Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi

Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Autore: Marco Apolloni
«Nutre la mente solo ciò che la rallegra» (Sant'Agostino, Le Confessioni)
Collettivo Idra © 2013 - I diritti di questo libro appartengono al legittimo proprietario e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons.
Introduzione. Perché: Dottor Caos – 10 pillole contro la crisi?
1.1 Perché questo titolo
Perché un buon film dev'essere un pretesto per parlare anche di altro. Lo slogan implicito di questo
mio saggio potrebbe essere: grandi film per grandi temi. Siccome, però, non amo particolarmente
gli slogan e preferisco lo spirito argomentativo, è proprio argomentando e mescolando film
significativi con temi non da meno che è nato Dottor Caos – 10 pillole contro la crisi. Mi auguro di
aver shakerato bene cinema e filosofia ed essere riuscito a ricavarne un cocktail ubriacante, essendo
convinto che: una buona lettura faccia rima con una sana ubriacatura. In vino veritas dicevano gli
antichi, in cocktail veritas dico io.
Parlerò di cinema e anche di filosofia e dintorni. Voglio mettere le mani avanti – per prevenire
inopportune critiche: il presente saggio si distingue dal panorama della saggistica tradizionale,
poiché non intende occuparsi accademicamente né di cinema, di cui non ho le competenze, né di
filosofia, malgrado qui le competenze le abbia. Qualcosa di simile ha fatto il filosofo Umberto Curi,
che in più lavori si è occupato del rapporto fra cinema e filosofia 1; e anche il suo collega Simone
Regazzoni2. (Naturalmente il novero dei filosofi che si sono occupati di cinema non si esaurisce a
questi due, ma questi sono soltanto due fra i nomi più illustri, fermo restando di non voler fare torto
a nessuno.) Per non parlare delle brillanti riflessioni sull'immagine-movimento 3 e sull'immaginetempo4 del grande filosofo francese Gilles Deleuze, che al cinema ha dedicato una discreta porzione
della sua filosofia.
Insomma, la storia del legame tra cinema e filosofia è a doppio filo e coinvolge anche certa critica
cinematografica, che ricorre a una terminologia oltre che a una densità filosofica, penso soprattutto
al maestro Gianni Canova.
Come detto, chi si aspetta un saggio tradizionale è meglio che interrompa la lettura, qui e subito.
Siccome viviamo in un'era postmoderna (anche se ultimamente l'uso di questa locuzione sta
diventando fin troppo inflazionato) mi sono voluto conformare ad essa, ma non in senso negativo,
ossia di tacita accettazione o imposizione; piuttosto ho voluto trarre il meglio da questa nostra èra,
cogliendo quello che è secondo me un pregio non indifferente della postmodernità, ovvero la
capacità di spaziare da una materia all'altra, captando ciò che vi è d'interessante in ciascuna materia
e accantonando quel che è – sempre a mio avviso – poco interessante.
Ricapitolando, scrivere un saggio postmoderno credo e spero possa interessare il lettore, magari
1 Curi, U., Un filosofo al cinema, Milano, 2006.
2 Regazzoni, S., Harry Potter e la filosofia, Genova, 2008.
3 Deleuze, G., Cinema. Vol.1: L'immagine-movimento, Milano, 1993.
4 Deleuze, G., Cinema Vol.2: L'immagine-tempo, Milano, 2004.
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incuriosirlo quel tanto che serve per indirizzarlo ad altre ben più solide letture – con solide non
intendo pesanti, ma di un certo peso, il che è diverso. Se, al termine del viaggio tra queste pagine,
riuscirò effettivamente a suscitare il vostro interesse, allora vorrà dire che non avrò assolto al mio
compito. Del resto, il segreto dii buoni libri è instillare la voglia di leggerne altri...
Dopo avervi premesso che state per leggere un saggio postmoderno, ora è doveroso da parte mia
introdurvi il concetto di postmodernità. E lo faccio servendomi del grande sociologo Zygmunt
Bauman, che, da fine studioso dei cambiamenti intercorsi nella nostra società, ha coniato il termine
liquidità per riferirsi a tutte le dinamiche societarie.
1.2 Postmodernità... che vuol dire?
Tutto sembra si stia liquefacendo, al giorno d'oggi, aprendo scenari di «disagio della
postmodernità»5, che Freud – non avendo assistito alla genesi del termine postmoderno – si è
limitato a definire «disagio della civiltà». Fra le definizioni più calzanti date al termine
postmoderno ce n'è una in particolare che spicca sulle altre ed è:
[...] il postmoderno confessa già nell'atto dell'autonominazione il suo non poter fare a meno del moderno: se
non altro per negarlo, o per candidarsi alla sua successione. Fin dal nome, dice cioè il proprio volersi
costituire come lontananza o distacco da un paradigma socioculturale che non funziona più, ma che è ancora
lì, a portata d'occhio e di mano, e che ancora – inevitabilmente – lo (e ci) riguarda. 6
Perché fra le tante definizioni disponibili sull'argomento ho preferito questa di Canova, che è
oltretutto un non addetto ai lavori filosofici? La risposta è perché il cinema è la forma d'arte più
filosofica che ci sia – Deleuze docet. Il motivo risale a Platone che, in uno dei suoi miti, ci ha
parlato di un'umanità convinta che la propria immagine veritiera sia l'ombra riflessa sulla parete di
una caverna; un'umanità che non ha ancora compreso che vi è una fonte esterna a illuminare la
parete; una fonte di luce che sta alle loro spalle ed è pertanto invisibile ai loro occhi, almeno fino a
quando qualche coraggioso non si liberi dalle catene che lo tengono imprigionato nell'uniformità del
reale, e ci conduca a rimirare il Sole della verità, o bellezza. Entrambe queste parole si riferiscono
all'altissimo concetto di Bene supremo che Platone aveva in mente. Questi – parlandoci di ombre
riflesse sulla parete della caverna – è come se avesse preconizzato la prodigiosa invenzione umana
del cinema, ossia un'arte capace di catturare le suddette ombre e di proiettarle in un cinematografo,
ovvero uno strumento inconsueto che incarna la quintessenza di quella caverna ancestrale: il primo
cinematografo della storia umana, che, come tutte le storie, affonda le sue radici nel mito.
5 Bauman, Z., Il disagio della postmodernità, Milano, 2007.
6 Canova, G., L'alieno e il pipistrello, Milano, 2009, p. 5.
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In sintesi, Canova da fine studioso di cinema non per questo e anzi proprio per questo, vista la
filosoficità intrinseca della cosiddetta «settima arte», dev'essere ascoltato come voce autorevole
sulla questione filosofica che concerne il postmodernismo. Tant'è che, oltretutto, chi riflette di
cinema non può fare a meno di avvalersi di categorie appartenenti al parallelo universo filosofico.
Una categoria di queste è per l'appunto il postmoderno, entrata in scena dopo l'avvento del pensiero
decostruzionista del secolo scorso.
Il cinema è per sua stessa vocazione: un'arte liminale, che indaga cioè il limite invalicabile del
visibile e, da Platone in poi, conoscere per noi ha sempre voluto dire vedere, vederci più chiaro,
vedere quel di più che immancabilmente si sottrae alla nostra limitata vista. Siccome L'alieno e il
pipistrello di Canova è l'opera che meglio racchiude l'immagine della desertificazione del reale nel
cinema e dunque nella nostra irreale realtà 7, vi ho per ciò attinto per estrapolare il significato
profondo della nostra contemporaneità postmoderna.
1.3 I tratti salienti della postmodernità
Lo stesso Canova munito metaforicamente del rasoio di Ockham fende di netto lo scottante
argomento della postmodernità, riconoscendone quelli che sono i suoi sei tratti salienti: 1)
«ibridismo», 2) «frammentarietà», 3) «superficialità», 4) «euforia», 5) «omogeneizzazione dello
spazio», 6) «presentificazione del tempo»8. Ciò è tanto più vero se pensiamo: 1) al clima di
sincretismo culturale nel quale respiriamo; 2) alla frammentazione delle notizie che dà più fronti
sembrano investirci come un treno-in-corsa; 3) alla superficialità dei rapporti a due, la statistica sui
divorzi è inesorabile e ci mostra la costante crescita di questa piaga sociale; 4) all'euforico stato
d'animo che a tratti ci fa sentire onnipotenti e a tratti invece dei vermi striscianti; 5) alla
colonializzazione degli spazi virtuali, si pensi all'odierno impazzare della rete, dove tutto il mondo
diventa piccolo villaggio; 6) infine, all'eterno presente nel quale sembriamo immersi, incapaci come
siamo di aspirare a qualsivoglia utopico futuro né men che meno di ambire ai gloriosi fasti del
passato.
In ultima analisi, del fatto che viviamo in una «postmodernità» oppure in una «civiltà» disagiata
(comunque la si voglia chiamare), ce ne stiamo pian piano accorgendo un po' tutti. Se non faremo in
modo di cambiare rotta, non ci rimarrà che attendere l'inevitabile naufragio dell'umanità. Occorre
per ciò ricostruire una Nuova Arca della fratellanza universale, sulla scia di quella biblica di Noè,
affinché possiamo metterci in salvo dai pericoli che lo spirito nonsense di molte filosofie ci sta a
poco a poco inoculando come un veleno soporifero di cui non avvertiremo la pericolosità se non
7 Non più reale di un'ombra impressa su una parete e che è specchio del nostro inconscio archetipico per usare un
accostamento tanto caro a Jung.
8 Canova, G., L'alieno e il pipistrello, Milano, 2009, pp. 9-12.
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quando sarà ormai troppo tardi, ossia quando dal torpore del sonno scivoleremo inesorabilmente
nell'opacità della morte. La morte di cui sto parlando non è la fine biologica che spetta a ciascuno di
noi, bensì la fine della specie umana in quanto tale. Quando la Natura non più materna, ma
matrigna, ci presenterà il salato conto da pagare non saranno possibili sconti, si dovrà rendere
l'intero prezzo: l'estinzione dell'uomo per colpa dei tanti peccati originali da lui commessi, dagli
albori del genero umano fino a oggi. Un paradosso, se ci pensiamo bene, ma la vita c'insegna
quanto le verità paradossali siano talvolta le più inesorabili...
Urge un cambiamento, che non giunga dall'esterno, per intervento di un deus ex machina tanto caro
agli antichi, ma da noi stessi. Se esiste un Dio – e io lo credo, o meglio lo spero con tutto me stesso,
poiché credere è sperare – questo Dio infinitamente distante ci ha donato il libero arbitrio, ovvero
la facoltà di auto-salvarci. Tuttavia la nostra salvezza terrena – non discuto di quella ultraterrena per
cui vi è solo la modalità di salvezza propria della fede – dipenderà soltanto da noi e più
precisamente dal nostro comune agire, nonché comune sentire. Per ciò dobbiamo correggere i nostri
modi di agire-sentire del tutto sbagliati, e l'unico strumento che abbiamo per farlo è usare la nostra
intelligenza per un nobile fine: ricreare l'armonia perduta con la Natura, ritornare a renderla fiera ed
orgogliosa di noi suoi figli, i quali – concluso il tempo della ribellione – dovremo rituffarci nel suo
accogliente grembo materno.
C'è ancora tempo per una riconciliazione fra uomo e Natura, fra uomo e Dio, basta volerlo e come
c'insegna Bacone «volere è potere». Poiché la Natura è la maschera con la quale Dio si è celato ai
nostri occhi. È il suo modo per rimanerci vicino, pur nella sua incomparabile lontananza9...
9 Per la lontananza del Dio a cui mi riferisco rimando al prezioso saggio: Biondi, G., Basilide, Roma, 2005.
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