Vol. CXCI ANNO CXXXI Fasc. 636 4o trimestre 2014 DIRETTO DA L. Battaglia RICCI - F. BRUNI - S. CARRAI - M. CHIESA A. DI BENEDETTO - M. MARTI - M. POZZI 2014 LOESCHER EDITORE TORINO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Girolamo Ruggia. – «La coltura del cuore, della mente e del corpo» e altre poesie, a cura di Irene Botta. – [Bellinzona], Edizioni dello Stato del Cantone Ticino («Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana» VIII), 2011, pp. LXXV-217. La benemerita collana “Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana”, che fra i volumi già editi comprende testi di Francesco Soave, Stefano Franscini, Carlo Salvioni e Francesco Chiesa, giunge ora al suo ottavo titolo con l’edizione dell’opera poetica di Girolamo Ruggia, esemplarmente curata e commentata da Irene Botta. Chi sia Girolamo Ruggia (Morcote [Canton Ticino] 1748 – Bologna 1823) è presto detto. Dal natìo Canton Ticino, che nel Settecento era ancora baliaggio dei cantoni della Svizzera interna, si trasferì giovanissimo a Venezia con la famiglia; entrò quindi nella Compagnia di Gesù e compì la sua formazione nel Collegio Romano sotto la guida di illustri maestri: basti ricordare il nome insigne di Luigi Lanzi. Terminato il noviziato romano, Ruggia prese a insegnare negli istituti della Compagnia, dapprima nel Centro Italia, poi a Venezia; quindi, in seguito allo scioglimento dell’Ordine (1773) e dopo un periodo trascorso in Veneto, presso il Collegio dei Nobili di Parma, dove fu docente tra il 1794 e il 1806, anno in cui l’istituzione venne soppressa per editto napoleonico. Entrò allora al servizio della famiglia Munarini-Sorra come istitutore privato del giovane Camillo, il quale divenne destinatario dell’opera sua principale, il poema didascalico in versi sciolti La coltura del cuore, della mente e del corpo. In essa l’autore-istitutore largisce all’allievo prediletto (che nel poema ha nome Lindoro) consigli sul miglior modo di educare le tre parti costitutive dell’individuo. La prima edizione è del 1809 (Bologna, Ulisse Ramponi), e contiene solo la Coltura del cuore che resterà, anche negli ampliamenti delle edizioni successive, la parte più consistente del poema. Le tre parti compaiono per la prima volta insieme nel 1812 (Modena, Geminiano Vincenzi e C.), e ancora nel 1822 nella Raccolta di poemi didascalici (Milano, per i torchi del Destefanis), con varianti. Quest’ultimo è il testo edito da Botta. A quella data, tuttavia, il testo aveva oramai un sapore postumo: il giovane Camillo era prematuramente scomparso nel 1817, e Ruggia stesso lo seguirà nella tomba di lì a poco, nel 1823. Se solo si guarda ai due punti estremi della sua non breve vita, si converrà che Ruggia aveva assistito a una serie straordinaria di eventi. Innanzi tutto il viaggio verso un paese nuovo, l’Italia, o meglio Venezia e il Veneto; poi BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Roma; poi ancora le grandi istituzioni gesuitiche; il trauma dello scioglimento dell’Ordine; la Rivoluzione; l’età napoleonica; la Restaurazione. Nell’ampia introduzione al volume, Botta traccia con mano sicura il profilo di un individuo che aveva fatto dell’impegno pedagogico il centro della propria vita morale, e che armato dei propri convincimenti aveva dignitosamente affrontato gli sconvolgimenti recati dai tempi nuovi. Un conservatore, dunque, fedele in buona sostanza alla società dell’ancien régime; ma di quei conservatori che conoscono e sanno far germogliare e fruttificare, per sé e per gli altri, le virtù umane della consapevolezza, della perizia e della moderazione. Mens sana in corpore sano, la massima pedagogica più celebre e più vulgata, condivide con il titolo dell’opera principale di Ruggia due elementi. L’autore ve ne aggiunge un terzo e preponderante, il cuore. Mi è caro a questo proposito, come credo sarà anche alla Curatrice, richiamare il nome e il lavoro di un illustre suo conterraneo. Nell’articolo ‘Schola cordis’: di metafora in metonimia, originariamente apparso nella miscellanea in onore di Virgilio Gilardoni (Lombardia elvetica, Bellinzona, Casagrande, 1986), quindi ripreso nel volume Sull’orlo del visibile parlare (Milano, Adelphi, 1993), Giovanni Pozzi ricordava che già per San Paolo, e poi anche per Sant’Agostino, il cuore è “terzo elemento” rispetto al corpo e alla mente, e come tale partecipa delle attività degli altri due nella dimensione per così dire etica e psicofisica della vita cristiana. La simbologia del cuore aveva del resto acquisito grande rilevanza per la Compagnia a partire dal Seicento, come mostra la diffusissima pratica devozionale al Sacro Cuore di Gesù (luogo d’origine la Francia, con successiva irradiazione al resto del mondo cattolico). Per Ruggia il cuore è sede degli affetti e delle passioni, ed è compito dell’educatore il guidarne efficacemente gli impulsi, secondo il presupposto che «[l]’innato / Amor di sé» (vv. 92-93), causa prima ed egoistica dei moti del cuore, va per l’appunto temperato e vòlto al bene. Si tratta dunque, entro termini e in modi diversi dai nostri, di una vera e propria educazione sentimentale. Su questo aspetto nodale del poema, l’ampio e puntuale commento di Botta offre squarci interessantissimi, fra i quali merita di essere rilevato il connubio – che non sembra avere precedenti – fra la dottrina del pagano Lucrezio e quella del cristiano Lattanzio: connubio ispirato, secondo Botta, alle più libere tendenze armonistiche della cultura letteraria e pedagogica della Compagnia (pp. LIII-LIV, 13-14). La questione del cuore, anche per l’importanza assegnatale dall’autore stesso, merita forse una parola o due di più. Il cuore del Ruggia non è il nostro cuore. Il termine, ancorché immutato, ha assunto per noi un diverso significato, o meglio valenze associative diverse; il mutare anzi della nozione di ‘cuore’ fra Sette e Ottocento è di tale momento, specie in ambito letterario, da raccomandarsi come oggetto di studio specifico. Si prenda come esempio la celebre – forse troppo celebre – critica di Leopardi a Vincenzo Monti «poeta dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo» (Zib. 36). Siamo poi certi che il «cuore» di cui parlava Leopardi avesse ancora il medesimo significato che poteva avere per Monti e – possiamo forse aggiungere – per Ruggia? Quando Manzoni scriveva: «Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto» (PS VIII), è probabile che egli, come già Leopardi, rivendicasse al cuore certe risonanze emotive che risultano essere, paradossalmente, più vicine alle nostre – onde anche la commovente ripresa di quel passo in esergo e in calce al Giardino dei Finzi- BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Contini di Bassani – che non a quelle che caratterizzavano la psicologia del contemporaneo, ancorché più anziano, Ruggia. E non sarà per accidente che Paride Zaiotti, recensendo il romanzo manzoniano nel 1827, eccepisse, fra le altre cose, proprio e specificamente a quel passo («Questa riflessione può a molti piacere, ma noi non vogliamo crederla vera […]», in «Biblioteca italiana», XII, ottobre-dicembre 1827, p. 72; il passo dello Zaiotti merita di essere letto per intero). Ma il commento più pertinente e rivelatore spetta probabilmente a Carducci. Trattando della psicologia poetica del Metastasio (autore ammiratissimo da Ruggia), Carducci ne rilevava la qualità intrinsecamente diversa rispetto a quella che siamo soliti associare all’età romantica: «Noi dell’ottocento, passati nella materia del cuore per tante burrasche d’estate, dal Lamartine per il Balzac al De Musset, e dal Goethe per il Byron all’Heine, dobbiamo pur farci una ragione che i settecentisti aveano bene il diritto di confezionare il caro cuore, come Omero lo intitola, secondo il loro gusto» (G. Carducci, Opere, Bologna, Zanichelli, 1889-1909, XIX, p. 16). Strettamente vincolate alla psicologia dell’educatore appaiono le scelte stilistiche del poeta. Il commento di Botta offre una trattazione esaustiva non solo della cultura poetica e filosofica di Ruggia, ma anche dei modi con i quali il contenuto del poema è stato travasato in forme ad esso cònsone. Ne risulta una compiuta ricostruzione dei modelli cui Ruggia si ispirò, con una messe di riscontri ricchissima ed esemplarmente articolata in note di rara perspicuità. Sulla scorta del commento di Botta mi permetto di isolare qui uno di quei modelli – uno solo, ma esemplare – perché efficacemente rappresentativo della necessità, per il poeta didascalico, di condensare la materia in una forma poetica che abbia il duplice pregio della chiarezza e della sentenziosità memorabile. Ruggia, come del resto ogni poeta del medio e tardo Settecento (e oltre) che desiderasse provarsi nella poesia celebrativa delle virtù morali, venerò come maestro ideale Metastasio. Egli fece dunque propria la lezione di stile metastasiana, di piana ed elegante brevitas immune da «sentenziare pedantesco» (come aveva acutamente notato Stefano Arteaga, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente, Bologna, Trenti, 1783-1788, I, p. 350). Neppure è un caso che i riscontri offerti da Botta conducano soprattutto al Metastasio “minore”: non solo o non tanto, dunque, ai grandi drammi per musica, ma anzi e soprattutto alle azioni teatrali e alle cantate drammatiche, dove l’elemento etico-pedagogico acquista maggior rilievo anche per l’uso frequente di personaggi allegorici. L’abilità poetica del Ruggia è fuori discussione, ma non sempre così agevolmente accessibile, cioè facile da intendere e gustare. La tessitura dei versi è spesso ardua, ricca com’è di inversioni sintattiche; lessico e immagini, forzatamente desueti per noi, dovevano in parte apparire già tali per i lettori coevi, specie per quelli che avranno preso in mano l’ultima stampa del ’22; e tuttavia, anche se in parte desueti, mai però vanamente esornativi: penso per esempio al costrutto epiteto-sostantivo, così tipico di tanta poesia neoclassica, che nei versi di Ruggia, in virtù di una calibrata variatio, non è mai risolto in formula meccanica. Tale impegno stilistico è palese anche nella sua poesia d’occasione, rappresentata nel volume da una corposa antologia (“Altre poesie”, pp. 113-200), di cui Botta dà giudizio critico positivo (pp. XXIV-XXV). Ora quale compito si assume chi si accinge a commentare un testo del genere? Occorre innanzi tutto ricordare che mai come in quell’età fu vivo il proposito consapevole di forgiare una lingua della poesia distante BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO dalla lingua comune. Leopardi, accennando ai poeti della generazione precedente la sua (Parini, Alfieri, Monti, Foscolo), osservava che «per quelli e per gli altri che li somigliano, e per l’uso de’ poeti di questo e dell’ultimo secolo, l’Italia ha oggidì una lingua poetica a parte, e distinta affatto dalla prosaica, una doppia lingua, l’una prosaica l’altra poetica» (Zib. 3418-19). Quel che Leopardi dice di Parini, di Alfieri, di Monti, di Foscolo vale anche, mutatis mutandis, per Ruggia. Per chi, come Botta, del testo di Ruggia ha voluto porre in rilievo i caratteri distintivi, urgeva la necessità di chiarire non solo ciò che non s’intende più, ma anche l’effetto che l’autore mirava a ottenere attraverso gli scarti, anche minimi, rispetto alla langue poetica del suo tempo: quindi non solo individuare, a beneficio del lettore odierno, ciò che non è più intelligibile al fine di provvedere alla chiosa esplicativa; ma anche, su un piano differente, cioè rapportato alla cultura letteraria dell’autore e del suo pubblico, distinguere tra ciò che era vulgato e ciò che non era, tra la fonte generica e la fonte specifica: per poi gerarchizzare il tutto nell’apparato delle note, valutando e illustrando in maniera differenziale tutti i piani sopra ricordati. Che tale impresa sia riuscita con pieno successo è motivo di grande e ammirata soddisfazione per chi legge, ed è esempio efficace per chi si accinga a compiti analoghi in futuro. Osserva Botta che Ruggia, nell’illustrare il tema all’allievo diletto, predilige il tono e lo stile del «precettore grave ed insieme affettuoso» (p. XXXVI). Il risultato è un registro colloquiale e insieme stilisticamente sostenuto, adeguato al proposito di chi, rivolgendosi a un giovane, intenda instillargli fiducia nei principi morali essenziali e renderlo così preparato ad affrontare il tumultuoso volgere dei tempi e delle mode. È una lezione di cultura e di umanità che, a quasi duecento anni di distanza, conserva intatto il proprio valore. Carlo Caruso