cit.: «Mi chiedevo quale
fosse la sua legittimità (della filosofia). Se, come pensavo già a quell’epoca, il soggetto filosofico è la libertà, si rischia di trarne la conclusione che si può dire ciò che si vuole. Mi chiesi dunque quale fosse il rapporto tra la libertà e la ricerca della verità […]. La verità filosofica
riflette la natura della libertà, che a sua volta non può fare a meno dell’oggettività, ma che, per
essenza, è il suo opposto, dal momento che si svincola dall’oggettività» (pp. 65-66).
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