Cumerlato Vittorio INTRODUZIONE AL CORSO: TEOLOGIA DELLA SCIENZA L’anima: tra teologia e neuroscienze L’11 ottobre 2012 è iniziato l’Anno della fede. In occasione del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e, non di meno, in occasione del ventennale della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, papa Benedetto XVI ha ben ritenuto di porre al centro della riflessione cristiana il fondamento della nostra vita di credenti: la fede. Dopo l’enciclica sull’amore teologale – Deus Charitas est – e dopo quella sulla virtù della speranza – Spe salvi – era da aspettarsi la proposta di una riflessione ecclesiale sulla fede. Ma cosa significa credere, oggi? Non soltanto la domanda sul senso, sul valore, sui contenuti della fede; ma una più pertinente interrogazione sull’attualità della fede, ovvero sulle risposte concrete che la fede ancora regala al cuore degli uomini. Da sempre, nella storia della teologia, i credenti si sono imbattuti non soltanto con altre religioni, ma con modelli culturali differenti dal proprio, con svariati sistemi politicosociali, differenti valori, conoscenze, cercando di trovare risposte adeguate che potessero conciliare senza compromessi il proprio credo con quanti si mettevano in dialogo con loro. Gli esempi che potremmo portare sarebbero innumerevoli. Non è necessario enumerarli tutti. Basta richiamare all’attenzione la nostra vita, le necessità di ogni giorno, l’esperienza feriale dell’esigenza di fedeltà al Vangelo e alla Chiesa. Anche oggi, infatti, il credere è posto in dialogo. Anzi, oserei dire, molto più oggi che un tempo. Da almeno quattro secoli, infatti, un nuovo interlocutore è sputato improvvisamente sul sagrato della Chiesa, a dialogare non solo con i preti – cosa che forse metterebbe già in imbarazzo molti – ma addirittura con tutta la tradizione della fede – la sua ontologia, i suoi fondamenti epistemici, la sua morale – mettendola in discussione e a volte denigrandola. Volto oscuro, quasi magico, alle prime luci dalla sua comparsa; poi decisamente più fermo, deciso, fino all’arroganza, una volta conquistato l’uditorio con le sue indiscutibili ragioni; infine, direi oggi addirittura alternativo alla fede: la scienza1. Nonostante i numerosi sforzi della Chiesa degli ultimi tempi – ricordiamo tutti la richiesta di perdono di Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000; prima di questa, è degna di nota l’enciclica Fides et ratio la quale, nonostante non intendesse proprio il tema del dialogo tra scienza e fede, potrebbe essere letta anche in questa prospettiva – nell’opinione comune della gente la mente del credente e quella dello scienziato rimangono ancora separate: due compartimenti stagni, metodologicamente differenti, unificati al massimo dalla coscienza di chi, nonostante tutto, vuole ancora credere. La fede, tuttavia, non può essere soltanto volontà, ma necessita di ragionevolezza e fondamento. Oggi, invece, sembra che sia l’atto di fede soggettivo, non fondate argomentazioni oggettive, il collante tra il cuore del credente e il rigore dello scienziato. Vuoi perché la fede è inspiegabile – come dicono i più, nonostante il grande Tommaso, esempio di connubio tra razionalità e credenza, ritenesse opportuno credere proprio in virtù della sua ragionevolezza; vuoi perché, qualora la scienza riuscisse a spiegare il tutto, non riuscirebbe comunque a saziare la sete di senso, a dare un perché alla morte e alla sofferenza – ecco che nella vita dei più questi secolari contendenti sfilano in due colori concorrenziali (quello della vita concreta e quello della speranza escatologica) a tempi alterni, sul palco della vita. Uno stesso io, alternativamente credente e scettico, affidato al divino e all’umano, prudentemente deferente al Dio del mistero quanto a pietà e alla ‘divina’ scienza quanto a verità. Non è possibile un’altra soluzione? Non è possibile essere credenti autentici, curiosi di sapere come funziona il mondo, senza il timore di essere chiamati bugiardi per via delle nostre risposte confessionali e previe, perché in realtà il nostro Dio più che una risposta sicura è una domanda; o perché la fede non tarpa 1 7 Cf. P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza Editori, Bari, 2011 . 1 le ali ma vi soffia sotto, come vento di portanza? Perché non avere il coraggio di predicare una fede ragionevole non solo per la sua logica interna – se solo così fosse, potrebbe essere ragionevole anche una folle ideologia – ma soprattutto perché condivide con la ragione sperimentale la ricerca della verità? Ritengo che l’anno della fede ci spinga a questo. Oserei dire, soprattutto a questo. Di quale verità si tratta? È una realtà posta fuori di noi, di cui diveniamo consapevoli – la verità oggetto; o è strutturalmente parte del nostro pensiero, racchiusa nelle forme logiche della nostra mente; oppure, addirittura, nel libero e divertito capriccio del singolo che pensa e decide? In altri termini, verità è l’io che pensa, o il pensiero pensato con rigore? O, meglio, si è veri solo quando si pensa cose vere? Come prima esperienza di riflessione tra scienza e fede, ho scelto il tema nodoso del rapporto tra mente e corpo oppure, come vuole la tradizione, tra anima e corpo. Le due cose sono differenti, è chiaro, ma condividono numerosi aspetti2. L’anima fa problema L’anima fa problema, realmente. Soprattutto oggi, in un contesto contraddistinto per un verso da un radicale materialismo3; per un altro verso, uno spiritualismo di contrappunto, che oscilla tra posizioni idealistiche ed epigoni nichilistici4. Vuoi perché la nozione tradizionale di anima è stata messa in crisi, come afferma N. Wiener, ideatore e fondatore della cibernetica5; vuoi perché, identificata con la facoltà razionale dell’uomo soltanto, essa si riduce ad una pura funzione ancora parzialmente incognita6, terra da esplorare e promessa di innumerevoli sorprese. Se non altro, l’anima fa problema perché la sua definizione rimane del tutto sfuggevole, nonostante sia esperienza comune la percezione di un io/coscienza al contempo legato al corpo, ma eccedente alla limitazione fisica; ubicato ed oggettivabile concretamente – io come 2 In questo contributo, lascerò alcune suggestioni in merito alla relazione tra mente e corpo, attingendo alla storia della filosofia; alla tradizione biblico-patristica, evidenziando i punti di continuità con la cultura profana e suggellando il percorso con le risposte del magistero; ai fondamentali capisaldi delle neuroscienze e, infine, alla proposta di quella che è comunemente chiamata “la soluzione duale” della tradizione aristotelico/tomista e la nuova teoria informazionale che sta riscuotendo nell’ambito nelle scienze matematiche e fisiche innumerevoli consensi. La pista che seguirò sarà quella tracciata dal prof. Gianfranco Basti, ordinario di Filosofia della Scienza alla PUL, dei cui scritti mi avvalgo sia per elaborare il corso di “Teologia e scienza – L’anima: tra teologia e neuroscienze”, sia per esporre in maniera divulgativa alcune riflessioni in questo articolo. Cf. Basti G., La relazione mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Roma 1991. Numerosi altri suoi contributi saranno segnalati in seguito. Inoltre, tra gli altri testi consultati, voglio richiamare l’attenzione su: D’Onghia N., Il concetto di anima tra neuroscienze e teologia, PUL, Roma 2011; Galimberti U., Equivoci sull’anima, Feltrinelli, Milano 20054; Ravasi G., Breve storia dell’anima, Mondadori, Milano 2007; Rigobello A., L’immortalità dell’anima, La Scuola, Brescia 1987; Terrin A. N., Religione e neuroscienze. Una sfida per l’antropologia culturale, Morcelliana, Brescia 2004; Vaccaro A., Perché rinunciare all’anima? La questione dell’anima nella filosofia della mente e nella teologia, EDB, Bologna 2002. Per lo svolgimento del corso, gli studenti saranno anche accompagnati dalla presentazione di slides del docente. 3 Basta considerare il riduzionismo epistemologico del funzionalismo che considera il rapporto mente/corpo alla stregua della relazione software/hardware. La mente, in questo caso, è l’equivalente di un software implementato in un hardware, ovvero una serie algoritmica di calcoli; oppure il riduzionismo delle scienze cognitive, forti della collaborazione tra psicologia, neuroscienze e epistemologia/ontologia moniste, che considerano il mentale come emergenza dal biologico. 4 Anche di questo, purtroppo, siamo testimoni nell’osservare come l’interesse per l’occulto dilaghi nell’era di internet! 5 “Certo è che non è il caso di dire che l’uomo è un animale provvisto di anima. Sfortunatamente l’esistenza dell’anima, qualunque cosa si voglia indicare con questo termine, non è accessibile ai metodi scientifici del comportamentismo […] e sebbene la Chiesa ci assicuri che gli uomini hanno un’anima e i cani no, una istituzione egualmente autorevole conosciuta come buddismo professa una opinione diversa”, in: N. Wiener, Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Boringhieri, Torino 1966, 16. 6 Emblematica è l’espressione di M. Minsky: “Intelligenza è il nome che diamo a tutti quei processi che ancora non comprendiamo […]. Il concetto di intelligenza è come il trucco di un prestigiatore. È come il concetto di ‘regioni inesplorate dell’Africa’: scompare non appena scopriamo che cosa essa è”, in: M. Minsky, La società della mente, Adelphi, Milano 1989., 135. 2 soggetto/mente, ma proiettato oltre il tempo7 e lo spazio. Ed è proprio per questa sua caratteristica di essere non-corpo (cioè non-limite, non-oggettivabile), che l’anima è per lo più relegata all’indefinibile, al fascino di una misteriosa vacuità. C’è chi dice, allora, che l’anima è il proprio io, semplicemente – il principio di identificazione, peculiarità di cui ognuno è avaro8; altri, invece, riserva all’anima gli spazi di ciò che c’è di paradossalmente insondabile, ma certo; c’è chi, infine, definisce l’anima in relazione alle sue funzioni logiche e computazionali, soltanto. Opinione, questa, di buona parte della posizione scientifica contemporanea. L’anima, dunque, fa ancora problema. Nell’Odissea Omero, descrivendo l’incontro tra Odisseo e la madre, racchiude quanto detto nell’incertezza di un abbraccio strappato nella penombra, tentativo di un incontro nostalgico tra quanto rimane di due persone, private del proprio corpo. “Così parlava: e io volevo – e in cuore l’andavo agitando – stringere l’anima della madre mia morta. E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava a abbracciarla; tre volte dalle mie mani, all’ombra simile o al sogno, volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, e a lei rivolto parole fugaci dicevo: Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell’Ade, buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto?”9. Di certo, tutto ciò non basta ai giorni nostri. La poesia, infatti, è poesia: non ragiona! Non soddisfa più, quindi, oggigiorno una … definizione per indefinitezza! Anche per noi credenti, la certezza di una vita immortale non alternativa al corpo ma immanente ad esso deve essere espressa con proposte più rigorose. O l’anima, allora, è da considerarsi solamente come emergenza dell’evoluzione biologica – puro dato oggettivo della capacità della natura di creare forme sempre più complesse di codici informazionali autoorganizzanti10; oppure l’anima deve essere presa in considerazione come lo specifico dell'uomo nei termini di essenza – in accordo con la tradizionale posizione del magistero, in cui possano essere considerati contemporaneamente sia la relazione dell’anima individuale con il proprio corpo nei termini di causalità formale; sia lo spessore ontologico del concetto di anima relativo alla possibilità della sua sussistenza oltre la morte – cioè al di là del corpo ma in funzione dello stesso, ovvero come forma sostanziale o, più recentemente, come codice informazionale. In questo caso, la vita non è solamente una “mostruosa 7 Nel testo curato da: P. Davies – Gregersen – Niels Henrik, Information and the Nature of Reality, il teologo Arthur Peacocke, sostenendo un modello di immanentismo per spiegare la relazione tra Dio e l’universo, usa la metafora della relazione mente corpo per esprimere il tipo di rapporto tra una entità spirituale e una materiale: ”Yet ‘we’ as thinking, conscious persons appear to transcend our bodies while nevertheless being immanent in them. This ‘psychosomatic’, unified understanding of human personhood reinforces the use of a panentheistic model for God’s relation to the world. For, according to that model, God is internally present to all of its entities, structures, and processes in a way that can be regarded as analogous to the way we as persons are present and act in our bodies. This model, in the light of current concepts of the person as a psychosomatic unity, is then an apt way of modelling God’s personal agency in the world” (Page 263 – Location 4742-4746). 8 In un certo senso, è la posizione della fenomenologia del ‘900. Per approfondimenti, cf. Ales-Bello – Manganaro, E la coscienza, op. cit. 9 Omero, Odissea, XI, 200-210. 10 Il chimico inglese Peter Atkins, profondamente persuaso dell’impossibilità di una finalizzazione antropica della vita, afferma: “Noi siamo i figli del caos e la struttura profonda di una trasformazione è costituita dal decadimento. Alle radici vi è solamente degrado e l’inarrestabile ondata del caos. Non vi è più un fine; tutto ciò che rimane è la direzione. Questa è la desolazione che dobbiamo accettare se guardiamo attentamente e con imparzialità nel cuore dell’Universo”, in: P. Davies, Uno strano silenzio. Siamo soli nell'universo? (Italian Edition – Location 4021). Della stessa posizione è anche Jacques Monod, Nobel francese per la biologia, in: Id., Location 625. È di questa opinione anche S. Hawking. Cf. Id., Dal big-bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Edizione digitale 2011. 3 coincidenza che si è verificata soltanto sul nostro pianeta”, ma – per dirla con le parole stesse di Paul Davies – un “imperativo cosmico”11, informazionalmente creativo ed ontologicamente sorretto da una alterità infinita che regge il tempo, perché è fuori di esso. Sarebbe questo, in termini non confessionali, il Dio cristiano, creatore e reggitore dell’universo. La credenza comune di una ulteriorità al corpo è legata in particolare per lo meno a due aspetti della nostra vita, tra loro intimamente connessi: - il primo è l’esperienza comune della capacità dell’uomo di staccarsi dalle proprie esperienze sensibili e di elaborare concetti astratti12; - il secondo è la conseguente capacità dell’uomo di immaginare, tendere e sperare ad una vita autonoma indipendente dal corpo, separata, relativa soltanto alla propria identità astratta (o coscienza di sé), dopo che il corpo avrà fatto il suo corso terreno13. Il primo aspetto, quello noetico, diventa il fondamento della credenza religiosa; questa, poi, è a sua volta epifania della struttura cognitiva dell’uomo che, attraverso i sensi, conosce ed elabora forme universali. Anche queste due considerazioni, tuttavia, non reggono alla critica della ragione laica contemporanea. Sia la motivazione cognitiva che quella religiosa, infatti, sembrano non reggere all’evidenza neurale che ritiene l’anima/mente una facoltà computazionale, funzionale all’attività neurale. “Quando si potrà conoscere il funzionamento di tutti e singoli i neuroni” – potrebbe dire un neuro-scienziato onesto – “non avremo più bisogno si scomodare la coscienza per parlare di soggettività”. Ad entrambe queste possibilità, infatti, risponde in maniera icastica P. Churchland: “Un’ipotesi che gode tutt’oggi di vasta accettazione – recita l’Autore in Il motore della ragione, sede dell’anima – è l’idea che l’attività cognitiva umana risieda in una sostanza immateriale: l’anima o la mente. Si sostiene che questa supposta sostanza non-fisica sia la sola capace di consapevolezza e di giudizio razionale e morale. E si sostiene comunemente che essa sopravvive alla morte del corpo fisico per ricevere poi una qualche forma di premio o di castigo per il suo comportamento terreno. Risulterà chiaro dal seguito di questo libro che è ben difficile far quadrare questa ipotesi così familiare con la teoria dei processi cognitivi che si va delineando e con i risultati sperimentali delle diverse neuroscienze. La dottrina di un’anima immortale sembra, per dirla francamente, solo un altro mito, falso non solo marginalmente, ma nel suo nocciolo”14. Anima: una stratificazione di significati Anima: si tratta di una stratificazione di significati che fa della parola un concetto talmente equivoco da renderlo solidale con i più svariati sistemi di pensiero. Così, si è potuto passare dall’anima forma corporis della filosofia tomista alla res cogitans cartesiana, e concludere con Nietzsche il quale considera l’anima come l’indizio di un “sistema di giudizi di valore e di affetti di valore”15. Senza entrare in 11 Cf. Id., Uno strano silenzio. Siamo soli nell'universo? (Italian Edition – Location 648-649). Per esempio, gli universali della filosofia medievale. Da questa esperienza, ne verrebbe per alcuni che l’anima è una sostanza immateriale separata, responsabile di tutte le facoltà cognitive e volitive e, quindi, sede di tutti i processi logici. I concetti universali, in questo caso, sarebbero altrettanti enti a sé, ontologicamente sussistenti e idealmente presenti alla mente che li scopre. 13 In questo caso, l’anima è relegata alla credenza religiosa di una identità spirituale racchiusa nel corpo temporaneamente, ma destinata a ritornare alla sua dimora spirituale una volta che sarà liberata dai suoi legami sensibili. 14 P. Churchland, Il motore della ragione, la sede dell’anima. Viaggio attraverso il cervello umano, Il Saggiatore, Milano 1998, 30. 15 F. Nietzsche, Frammenti postumi maggio-luglio 1885, 35 (6). 12 4 merito alla distinzione tra anima e mente tipica della filosofia moderna16, mi soffermerò su alcuni esempi della diversificazione del concetto di anima in alcuni tratti della storia della filosofia e della tradizione cristiana, senza alcuna pretesa di esaustività. Lo scopo del mio contributo, infatti, è finalizzato a mettere a fuoco l’urgenza ed attualità dell’argomento e di presentare alcune linee guida di un eventuale percorso. ***** Platone: con lui nasce il materialismo – contrariamente a quanto si pensa17. Con Platone, infatti, nasce un concetto univoco di anima contro cui si alleeranno o si opporranno tutte le posizioni filosofiche successive. Egli risolve il problema epistemologico dell’unificazione della molteplicità del mondo sensibile attraverso gli universali, intesi non solo in senso logico ma ontologico, svuotando così il divenire dello spessore metafisico. L’essere, infatti, non diviene; per l’appunto, è. Per lui è la materia inganno, fallace appannaggio della verità racchiusa nella forma ideale. Parlando dell’anima, egli afferma che: “Essa disprezza il corpo più di ogni altra cosa, ne rifugge, cerca di essere sola con se stessa; pertanto dovrà evitare di abbandonarsi al mondo corporeo, […] e sfuggire al fallace gioco d’ombre del divenire”18. Da Platone in poi, l’anima passa dalla regione affascinante dell’ambivalenza – pura espressione di vitalità, soffio polimorfo di ebbrezza19; vita vissuta, fortunosa sopravvivenza, godimento dell’immanenza – alla regione piana dell’univocità. L’anima, così, diventa l’essenza di ogni cosa, quanto all’essere; la sua verità, quanto all’episteme20. L’anima – inequivocabile elemento di discrezione – fissa così i confini dell’Occidente: è astrazione, prerogativa dell’anima razionale; è linguaggio che si formalizza gradualmente a partire dall’espressione figurale fino a quella numerale/simbolica21; è, soprattutto, verità, ovvero principio intellegibile di unità nella molteplicità del mondo sensibile, raggiunta non tramite un processo di astrazione dal sensibile, ma per via di raccoglimento interiore. “Non ascoltando me (il corpo) – affermava Eraclito – ma 16 La distinzione tra anima e mente, infatti, è tipica della filosofia moderna (dall’empirismo in poi), ovvero dal momento in cui l’anima – entità spirituale a cui appartenevano facoltà particolari – è stata ridotta a funzione del cervello. Ecco che la mente ha sostituito l’anima come una funzione/facoltà sostituisce la sua entità corrispondente. Chiaramente, vengono in questo caso tralasciate tutte le sfumature spiritualistiche che il termine anima ha assunto soprattutto nella cultura religiosa e devozionale. 17 Cf. Basti, “Dall’informazione allo spirito”, op. cit. 18 Platone, Fedone, 83 A. 19 Concetti che tutto sommato sarebbero più concordi con il primitivo contesto biblico, prima della rivisitazione ellenistica avviatasi a partire dal III sec. A.C. 20 Nonostante ciò, l’anima, dall’univocità imposta dal dualismo platonico – cioè dallo sfaldamento della vita nelle categorie epistemiche di vero e falso, irremovibilmente eterno ed effimero – rimane equivoca (cf. Cf. Galimberti, op. cit., 11s.). In primo luogo per la innegabile connessione tra vita e morte; o perché, nonostante la verità non ammetta ombre e cerchi di conquistare il podio dell’assolutezza, la vita è in genere più accarezzata dal fascino dell’incertezza e del compromesso che dalle granitiche ragioni di principio. Galimberti afferma: “Probabilmente l’esperienza della morte ha generato la persuasione che nel tempo e nel mondo visibile non c’è salvezza né verità […]. Nel trascendere, nell’andare oltre, è rintracciabile l’essenza dell’uomo che non ha mai smesso di inventare l’eternità e temporalità del tutto diverse da quelle scandite dal ciclo della natura abitata dall’animale che non sa della morte e perciò non ha anima” (Id., 17. ). Ecco che l’anima diventa come un dogma di una vita imperitura che sfida l’evidenza della morte e del disfacimento. In secondo luogo, per il diuturno conflitto tra vero e falso – triste risvolto epistemico del dualismo ontologico, come se qualcosa potesse essere in più o in meno; e, quindi, una conoscenza essere più vera o meno vera e non, invece, più o meno adeguata all’oggetto. In questo caso, l’anima si sposta sul versante noetico e diventa la sede della verità. Lo stesso Autore afferma: “È l’anima razionale che preleva dal mondo poetico la nozione di verità, da quello religioso la nozione di memoria, dal contesto politico la nozione di parola a tutti comune, e da quello retorico e sofistico l’autonomia del linguaggio dalle cose visibili in natura. Trasportate sul registro del Logos, queste parole disegnano quella geografia che noi oggi chiamiamo Occidente” (Id., 60-61. ). 21 All’ingresso dell’Accademia di Platone, vi era scritta la famosa frase (che peraltro irritava Aristotele): Non si entra qui se non si è geometri. Anche Agostino, chiaramente illuminato da motivi platonici, afferma: “Nessuno che prima non avvia studiato a fondo la matematica può giungere alle cose umane e divine”, citato in: Youcat, Città Nuova, Roma 2011, 26. 5 il Logos, è saggio riconoscere che tutto è uno”22. Non nella considerazione della molteplicità del mondo sensibile, ma attraverso il riconoscimento dell’unità del principio logico, l’anima contempla la verità. Ed è per questo che è sempre bella: perché paradossalmente poco vera23! Con Aristotele, per un periodo discepolo di Platone, in seguito a sua volta fondatore di una scuola di pensiero, la prospettiva cambia radicalmente. Per lui l’anima è sì principio di intellegibilità di un ente (la sua forma), ma non esiste se non nell’ente stesso e, di conseguenza, nella mente di chi la apprende. La sostanza, infatti, prima tra le categorie aristoteliche, può essere intesa sia come sostanza prima (ossia l’ente concreto, composto di materia e forma); sia come sostanza seconda (ovvero l’essenza, cioè la forma presente nei molti, astratta dall’intelletto)24. Non esiste per Aristotele, quindi, una forma pura intesa come entità separata, epistemologicamente sciolta dalla relazione con una materia. L’anima, perciò è entelécheia, perfezione, principio intellegibile di in-formazione. Essa è “atto perfetto primo di un corpo naturale che ha vita in potenza”25; non realtà a sé rispetto al mondo sensibile, causa esemplare di innumerevoli ed imperfette copie d’autore. L’anima, così, svolge una funzione formale: è il compimento – sia come fine che come mezzo26 – di ciò che un ente è. ***** Cambiamo ambiente, cambiamo lingua. Dalle coste dello Ionio passiamo al deserto, luogo in cui il vento radente il suolo è come il soffio della vita che ritma il respiro solitario del nomade, o dell’esule. I libri della Scrittura ci portano in un contesto culturale completamente diverso. Senza eccessive elaborazioni speculative, la testimonianza biblica offre una notevolissima varietà di possibili significati del concetto di anima nelle sue varianti testuali (nefeš in ebraico, oppure psyché nella traduzione greca27 dei LXX), accomunati dal fatto di venir radicalmente esclusa qualsiasi interpretazione dualistica del rapporto corpo/spirito. Anima, infatti, è per la Scrittura il principio vitale dell’uomo – soffio, gola, respiro; nonché la forza che lo anima e che lo abbandona nel momento della morte. Lontano dalla sensibilità dualistica della cultura ellenica, il concetto di anima nella Bibbia intende tutto l’uomo, considerato sotto il suo aspetto di fragilità e leggerezza28. In particolare, nei testi neotestamentari c’è una pericope emblematica in merito al problema della definizione di anima, nella quale potrebbe essere facile scivolare in una interpretazione di sapore dualistico/platonico, del tutto difforme dal contesto semitico originario. Nel vangelo secondo Matteo leggiamo: “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28). 22 Eraclito, DK, fr. B 50. “Liberati dalla follia del corpo […] – afferma Platone – ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo […] tutto ciò che è puro: questo io penso è la verità […]. L’anima è infatti incatenata e legata ai lacci del corpo, costretta a indagare la verità attraverso questo, come attraverso un carcere, e non da se medesima […] ed è avviluppata in una totale ignoranza”, in: Platone, Fedone, 67. 82. 24 L’essenza non è solo, per Aristotele, presente nei molti. Può anche essere una speciale, ovvero del singolo ente. In seguito vedremo come la sostanza può essere intesa anche come sostanza terza. 25 Aristotele, De anima, B 1, 412 a. 26 Cf. Aristotele, Fisica II, 2, 194.27-29. 27 “La parola nefeš […] fu erroneamente tradotta dal LXX con psyché, tanto che poteva sorgere la falsa impressione che questa parola indicasse la stessa cosa che la parola italiana ‘anima’, la quale fa sottintendere il dualismo greco”, in: Fiorenza – Metz, “L’uomo come unità di corpo e di anima”, 258-259. Citato in: Vaccaro, op. cit., 75. 28 Il Mork afferma: “Dire che il nefeš è la persona non è dire che l’anima è persona, perché il nefeš include e suppone il basar. Gli antichi ebrei non potevano neppure concepire l’uno senza l’altro. Non esiste per loro la dicotomia greca di anima e corpo, come due sostanze che si oppongono, ma esiste una unità, l’uomo che è basar per un aspetto e nefeš per un altro”, in: W. Mork, Linee di antropologia biblica. Esperienze, Fossano 1971, 61. Citato in: Vaccaro, op. cit., 70. 23 6 Non c’è alcun richiamo alla concezione platonica, nonostante l’affinità dei termini. Schmidt, nel suo commentario al vangelo di Mattero, ritiene che “qui Gesù non intende distinguere il corpo con l’anima come le due parti sostanziali dell’uomo […], non offre una esaltazione della superiorità dell’anima immortale”29, ma mette a punto la distinzione biblica tra un’esistenza intra-mondana ed una extramondana; tra una vita puramente fisica e una vita vera, piena nel progetto di Dio. Psyché, quindi, assume un significato di vita: vita presso Dio, messa a confronto con la vita incerta e caduca dell’uomo sulla terra. La testimonianza della Scrittura non basta a risolvere una volta per tutte il problema teologico ed antropologico. Per problema teologico della definizione del concetto di anima, infatti, intendo la faticosa traduzione sistematica dell’esperienza di fede, raccontata nella Scrittura, in contesti culturali e con categorie filosofiche differenti dalla matrice originaria. Come afferma Andrea Vaccaro, “Cristo e il cristianesimo non [hanno] insegnato una antropologia, ma in una antropologia”30. In ragione di ciò, il compito della teologia è quello di elaborare dalle teologie e dalla antropologia biblica un discorso su Dio e sull’uomo che possa essere compatibile con ogni espressione culturale, ovvero che si possa esprimere attraverso forme culturali/linguistiche differenti la medesima particolare esperienza di fede. Ma come si fa a trasmettere un contenuto senza al contempo usarne la forma? Due, quindi, i problemi della teologia: - in primo luogo, la necessità di passare da un contenuto codificato in una cultura A in una cultura B, utilizzando codici differenti, senza alterarne il significato; - in secondo luogo, la necessità di risolvere la nodosa questione sulla relazione tra contenuto e forma espressiva, ovvero trovare la garanzia del fatto che ciò che si intende per contenuto in una forma linguistica non debba includere necessariamente anche quella particolare espressione linguistico/culturale. È stato ed è ancora questo il compito della teologia31. Su questo problema, voglio soffermarmi in maniera esemplare soltanto su tre tra le innumerevoli testimonianze della tradizione ecclesiale: una citazione di Tertulliano e due affermazioni magisteriali (il concilio di Vienne e quello Lateranense), anticipate e fondate sulla definizione di anima di Tommaso d’Aquino. Tertulliano (160-220)32, nel De anima afferma con audacia: “Definimus animam Dei flatunatam, immortalem, corporalem, effigiatam, substantia semplice, de suo sapientem, varie procedentem, liberam arbitrii, accidenti obnoxiam, per ingenia mutabilem, rationalem, dominatricem, ex una redundantem […]. Anima in utero seminata pariter cum carne, pariter cum ipsa sortitur et sexum”33. 29 J. Schmidt, L’evangelo secondo Matteo, Morcelliana, Brescia 1965, 1965, 242-243. Vaccaro, op. cit., 75. 31 Proprio in questo ambito, già dai primi secoli della Chiesa, a motivo del diuturno confronto tra la tradizione biblica e le filosofie pagane (in particolare, la corrente neoplatonica), risultò chiaro che: se psyché per la cultura ellenica è congiunta accidentalmente al corpo, ciò non vale per il messaggio cristiano che crede nell’unità dell’uomo e nella risurrezione della carne; se psyché preesiste al corpo secondo la tradizione orfico-platonica, ciò non vale per la tradizione cristiana che crede in una animazione individuale ed immediata; se psyché può intendersi in maniera ultrapersonale (sia per la tradizione platonica, che credeva nel passaggio dell’anima in diversi corpi; sia per alcuni aspetti della tradizione aristotelica, in merito al fatto che Aristotele riteneva che l’intelletto agente non fosse da considerarsi come facoltà personale ma universale, di cui i singoli uomini partecipano), nel messaggio cristiano l’anima dice tutto l’individuo, considerato sotto il profilo della identità spirituale ed immortale; se psyché per il pensiero greco è immortale e generalmente tripartita (vegetativa, sensitiva, razionale), per il pensiero cristiano essa è sì immortale, ma specificamente razionale, ovvero soggetto della facoltà volitiva e noetica (di qui, l’insidiosa equivalenza mente/anima); se, infine, psyché è per l’ontologia platonica è sostanza separata, per il pensiero cristiano non è pensabile un’anima senza un corpo, come neppure un corpo non animato. 32 Di lui è la celebre espressione cristologica: “Caro cardo salutis” (De resurrectione mortuorum VIII, 6), espressione che tanto ha da dire sul piano cristologico, ma soprattutto sul piano antropologico. 33 Id., De anima II, 22.27. 30 7 La definizione di anima del padre latino desta molti interrogativi. Non è mio interesse farne una esegesi, ma è evidente che l’impostazione dualistica del neoplatonismo risulta del tutto assente34. Ma è anche nelle testimonianze più tardive, nonostante le notevoli influenze neoplatoniche35, che dell’anima non si dirà mai essere una sostanza indipendente dal corpo; né, dell’uomo, che la sua natura sia soltanto quella spirituale. La fedeltà al dato biblico che parla di psyché soltanto in termini prospettici, ma intende la vita in senso pieno – ovvero come descrizione di totalità dell’uomo rispetto al suo principio vitale, permane in tutta la tradizione. La Chiesa, quindi, ha mantenuto accuratamente il concetto originario di anima, aggiungendo ad esso solo il carattere di immortalità escatologia, come naturale conseguenza della partecipazione all’esperienza del risorto. Tra le innumerevoli affermazioni magisteriali – nel primo millennio concentrate soprattutto sul problema cristologico (anche del Cristo si predica un’anima umana, cf. DS 250.301.554), sono degni di nota due interventi conciliari del secondo millennio. Si tratta di una affermazione del concilio di Vienne (1312) e una del concilio Lateranense V (1513). In entrambe il contesto culturale è cambiato. Tra la patristica e il tardo medio evo, infatti, si pone il periodo della scolastica e il suo rigoroso tentativo di sistematizzazione dogmatica del dato rivelato. Se la patristica ha dovuto fare i conti con le massicce influenze neoplatoniche, la scolastica da dovuto filtrare Aristotele e rileggere in chiave cristiana tutti i suoi testi. È proprio in seguito a questa faticosissima opera di conciliazione tra il Filosofo – come era chiamato Aristotele – e la tradizione ecclesiale, che il messaggio cristiano acquista quella solidità terminologica e concettuale che rimarrà inalterata per almeno otto secoli. È a questo punto della storia della tradizione cristiana che l’anima diviene inconfutabilmente forma corporis. Sarà questa, in seguito, la definizione normativa del magistero cattolico. Cuore di questa elaborazione è indubbiamente il lavoro intellettuale di Tommaso d’Aquino (1225-1274). Di lui riporto due testi, a mo’ di esemplificazione36. Nel primo egli definisce l’anima come facoltà razionale che trascende la fisicità. Dunque, essa deve avere sussistenza in sé. Nel secondo, invece, rettifica la sua 34 Per almeno due notazioni. In primo luogo, la contrapposizione tra il corporalem e il de suo sapientem. Da un lato l’anima è legata indissolubilmente al corpo (sembrerebbe parte del corpo come sua naturale struttura, a modo di forma aristotelica); dall’altro, possiede la sapienza da sé, senza mediazione sensibile, secondo i canoni dell’epistemologia platonica. In secondo luogo, dell’anima si predica la concomitanza con la generazione del corpo, finanche nella sua determinazione sessuale. Probabilmente, questo secondo aspetto è relativo al nodoso problema del peccato. Rimane, comunque, chiaro che la separazione tra l’anima e il corpo, come se fossero due differenti entità, non fa parte della tradizione patristica. 35 Agostino stesso, nonostante le forti influenze neoplatoniche presenti nel suo pensiero, non cede mai alle lusinghe del dualismo greco. Nel De civitate, infatti, afferma: “Non il corpo, ma il corpo corruttibile è oneroso all’anima” (Agostino, De civitate Dei XIII, 16). La valutazione del corpo e della sessualità rimangono, tuttavia, tendenzialmente negative. Il corpo, infatti, è il luogo preferenziale del peccato. Rispetto all’anima – che egli definisce: “Substantia quaedam, rationis particeps, regendo corporis accomodata” (Agostino, De quantitate animae, XIII, 22) – egli conserva una tonalità soggettivistica sia del rapporto tra anima e storia (cf. la considerazione del tempo soggettivo), sia tra anima ed escatologia (cf. la visione beatifica soggettiva). In De Trinitate, egli considera le tre facoltà dell’anima (la memoria, l’intelligenza e la volontà) come segno della presenza della Trinità (vestigia Trinitatis) nell’uomo. Scrive: “Io ricordo di aver memoria, intelligenza e volontà; intendo di intendere, di volere e di ricordare e voglio volere, ricordare ed intendere. In conclusione, quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza” (Agostino, De Trinitate X, 18). In un altro passo, lo stesso Autore aggiunge che l’uomo è “una sostanza razionale composta di anima e di corpo” (Id. XV, 7). Infine, in una epistola – facendo un’analogia dell’unione dell’anima con il corpo con quella della divinità con l’umanità – Agostino sostiene che “nella persona umana c’è l’unione dell’anima col corpo; nella persona di Cristo, c’è l’unione di Dio con l’uomo” (Ergo persona hominis, mistura est animae et corporis; persona autem Christi, mistura est Dei et hominis, in: Agostino, Epistola 137, 3, 11). 36 Durante il corso verranno dedicate più lezioni alla introduzione e alla esposizione del pensiero di Tommaso. In queste sede mi preme soltanto riportare alcune affermazioni necessarie per comprendere l’evoluzione del problema. 8 posizione e, in accordo con la rivelazione, afferma l’impossibilità di considerare l’anima separatamente dal corpo, come entità autonoma e in sé perfetta. - “Il principio intellettuale che si chiama mente o intelletto ha una attività alla quale il corpo non partecipa. Ora, non può operare per sé se non ciò che sussiste per sé. […] Dunque, l’anima umana, che si chiama anche intelletto o mente, è qualcosa di incorporeo e di sussistente”37. - “Nessuna parte raggiunge la sua perfezione separatamente dalla totalità. Per cui l’anima, essendo parte della natura umana, non consegue la perfezione della sua natura se non in unione con il corpo”38. ***** Con la modernità la riflessione filosofica sull’anima comincia un inesorabile percorso a ritroso. La compostezza metafisica del pensiero tomista si sgretola, seguendo due percorsi gemelli che porteranno inesorabilmente ad Hegel, il primo; a Nietzsche, il secondo39. Si tratta della radicale separazione del pensiero dall’essere dell’ente (ovvero della conoscenza del mondo come rappresentazione), che condurrà per un verso all’idealismo (per cui è vero ciò che si pensa – il razionale è reale); per un altro, al nichilismo (per cui è vero, giusto, legittimo, valido soltanto ciò che il soggetto vuole – il delirio di onnipotenza dell’uomo folle). Mentre la scienza, liberata dal gioco del dogmatismo confessionale, andrà sviluppando autonomamente il suo metodo, conseguendo meravigliosi risultati, la filosofia – forse frustrata dalla sua natura non sperimentale; sicuramente perché impoverita di spessore metafisico40 – andrà ripercorrendo posizioni che il pensiero tomista, mal interpretato e per questo tacciato di oscurantismo, aveva di gran lunga integrato e superato. Per introdurre, quindi, la problematica del rapporto mente/corpo sollevata ai nostri giorni dalle neuroscienze, riporterò in breve tre posizioni contenutisticamente alternative in merito all’anima, ma metodologicamente identiche per il fatto di essere accomunate dal medesimo impoverimento metafisico e dal comune esito rappresentazionale sul piano epistemico: Cartesio e la rinascita del dualismo nella modernità; Hume, padre del riduzionismo empirico e de-costruttore del principio di causalità; Kant, vero fondatore del funzionalismo contemporaneo. 37 Tommaso, Summa Theologiae I,q.75,1.2. Tommaso, Quaestiones disputatae – De anima, a.2,5. Il magistero ecclesiale, forte della sistematizzazione scolasticotomista, si pronuncerà successivamente – come anzidetto – in due occasioni particolari. La prima (con il decreto Fidei Catholicae) è una polemica con Pietro di Giovanni Ulivi, capo del movimento degli spirituali dell’Ordine francescano, il quale sosteneva la tricotomia dell’anima (vegetativa, animale/irascibile e razionale), nel tentativo di una sintesi tra la prospettiva aritstotelico-tomista e quella platonico-agostiniana. La seconda (con la bolla Apostolici regiminis), invece, contesta l’opera di Pietro Pomponazzi il quale – sulla scorta di interpretazioni stoiche del pensiero di Aristotele – affermava l’esistenza di un nous-ratio universale a cui l’uomo parteciperebbe, negando in questo modo l’individualità dell’intelletto agente. Andiamo ai testi. Concilio di Vienne (1312): si tratta della condanna chi non asserisce che “anima rationalis seu intellettiva non sit forma corporis humani per se et essentialiter” (cf. DS 902). Pio IX, in una lettera datata l’anno 1877 al rettore dell’Università di Lilla, ribadisce l’infallibilità della affermazione viennese, senza includere l’infallibilità del sistema filosofico-linguistico in cui l’espressione è espressa. Il secondo testo è del Concilio Lateranense V (1513), indetto con la bolla di convocazione Sacrosanctae Romanae Ecclesiae del 18 luglio 1511. La sua durata fu di cinque anni, sotto Giulio II (1503-1513) e Leone X (1513-1521). Il Concilio afferma: “Condanniamo e riproviamo tutti quelli che affermano che l’anima intellettiva è mortale o che è unica in tutti gli uomini, o quelli che avanzano dei dubbi a questo proposito: essa, infatti, non solo è veramente, per sé ed essenzialmente, la forma del corpo umano […] ma è immortale, e deve essere individualmente moltiplicabile in proporzione del numero dei corpi nei quali viene infusa ed è moltiplicata e dovrà essere moltiplicata (come in Mt 10,28, Gv 12,35, Mt 25,46)” (cf. DS 1440). 39 Cf. L. Messinese, Cartesio. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001. 40 La domanda del pensiero filosofico a partire dalla modernità è spostata dal versante ontologico, tipico della metafisica aristotelico-tomista, a gnoseologico. Il soggetto diventa il centro della riflessione; la sua coerenza logica, il criterio di verità delle proprie conoscenze. 38 9 Per Cartesio l’anima è pensiero. Su questo, non c’è che dire. Ma è solo pensiero, ovvero pensiero assoluto, separato. La sua è una riproposizione razionalistica del platonismo. Rispetto al fondatore dell’Accademia, egli è poca poesia e niente mito, ma tutta ragione. Nel testo Passioni dell’anima, opuscoletto scritto per calmare l’animo inquieto e capriccioso della regina Cristina di Svezia, egli scrive: “L'anima è unita strettamente a tutte le parti del corpo […]. C'è nel cervello una piccola ghiandola in cui l'anima esercita le sue funzioni più specificamente che non nelle altre parti [la ghiandola pineale]. I suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre, inversamente, i minimi mutamenti nel corso degli spiriti possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola […]. La piccola ghiandola posta al centro del cervello può essere mossa da un lato dall'anima, dall'altro dagli spiriti animali [...]. Tutta l'azione dell'anima consiste in questo che, per il solo fatto di volere qualcosa, essa fa muovere la piccola ghiandola, a cui è strettamente legata, nel modo richiesto per produrre l'effetto connesso con la volontà”41. I problemi che suscita una posizione del genere sono innumerevoli, aggravati dal fatto che, mentre in Platone il dualismo è epistemico perché ontologico, in Cartesio sembra essere vero il contrario: il dualismo ontologico è in ragione del fatto di essere fondato … razionalmente. Di qui, il passo alla follia idealistica, o al nichilismo, è breve. In Discorso sul metodo egli chiosa: “Ma che cosa dunque io sono? Una cosa che pensa. E che cosa è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente”42. L’età moderna inizia con un evidente fallimento. La scienza, nuovo paradigma di conoscenza, acquista timidamente credibilità fino all’efficientismo tecnologico dei giorni nostri. La filosofia, invece, svuotata dei contenuti prettamente ontologico-metafisici, si chiude in un dialogico soggettivismo dell’io che parla al sé43; o ripiega in un duplice tentativo di inquadrare la novità scientifica assumendone il presupposto empirista (Hume); oppure nel rigore formale di categorie logiche (Kant). David Hume, nel Trattato sulla natura umana afferma: “Tutti i filosofi ammettono, e la cosa è chiara per se stessa, che niente è realmente presente alla mente fuori dalle sue percezioni (raw feel), o impressioni o idee, e che gli oggetti esterni ci sono noti solo per le percezioni a cui danno occasione. Odiare, amare, pensare, sentire, vedere: tutto ciò, altro non è ciò che percepisce”44. Dopo l’ego cogito cartesiano, quindi – l’ipostatizzazione della coscienza come sostanza che pensa – segue l’esatto contrario: l’io non esiste! La separazione della soggettività personale dal corpo inteso in maniera meccanicistica fa sì che il corpo possa dar ragione di sé da solo, senza venir animato dal di fuori. Le idee, di conseguenza, non sono altro che impressioni associate – semplici o complesse – che si formano come rappresentazione del mondo ad una coscienza intesa come contenitore del fatto, non come soggettività; la mente, così, si trasforma in sistema dinamico di percezioni differenti, legate tra loro da un’ipotetica relazione di causa/effetto – fragile elemento di continuità e nesso tra il prima e il poi. Di 41 Cf. Cartesio, Passioni dell’anima, in: http://nuke.metodocalligaris.org; oppure, cf. le lezioni online di Luigi Cerruti in: http://www.minerva.unito.it/Natura/Lezioni/Lezione%2010%20Cartesio.pdf. 42 Di Cartesio, Nicola D’Onghia afferma: “Cartesio inizia l’età moderna rendendo totalmente autonomo l’io rispetto al mondo esterno, in virtù della concezione meccanicistica. Correlativamente, l’universo materiale è spogliato da ogni carattere psichico ed etico e il soggetto perde ogni attributo materiale […]. La teoria ufficiale di Cartesio dice soltanto che fame, sete, piacere, dolore e l’intero complesso di sensazioni ed emozioni sono il prodotto della mescolanza di due sostanze radicalmente eterogenee ed incompatibili” in: D’Onghia, op. cit., 68. 43 Id., 71. 44 Hume, Trattato sulla natura umana, in: Opere filosofiche, Laterza, Bari 1987, vol. I, 1. 10 conseguenza, l’io/anima, da attore del pensiero – agente metafisico, diventa pura attività, sistema categoriale dell’apparire. Da qui al trascendentale kantiano, il passo è breve. Immanuel Kant, precursore del positivismo logico, volendo inquadrare la novità della scienza newtoniana in una rigorosa cornice epistemica, celebra il trionfo della soggettività pensante (io penso) non nei termini di un’entità separata (di sostanza metafisica, impossibile da conoscere per l’intelletto umano – il noumeno), ma come soggettività trascendentale. L’anima, così, da cosa pensante, diventa struttura del pensiero. Contro Hume, egli sostiene che non possono esistere esperienze senza soggetto. È necessario, quindi, un io/unificatore dei giudizi secondo predeterminate categorie di pensiero45. Sono, queste, dei concetti puri che permettono alla mente un’ordinata rappresentazione del mondo fenomenico, proporzionata ai suoi criteri epistemici ed universalmente condivisibile. L’io penso – la res cogitans cartesiana, non è più, dunque, una sostanza immateriale separata ed autonoma, ma la condizione formale di ogni esperienza. L’anima viene ridotta a unità incondizionata di tutte le conoscenze relative al soggetto. Nella Critica della ragion pura, Kant afferma: “Galilei e Torricelli compresero che la ragione vede solo ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno e che, con i principi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande e non lasciarsi guidare da lei […]. È necessario, dunque, che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i principi, secondo i quali soltanto è possibile che i fenomeni concordanti abbiano valore di legge, e nell’altra l’esperimento che essa ha immaginato secondo questi principi: per venir bensì istruita da lei, ma non in qualità di color che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge”46. ***** Un ultimo veloce passaggio, prima di giungere ad una proposta di soluzione al riduzionismo funzionalista a cui ho fatto cenno all’inizio di questo contributo, nodo centrale del problema attuale del rapporto mente/corpo proprio delle neuroscienze47: si tratta della de-costruzione del soggetto come rappresentazione della mente, ovvero della fine della modernità nei termini di una reazione ai sistemi totalizzanti, ad opera dei filosofi del sospetto (Schopenhauer, Nietzsche e Freud). In loro, l’anima assume la significazione di rimedio, medicina contro il malessere dell’uomo. Serve, dunque, ma in realtà non esiste; è necessaria, pur non avendo alcuna consistenza metafisica. Il primo: Shopenhauer. Scrive: “Sin dai tempi antichi si era riconosciuto l’uomo come un microcosmo. Io ho rovesciato il principio e dimostrato il mondo come macro-antropo”48. Dall’uomo omerico, aperto al mondo e alla vita, la cui anima è respiro; dall’uomo platonico, ritirato nel luogo interiore della verità contemplata con l’intelletto/anima per illuminazione, nonostante il peso del corpo, causa di illusione; dal paradosso cartesiano, che considera l’uomo come possessore della verità per mezzo delle idee chiare e distinte, innate nella res cogitans e sciolte dal corpo-macchina, Schopenhauer ci conduce a riconoscere il mondo come una mera rappresentazione del soggetto/anima, in opposizione al corpo naturale, inestinguibile volontà di vita. Anima/idee, quindi, è il tentativo di ordinare il corpo/vita. 45 Le categorie kantiane sono raggruppate in quattro terne: quantità – unità, pluralità, totalità; qualità – realtà, negazione, limitazione; modalità – possibilità, esistenza, necessità; relazione – sostanza, causalità, relazione reciproca. 46 Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1981, 18-19. 47 Sulle problematiche sollevate dalle neuroscienze ed in particolare sul funzionalismo, mi soffermerò con più dovizia nell’esposizione del corso. 48 Schoperhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1970, 784. 11 ”Il mondo è una mia rappresentazione: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante”49. La verità, quindi, deve essere smascherata, liberando la vita – che è vitalità e passione – dalla finzione di un volto prodotto dalla rappresentazione logica dell’uomo. Di qui il titolo della sua opera maggiore: Il mondo come volontà e rappresentazione. L’Autore aggiunge: “La rappresentazione è il mascheramento razionale della volontà. Ciò che appare come ragionevole è semplicemente volontaristico. La ragione è inganno perché fa apparire come ordine deliberatamente conquistato ciò che è semplicemente espressione di una insopprimibile volontà di vita”50. In questo dramma di finzione e volontà di vita, quale soluzione? Per Schopenhauer non esiste una soluzione logica, ma pratica. Si tratta di una rinuncia a vivere, di una ascesi dalla vita - noluntas, del rifiuto di qualsiasi soddisfazione. Uno spirito di compassione al dramma dell’uomo, unitamente all’annullamento di qualsiasi interesse al fine di raggiungere lo stato contemplativo di assoluta assenza di dolore51 sono la terapia di Schopenhauer. Se la vita è dolore, tanto vale imparare quanto prima a morire! “L’individualità di ognuno – afferma ancora l’Autore – è proprio ciò a cui si deve rinunciare”52. Nietzsche, ammaestrato da Schopenhauer, sceglie una differente via di soluzione. Fa propria la visione drammatica del mondo del suo maestro, ma non accetta la rinuncia come terapia del dolore. Dionisiaco e apollineo – principio esuberante di vita e dominio della ragione – non sono più due alternative, ma un unico fantasioso modo d’essere del mondo; non più la passione contro la ragione, ma la vita che produce e supera entrambe. All’uomo, quindi, non resta che lasciarsi dominare dalla propria volontà di vita, al contempo liberato dalla ricerca di senso ed assuefatto ad una logica di contraddizione. Non c’è, quindi, un dovere nell’uomo che non sia se stesso; né una verità che possa precederlo e a cui egli si debba uniformare53. L’anima razionale, prodotto della cultura occidentale, è per Nietzsche un pensiero salvatore (Logos) nello spazio vuoto. Con Platone, nasce la domanda a risposta univoca sull’essere – la distinzione tra ciò che è vero da ciò che non lo è; sempre con lui la risposta nella ragione/verità. Nasce così la logica, la designazione non equivoca degli enti. A questa uniformità bugiarda, scovata da Schopenhauer per via della sua mascherata compostezza, Nietzsche si oppone con la “filosofia del martello”, mentre Platone “resta rosso di vergogna”54. Umberto Galimberti così conclude su Nietzsche: “La ragione è un inganno perché tende a far passare l’ordine dei suoi significati come l’unico senso del mondo che, invece, è disponibile per una molteplicità indeterminata di 49 Il testo continua: “Esso corpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitiva dell’intelletto (che vuole ordinarlo in un orizzonte di senso), come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma insieme, dall’altro lato, è dato come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato col nome di volontà […]. La volontà è il prius della conoscenza, il nucleo del nostro essere; è quella forza originaria che crea e conserva il corpo animale, del quale compie tutte le funzioni consapevoli e inconsapevoli […]. La volontà che, nella natura priva di conoscenza, si mostra come forza naturale; un gradino più in alto come forza vitale; nell’uomo e nell’animale, poi, ottiene il nome di volontà“, in: Id., op. cit., 137-138.143.316. 50 Galimberti, op. cit., 302. 51 Cf. Schopenhauer, op. cit., 235. 52 Id., 861. 53 Galimberti afferma: “Nietzsche accoglie la verità dell’esistenza minacciata da forze immensamente più potenti di lei, ma liberato da Schopenhauer, […] accoglie anche il mondo della apparenza e quindi dell’illusione e della maschera senza di cui la vita non sarebbe vivibile […]. Il problema non è più quello di difendersi dalla rappresentazione del mondo […] ma di liberare rappresentazioni, illusioni e maschere, senza di cui la vita sarebbe impossibile. Di nuovo il conflitto tra vita e verità […]: Nietzsche sta per la vita, mentre il suo educatore stava per la verità”, in: Id., op. cit., 309. 54 Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in: Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 76. 12 altri sensi; ma è un inganno necessario perché, al di fuori di un ordine codificato […], l’uomo non può vivere”55. L’anima, allora, è inganno, ugualmente verità temporanea o finzione necessaria. Volontà di senso, l’anima non ha più ragione di esistere. Come Dio, anch’essa, infatti, è morta. Anche Freud è sedotto dalla cruda scoperta di Schopenhauer e ne assume l’antropologia. La vita, intesa come contrapposizione tra volontà e rappresentazione, in lui diventa contrapposizione tra conscio e inconscio. Il primo sta dalla parte della rappresentazione logico-razionale; il secondo, chiaramente, dalla parte della volontà di vita. Nell’Introduzione alla psicoanalisi, scrive: “Chiameremo d’ora in poi l’inconscio Es […], pronome impersonale […] particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all’Io. Super-io, Io e Es sono dunque tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l’apparato psichico della persona e delle cui reciproche relazioni ci occuperemo”56. Attraverso l’analisi sistematica del sogno, luogo privilegiato dell’irruzione della volontà di vita nella sfera rappresentativa, “lo strumento di cui si serve la nostra onniscienza sognante, per far giungere possibilmente qualcosa all’ignoranza della nostra veglia”57, Freud cerca di stanare le pretese eversive dell’Es e di condurlo, quindi, alla norma. Porta dell’inconscio, attimo di sospensione della logica, “il materiale inconscio, irrompendo nell’Io, porta con sé il suo modo di lavorare […]. La memoria onirica è assai più estesa di quella dello stato vigile […], una fonte non disprezzabile per la conoscenza della storia umana”58. Quale soluzione? Se per Schopenhauer si trattava di rinunciare alla volontà con la noluntas (l’annichilimento del desiderio) e di smascherare, così, le proprie rappresentazioni; se per Nietzsche la rappresentazione è da intendere come liberazione delle pulsioni, cioè parte del processo della vita stessa, ma non dalle pulsioni – ovvero liberazione del dionisiaco, non dal dionisiaco; per Freud la rappresentazione diventa un tentativo di salvaguardia dalle pulsioni, confine per arginare gli eccessi dell’Es. Ciò di cui l’uomo deve liberarsi è del dionisiaco. La sua, quindi, è una liberazione dal dionisiaco! Scrive: “L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-Io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”59. Se il dionisiaco è finzione, Schopenhauer rinuncia al gioco della finzione. Nietzsche, invece, accetta il gioco, deponendo ogni morale come provvisoria, vera soltanto nell’istante in cui è stata. Freud, ultimo dei tre, scopre le regole del gioco e tenta la tornata: cerca di dominare la natura complessa dell’uomo. È, questa, la morale non più dell’asceta, ma del conquistatore; la terapia come colonizzazione dei propri lati oscuri, come ordinamento del mondo psichico. La ragione, quindi, torna ad essere verità sul caos, nuova rappresentazione ordinata. L’uomo riacquista la sua anima, certo, ma non più come essenza, ma come contenimento. L’anima, non è necessario che sia vera: a noi basta solo che ci sia … Verso una riscoperta dell’anima La carrellata di Autori riportati in sintesi è solamente esemplificativa. Non ha presunzione di esaustività, ma è funzionale a suffragare la domanda in merito alla possibilità di poter ri-dire la fede anche ai giorni nostri (una forma di testimonianza matura e all’altezza dei tempi), tenendo conto delle 55 Galimberti, op. cit., 336. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in: Opere, vol. 11, lezione 31. 57 Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Vol. I, 317. 58 Freud, Compendio di psicanalisi, in: Opere. Vol. 11, 599. 59 Freud, Il disagio della civiltà, in: Opere, vol. 10, 627-628. 56 13 innumerevoli obiezioni relative ai più svariati argomenti, tra i quali anche il presente. Le affermazioni della tradizione della Chiesa, dunque, chiedono ancora di essere integrate, giustificate, comprese attraverso la mediazione con le categorie logico-culturali del nostro tempo60. Oppure, è necessario scoprire nuovi contenuti, tracciare nuove piste di ri-significazione della tradizione; magari inventare nuovi codici, nuovi framework. In che modo? Si è alla ricerca, oggi, di un nuovo paradigma. Nicola D’Onghia – dottorato in teologia alla Lateranense con una tesi sul rapporto tra neuroscienze e teologia – parla dell’esigenza di una nuova epistemologia, aperta alla riconsiderazione del problema metafisico. Gianfranco Basti, invece, in maniera più impegnativa si adopera nella ricerca di una formalizzazione della ontologia classica, certo di poter dare risposte alle questioni sollevate attraverso la coniugazione della logica intensionale, tipica delle ontologie classiche, con la logica estensionale, propria del formalismo della scienza modera; inoltre, è interessato alla nuova fisica e matematica dei sistemi caotici (dissipativi) auto-organizzanti, più adatta alla comprensione del mondo dei viventi61 e, quindi, utile per la formalizzazione di una ontologia realista. Certo è che l’ontologia rappresentazionale della modernità rivela l’insufficienza sia del cogito cartesiano che del formalismo kantiano. Grazie anche alla ricerca della fenomenologia husserliana, è oggi assodato che ogni stato cosciente (ogni atto cosciente in prima persona), ogni affermazione di giudizio sono sempre diretti ad un contenuto (non esiste un pensare senza un pensato). Per questo motivo, la “relazione fra un soggetto intendente e un oggetto inteso è componente essenziale di ogni atto psichico cosciente, per questo detto intenzionale”62. È un ritorno, questo, senza mezzi termini, all’epistemologia realista tommasiana! Paradossalmente, suggerimenti per la ricerca di un nuovo modello epistemologico non sono venuti tanto dalla filosofia, quanto da alcuni sviluppi della fisica contemporanea – testimonianza, questa, della necessità del dialogo tra filosofia, scienza e fede. Ilya Prigogine63, infatti – premio Nobel per la fisica nel 1977, noto al mondo scientifico per lo studio delle strutture dissipative fuori dall’equilibrio e per la scoperta del loro ruolo nella termodinamica – parla di metamorfosi della scienza, ovvero della necessità di superare la contrapposizione tra conoscenze oggettive e scienze dello spirito. La scientificità stessa, quindi, non può essere più univoca, per cui la pretesa assolutistica della scienza – atteggiamento tipico della fase positivistica – risulta velleitaria64. Secondo l’Autore, attraverso la duplice assunzione del principio di complessità del reale e di probabilità in fisica, la dualità scienza della natura/dello spirito cade, insieme al paradigma meccanicistico newtoniano. Ogni sistema, infatti, è caratterizzato da uno schema che visualizza non stadi di necessità, ma l’organizzazione delle relazioni fra le sue componenti65. Questo tipo di approccio 60 Riporto come esempio alcune affermazioni del Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992, nel quale viene riproposta la definizione scolastica di anima. “(363) Spesso, nella Sacra Scrittura, il termine anima indica la vita umana, [Cf. Mt 16,25-26; Gv 15,13]; oppure tutta la persona umana [Cf. At 2,41]. Ma designa anche tutto ciò che nell'uomo vi è di più intimo [Cf. Mt 26,38; Gv 12,27] e di maggior valore, [Cf. Mt 10,28; 2Mac 6,30] ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio: “anima” significa il principio spirituale nell'uomo. (365) L'unità dell'anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l'anima come la “forma” del corpo; [Cf Concilio di Vienne (1312); DS, 902] ciò significa che grazie all'anima spirituale il corpo composto di materia è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell'uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un'unica natura. (1703) Dotata di “un'anima spirituale ed immortale”, [Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 14] la persona umana è in terra “la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”. Fin dal suo concepimento, è destinata alla beatitudine eterna”. 61 Il prof. Basti afferma: “Nei processi fisici auto-organizzanti, quali per esempio i processi che caratterizzano i sistemi caotici […] le traiettorie in esso sono capaci di ritornare nelle vicinanza di un dato punto […] seguendo percorsi sempre diversi ed impredicibili”, in: G. Basti, “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 53. 62 D’Onghia, op. cit., 16. 63 Cf. I. Prigogine – I. Stenders, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Boringhieri, Torino 1981. 64 Cf. D’Onghia, op.cit., 192s. 65 Cf. J. von Neumann e N. Wiener. Il primo è l’inventore dei computer digitali; il secondo è il fondatore della cibernetica (ovvero della scienza che si interessa dello studio dei processi di controllo viventi o meccanici). 14 è più attento ai sistemi di organismi viventi nei quali, contrariamente al meccanicismo newtoniano, è naturale l’im-predicibilità/in-decidibilità degli eventi a partire dalle loro cause. È come dire, in ambito biologico, che il fenotipo traccia il suo percorso evolutivo in maniera relativamente auto-referenziale, interagendo con l’ambiente circostante. La realtà, quindi, è complessa, probabilistica, instabile. In essa, la variabilità delle condizioni iniziali rende indefinibili le condizioni finali. Nicola D’Onghia, nella sua tesi dottorale, scrive: “La scoperta della complessità […] guarda alla struttura degli organismi come ad una configurazione di relazioni fra parti di tipo probabilistico e non più come un’architettura complessiva: essa si realizza nel tempo, all’incrocio imprevedibile e irreversibile di una molteplicità incalcolabile di variabili contingenti”66. Un approccio che tenga conto del principio di complessità non guarda più a strutture, ma a relazioni nelle quali i sistemi viventi sono auto-poietici (organizzazioni reticolari, aperte, interagenti con l’esterno, ovvero strutture dissipative). In questo modello ficico-ontolologico-epistemologico, le leggi fisiche da statiche diventano probabilistiche. In esso viene meno una visione rigidamente meccanicistica del mondo, nel quale l’insieme reale delle possibilità non è dato a priori, ma varia con l’evolversi del fenomeno67. Con questa nuova categoria, avvallata anche dalle recenti scoperte neurologiche68 secondo le quali la caratteristica principale del cervello è la sua plasticità69, è possibile ri-categorizzare il problema uomo e, in questo particolare contesto, la problematica relazione corpo/anima. L’uomo non è soltanto una codificazione di simboli; è egli stesso creatore di simboli, di codici linguistici, di senso! Non è un dato, ma un dante-si, ovvero un soggetto direttamente implicato in un processo di auto-determinazione. Il fondamento epistemico delle sue conoscenze, quindi, non è la staticità della necessitazione, ma la relazione che instaura con il mondo circostante. Anch’egli, dunque, è una struttura aperta, autopoietica, dissipativa, inesorabilmente entropica. La morte, in questo senso, non è condanna, ma progetto! La relazione, quindi, è veramente un bisogno primario dell’uomo. Essa è significativa in primo luogo dal punto di vista metafisico (si tratta della relazione con l’assoluto, intesa come partecipazione all’atto d’essere di Dio); inoltre, essa fonda la possibilità di conoscere il mondo e di esprimere giudizi epistemici e di valore (valutazioni aletiche ed assiologiche). Basterebbe considerare le riflessioni della fenomenologia in merito alla corporeità come luogo di apertura dell’io all’alterità70, per avere sufficienti argomenti in favore di quanto detto. Ma non è tutto. La relazione, infatti, è rintracciabile finanche nelle sinapsi neurali! È questa la novità neuroscientifica in merito al problema del rapporto mente/corpo. Cito ancora dalla tesi dottorale: “Il cervello umano – afferma d’Onghia – si presenta come un organo sociale intersecato da reti neurali destinate a ricevere, elaborare e comunicare messaggi attraverso le sinapsi. Ormai non si può considerare il cervello come una struttura definitivamente formata, ma come un processo dinamico continuamente soggetto a sviluppo e ricostruzioni costanti lungo tutta la vita”71. 66 D’Onghia, op. cit., 196. Cf. gli studi di epigenetica e la neonata teoria matematica dell’informazione. 68 Cf. Gallese V., “Corpo vivo, simulazione incarnata, intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica”, in: Neuro-fenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M. Cappuccio, Milano 2006, 293-326; Manganaro P., “Einfühlung e mind-body problem. Dalla svolta linguistica alla svolta cognitiva”, Aquinas (2) 465-494, 2007. 69 Ovvero la capacità del cervello di ri-definire continuamente i suoi pattern di attivazione neurale! Una stessa azione motoria, in altri termini, pur interessando la medesima area cerebrale, non insiste sullo stesso circuito neurale. A maggior ragione, allora, per i processi cognitivi o logico-inferenziali. 70 Cf. A. Ales-Bello, Introduzione alla fenomenologia, Aracne Editore, Roma 2009. 71 D’Onghia, op. cit., 257. 67 15 Nello studio delle dinamiche neurali, quindi, sono da tener presenti necessariamente non solo la morfologia del cervello (aspetto anatomico), ma anche il ruolo costitutivo dell’ambiente e le scelte determinanti del soggetto (aspetto informazionale72). È impossibile, in questo modo, considerare il cervello in maniera unidirezionale e statica; al contempo, non è possibile neppure valutare la mente alla stregua di una funzione del suo sostrato biologico. L’anima, allora, fa sì problema: fa ancora problema perché in essa si manifesta la capacità di senso dell’uomo, ma non è più essa stessa un problema! È ancora possibile, allora, non esiliare l’anima nella esperienza privata della fede, perché si tratta di un’esperienza strutturalmente qualitativa, soggettiva ed irriducibile dell’uomo. “Non solo una sostanza spirituale distinta dal corpo – afferma don Nicola D’Onghia – ma la realtà divina attraverso la quale Dio si comunica all’uomo […]. Ed è nel dialogo con Dio che l’uomo scopre la sua identità di essere unitotale”73. Ogni uomo è veramente una questione non risolta. Per fortuna! Anche i dati scientifici, e di conseguenza anche le scienze cognitive che su questi fondano i loro risultati, concordano ormai con queste argomentazioni. Possedere un’anima spirituale, quindi, potrebbe voler dire che si è “tassativamente voluti, individualmente conosciuti e amati da Dio”, come creature capaci a loro volta di “conoscere Dio e di rispondergli”74. È recuperata, in questo modo, l’anima dell’uomo, teologicamente intesa: essa è luogo di relazione. E poiché è eterno il correlato fondante, ecco che deve esserlo anche quello secondario. Non ci resta, a questo punto, che trovare una formulazione organica in cui inserire le argomentazioni finora condotte. È, questa, la proposta della soluzione duale. La soluzione duale Per soluzione duale si intende il tipo di approccio al problema della relazione anima/corpo (secondo la denominazione classica); o la relazione mente/corpo (secondo la denominazione contemporanea), che sia al contempo alternativo rispetto ad ogni forma di monismo (ad esempio la posizione di Hume, oppure il funzionalismo di Putnam, o di Churchland76) e di dualismo (ad esempio Platone, Cartesio; oppure più recentemente Eccles), ed aperto al dialogo con i nuovi modelli di interazione 75 72 Il concetto di informazione è inteso come “grandezza fisica immateriale – ancor più interessante della massa e della energia, le uniche grandezze fisiche materiali di cui finora si era interessata la fisica moderna – è entrato nella pratica scientifica ordinaria del XXI secolo”. L’universo, infatti, “computa all’interno dell’universo e non in un iperuranio platonico”, in: G. Basti, “Dualità, epigenesi, intenzionalità”, op. cit., 14. L’intero articolo articola con dovizia il concetto e il fondamento della teoria informazionale. 73 D’Onghia, op. cit., 259.260. 74 Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1974, 294-295. 75 Per l’elaborazione della teoria duale, mi avvalgo del già citato ordinario di filosofia della natura e della scienza della PUL mons. Gianfranco Basti. Cf. Id., “Dall’informazione allo spirito: abbozzo di una nuova antropologia”, in: V. Possenti (ed.), L’anima, Mondadori, Milano 2004; Id., “Logica della scoperta e paradigma intenzionale nelle scienze cognitive”, in: Quale scienza per la psicoterapia? Atti del III congresso nazionale della SEPI (T. Carere – Comes Florense Art ed.), Firenze 2009; Id., “Mente-corpo”, in: Documentazione interdisciplinare di Scienza e Fede, in: www.disf.org; Id., “Dal mente-corpo al persona-corpo: il paradigma intenzionale nelle scienze cognitive”, in: A. Ales-Bello – P. Manganaro (ed.), E la coscienza? Fenomenologia, psico-patologia e neuroscienze, Laterza, Bari 2012; Id., “Dualità, epigenesi, intenzionalità: dalla mente-corpo al persona-corpo”, in: www.stoqatpul.org. Per maggiori informazioni, cf. http://www.stoqatpul.org/lat/professors/basti_i.html. 76 “Capisaldi del funzionalismo sono: l’idea di simulabilità artificiale dello stesso comportamento intelligente umano (Turin, 1950), alla base del programma di ricerca dell’IA e la conseguente idea dell’essenziale isomorfismo (corrispondenza biunivoca ) che deve formalmente esistere fra calcolo logico eseguito dal cervello di un essere umano che sta compiendo un certo ragionamento deduttivo, e il software che ‘gira’ (cioè il calcolo formale su simboli eseguito) in un computer in grado di simulare quel comportamento”, in: G. Basti, “Logica della scoperta”, op.cit., 5. 16 provenienti soprattutto dal mondo scientifico77. Dal punto di vista epistemico, la soluzione duale decreta il definitivo abbandono di una epistemologia rappresentazionale in favore di una epistemologia intenzionale e realista78. Il presente contributo è il risultato della rielaborazione della ormai sedimentata ricerca e speculazione che il prof. Basti porta avanti da quasi tre decenni. Nel corso della sua ricerca, egli ha trovato con indubbia meraviglia più elementi di affinità e compatibilità tra la monumentale struttura ontologicometafisica aristotelico-tomista e i risultati della scienza, che in tutti gli altri tentativi mal riusciti di conciliare scienza e fede. Dimostrazione, questa, che l’allontanamento della filosofia moderna dalla metafisica, ed in particolare dal modello realista del dottore angelico, ha prodotto – non solamente favorito – quella spaccatura tra il sapere scientifico e il mondo filosofico ed ecclesiale. In “Logica della scoperta e paradigma intenzionale nelle scienze cognitive”, a proposito delle antropologie duali, il prof. Basti afferma: “Corpo non è solo materia, ma materia e forma che, come tali, non possono esistere mai separatamente; di qui il termine ilemorfismo. […] L’anima, dunque, è forma che organizza la materia”79. Quando si parla di soluzione duale, si vuol intendere, quindi, la non riducibilità della mente al corpo, senza supporre una sospensione della causalità fisica degli eventi neurali soggiacenti. La mente, quindi, non è funzione del cervello; non è neppure un’entità autonoma, assolutamente separata, il cui intervento causale relativamente ad una azione corporea contraddirebbe il primo principio della termodinamica, dato in sé inaccettabile80. Essa è, dunque, contemporaneamente l’agente ed il prodotto di una processazione di informazione, emergente nel soggetto individuale e sorretta – secondo la fede – da una relazione informante fondamentale con un Agente supremo: Dio81. Questa è anche l’anima che la tradizione tomista ed ecclesiale chiama a buon diritto razionale, forma corporis – forma sostanziale di tutta la persona, principio di identità e sussistenza del singolo. La solidità della soluzione duale poggia su alcune osservazioni basilari. 77 Cito da Basti: “Grazie allo sviluppo della nuova fisica, a partire dall’inizio del XX secolo, e all’attuale tumultuoso sviluppo dell’approccio informazionale nelle scienze biologiche e cognitive in quanto basate sulla costruenda teoria fisico-informatica dei sistemi dinamici stabili fuori dall’equilibrio, l’ontologia fisica duale di tipo aristotelico è di fatto quella oggi usata”, in: G. Basti, “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 42. Ontologia duale, inoltre, implica necessariamente anche una antropologia duale, ovvero il fatto che un evento neurofisiologico non sia soltanto materia, ma materia e forma, ovvero “materia organizzata secondo una forma, come qualsiasi altro ente fisico, sia esso una sostanza (corpo) o un suo accidente (evento)”, in: Id., op. cit., 47. 78 Il paradigma rappresentazionale è tipico della prospettiva della filosofia moderna da Cartesio in poi, dell’epistemologia scientifica e della logica estensionale. Quello intensionale, invece, è proprio dell’ontologia classica e della neo-nata logica intensionale. Basti afferma: “Tipico dell’approccio intensionale all’atto cognitivo è avere come paradigma non il senso, rappresentazionale per eccellenza, della vista, come per Platone, ma del tatto, come per Aristotele. La conoscenza, cioè, in quanto paradigma, è una conseguenza dell’azione e termina con un’azione motoria, dopo una riorganizzazione interna all’animale delle disposizioni ad agire in vista di fini […]. La verità in senso cognitivo è intesa qui non come la statica aequatio rappresentazionale, ma, tomisticamente, come una dinamica, continua adaequatio, come adeguazione delle nostre disposizioni all’azione mediante cui assimilarsi al reale per aderirvi il più possibile”, in: Id., “Logica della scoperta”, op. cit., 7. L’argomentazione inerente il confronto tra le due prospettive – e dal punto di vista logico, e dal punto di vista aletico – è molto complessa. Per approfondimenti, rimando ai testi del prof. Basti. 79 Id., “Logica della scoperta”, op. cit., 3. 80 Secondo Basti, le peculiarità della soluzione duale sono tre: il problema della localizzazione della mente rispetto al corpo; il passaggio dall’epistemologia rappresentazionale, di matrice platonico-cartesiana, ad una epistemologia nonrappresentazionale/realista, di matrice aristotelico-tomista; il problema dell’immaterialità della mente e della sussistenza post-mortem dell’anima, separata dalla materia. Per tutte queste considerazioni, oltre alla bibliografia riportata in precedenza, è mettere in evidenza il testo elaborato dalla tesi dottorale in filosofia: G. Basti, La relazione mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Roma 1991. 81 Dal quale sarebbe garantita la possibilità di una sua sussistenza autonoma dal sostrato fisiologico Cf. la possibilità dell’anima razionale di una esistenza separate e di una sussistenza dopo la morte, in: Tommaso, Quaestio de anima, a.14. 17 - In primo luogo, la constatazione che noi cambiamo completamente la materia di cui i nostri corpi sono costituiti almeno una volta all’anno, motivo per cui la persistenza di noi stessi (dell’io soggettivo e personale) è affidata all’identità della struttura informazionale, non alla permanenza del substrato biologico. Roger Penrose afferma: “La massima parte del materiale di cui sono fatti i nostri corpi e i nostri cervelli viene continuamente sostituito con del nuovo, così che è solo il pattern d’informazione che persiste nel tempo […]. Non è irragionevole, perciò, supporre che la persistenza dell’io abbia più a che fare con la conservazione di questi pattern che con la conservazione di concrete particelle materiali”82. Dunque, non sono gli eventi neurofisiologici a dare continuità all’individuo, ma la “processazione dell’informazione che avviene attraverso questi eventi”83. - In secondo luogo, il flusso di informazione è incorporato in un flusso energetico, senza che questi possano essere reciprocamente riducibili84. Quindi né identici, né equivalenti. Basti afferma: “La distinzione flusso informazionale-flusso energetico è una proprietà intrinseca di tutti i sistemi dinamici complessi ed in particolare delle strutture dissipative, quali sono appunto tutti gli organismi viventi”85. Per questa ragione, la mente non obbedisce a leggi meccanicistiche, ma ad un meccanismo di memoria che le impedisce di “ri-passare per dove si è già passati”86. In altri termini, un meccanismo che genera informazione, che tenta (attraverso un calcolo algoritmico) nuove strade di soluzione. - Terzo aspetto: la localizzazione della mente/anima. Il principio di introiezione, elaborato da Schlick87, secondo il quale la mente è localizzabile in una determinata parte del corpo (chiaramene, il cervello), è del tutto superato. La mente per la tradizione tomista è sì immateriale, ma perché formale. Quindi, se formale, lo è per tutto il suo potenziale entelechico88. Per la teoria duale, quindi, è la mente che contiene il corpo, per il fatto che il flusso di controllo contiene sempre i sistemi fisici su cui esercita la supervisione. Analogamente, è l’anima della tradizione cristiana, allora, a contenere il corpo, non viceversa. Tommaso, dovendo rispondere alla domanda su dove si trovassero le entità spirituali (Dio, angeli e anima)89, afferma che, essendo immateriali, la loro posizione è relativa all’estensione del loro potere di controllo sulle entità corporee90. “È la mente che contiene il corpo. È considerata, infatti, come un insieme formale di relazioni di organizzazione […] fra parti materiali in processo, in continua modificazione fisico-chimica”91. L’ontologia duale di matrice aristotelico-tomista, quindi, considera che un unico esistente, connotato dalla duplice ed irriducibile descrizione di uno stato mentale (soggettivo e oggettivo92; 82 Cf. R. Penrose, Shadows of the mind. A search for the missing science of consciousness, Vintage, Reading, 1995, 13s. Id., “Mente-corpo”, op. cit., 25. 84 Cf. Id., “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 41s. 85 Id., 26. 86 Cf. Idem. 87 Cf. G. Basti, La relazione mente-corpo, op. cit., 45s.; Id., “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 44s. 88 Ancora Basti: “La mente […] è sì una cosa non materiale, come sarebbe piaciuto a Descartes, ma non un sostanza completa nel suo essere come si afferma nelle teorie dualiste. Essa è invece componente non-materiale o formale di una sostanza fatta di parti materiali in continuo divenire. Dove con la nozione di forma si intende in generale, nella filosofia della natura aristotelica, un insieme plastico, in adeguamento continuo, di relazioni di ordinamento di parti materiali dinamiche in continua modificazione”, in: Id., “Mente-corpo”, op. cit., 17-18. Cf. anche il Dizionario interdisciplinare di scienza e fede (DISF), consultabile online al sito: http://www.disf.org/default.asp. 89 Per la localizzazione degli enti spirituali, cf. Tommaso, De anima II, 411b,8s. 90 Cf. Tommaso, Summa Theologiae I, 52,1c;76,8c. 91 G. Basti, “Logica della scoperta”, op. cit., 20. 83 18 intenzionale e scientifico), è una entità composta di materia e forma93. Ovvero, materia e forma non sono da considerarsi oggetti, ma relazioni costitutive (cioè cause in senso aristotelico) l’oggetto, costitutive la sua essenza, la natura dell’entità esistente considerata94. Materia e forma, quindi, sono id quo, non id quod existit95. Anima e corpo – o meglio, corpo e anima razionale, sono rispettivamente la componente materiale e la componente formale dell’unica e complessa relazione causale mediante la quale qualcosa esiste come entità, i due correlati co-agenti in qualsiasi azione intenzionale96. In sintesi, per la teoria duale abbiamo che: a. la forma non agisce sulla materia, come lo spiritello di Cartesio; b. un corpo vivente è caratterizzato dalla sua capacità di auto-determinazione (di azione immanente), per cui non è solo l’anima che agisce nel corpo, ma è il corpo che agisce su se stesso (si autodetermina), conferendo una nuova forma all’anima! È caratteristica dei viventi, infatti, cambiare il percorso per raggiungere il medesimo stato finale, seguendo percorsi sempre diversi e impredicibili. Sono essi – i processi fisici auto-organizzati – che generano informazione97. ***** Quale rilevanza metafisica e teologica può avere la teoria duale? Tommaso d’Aquino, sintetizzando il pensiero di Aristotele, distingue tre livelli di azione immanente (tre regni dei viventi) sulla base di tre livelli di autocontrollo attivo. 92 Si tratta della distinzione tra gli enunciati in prima persona I talk e quelli in terza persona O talk. Cf. G. Basti, La relazione mente-corpo, op. cit., 43s.; oppure, Id., “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 46. 93 È da ricordare che, per Aristotele, forma è “sia termine del movimento permanente degli elementi (…), sia ciò per mezzo del quale quel termine è raggiunto” (Fisica II, 2, 194.27-29). Cf. G. Basti, “Dall’informazione”, op. cit., 50. 94 Il punto forza della soluzione duale poggia su due capisaldi. In primo luogo, l’ontologia aristotelica, cioè il principio metafisico di sostanza composta da materia e forma (ilemorfismo), dimenticato per almeno tre secoli dalla scienza. Da quando, cioè, il sapere scientifico confuse ingenuamente il concetto di sostanza in senso metafisico con il concetto chimico-fisico di sostanza; e quello di causa di matrice aristotelica – causa da intendere come ragione (il perché diòti), la motivazione – con quello di forza. In secondo luogo, lo sviluppo tomista della ontologia aristotelica, ovvero il recupero della teoria sui diversi significati del semantema essere, inteso come il più fondamentale dei predicati (trascendentale). In particolare, è importante la chiarificazione della distinzione tra l’essere dell’essenza o entità (quidditas) – che per Tommaso è qualificato come sostanza seconda, in quanto esiste nei molti; e l’essere dell’esistenza o essere comune (l’ente concreto, ovvero il fatto che l’ente esiste concretamente), distinto dal sostrato materiale, così come poteva essere inteso Aristotele. La distinzione tra essere-dell’essenza/essere-dell’esistenza è fondamentale. La seconda, infatti, è causalmente fondata dalla relazione tra enti. La prima, invece, esiste solo nel concreto, ed è relativa all’azione di cause seconde, nella storia; e all’azione trascendente e fondante con la Causa prima dell’essere. Tommaso corregge Aristotele, dunque, in merito alla confusione nello stagirita tra esseredell’essenza ed essere-del-sostrato-materiale. Secondo questo principio, la materia – eterna nel tempo – diventerebbe il sostrato delle forme. Per questo motivo, erano incomprensibili all’antichità i concetti fondamentali di Aristotele: ovvero l’eduzione delle forme dalla potenzialità della materia e la distinzione tra sostanza e accidente. L’introduzione di Tommaso del principio dell’Atto d’essere comunicato direttamente al singolo da un Ente ontologicamente fondante, risolve questi problemi e garantisce all’anima un’esistenza individuale e la possibilità di una sussistenza oltre la morte del corpo. Il recupero dei diversi significati del semantema essere, inoltre, comporta anche il recupero di una logica adeguata all’indagine metafisica, ovvero il necessario passaggio dalle logiche estensionali a quelle intensionali. Solo in questo modo è possibile fare ciò che l’ontologia pre-moderna, non assiomatizzata, era in grado di fare, cioè avere una identità senza equivalenza (cioè: io sono lo stesso nel variare del tempo), senza ridurre l’essere a copula tra soggetto e predicato (errore, questo, dell’approccio scientifico alla metafisica di Kant). 95 Cf. Id., La relazione mente-corpo, op. cit., 119s. 96 Si tratta del duplice correlato oggettivo delle azioni intenzionali dell’uomo: il correlato materiale – ovvero la modificazione neurofisiologica; e il correlato formale, ovvero la processazione di informazione. 97 I sistemi caotici, ovvero i sistemi dinamici stabili fuori dall’equilibrio. Attraverso la creazione di nuovi processi di divisione e ordinamento delle parti (la creazione di nuove traiettorie mediante lo stiramento e il ripiegamento dello spazio delle fasi) si raggiungono stati stabili fuori dall’equilibrio, all’interno di un volume delimitato (attrattore). Per approfondimenti, cf. G. Basti, La relazione mente-corpo, op. cit., 169s. Cf. anche: G. Basti, Filosofia dell’uomo, ESD, Bologna 1995. 19 a- Livello delle operazioni vegetative, nel quale l’organismo è capace di controllare l’esecuzione/non esecuzione di alcune operazioni, ma con forme e fini stabiliti per natura. b- Livello delle operazioni senso-motorie, nel quale l’organismo controlla non solo l’esecuzione, ma anche la forma, ovvero i modelli di esecuzione (pattern)98. c- Terzo livello, quello delle operazioni razionali, proprio solo dell’uomo. Egli solo, infatti, è capace di controllare l’esecuzione e l’operazione motoria nel suo svolgimento (i pattern di esecuzione); ma è capace anche di controllare/modificare/aggiungere fini, anche non determinati dalla biologia. Dal punto di vista metafisico, quindi, la soluzione duale attribuisce all’uomo la capacità di costruire senso. In altri termini, di allargare la propria anima, arricchirla di nuovi contenuti, di auto-generare la propria specifica identità formale e, quindi, morale. Per Aristotele, questo controllo razionale è necessariamente localizzato al di fuori del singolo organismo. Controllo che, secondo lo stagirita, è situato all’interno della cultura di cui il singolo uomo fa parte (una sorta di società delle menti o di mente collettivisticamente interpretata)99. Tommaso, invece, ritiene necessario garantire per ognuno una mente separata, ovvero una capacità effettiva di autodeterminazione delle proprie azioni e, quindi, di una sussistenza individuale. In altri termini, ogni uomo codetermina la sua forma, in quanto: il singolo uomo non è capace soltanto passivamente di pensiero logico elaborato altrove (la cultura), ma è capace attivamente di elaborare un suo pensiero (autodeterminazione); l’anima è individuale, ed è fondata su una ulteriore ed ultima relazione causale – costitutiva della formalità individuale, irriducibile e inalienabile – con un Agente che trascende la natura, ovvero la serie indefinita di relazioni causali100 concomitanti. Per Tommaso, quindi, l’anima spirituale è al contempo capace di sussistenza autonoma (id quod autonomo, ovvero un hoc aliquid) – motivo per cui è sostenibile la sua sopravvivenza dopo la morte; ed è, rispetto al corpo, la sua forma sostanziale (ovvero l’anima come un id quo)101, senza il quale non è completa. Essa è perciò un ente autonomo, perché deve avere necessariamente l’essere in sé ciò che agisce da sé102! E poiché l’anima razionale è capace di astrarre l’universale di ogni ente103, ecco che essa ha anche una sua propria sussistenza. Si tratta, tuttavia, di una sostanzialità di terzo tipo. Non, quindi, un ente determinato e completo come individuo (la sostanza prima, cui ho accennato pocanzi); non un ente determinato e incompleto che esiste solo negli individui (la sostanza seconda, ovvero l’essenza di un ente, generica o speciale); ma come ente determinato e completo che esiste soltanto come parte di un individuo, 98 È tipico, questo, del regno animale, nel quale vi è possibilità di apprendimento (ad es. gli animali addomesticabili). I fini, tuttavia, sono stabiliti dalla natura dell’organismo. 99 È l’ipotesi, questa, più recentemente ripresa da Minsky. Cf. G. Basti, “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 58. 100 Viene in questo modo salvaguardata e giustificata dal punti di vista informazionale, la dottrina della creazione dell’anima da parte di Dio, intesa non come atto singolare posto all’inizio di ciascuna vita umana – atto che in questo modo interrompe il corso della natura (violando così, nuovamente, il principio della conservazione della energia); ma come atto simultaneo all’intera esistenza umana. L’atto creatore, quindi, è fondante la formalità, è atto simultaneo all’intero corso della evoluzione. 101 Rispetto alla distinzione tra id quod e id quo, Tommaso afferma che il corpo è da intendersi, rispetto all’anima razionale, non come mezzo, ma come referente. Cf. G. Basti, La relazione mente-corpo, op. cit., 119; oppure, Tommaso, De anima, I,ii,46-81. Il dottore angelico, infatti, afferma che “il pensare infatti non avviene attraverso un organo corporale, ma ha bisogno di un referente corporeo”. 102 Nel De causis, alla proposizione XXV, Tommaso afferma: “Ogni conoscente che conosce la propria essenza è un ente che ritorna sulla sua propria essenza di un ritorno completo […]. E non intendo col concetto di ritorno completo di una sostanza alla propria essenza se non che tale sostanza si fonda per se stessa, senza aver bisogno per la sua fondazione e la sua essenza di una altra cosa che la controlli. Essa è dunque una sostanza semplice, sufficiente a se stessa per se stessa”. 103 Per l’Aquinate, l’anima agisce da sé nella intellezione degli universali – reflexio prima, e nella conoscenza della propria attività razionale – reflexio secunda. 20 alla maniera di una mano che esiste in sé, pur facendo parte del corpo104. L’anima, quindi, è un hoc aliquid105. Originata e retta da questa ontologica relazione di fondamento (per Tommaso, l’essere in sé è partecipato da una Causa suprema), la persona umana diviene progressivamente consapevole, capace di controllo ed autonoma dalle relazioni causali co-agenti (fisiche, biologiche, culturali). Essa è responsabile della propria anima, principio informazionale di sussistenza e di identificazione. L’uomo, infatti, “non vive solo di pane; vive di pane e informazione”106. Conclusione La spiegazione metafisico-informazionale dell’anima razionale di matrice aristotelico-tomista ha due vantaggi: essere congeniale alla teoria dei sistemi caotici, stabili fuori dall’equilibrio, ovvero alle strutture dissipative, tipiche dei viventi; salvaguardare la sussistenza dell’anima come sostanza anche separata – e quindi la sua sussistenza post-mortem – perché radicata nell’atto informante ed individuale di Dio Creatore. Il difetto è … l’immancabile equivocità dell’anima – come direbbe Galimberti, certamente senza suo plauso alcuno alla soluzione duale! Per la tradizione cristiana, infatti, l’anima non è soltanto razionale. La relazione anima/corpo, cioè, non si risolve in quella analoga tra mente e corpo. L’anima, infatti, è di più. Essendo per la fede parte del mistero di Dio, luogo intimo di comunione con lui, l’anima conserva gelosamente anche la sua ir-razionalità (non logicamente deducibile, ovvero sostanza non sintetizzabile), la non riducibilità a categorie logiche di pensiero. L’esperienza dei mistici ci dà conferma di ciò107. L’anima, in questo senso, non può essere ridotta a mente; né l’esperienza spirituale a puro pensiero. Anche Tommaso, con la teoria della partecipazione all’essere e della creazione individuale dell’anima da parte di Dio – creazione non nel tempo, come se fosse un’azione puntuale, localizzabile; ma del tempo, cioè di tutta la dimensione creaturale dell’uomo – sembra essere della medesima opinione. I risultati della soluzione duale restano, comunque, entusiasmanti, soprattutto perché consentono di parlare a testa alta di cose spirituali, costitutive della nostra fede, ponendo in fruttuoso dialogo scienza e fede. Un ultimo esempio di questa feconda collaborazione, viene ancora dalla ricerca di G. Basti. Egli afferma: “La soluzione duale al problema teologico della sopravvivenza dell’anima dopo la morte risulterebbe molto meno sorprendente di quanto oggi ci possa sembrare […]. La vita psichica […] non dipende da scambi di materia, ma da scambi di informazione con gli organi del proprio corpo che controlla e, attraverso di essi, con gli altri corpi, umano e non […]. Ciò significa che l’anima potrebbe continuare a sopravvivere di vita psichica quasi fosse una sostanza immateriale vivente autonoma, se si potesse garantire in forma artificiale a essa quegli scambi di informazione mediante i quali continuare a operare anche senza il corpo d’origine. […] Questa sorgente universale di informazione appropriata per tutte le anime umane dei defunti è Dio”108. 104 Cf. G. Basti, “La relazione mente-corpo”, op. cit., 119s. In Quaestio de anima (1, ad1), Tommaso afferma: “Sebbene l’anima abbia l’essere completo, da ciò tuttavia non segue che il corpo si unisca ad essa accidentalmente. Questo […] affinché si unico l’essere del composto”. 105 Nel De anima Tommaso afferma: “Può essere conosciuto il modo di essere della stessa anima. In quanto infatti essa ha una operazione che trascende le cose materiali, il suo essere è elevato sopra il corpo, non dipendendo da esso. In quanto invece essa è nata per acquisire la conoscenza immateriale dalle materiali, è evidente che l’essere che completa la sua specie non più prescindere dall’unione con il corpo”, in: Tommaso, Quaestio de anima,1c. 106 G. Basti, “Logica della scoperta”, op. cit., 4. 107 Mi viene alla mente, in merito all’esperienza mistica, il commento al Castello interiore di Teresa d’Avila ad opera di Edith Stein, in appendice al suo Essere finito – essere eterno. In quel piccolo ma denso contributo, l’anima è il luogo più interiore della soggettività, la dimensione fontale dell’io. Una luce, oscura. 108 G. Basti, “Dall’informazione allo spirito”, op. cit., 62-63. 21