I ghetti e l`Olocausto

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I ghetti e l'Olocausto
0002000130 Per secoli le comunità ebraiche della diaspora sono state costrette a vivere in ghetti:
quartieri delimitati da mura nei quali agli ebrei era consentito di vivere e di esercitare (entro certo
limiti) la loro religione e i loro usi. I ghetti nell'Europa moderna hanno senz'altro rappresentato un
forte elemento di discriminazione e di segregazione, ma allo stesso tempo hanno offerto agli ebrei
un rifugio relativamente protetto di fronte a un mondo esterno ostile1. La ghettizzazione ha avuto
termine all'inizio dell'Ottocento, grazie all'emancipazione veicolata dalle idee della Rivoluzione
francese. Tuttavia, forme di ghettizzazione (volontaria e non) hanno continuato a sopravvivere a
lungo, soprattutto nell'impero zarista. In quelle regioni, dove si addensava il maggior numero di
ebrei europei, le comunità, costrette a subire ogni forma di sopruso, mantennero fino alla
Rivoluzione d'ottobre la caratteristica di vivere in zone delimitate dei villaggi e delle città: i
cosiddetti shtetl. Anche se formalmente non esistevano divieti di uscirne, gli ebrei orientali
tendevano a restare uniti, per opporre una certa coesione alle minacce del mondo esterno. Si
rafforzò così quella “mentalità del ghetto” (fatta di passivo adattamento allo status quo) così
duramente criticata, all'inizio del Novecento, dal movimento sionista.
Di riflesso, nelle correnti antisemite europee che si svilupparono proprio sul finire dell'Ottocento
prese forza l'idea che gli ebrei dovessero venire segregati ai margini della società; il ghetto appariva
da questo punto di vista una soluzione ottimale. Anche Hitler e i nazionalsocialisti propugnavano
l'idea di tenere sotto controllo gli ebrei del Reich, per impedire che facessero danni. Nel 1935 il
dittatore sostenne che gli ebrei tedeschi dovevano essere “rinchiusi in un ghetto, in un'area nella
quale possono comportarsi secondo la loro natura, mentre il popolo tedesco li guarda come si
guardano gli animali selvaggi”2. Un paio di anni dopo furono avviate le procedure burocratiche per
costringere gli ebrei tedeschi a traslocare tutti insieme in quartieri delimitati; un'idea che venne
ripresa dopo la “Notte dei cristalli”. Di fronte a obiezioni di natura logistica – come dare da
mangiare alla popolazione chiusa nei ghetti? – il progetto si arenò. Fu possibile soltanto vietare agli
ebrei di Berlino di risiedere in determinati quartieri; coloro che vi risiedevano dovevano
forzatamente spostarsi3.
0002000130 ‣ Dall'idea alla realizzazione . L'idea del ghetto era insomma nell'aria, come una delle
possibili soluzioni alla “questione ebraica”. Essa assunse un rilievo predominante dopo la conquista
militare della Polonia. Di colpo, sotto il dominio tedesco vennero a trovarsi quasi due milioni di
ebrei, per lo più ortodossi e refrattari a ogni assimilazione, che già vivevano in larga parte negli
shtetl. Che fare nei loro confronti? L'ordinanza emanata da Heydrich già il 21 settembre 1939 deve
perciò essere considerata come una misura temporanea, in vista di risolvere definitivamente e nella
sua complessità la questione; essa riflette la consolidata visione degli antisemiti che il ghetto fosse il
luogo ideale nel quale gli ebrei dovevano essere chiusi, per evitare che diffondessero sul territorio il
loro dannoso influsso. L'ordinanza stabiliva in modo perentorio che tutti gli ebrei residenti nei
territori polacchi occupati avrebbero dovuto essere concentrati in tempi brevi (tre o quattro
settimane) in alcuni grandi ghetti urbani4. L'ordinanza si riferiva specificatamente al Governatorato
Generale [Generalgouvernement ], il territorio risultante dalla sottrazione alla Polonia pre-bellica
dei territori occidentali annessi direttamente al Reich sotto la denominazione di Gau Wartheland e
di Gau Danzig-Westpreussen (oltre ai territori orientali assegnati all'Unione Sovietica in base al
patto Molotov-Ribbentrop). I territori annessi avrebbero dovuto essere resi quanto prima judenfrei
[liberi da ebrei]. Si prevedeva anche di espellere la maggior parte dei polacchi. I territori incorporati
avrebbero dovuto infatti essere destinati al rafforzamento del popolo germanico, offrendo una
nuova patria ai circa 700.000 Volksdeutsche [tedeschi etnici] che tra l'autunno del 1939 e la
primavera del 1941 rientrarono in Germania grazie ad accordi stipulati sia con il governo sovietico
sia con il governo rumeno. La ghettizzazione entrò perciò a far parte di quella complessa partita
politica che Götz Aly ha definito “domino etnico”5: spostare ancor più verso oriente (secondo
un'altra proposta, verso l'isola del Madagascar6) le popolazioni indesiderate o pericolose – primi fra
tutti gli ebrei – per realizzare i piani di espansione e di ingegneria sociale previsti per dare al popolo
germanico tutto lo spazio vitale che si meritava. Tali piani, via via rivisti e ampliati, sono confluiti
nel Generalplan Ost 7.
Alla realizzazione del “domino etnico” si opponevano svariati problemi; da un lato la popolazione
polacca, pur disprezzata, e quella ebraica potevano comunque essere sfruttate sul piano lavorativo;
dall'altro prese corpo uno spirito particolaristico, in base al quale ciascuno dei gerarchi ai quali
Hitler aveva affidato pezzi del territorio conquistato prese a considerare tale territorio come “suo” e
non accettava che venisse trattato come un territorio di “seconda classe”. Ciò è particolarmente
evidente nel caso del Governatorato Generale, affidato a un avvocato, Hans Frank, noto per il suo
acceso antisemitismo. Frank non era certo “amico” dei suoi sudditi polacchi ed ebrei, verso i quali
nutriva un profondo disprezzo; tuttavia egli si oppose con tutte le sue forze a che il Governatorato
venisse considerato come una “fogna” nella quale riversare tutti gli elementi indesiderati: ebrei in
primo luogo. Ciò sia perché voleva conquistare dei meriti agli occhi del Führer con
un'amministrazione oculata e proficua (per la Germania), sia perché ben presto si rese conto che era
impossibile gestire una massa di persone senza casa, senza lavoro e senza mezzi di sostentamento8.
Va infatti ricordato preliminarmente che fin dalla primissima fase dell'occupazione le autorità
nazionalsocialiste avevano emanato una serie di disposizioni per togliere agli ebrei tutti i loro averi,
mobili e immobili, bloccando i loro conti bancari e lasciando a loro disposizione soltanto modeste
somme in contanti; tutto, dalle abitazioni ai negozi alle manifatture, al mobilio e alle pellicce venne
sequestrato e sottratto agli ebrei, rendendoli così totalmente indigenti9. Scriveva un alto funzionario
tedesco nei primi giorni dell'occupazione: “Obiettivo del trattamento degli ebrei nella vita
economica deve essere quello di tagliarli definitivamente fuori e di confiscare le loro aziende
mettendole in mano ad ariani”10.
Così la ghettizzazione degli ebrei finì per essere considerata come un provvedimento temporaneo di
fronte a un orizzonte incerto, dato che in quella fase (1939-40) una “soluzione finale” del problema
ebraico appariva ancora remota. Non stupisce perciò che la costituzione effettiva dei ghetti in
Polonia abbia seguito tempi e modalità molto diversi da un caso all'altro e comunque del tutto
lontani dalla perentoria enunciazione della succitata ordinanza di Heydrich. Per usare le efficaci
parole di Browning “La ghettizzazione, infatti, fu condotta in tempi e modi differenti, per differenti
ragioni e su iniziativa delle autorità locali”11.
0002000130 ‣ La costruzione dei ghetti . Nel Gau Wartheland annesso la costruzione dei ghetti
venne avviata da subito; il primo fu quello di Piotrkow Tribunalski (ottobre 1939). Nei sei-sette
mesi successivi i principali centri della regione vennero dotati di un proprio ghetto. A Lódź, la
principale città della regione, nella quale vivevano circa 200.000 ebrei, furono approntati vari
progetti basati sulla selezione di ebrei in grado di lavorare. Questi avrebbero dovuto essere chiusi in
un ghetto collocato ai margini della città, con uno spiccato carattere industriale. Gli inutilizzabili,
invece, avrebbero dovuto essere spostati verso oriente. Quando, infine, le autorità locali decisero di
chiudere la popolazione ebraica in un ghetto, il 10 maggio 1940, esso aveva un carattere molto
diverso dai piani di cui si è appena detto. Al suo interno fu infatti rinchiusa l'intera popolazione
ebraica della città e dei dintorni. Venne invece mantenuto il proposito iniziale di collocare il ghetto
in un'area particolarmente degradata, priva di fognature, di riscaldamento, di acqua corrente12.
Il carattere temporaneo e provvisorio dei ghetti nel Warthegau era destinato a prolungarsi nel
tempo. Un mese dopo la sua istituzione si stimava in un anno il tempo indispensabile per realizzare
lo spostamento dei suoi abitanti verso est, ma nel gennaio 1941 un rapporto stimava in cinque anni
il tempo necessario per evacuare la popolazione del ghetto (circa 160.000 persone) verso oriente13.
Anche nel Governatorato i ghetti furono istituiti con tempi e modalità diversi. Il primo fu quello di
Radomsko (dicembre 1939); l'operazione proseguì nei mesi seguenti, senza alcuna apparente
regolarità, anzi mettendo in evidenza quanto pesassero le specifiche situazioni locali: vi erano ghetti
ermeticamente chiusi verso l'esterno e altri parzialmente aperti, come i grandi ghetti di Radom,
Kielce, Chelm14. A Bialystok fu distribuito un certo numero di permessi d'uscita (a discrezione
dello Judenrat, del quale parleremo più avanti). Il ghetto di Czeôstochowa venne istituito addirittura
nel marzo del 1941 ed esso mantenne almeno per un anno e mezzo un carattere piuttosto aperto,
visto che agli abitanti era consentita una certa libertà di movimento15. In alcuni ghetti la
popolazione abile venne messa subito al lavoro, in altri fu lasciata nell'inattività e nell'inedia. Anche
nel distretto orientale di Lublino la vera e propria segregazione nei ghetti fu attuata soltanto nella
primavera del 1941. Il motivo di questa decisione deve probabilmente essere individuato nella
volontà di impedire che gli ebrei, liberi di muoversi, potessero intralciare la preparazione
dell'attacco contro l'Unione Sovietica, del quale il distretto era la retrovia.
A Varsavia, il problema di come chiudere tutti gli ebrei in un ghetto si trascinò a lungo a causa sia
delle divergenze d'opinione sia delle difficoltà oggettive. Il quartiere ebraico era infatti al centro
della città e uno spostamento di circa 350.000 persone – tanti erano gli ebrei nell'ex capitale polacca
stando ai censimenti pre-bellici – avrebbe creato problemi organizzativi e logistici insormontabili.
Vi fu addirittura chi, nell'apparato d'occupazione, obiettò sull'opportunità di togliere alla città una
componente essenziale del suo tessuto economico e sociale16. Fu probabilmente l'emergenza
sanitaria ad affrettare invece la decisione; le autorità sanitarie del Governatorato, imbevute di
pregiudizi antiebraici ma anche consapevoli delle difficilissime condizioni igieniche in cui versava
la popolazione ebraica, temevano che potessero esplodere epidemie di tifo incontrollabili, che
avrebbero devastato l'intero Governatorato. Premevano perciò affinché agli ebrei fosse vietata, o
ridotta al massimo, qualsiasi libertà di movimento. Non è un caso che la decisione presa da Frank in
maggio, e poi definitivamente resa nota il 12 ottobre 1940, fosse quella di istituire un ghetto
ermeticamente chiuso da un grande muro e denominato Seuchensperrgebiet, ovvero “area di
quarantena”. L'ambizioso governatore si convinse che la ghettizzazione era il male minore in attesa
di una soluzione definitiva.
Ma quanto stridente fosse il contrasto fra volontà e complessa realtà sul campo è dimostrato proprio
dalla capitale del Governatorato, Cracovia, scelta per le sue tradizioni germaniche. Frank non
avrebbe voluto che nella “sua” capitale abitassero degli ebrei17. Diede perciò ordine che fossero tutti
espulsi nei centri vicini, provocando così le proteste dei funzionari locali, che a loro volta cercavano
di liberarsi dei loro ebrei; l'esito di questa vicenda fu che alla fine Frank fu costretto a creare un
ghetto nel degradato quartiere periferico di Podgorze al di là della Vistola, nel quale furono
addensati in condizioni miserevoli circa 16.000 dei 60.000 ebrei originariamente residenti nella
città18.
In tutta la Polonia occupata vennero così istituiti circa 400 ghetti, ma la cifra è probabilmente
sottostimata19. In ogni caso, la ghettizzazione assunse un tratto di temporaneità che andava
allungandosi nel tempo, fin quasi a dare agli ebrei la sensazione che si trattasse di una situazione
destinata a durare nel tempo.
La ghettizzazione assunse un carattere profondamente diverso nei territori conquistati dalle armate
tedesche a partire dal 21 giugno 1941, ovvero dall'attacco contro l'Unione Sovietica. Hitler lanciò
una guerra “ideologica” che avrebbe dovuto essere diversa da tutte le altre e che avrebbe dovuto
portare all'eliminazione definitiva del nemico. Fin dalla fase di preparazione furono costituiti reparti
speciali, le cosiddette Einsatzgruppen, per spazzare via qualunque ostacolo e tutti i nemici, fra i
quali vennero collocati in primo piano gli ebrei20. A differenza degli ebrei polacchi, disprezzati più
che temuti, gli ebrei sovietici venivano associati al nemico comunista (entro la categoria del
“giudeo-bolscevismo”)21 e quindi temuti come una minaccia politica, militare e ideologica. La
campagna militare fu perciò accompagnata da massacri di enormi dimensioni, che portarono
all'eliminazione in pochi mesi di centinaia di migliaia di ebrei (520.000 secondo le cifre ufficiali
fornite dalle Einsatzgruppen entro l'aprile 1941). Intere comunità vennero spazzate via22. A questi
massacri parteciparono, spesso su propria iniziativa, gruppi di miliziani nazionalisti o semplici
cittadini, che si aspettavano dai tedeschi la “liberazione” dal giogo giudeo-comunista23.
Ciononostante, le autorità d'occupazione emanarono, allo stesso modo che in Polonia, disposizioni
volte a chiudere gli ebrei nei ghetti, con le medesime finalità: impedire loro di muoversi e di
nuocere. Ma nel caso sovietico mi pare decisiva la volontà di ridurre prioritariamente il numero
delle bocche da sfamare, in una situazione nella quale le autorità d'occupazione intendevano
sfruttare al massimo le risorse disponibili sul territorio per sfamare le truppe e per trasferire nella
madrepatria quanti più rifornimenti possibili24. Per tutte, potremmo citare l'ordinanza emanata dal
commissario per l'Ostland (un territorio che comprendeva grosso modo la Bielorussia e i tre stati
baltici) Hinrich Lohse, datata 13 agosto 194125, che riprendeva le linee principali dell'ordinanza
Heydrich del settembre 1939 come se tutt'attorno non stesse accadendo nulla.
La ghettizzazione divenne perciò quasi un evento residuale. Facciamo qualche esempio: a Kaunas le
violenze dei primi giorni videro in prima linea i miliziani lituani e la folla ebbra di vendetta, tanto
che una testimone arrivò al punto di augurarsi che i tedeschi arrivassero presto a ripristinare
l'ordine26. In poche settimane furono massacrate circa 3800 persone, per la stragrande maggioranza
maschi, secondo uno schema, usuale in quei territori, che contrasta con le successive selezioni
compiute in altri ghetti, dove a essere rastrellati ed eliminati erano soprattutto gli elementi inutili e
improduttivi27. Il caso opposto è quello di Lódź, ma le motivazioni erano radicalmente differenti:
nei territori sovietici occupati ci si preoccupò soprattutto di eliminare i soggetti potenzialmente
pericolosi, ovvero i maschi adulti, mentre nei ghetti che erano diventati produttivi, come appunto
Lódź, la preoccupazione era quella di “razionalizzare” la popolazione esistente, eliminando coloro
che consumavano le poche derrate alimentari disponibili senza essere produttivi.
Torniamo al caso di Kaunas; a metà agosto, dopo avere eliminato complessivamente circa 10.000
persone, le autorità tedesche decisero di chiudere i sopravvissuti nel quartiere di Viljiampole,
tradizionale sede della comunità ebraica. Qui furono istituiti due ghetti separati. Il primo, cosiddetto
“piccolo”, conteneva circa 2500 persone ritenute improduttive, che ai primi d'ottobre furono tutte
rastrellate ed eliminate. Si può quindi vedere come i criteri che improntavano le brutali decisioni
delle autorità d'occupazione fossero rapidamente cambiati: ora servivano tutte le forze lavorative
disponibili. Modalità simili vennero seguite anche nell'altra grande città lituana: Vilnius28.
Complessivamente, dei circa 220.000 ebrei lituani, ben 175.000 furono sterminati nei primi due-tre
mesi di occupazione. Rimasero in piedi quattro ghetti: Vilnius, con circa 20.000 abitanti, Kaunas
(18.000), ëiauliai (5000) e il piccolo ghetto rurale di Swieçiany.
Anche negli altri territori orientali conquistati le modalità della ghettizzazione furono tardive e
comunque precedute da una drastica riduzione della popolazione ebraica preesistente. Lo stesso
avvenne in Galizia, una provincia polacca che nel 1939 era però stata attribuita all'Unione
Sovietica. Le autorità d'occupazione si trovarono a fare i conti con una popolazione ebraica
rigorosamente ortodossa. Qui ci si scontrò in buona misura con la vera e propria incarnazione del
preconcetto dell'Ostjude, l'ebreo orientale sporco, retrivo e ottuso. Le autorità d'occupazione
operarono perciò con una straordinaria durezza, facendo della regione un carnaio. Alle motivazioni
ideologiche si mescolava la volontà di attenuare i problemi logistici, riducendo la popolazione; così
dei circa 160.000 abitanti ebrei di Lwów, nel ghetto, costituito soltanto nell'agosto del 1942, ne
vennero chiusi appena 60.000. Nel caso della Galizia è evidente come “non sia possibile individuare
in questa fase una pianificazione centrale della ghettizzazione”29.
In molti casi, nei territori sovietici occupati i ghetti ebbero strutture rudimentali rispetto a quelli
polacchi: una recinzione o poco più30; la popolazione venne lasciata per lo più a se stessa. Solo in
alcuni casi, secondo l'interesse contingente degli occupanti, gli abitanti furono sottoposti a un duro
sfruttamento lavorativo, che peraltro significava una modesta razione quotidiana di cibo e la
speranza di poter sopravvivere almeno per un certo periodo di tempo. In molti casi, i ghetti furono
istituiti e poi demoliti subito dopo: a Jalta dopo dodici giorni, a Odessa dopo poche settimane. Il
principale ghetto sul suolo sovietico fu quello di Minsk, che arrivò a contenere circa 100.000
abitanti. Esso ebbe vita più lunga rispetto agli altri ghetti sovietici di cui conosciamo la sorte (ma in
moltissimi casi non sappiamo nulla)31. Alla fine di luglio il ghetto venne ermeticamente chiuso e
dotato di quelle strutture di autogoverno, dallo Judenrat alla polizia ebraica, che sono caratteristiche
della ghettizzazione in Polonia. Seguì una fase caratterizzata da ininterrotti rastrellamenti che
ridussero gli abitanti di oltre 12.000 unità; obiettivo era quello di fare spazio ai primi trasporti di
ebrei provenienti dal Reich, che a partire dall'ottobre del 1941 iniziarono a essere deportati verso
est. Nacque così un secondo ghetto, cosiddetto “di Amburgo”. Entrambi i ghetti furono
definitivamente liquidati nell'ottobre del 1943, quando sul suolo sovietico occupato non v'era più da
lungo tempo alcun insediamento ebraico32.
Rimane da accennare brevemente ad altre due ghettizzazioni nelle quali accanto ai tedeschi svolsero
un ruolo importante i loro alleati: Romania e Ungheria. La Transnistria era una regione meridionale
dell'Ucraina, situata fra i fiumi Dnjester e Bug, che nell'agosto 1941 Hitler, euforico per la grande
avanzata in corso, concesse all'alleato, maresciallo Antonescu. Nella regione vivevano circa
300.000 ebrei, una parte dei quali già massacrata dai tedeschi nella fase iniziale della campagna. Le
autorità rumene colsero l'occasione per avviare a soluzione il problema ebraico; non toccarono la
popolazione ebraica residente nel cosiddetto Regat, ovvero nel territorio originale dello stato
rumeno, ma iniziarono a deportare verso la Transnistria decine di migliaia di ebrei rastrellati dai
territori della Bucovina e della Bessarabia appena conquistati. Gran parte di loro morirono durante
le marce forzate, compiute nella più assoluta disorganizzazione e in un clima di diffusa violenza,
anche da parte delle popolazioni delle zone attraversate. Coloro che sopravvissero furono chiusi in
decine di piccoli e piccolissimi ghetti, o campi (la distinzione è difficile), molti dei quali avevano un
centinaio di abitanti o poco più. Le condizioni di vita in questi ghetti improvvisati, nei quali gli
ebrei deportati furono costretti a vivere insieme ai superstiti delle locali comunità, erano disastrose,
a causa del totale disinteresse delle autorità rumene33. In alcuni casi, la collaborazione con gli ebrei
locali consentì di allestire strutture comunitarie e di dare lavoro a un certo numero di ebrei, in modo
da migliorarne le condizioni di vita (è il caso del ghetto di Mogilev, con circa 16.000 abitanti)34. Al
di là di pur ingenti perdite, dovute a malattie, all'inedia e ai maltrattamenti, si può ritenere che una
parte consistente degli ebrei rumeni ghettizzati sia sopravvissuta.
Ciò non vale invece per gli ebrei ungheresi chiusi nei ghetti, poiché in questo caso la ghettizzazione
era direttamente strumentale al loro trasporto verso Auschwitz. Come è noto, il governo autoritario
di Horthy aveva cercato di preservare gli ebrei ungheresi (oltre 700.000) dalle politiche di
sterminio, ma fu costretto a cedere. Nella primavera del 1944 il nuovo governo, impostogli dai
tedeschi che avevano invaso il paese, iniziò a istituire un gran numero di ghetti piccoli e grandi,
prevalentemente in aree degradate. Questa ghettizzazione si svolse con la sostanziale collaborazione
degli ebrei stessi, convinti che si trattasse di una misura temporanea. E in effetti fu così, dato che fra
luglio e settembre furono trasferiti ad Auschwitz. La popolazione ebraica di Budapest venne invece
chiusa in un grande ghetto solo nel dicembre del 1944, dopo che il partito radicale delle Croci
Frecciate aveva potuto prendere il potere sotto la protezione dei tedeschi. Fino a quel momento la
popolazione di molti dei ghetti rurali era stata deportata verso Auschwitz e sterminata35. Il ghetto di
Budapest, invece, pur sottoposto a quotidiane violenze da parte delle Croci Frecciate, funse da
rifugio per la maggioranza degli abitanti ebrei della città, i quali sopravvissero così allo sterminio36.
0002000130 ‣ Vivere nel ghetto . Lo spostamento nei ghetti rappresentò in generale uno
sradicamento drammatico, al quale il freddo linguaggio della burocrazia tedesca attribuisce
un'ulteriore patina di cinismo. Scrive ad esempio Waldemar Schön, uno dei responsabili della
gestione del ghetto varsaviano:
Complessivamente è stato possibile realizzare lo spostamento di 113.000 polacchi e 138.000 ebrei.
È sorprendente che lo spostamento di circa 250.000 persone sia stato realizzato nel breve arco di
tempo di meno di sei settimane senza spargimento di sangue e che solo nell'ultimissima fase sia
stato necessario ricorrere alla pressione poliziesca37.
In effetti, pur con significative differenze da un caso all'altro, lo spostamento fu accompagnato dalla
violenza, aperta o sottile. Aperta era la violenza che accompagnò le marce forzate degli ebrei
rumeni ricordate poco sopra. Aperta era la violenza perpetrata sul cosiddetto “ponte dei morti”, che
collegava la città con il costituendo ghetto di Lwów. Scrive un testimone:
I controlli sui bagagli da parte dei poliziotti ucraini e tedeschi vennero attuati con estrema brutalità.
La maggior parte dei bagagli vennero spesso dimezzati, dato che i poliziotti si impadronivano di
tutto ciò che piacesse loro.
Quel ponte costò la vita a circa 5000 persone38. Sottile era la violenza dei vicini di casa ai quali gli
ebrei erano costretti a vendere a prezzi stracciati il mobilio che non potevano portare con sé, o la
loro stessa casa, talvolta con la promessa che allorché la guerra fosse finita la finta vendita sarebbe
stata annullata. La ghettizzazione costituì un vero e proprio terremoto sociale, liberando quartieri
borghesi e benestanti per i più abili e opportunisti. “Ebrei dotati di denaro offrivano i loro lussuosi
appartamenti in cambio delle miserabili capanne dei lituani, che dovevano abbandonare la zona”,
scrive un testimone da Kaunas. “La rivalità per lo spazio era furiosa”39. Ad alcuni, però il
trasferimento nel ghetto apparve quasi come una sorta di liberazione dalle violenze cui erano
giornalmente sottoposti, sia da parte della polizia tedesca e dei gendarmi nazionalisti, sia da parte
della gente comune. Scrive uno dei maggiori diaristi, lo storico varsaviano Emanuel Ringelblum:
All'angolo di via Chlodna e Zelazna esercizi ginnastici con pietre e mattoni, per chi si era levato il
cappello troppo tardi. Anche gli ebrei anziani debbono fare flessioni. Buttano dei pezzetti di carta
nel fango e gli ordinano di raccoglierli”40.
Ad alcuni, soprattutto ai più giovani, l'ingresso nel ghetto apparve almeno all'inizio come
un'avventura. Scrive Janina Bauman nella sua memoria romanzata:
L'appartamento è grazioso. Quando ci entrai per la prima volta mi sentii eccitata. Si apriva per me
un nuovo genere di vita, qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. Spiacevole forse – ma
forse non troppo spiacevole – diverso e pertanto eccitante41.
La vita quotidiana nei ghetti si rivelò irta di difficoltà e di problemi: il sovraffollamento, la carenza
di cibo e di lavoro, l'impossibilità di muoversi fuori dai recinti del ghetto stesso, lo spettro della
fame e delle malattie che, come vedremo più avanti, flagellarono i ghetti grandi e piccoli. Tuttavia,
all'interno dei ghetti si andò articolando una vita sociale molto intensa e variegata, che in parte
portava con sé l'eredità della comunità ebraica precedente. Non corrisponde perciò al vero quanto
andava cantando ossessivamente il “pazzo” nel ghetto di Varsavia, un mendicante di nome
Rubinstein, la cui cantilena ripeteva “tutti uguali, tutti uguali!”42.
I ghetti possono essere considerati come una struttura sociale complessa, che aveva le sue
peculiarità e i suoi spazi di autonomia. Certo, quest'autonomia andò scontrandosi con la realtà
circostante e con la pressione delle autorità nazionalsocialiste, che facevano mancare alla società del
ghetto l'aria stessa in cui potesse almeno sopravvivere. Da questo punto di vista i ghetti si
differenziano nettamente rispetto ai campi di concentramento (per non parlare di quelli di
sterminio), nei quali la struttura sociale interna, estremamente rudimentale, era sostanzialmente
eterodiretta dai carnefici43. I margini di autonomia della società del ghetto erano ridotti e tendevano
con il passare del tempo a ridursi vieppiù. Tuttavia, pur riconoscendo che una parte maggioritaria
della popolazione tendeva a ridursi a uno stato di annullamento sociale e fisiologico, si può
comunque riconoscere all'interno dei ghetti un tessuto sociale, economico e culturale. Parti delle
comunità ebraiche preesistenti subirono un netto declino sociale: si pensi soprattutto agli
intellettuali e ai religiosi. Tra i primi, colonna portante della comunità, molti divennero dei pesi
morti, per lo più incapaci di assumersi i nuovi duri compiti del lavoro e della lotta per la
sopravvivenza. “Fra i nuovi portinai delle case si trovano numerosi membri dell'intellighenzia
ebraica di Varsavia, come – ad esempio – insegnanti, musicisti, avvocati, ingegneri”44. Tanto più
che le autorità d'occupazione vietarono il proseguimento dell'attività scolastica45. Anche la
religione, cui peraltro i tedeschi lasciarono un certo spazio, perdette la sua centralità.
Accanto alle vecchie classi abbienti, che cercarono di mantenere il proprio status, emersero
categorie di “nuovi ricchi”, più capaci di cogliere la situazione e i margini di guadagno che essa
offriva. Tra i nuovi ricchi spiccano senz'altro i contrabbandieri, ma anche i nuovi capi dei Consigli
ebraici, che seppero ritagliarsi una serie di privilegi rispetto alla massa della popolazione. Questa
rimaneva povera, poverissima, con una tendenza a scendere al di sotto dei livelli di sopravvivenza.
La società del ghetto iniziò così a pullulare di figure nuove, o comunque precedentemente presenti
solo in modo marginale: i mendicanti e i profughi. Ben presto il numero degli indigenti divenne tale
da superare le tradizionali capacità della comunità di aiutare i più sfortunati; lo stesso avvenne per i
profughi, che in gran numero si spostavano, coatti o volontariamente, nei ghetti maggiori. In questo
senso, la politica tedesca di concentrare gli ebrei nei ghetti di maggiori dimensioni finì per appaiarsi
con la tendenza di molti ebrei che vivevano nei villaggi di recarsi nel ghetto della città più vicina,
sperando di trovare al suo interno una maggiore protezione. Basti pensare che nella primavera del
1941 i ghetti del distretto di Lublino accolsero oltre 55.000 profughi (ovvero il 28,5% della loro
popolazione); secondo il censimento del 31 dicembre 1941, nel grande ghetto di Varsavia i profughi
erano oltre 78.000 (un quinto della popolazione) e provenivano da 73 località differenti; e nei mesi
seguenti il loro numero crebbe ulteriormente46. Indigenti e profughi erano le categorie più
pesantemente colpite dalle epidemie e dalle malattie, che divennero endemiche all'interno dei ghetti.
Si può parlare perciò di una polarizzazione, in parte nuova, della società ebraica nel ghetto, con una
tendenza al peggioramento generale delle condizioni di vita. Ha scritto a questo proposito una
studiosa israeliana:
La speciale vita nel ghetto di Varsavia ha creato due nuove classi, nettamente diverse l'una
dall'altra. Mentre cresceva il numero dei deboli e dei moribondi, i tipi aggressivi – membri di bande
di contrabbandieri o altri implicati nel contrabbando – diventavano vieppiù ricchi47.
Le testimonianze diaristiche sono piene di immagini contraddittorie; ne riportiamo solo una a titolo
esemplificativo:
Le vetrine sono piene del meglio, ma chi è in grado di poterselo permettere? È caratteristico del
nostro tempo che accanto a vetrine ricolme di dolci vi siano bambini morti, coperti solo di fogli di
giornale, in via Karmelicka48.
Queste profonde contraddizioni sociali provocarono un'intensa attività politica, pur se questa
dovette svolgersi nella clandestinità49. Va però osservato che le autorità d'occupazione si
preoccuparono poco di ciò che accadeva all'interno dei ghetti, soprattutto in Polonia. Quest'attività
politica presenta delle novità rispetto al passato; molti dei partiti nei quali si era suddivisa
precedentemente50 la frastagliata comunità ebraica sparirono, e soprattutto i vecchi gruppi dirigenti,
in parte fuggiti, in parte eliminati subito, furono sostituiti da una nuova generazione che si accostò
alla politica in questo difficile frangente, individuando i suoi interlocutori critici in primo luogo
negli Judenräte, di cui parleremo più avanti.
Nei ghetti si mantenne viva anche un'intensa attività artistica e culturale, in parte patrocinata dal
basso, ma in parte anche gestita dai capi degli Judenräte. A titolo di esempio, ricordo l'intensa
attività teatrale e musicale realizzata nel ghetto di Vilnius (non senza polemiche interne sulla sua
opportunità sul piano etico), nel quale funzionò anche una fornita biblioteca pubblica51.
0002000130 ‣ Tra sfruttamento del lavoro e logoramento . Abbiamo già visto come il ruolo
attribuito ai ghetti dalle autorità nazionalsocialiste sul posto fosse caratterizzato da notevoli varianti
e oscillazioni. Non stupisce che il trattamento cui esse sottoposero gli abitanti fosse
conseguentemente diverso a seconda dei casi, seppure collocabile ai gradi estremi della durezza e
della disumanità. Da un lato possiamo notare la posizione di Goebbels, il quale ebbe a definire i
ghetti come delle “cassette della morte” [Todeskisten ]52; una volta chiusi lì dentro gli ebrei
sarebbero prima o poi morti di fame e di malattia e in qualche modo il problema si sarebbe risolto
“da solo”. Da questa impostazione discende la pratica che Browning ha definito degli attritionists
(“logoramentisti”), ovvero di coloro che volevano mettere gli ebrei ghettizzati nelle peggiori
condizioni per accelerarne la scomparsa53. L'esempio più eclatante è quello di Varsavia, dove le
autorità d'occupazione, dopo aver tolto agli abitanti tutto ciò che possedevano, li chiusero entro le
mura del ghetto lasciando che l'inedia e le malattie facessero il resto. Seguendo la dicotomia
individuata da Browning, sul lato opposto si collocano coloro che intendevano sfruttare la
disponibilità di una manodopera praticamente gratuita a favore dell'economia di guerra tedesca: i
“produttivisti”. Il caso più eclatante è quello di Lódź, il secondo maggiore ghetto. Le autorità locali
si erano rese conto che la speranza di liberarsi a breve termine di quella popolazione indesiderata si
era allontanata nel tempo; questa consapevolezza indusse a prendere in considerazione la possibilità
di creare fabbriche all'interno dei ghetti o comunque di usarne la manodopera all'esterno. Ciò
avvenne in molti casi con il sostegno dei Consigli ebraici, gli Judenräte, che erano stati istituiti
dalle autorità nazionalsocialiste.
Poiché a questo aspetto specifico sarà dedicato un apposito contributo in questa opera, mi limiterò
ad alcuni cenni essenziali. Ricollegandosi alle tradizioni di autogoverno delle comunità ebraiche, le
autorità decisero di affidare agli ebrei stessi la gestione dei ghetti. I Consigli avrebbero dovuto
assumersi la piena responsabilità delle decisioni più sgradite alla popolazione, consentendo così di
scaricare all'interno del ghetto molte tensioni54. Quest'aspettativa si realizzò pienamente, come
attestano innumerevoli testimonianze coeve che criticano duramente gli Judenräte per la loro
inefficienza, corruzione, arroganza. Ringelblum fu uno dei critici più aspri dello Judenrat, al quale
addebitò di svolgere una politica che danneggiava la popolazione più misera. “L'operato del
Consiglio ebraico è tutta una malvagità messa in atto ai danni dei poveri. La politica finanziaria del
Consiglio è un unico, immenso scandalo”55. Mentre un testimone da un piccolo ghetto della Polonia
occidentale scrive:
I membri del Consiglio erano capi autoproclamatisi, dotati di scarsa coscienza [...] Si premurarono
in primo luogo di proteggere se stessi, le proprie famiglie e i propri amici dalle privazioni e dalle
discriminazioni, che subiva il resto di noi56.
E le citazioni si potrebbero moltiplicare. Tali critiche si sono protratte fino ai giorni nostri; basti
pensare alle polemiche innescate in Israele negli anni Sessanta dalle feroci critiche rivolte da
Hannah Arendt ai Consigli ebraici. La filosofa ebraica, commentando il processo a Eichmann,
aveva scritto:
La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi,
dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei
milioni57.
D'altro canto, le autorità tedesche affidarono ai Consigli un numero crescente e vieppiù oneroso di
responsabilità: dalla gestione dell'approvvigionamento ai servizi sanitari, alla gestione delle
manifatture, ecc. Ciò determinò una crescita esponenziale degli apparati burocratici, e questo
significava per un crescente numero di famiglie razioni meno scarse (talora abbondanti), l'accesso
alle limitate riserve di combustibili, addirittura un salario. Ciò che soprattutto sembrava
contraddistinguere i membri dei Consigli dagli altri abitanti del ghetto era il privilegio
dell'“immunità personale, immunità per la propria famiglia e persino per le proprie case”58. A
Varsavia il Consiglio ebraico prima della guerra notava 532 impiegati stabili; nel giugno del 1943
essi raggiungevano le 6000 unità, più 2100 poliziotti. A Lódź il personale impiegato dallo Judenrat
arrivò a contare quasi 13.000 persone: un abitante su nove. A Lwów il Consiglio aveva alle sue
dipendenze circa 4000 persone, ovvero il 4,5% della popolazione59.
Gli sforzi di molti esponenti della dirigenza ebraica, trovatisi a dover guidare le proprie comunità in
una situazione così difficile, erano tesi a ridurre i danni. Va anche tenuto presente che in molti casi a
essere scelti per questo ruolo furono esponenti di secondo o terzo piano della comunità. Ciò era
dovuto in parte al fatto che molti leaders ebraici erano riusciti a fuggire tempestivamente (come nel
caso di Varsavia), e in parte al fatto che inizialmente le autorità d'occupazione avevano provveduto
a eliminare proprio i capi rispettati delle comunità, come avvenne soprattutto nei territori orientali
dopo il giugno 1941. Scriveva sprezzante un diarista di Varsavia: “Sono uomini tutto-muscoli messi
sulle nostre spalle da stranieri [...] Non sono mai stati eletti e non si sarebbero neppure sognati di
essere eletti”60.
Se a Varsavia e a Lódź furono nominati a capo dello Judenrat esponenti di secondo piano della
comunità (rispettivamente Adam Czerniakow e Chaim M. Rumkowski), altrove vennero alla ribalta
uomini nuovi – come Ilya Mushkin a Minsk, Moses Merin in Slesia, o Anatole Fried a Vilnius –
scelti magari perché parlavano bene il tedesco o per qualche strano gioco del destino. Secondo la
visione che i nazionalsocialisti avevano della politica, non erano tanto i Consigli a contare, quanto i
loro “presidenti”61. Costoro vennero perciò investiti di poteri che agli occhi della popolazione
apparivano assai ampi, quasi di vita o di morte. D'altra parte, a Lódź era Rumkowski a stilare le liste
di coloro che dovevano essere consegnati ai tedeschi (per essere eliminati nel vicino campo di
sterminio di Chelmno) per ridurre la popolazione eccedente e salvare almeno una parte della
comunità62, mentre nel “ghetto amburghese” di Minsk il presidente, un certo dottor Frank, si vide
attribuito il potere di bastonare chi non rispettava le disposizioni emanate da lui, o più spesso dai
tedeschi e che a lui toccava applicare63. Né va dimenticato che in molti casi questi “presidenti” si
sentirono investiti di una missione quasi messianica64, che li vide da un lato preoccuparsi del bene
della comunità (creando scuole, istituendo mense, ma anche circoli letterari e residenze “estive” per
i dipendenti dello Judenrat), ma dall'altro ritenere di avere il diritto/dovere di decidere ciò che fosse
bene. Mi sembra sia particolarmente significativo dei dilemmi di fronte ai quali si trovavano questi
impotenti intermediari quanto affermato da Merin nella fase cruciale dei rastrellamenti nei ghetti
slesiani a lui affidati:
Io sono dinnanzi a una gabbia, nella quale vi è una tigre molto affamata. Io le riempio le fauci di
carne, carne dei miei fratelli e sorelle per trattenerla nella gabbia e impedire che esca e ci sbrani
tutti65.
In verità, non solo i “potenti” capi dei Consigli erano sottoposti a incessanti umiliazioni da parte dei
tedeschi (Czerniakow venne più volte bastonato da semplici poliziotti); non appena davano segno di
volersi ribellare al ruolo scomodo di esecutori essi venivano liquidati: così, Lwów ebbe tre diversi
Consigli a seguito dell'impiccagione pubblica di chi non voleva piegarsi. Dopo la barbara uccisione
dell'ultimo presidente, l'avvocato Henryk Landsberg, “non si trovò più nessun ebreo disposto a
diventare presidente. Ciò che restava della comunità rimase perciò disorganizzato e apatico”66.
Torniamo alla strategia del lavoro, attorno alla quale convergevano per differenti motivi gli interessi
sia delle autorità nazionalsocialiste sia quelli dei Consigli ebraici. Ai funzionari nazionalsocialisti
importava fare bella figura con i propri superiori, mostrando che nel ghetto loro sottoposto tutto
funzionava senza intoppi; non da ultimo, essi erano motivati da interessi personali, potendo trarre
per sé notevoli guadagni dalle attività produttive nei ghetti. In un certo senso, alcuni degli
amministratori dei ghetti sentivano che il loro destino era legato a doppio filo a quello degli ebrei
loro sottoposti. È dunque plausibile che non mentisse il responsabile del ghetto di Kaunas, Jordan,
quando dichiarò al presidente dello Judenrat : “Quanto più utile traiamo da voi ebrei, tanto più alte
sono le vostre possibilità di sopravvivere”67. In molti ghetti vennero perciò allestite manifatture alle
quali le autorità tedesche affidavano commesse fornendo le necessarie materie prime. A Lódź, come
abbiamo già detto, la strategia produttivistica vide il suo culmine: decine di migliaia di uomini,
donne, fino ai ragazzini di dieci-dodici anni vennero messi al lavoro sotto il controllo della
burocrazia dello Judenrat. Scrive un diarista:
Non esistono bambini nel ghetto. I piccoli ebrei non vanno a lavorare prima dei dieci anni, ma
fanno la fila davanti alle cucine e alle panetterie [...] Ebrei di undici anni vanno già a lavorare. I loro
visi sono privi di barba, non hanno una donna, ma già vanno a lavorare68.
Quando, ai primi di agosto del 1944, il ghetto venne definitivamente sciolto e la popolazione
restante deportata verso Auschwitz, nessuno degli oltre 60.000 abitanti era improduttivo.
Nella stessa direzione si mossero altri capi dei ghetti, da Jakob Gens a Vilnius, a Ephraim Barash a
Bialystok; essi fecero del lavoro la loro strategia di sopravvivenza. Convinti che in una situazione di
guerra i loro tormentatori non potessero fare a meno delle capacità produttive delle comunità,
perseguirono con decisione la politica di trasformare i ghetti in centri di produzione per l'economia
di guerra. Faceva scrivere Gens nel maggio 1942 nel giornale del ghetto:
Dobbiamo diventare una vera società lavoratrice, creativa, produttiva, e conquistare attraverso i
risultati economici il nostro diritto di esistere69.
Per raggiungere il loro scopo erano disposti ad agire con polso di ferro contro i critici e i renitenti;
coloro che cercavano di sfuggire all'obbligo di lavoro venivano arrestati dalla polizia del ghetto e
costretti a lavorare, o in alcuni casi addirittura consegnati ai tedeschi. Oppure, come nel caso
succitato di Lódź, i capi dei ghetti erano disposti a consegnare ai tedeschi tutte le persone
improduttive, compresi i bambini, pur consapevoli – almeno così si può supporre – che il destino
dei rastrellati non fosse quello di andare in qualche colonia agricola a est, come proclamavano
ufficialmente le autorità tedesche.
Particolarmente difficile risultava reclutare le cosiddette “colonne” che le autorità d'occupazione
reclamavano giorno dopo giorno per lavori all'esterno del ghetto; ciò era dovuto in parte al fatto che
si trattava molto spesso di lavori assai duri e pesanti, ma in parte anche alla crescente diffidenza e
paura degli abitanti del ghetto, timorosi che dietro il reclutamento di una colonna di lavoratori si
nascondesse il tranello di un rastrellamento verso un destino ignoto. La polizia dei ghetti dovette
perciò intervenire con crescente brutalità. D'altro canto – e ciò attesta l'estrema complessità della
vita nel ghetto – andare fuori a lavorare poteva offrire la possibilità di fare qualche scambio con la
popolazione indigena, per portare a casa del cibo. A Kaunas, giornalmente circa 4000 persone
uscivano dal ghetto per lavorare, a Vilmius erano oltre 9000.
Varsavia rappresenta senza dubbio il caso più macroscopico di una forte concentrazione di persone
private fin dall'inizio della possibilità di lavorare. Secondo una statistica tedesca risalente al gennaio
1941, dei circa 400.000 abitanti del ghetto oltre 100.000 possedevano una qualifica professionale
utile, ma solo poche migliaia lavoravano legalmente70. Se è comprensibile la posizione dei
“logoramentisti”, non è invece facilmente spiegabile come mai il gruppo dirigente dello Judenrat
varsaviano non abbia premuto in alcun modo per ottenere delle possibilità di lavoro. Si può
azzardare una spiegazione multicausale, che da un lato tiene conto della scarsa legittimità di
Czerniakow e dei suoi collaboratori, timorosi di incidere su uno status quo instabile (non
dimentichiamo che dovevano governare su una città di oltre 400.000 abitanti), e dall'altro della
visione liberistica dello Judenrat, così spesso criticata dalla stampa clandestina del ghetto, che
invece aveva una prevalente impronta socialista.
A partire dall'autunno del 1941, anche di fronte al rapido deteriorarsi della situazione sanitaria
all'interno del ghetto, fra le autorità prevalse un atteggiamento favorevole ad attivare le forze
produttive interne al ghetto. Vennero fra l'altro messe a disposizione scorte supplementari di cibo,
per rinvigorire un poco i potenziali lavoratori. Una parte delle attività produttive fu affidata a
imprese tedesche, interne ed esterne al ghetto, ma fu anche attivata una serie di officine di
produzione gestite direttamente da ebrei, i cosiddetti shops. Il loro rapido diffondersi attesta del
fatto che all'interno del ghetto non mancassero, nonostante tutte le requisizioni, dei capitali
rilevanti. Le esportazioni dal ghetto quintuplicarono in pochi mesi, tanto da fare scrivere a una
giovane diarista con orgoglio:
Siamo indipendenti, per così dire, dal mondo esterno. Non solo non riceviamo più dall'esterno
numerosi articoli [...] ma esportiamo perfino alcuni prodotti, come sigarette, saccarina, vino, liquori,
scarpe, orologi e anche gioielli71.
Nel giugno del 1941 i lavoratori occupati erano così saliti a 88-95.000, secondo due stime differenti.
0002000130 ‣ Morire nei ghetti . Per parte sua, la strategia del logoramento pagava nei termini di
una brutale ascesa della mortalità, che però non è peculiare della capitale polacca. Le condizioni di
vita erano estremamente difficili: vi era in primo luogo un'elevatissima densità di popolazione. A
Varsavia, il 30% della popolazione era nel ghetto, che copriva una superficie inferiore al 5% della
superficie abitativa complessiva della città. Si calcolò che in ciascun vano si addensassero
mediamente più di sette persone, ed è una situazione che si ripete in quasi tutti gli altri ghetti per i
quali disponiamo di dati. Non solo le abitazioni erano poche rispetto al numero degli abitanti, ma
nella maggioranza dei casi erano malandate visto che le autorità tedesche avevano spesso destinato
alla popolazione ebraica i quartieri più disastrati: abitazioni di legno, senza infissi, senza impianti di
riscaldamento, senza acqua corrente né luce.
Il secondo fattore cruciale da tenere presente era la fame. Abbiamo già visto che nelle valutazioni
generali dei nazionalsocialisti gli ebrei contavano come un elemento residuale. Scrisse a questo
proposito il responsabile della politica alimentare del Reich, Herbert Backe: “Gli ebrei non mi
interessano affatto. Che abbiano qualcosa di cui cibarsi o meno, è per me l'ultimo dei problemi”72.
Le razioni loro riservate, che in molti casi venivano pagate dallo Judenrat, erano sia
quantitativamente sia qualitativamente insufficienti. Questo sulla carta, poiché nei fatti le forniture
alimentari erano spesso ritardate o arrivavano generi non commestibili perché marciti. La
popolazione dei ghetti cercava di ovviare a questa situazione terribile – che peggiorava poi nelle
stagioni invernali, nelle quali tutti i fattori negativi finivano per assommarsi – da un lato con
l'organizzazione di cucine collettive e dall'altro con il contrabbando. Nei ghetti momenti di forte
solidarietà e coesione sociale convivevano con egoismi brutali, frutto della primordiale volontà di
sopravvivenza. Così in molti ghetti furono aperte delle cucine collettive, che garantivano una
minestra calda e una pagnotta, nel migliore dei casi, a un certo numero di persone; esse furono in
parte aperte a opera degli Judenräte, con il duplice intento di dare una minima base alimentare alla
popolazione, soprattutto ai lavoratori, in parte a opera delle stesse manifatture, oppure di organismi
assistenziali sorti “dal basso”, per iniziativa di gruppi o di partiti politici. A Lódź il sistema arrivò al
livello organizzativo più complesso: nel gennaio 1941 erano attive ben 50 cucine collettive con
2000 dipendenti, che fornivano giornalmente circa 145.000 pasti73. Si è stimato che a Varsavia nel
momento di massima attività, nell'estate del 1941, le cucine collettive fornissero ben 120.000 pasti
caldi al giorno.
Le cucine collettive erano un palliativo non esente da critiche, perché vi erano categorie, come i
lavoratori, che erano privilegiate nella distribuzione dei pasti74. Scrive un testimone: “Va detto che
le donne che distribuivano la zuppa favorivano i loro parenti e amici, e così molti divennero oggetto
di invidia e di risentimenti”75. Altri testimoni attestano la diffusa corruzione nelle cucine, tanto che
a Lódź Rumkowski fu costretto a chiuderle per un certo periodo, nel 1942:
Direttori e gestori dei forni, delle cucine, dei depositi di generi alimentari e delle fabbriche [...] si
intromettevano dovunque potessero. Il prezzo è pagato dai residenti del ghetto che occupano gli
scalini inferiori della gerarchia di questa mostruosa creatura76.
Il contrabbando costituiva per certi versi un fondamentale sussidio di sopravvivenza, al quale però
potevano accedere in pochi. In effetti, la categoria generale del contrabbando deve essere distinta in
due fattispecie distinte: da un lato, esisteva un contrabbando organizzato su vasta scala, che godeva
di complicità esterne, probabilmente anche da parte della polizia tedesca. Dall'altro, vi era un
contrabbando individuale, effettuato spesso da bambini o ragazzi oppure dai lavoratori che avevano
la possibilità di recarsi fuori dal ghetto. Il primo era realizzato con ampi mezzi. “Questo
contrabbando impiegava migliaia di persone, commercianti, intermediari, portatori, distributori.
Tutti lavoravano con puntualità”77. Benché combattuto con durezza dalle autorità tedesche e da
quelle interne al ghetto, il contrabbando organizzato dovette essere spesso tollerato, perché
costituiva un mezzo ineliminabile per rifornire la popolazione. Certo, gli altissimi costi dei generi
che il contrabbando riusciva a portare all'interno del ghetto erano inaccessibili per larga parte della
popolazione. I giudizi coevi nei confronti del contrabbando sono perciò estremamente variegati:
I contrabbandieri hanno raggiunto ai miei occhi la statura di eroi e verrà il giorno in cui tutti ne
celebreremo il grande eroismo78.
Ma anche:
Il contrabbandiere svolgeva un ruolo paradossale nel ghetto: benché demoralizzasse il ghetto, il
contrabbandiere, con il suo sudore e il suo sangue, ci dava una possibilità di sopravvivere e di
lavorare79.
Quanto all'altro tipo di contrabbando, era finalizzato alla sopravvivenza di chi lo praticava e della
propria famiglia; si trattava spesso di ragazzini che sgusciavano fuori dal ghetto per rientrarvi
carichi di generi alimentari, che ottenevano all'esterno con qualsiasi oggetto avesse un valore. Lo
stesso facevano molti dei lavoratori che giornalmente si recavano fuori dal ghetto. Leggiamo da un
diario varsaviano:
Bande di bambini dai cinque ai dieci anni sono state organizzate. I più piccoli e patiti si avvolgono
fasce attorno al capo e scivolano nella parte ariana del quartiere attraverso le strade interrotte solo
da reticolati [...] Poche ore dopo i bambini ritornano carichi di patate e di farina [...] Quando
riattraversano i reticolati per tornare nel ghetto, un sorriso felice distende le loro facce verdastre80.
Tutte queste forme di contrabbando erano estremamente pericolose e implicavano una quotidiana
gara di furbizia e di rapidità fra contrabbandieri e poliziotti. Bastava allentare o irrigidire i controlli
ai reticolati o alle porte del ghetto, dalle quali passavano le colonne dei lavoratori, per migliorare o
aggravare repentinamente le condizioni di vita di migliaia di persone81.
Anche se le stime in termini di calorie medie debbono essere considerate con scetticismo, tuttavia è
indicativo quanto emerso da una valutazione compiuta dai sanitari del ghetto di Varsavia alla fine
del 1941. La media di calorie per abitante sarebbe stata di 1225, ma con forti diseguaglianze: dalle
oltre 1600 calorie pro capite per i dipendenti dello Judenrat, alle 807 per i profughi e alle 784 per i
mendicanti, livelli che gli estensori del rapporto consideravano fortemente inadeguati82. La fame era
l'elemento dominante della vita nel ghetto, la colonna sonora che percorre insistentemente le
testimonianze, il motore fondamentale di tutte le azioni degli abitanti. Fra le innumerevoli citazioni,
ci limitiamo a una sola:
Fame = stato costante, non limitato nel tempo come avviene altrove, ma fame concepita come
tormento, fame che porta a crepare e non a una successiva vita normale83.
A causa del freddo, del lavoro durissimo, della mancanza di fognature e di acqua corrente i ghetti
divennero ben presto focolai di malattie e di epidemie. In alcuni ghetti la situazione igienicosanitaria rimase a un livello discreto anche grazie all'applicazione rigorosa di norme di igiene. Ma si
tratta di eccezioni. A Vilnius e a Kaunas si è stimato che la mortalità sia soltanto triplicata rispetto
all'anteguerra, ed è nulla a confronto con quanto avvenne altrove84. I casi meglio studiati sono
ancora una volta quelli di Varsavia85 e di Lódź. Nei due maggiori ghetti le profezie dei responsabili
sanitari tedeschi si avverarono rapidamente.
Fin dai primi mesi del 1941, probabilmente portata dai numerosi profughi immessi nel ghetto dai
centri limitrofi, scoppiò nella capitale una durissima epidemia di tubercolosi. Ma già nei mesi
antecedenti la ghettizzazione era scoppiato il tifo, particolarmente temuto dalle autorità sanitarie. Le
epidemie si susseguirono con alti e bassi fino all'autunno del 1941. Il tifo colpì duramente anche in
altri ghetti: Minsk, Mogilev, Lódź. Accanto a tifo e tubercolosi, si diffusero inarrestabili le malattie
dell'apparato gastrointestinale, ma anche una serie di disturbi ginecologici, come l'amenorrea per
una gran parte della popolazione femminile. La mortalità – per quanto è possibile ricostruirla grazie
alle statistiche degli uffici sanitari interni al ghetto – colpì in modo estremamente squilibrato: più gli
uomini che le donne, più anziani e bambini che persone adulte, più i profughi rispetto agli abitanti
“originari” dei ghetti. I profughi non godevano infatti di quella pur minima rete parentale e sociale
che poteva aiutare i residenti. Per quanto riguarda il differenziale fra uomini e donne, le spiegazioni
dello squilibrio sono più difficili e forse non basta addurre a motivo il fatto che fossero soprattutto
gli uomini a sobbarcarsi i lavori più duri. Ha scritto un testimone, medico:
In quei tempi così difficili molte donne si dimostrarono più intraprendenti, pazienti, energiche,
pronte ad agire e ingegnose che i maschi86.
A Varsavia le autorità sanitarie contarono fra il settembre 1939 e il luglio 1942 circa 98.000 decessi,
dei quali quasi un terzo è stato attribuito alla tubercolosi e poco meno del 20% alla fame, mentre al
tifo viene addebitato soltanto il 2,8% delle vittime. A Lwów, invece, ben il 50% dei decessi veniva
attribuito alla fame e il 20% ai tifo. Le statistiche per Lódź sono meno precise, ma si può stimare
che siano deceduti per cause “naturali” nel ghetto non meno di 45.000 ebrei, ovvero un quarto della
popolazione iniziale. Ciò a fronte di una natalità quasi nulla. A Lódź, nei primi dieci mesi del 1942,
sono nati 480 bambini contro 19.032 decessi. La natalità era bassissima a causa di molteplici fattori:
oltre alla succitata amenorrea, non vanno dimenticati i severi divieti emanati dalle autorità
d'occupazione, che minacciavano di morte sia la madre sia il nascituro. Fra le cause della bassa
natalità non sembra tuttavia possa essere addotta la mancanza di attrazione fra i sessi, che stando a
numerosi testimoni si accentuò in quelle difficili circostanze. Scrive una diarista:
È difficile vedere un uomo e una donna soli. L'attrazione fra i due sessi è più forte che in tempi
normali; è una sete di protezione e di tenerezza87.
Le autorità sanitarie, nonostante i loro sforzi88, erano impotenti di fronte alle dimensioni della
mortalità, anche per l'assoluta mancanza di medicine. Potevano soltanto trarre frutto dalla
situazione, svolgendo, come a Varsavia, studi fondamentali sulle patologie legate alla fame89.
D'altro canto, un testimone aveva scritto: “Il ghetto è diventato un efficace terreno di esperimenti
scientifici. Che peccato che i nostri medici non possano presentare i loro dati clinici al mondo
intero”90. Né va dimenticato che nella maggior parte dei ghetti di piccole e piccolissime dimensioni
non vi era alcun presidio sanitario. È perciò pienamente da sottoscrivere quanto scrisse
retrospettivamente un medico di Lódź: “Era quasi un miracolo che le malattie infettive non avessero
decimato la popolazione del ghetto”91.
La mortalità era soltanto la punta di un iceberg rappresentato dalla sostanziale incapacità degli ebrei
ghettizzati di soddisfare le aspettative dei “produttivisti”. Nei ghetti si produceva poco, troppo poco,
secondo i solerti contabili del Reichsrechnungshof (il corrispondente della Corte dei Conti) e di altri
istituti statali di analisi, i quali sottoposero soprattutto il ghetto di Lódź ad approfondite valutazioni.
Mancavano i macchinari, i capitali, la forza lavoro era assolutamente impreparata e così malnutrita
che non ci si poteva aspettare un rendimento significativo.
Il 19 aprile del 1943 uno degli statistici delle SS, il dott. Korherr, inviò a Himmler un prospetto dal
quale risultava che nei ghetti polacchi, sia dei territori annessi sia del Governatorato, fossero morti
complessivamente 762.533 persone fino al dicembre 1942, ovvero comprendendo anche il periodo
dei grandi rastrellamenti di cui parleremo più avanti92. In effetti, sembra che questa cifra comprenda
soltanto i morti per cause “naturali” o eliminati nelle prime fasi dell'occupazione. Non sappiamo
quale sia stata la reazione di Himmler, ma la cifra, pur impressionante, non deve averlo soddisfatto.
I tempi dell'eliminazione naturale erano troppo lunghi, insostenibili per una Germania tutta protesa
a realizzare quanto prima possibile il suo grande sogno di espansione verso est. Né la cifra regge il
confronto con gli ebrei sterminati attraverso fucilazioni di massa in Unione Sovietica, che in pochi
mesi erano stati 5-600.000, o con i circa 300.000 deportati da Varsavia verso il campo di sterminio
di Treblinka fra il luglio e il settembre dell'anno precedente.
0002000130 ‣ La fine dei ghetti . Considerando il caso più noto, quello di Varsavia, potremmo
concludere che la vita dei ghetti sia stata scandita da una precisa periodizzazione: la loro istituzione,
una stabilizzazione interna (pur in condizioni molto difficili) e la loro liquidazione. In effetti, questa
scansione non corrisponde a ciò che effettivamente avvenne, neppure nella capitale polacca.
Piuttosto si possono individuare delle fasi più o meno lunghe di stabilità, intervallate da ondate di
violenza che assumevano solitamente la forma di rastrellamenti e deportazioni di una parte della
popolazione. La destinazione dei rastrellati era incerta, anche se è plausibile ritenere che la
popolazione credesse alle assicurazioni che venivano date congiuntamente dallo Judenrat e dai
tedeschi, secondo le quali i rastrellati erano stati spostati altrove per lavorare. Comunque, non è
possibile individuare un master plan in base a cui i ghetti sarebbero stati liquidati.
Gli studi disponibili mettono in luce il peso delle azioni delle autorità locali, mentre rimangono
ancora poco chiari i collegamenti con decisioni prese centralmente93. Ciò vale anche per
l'operazione di smantellamento dei ghetti del Governatorato, la cosiddetta Aktion Reinhard, così
chiamata in onore di Heydrich, vice di Himmler. In un primo tempo sembra che Himmler avesse
deciso di far eliminare tutti gli ebrei ghettizzati della regione; a tale scopo furono allestiti i campi di
sterminio di Bełżec, Sobibór e Treblinka. Quelli di Chelmno, Majdanek e Auschwitz (gli ultimi due
fungevano anche da campi di lavoro) avevano una vita autonoma, anche se furono usati per questo
scopo94. Poi, Himmler decise di risparmiare un certo numero di adulti che sarebbero stati impiegati
in campi di lavoro gestiti dalle SS. L'operazione prese avvio nel marzo 1942 nel distretto di
Lublino, per poi estendersi alla Galizia e alla regione di Varsavia. I rastrellamenti andarono a
ondate, che risentivano da un lato della scarsa disponibilità di personale, dall'altro di esigenze
logistiche – va ricordato che nelle operazioni di rastrellamento vennero usate milizie ucraine,
lituane e lettoni –. Così nelle regioni orientali della Galizia i rastrellamenti furono interrotti in
aprile-maggio, perché i treni e le linee ferroviarie dovevano servire per preparare l'offensiva estiva
contro l'Armata Rossa. Nella maggioranza dei casi la popolazione dei ghetti venne ridotta
gradualmente, rastrellamento dopo rastrellamento, senza che ne fosse chiara la logica; in alcuni casi
le liste venivano stilate dallo Judenrat stesso ed erano gli stessi poliziotti a rastrellare le persone
designate. Talvolta, ma non sempre, venivano esentati i lavoratori. Si chiede un testimone: “Che
cosa volevano i tedeschi questa volta? Volevano i giovani per lavorare nei loro campi di
concentramento? Volevano gli anziani, i malati, i deboli?”95.
Nel ghetto di Varsavia la deportazione iniziò il 22 luglio, dopo che notizie su ciò che avveniva in
altre aree del paese erano entrate nel ghetto suscitando ansia e preoccupazione. Le voci erano una
componente essenziale della vita del ghetto e contribuivano a determinarne il clima, come ha
mostrato Jurek Becker nel suo racconto Jakob il bugiardo 96. Applicando anche qui la tattica di
rassicurare la popolazione, le autorità tedesche smentirono le voci ricorrenti di fronte alle richieste
di chiarimento avanzate da Czerniakow. Posto di fronte alla richiesta perentoria di consegnare ogni
giorno 10.000 persone (ma la cifra di coloro che sarebbero stati trasferiti venne esplicitata in
60.000), Czerniakow si suicidò. L'ultima annotazione nel diario è un disperato gesto di orgoglio:
Hanno preteso che per domani sia pronto un trasporto di bambini. In tal modo il mio calice amaro è
colmo [...] Ho deciso di andarmene. Non considerate questo mio gesto come vigliaccheria o come
una fuga. Io sono impotente97.
Nei giorni seguenti iniziò il rastrellamento, affidato alla polizia del ghetto alla quale era stata
garantita l'impunità per sé e per i propri famigliari. Il rastrellamento proseguì per svariate settimane,
con brevi momenti di apparente pausa. In un primo tempo la popolazione venne allettata con
l'offerta di cibo: tre chili di pane e uno di marmellata; va ricordato che la meta dichiarata dei
deportati era verso colonie di lavoro agricolo a oriente. Con il passare dei giorni la confusione si
accentuò. “Gli ebrei corrono come pazzi, con in braccio i figli e fagotti di coperte e lenzuola”98. La
polizia divenne sempre più incerta anche perché le garanzie di salvaguardia erano svanite; perciò
subentrarono miliziani ucraini e poliziotti tedeschi. Come negli altri ghetti, alla gente non restava
che obbedire, o cercare di nascondersi in cantine o soffitte. Ogni giorno un convoglio lasciava lo
spazzo adiacente il ghetto, denominato Umschlagplatz, rientrando la sera vuoto. Ciò contribuì a
rafforzare i dubbi sulla destinazione dei rastrellati; si aggiunsero le testimonianze di alcuni che
erano riusciti a saltare dai treni. Il 12 settembre il rastrellamento ebbe improvvisamente termine.
Ufficialmente furono deportate 265.000 persone, mentre gli uccisi e i morti per sete e fame
nell'Umschlagplatz battuto dal sole sarebbero stati 10-15.00099. Nel ghetto rimasero ufficialmente
35.633 persone, per lo più maschi adulti (a cui vanno aggiunti circa 10-15.000 clandestini) che nei
mesi seguenti furono concentrati in alcune aree abitative vicine alle grandi manifatture a cui erano
addetti.
Il caso di Varsavia è senz'altro il più eclatante per le sue dimensioni: centinaia di migliaia di
persone furono rastrellate da poche centinaia di poliziotti e con un impiego sostanzialmente
moderato di violenza. Ne derivò l'immagine degli ebrei che si sarebbero fatti portare via “come
pecore al macello”. Il tema della resistenza, o mancata resistenza degli ebrei nei ghetti, è difficile da
affrontare; mi sembra perciò opportuno rimandare al saggio specificatamente dedicatogli in questa
stessa opera. Vorrei soltanto ricordare che accanto a fattori oggettivi (la mancanza di armi,
l'isolamento dalla popolazione circostante) si aggiungevano fattori soggettivi di difficile
misurazione: la non conoscenza del destino dei rastrellati, la convinzione che lavorando e restando
tranquilli si sarebbe evitato il peggio, la paura di fronte allo spettro della “responsabilità collettiva”
applicata con spregiudicatezza dai tedeschi, infine l'umana inclinazione a non credere al peggio e ad
aggrapparsi alle speranze, anche se flebili. Di fronte a notizie circostanziate provenienti da Bełżec,
un testimone reagì: “Io non potevo e non volevo analizzare la realtà”100. Tentativi di rivolta al
momento dei rastrellamenti (ma chi poteva dire quale fosse il “vero” rastrellamento finale?) si
ebbero a Vilnius101, a Bialystok102 e in altri piccoli ghetti. In ciò che restava del ghetto
varsaviano103, fra gennaio e aprile 1943 si formarono infine gruppi di resistenti, per lo più giovani,
decisi a morire armi in pugno, almeno per difendere l'onore ebraico. Come lasciò scritto nel suo
testamento il giovane leader della rivolta di aprile, Mordechai Anielewicz, “Il sogno della mia vita è
ormai realizzato. L'autodifesa ebraica è ormai un fatto compiuto”.
In autunno Himmler dichiarò ufficialmente conclusa l'Aktion Reinhard. Alcuni ghetti, come
Varsavia, furono trasformati in campi di lavoro forzato, nei quali alcune decine di migliaia di ebrei
furono sottoposti a un regime durissimo. Anche i campi verranno poi definitivamente liquidati nel
novembre 1943, in un'operazione cinicamente denominata “festa del raccolto”104.
La vicenda degli ebrei ghettizzati non finisce però con la distruzione di quella fitta trama di ghetti
grandi e piccoli che erano stati creati due anni prima sul suolo polacco. Certo, le vicende successive
sfuggono a un quadro generale. In altre parole, non è riconoscibile il motivo per cui il ghetto di
Kaunas sia stato smantellato l'8 luglio 1944 e quello di Vilnius invece quasi un anno prima, a metà
settembre 1943, né perché il ghetto di Lódź sia stato invece liquidato nell'agosto del 1944. L'unico
fattore che si può addurre è che questi ghetti erano dei centri di produzione utili per l'economia di
guerra. Ciò non impedì però che, alla fine, il destino degli ebrei produttivi sia stato per tutti lo
stesso: la morte. A Lódź la polizia ebraica, coerente fino in fondo con il suo ruolo, si fece carico
dell'ultimo rastrellamento, a fine agosto. Questo avvenne nel massimo ordine. Il 28 agosto
Rumkowski e la sua famiglia salirono sul convoglio con destinazione Auschwitz. Una
testimonianza indiretta riporta che, arrivati nel campo, Rumkowski avrebbe dato un ultimo segno
del suo potere, passando in rassegna la sua gente105. Stando all'ultima annotazione della cronaca del
ghetto, datata 30 luglio, la popolazione era di 68.561 persone; era stata una giornata di sole con una
temperatura minima di 22 gradi e massima di 38 ed era prevista la distribuzione di un chilo di pane
a testa106. Note al saggio
1 - Per un inquadramento generale cfr. il classico studio di Louis Wirth, Il ghetto, Comunità, Milano
1968 [tit. orig. The ghetto, The University of Chicago Press, Chicago 1928].2 - Cfr. Saul
Friedländer, La Germania nazista e gli ebrei, Garzanti, Milano 1998, p. 151 [tit. orig. Nazi
Germany and the Jews, HarperCollins, New York 1997].3 - Cfr. Avraham Barkai, Im mauerlosen
Ghetto, in AA.VV., Deutsch-jüdische Geschichte in der Neuzeit, vol. 4, 1918-1945, Beck, München
1996, p. 328 sgg.4 - Il testo è riprodotto in Die faschistische Okkupationspolitik in Polen 19391945, Deutscher Verlag der Wissenschaften, Berlin 1989, p. 119. Per una ricostruzione più ampia
del processo di ghettizzazione rimando al mio libro I ghetti di Hitler. Voci da una società sotto
assedio 1939-1944, il Mulino, Bologna 2001.5 - Götz Aly, ``Endlösung''. Völkerverschiebung und
der Mord an den europäischen Juden, Fischer, Frankfurt am Main, 1995, p. 44 sgg. [ed. ingl. Final
solution: Nazi population policy and the murder of the European Jews, Arnold, London 1999].6 Cfr. Magnus Brechtken, ``Madagaskar für die Juden''. Antisemitische Idee und politische Praxis
1880-1945, Oldenbourg, München 1997.7 - Der ``Generalplan Ost''. Hauptlinien der
nationalsozialistischen Planungs- und Vernichtungspolitik, a c. di Martina Rössler e Sabine
Schleiermacher, Akademie Verlag, Berlin 1996.8 - Sulla politica d'occupazione in quel territorio si
veda il fondamentale studio di Jan T. Gross, Polish Society under German Government. The
Generalgouvernement 1939-1944, Princeton University Press, Princeton 1979. Una fonte essenziale
è rappresentata dal diario di servizio di Frank: Das Diensttagebuch des deutschen
Generalgouverneurs in Polen 1939-1945, a c. di Walther Präg e Wolfgang Jacobmeyer, DVA,
Stuttgart 1975.9 - Faschistische Okkupationspolitik in Polen cit., p. 141 sgg.10 - Ivi, p. 117.11 Christopher R. Browning, Verso il genocidio, il Saggiatore, Milano 1998, p. 38 [tit. orig. The Path
to Genocide, Cambridge University Press, New York 1992].12 - Adolf Diamant, Ghetto
Litzmannstadt. Bilanz eines nationalsozialistischen Verbrechens, n.p., Frankfurt am Main 1986. Va
aggiunto che la città stessa venne ribattezzata con il nome di un generale tedesco della Prima guerra
mondiale.13 - Bevölkerungsstruktur und Massenmord. Neue Dokumente zur deutschen Politik der
Jahre 1938-1945, a c. di Susanne Heim e Götz Aly, Rotbuch, Berlin 1991, p. 104.14 - Scrive un
testimone: “Il ghetto di Chelm era aperto, ma agli ebrei era vietato uscire dall'area loro assegnata
[...] Non c'erano mura, né fili spinati, ma agli ebrei erano state assegnate solo alcune strade, le più
degradate”; Felicia Berland-Hyatt, Close Calls. The Autobiography of a Survivor, Holocaust
Library, New York 1991, p. 47.15 - Philip Friedman, Roads to Extinction. Essays on the Holocaust,
Jewish Publication Society of America, Philadelphia 1980, p. 73.16 - Sulla complessa preistoria
della costruzione del ghetto cfr. Yisrael Gutman, The Jews of Warsaw 1939-1943. Ghetto,
Underground, Revolt, Harvester Press, Brighton 1982, p. 48 sgg.17 - Da un rapporto interno, datato
1 luglio 1940, in Eksterminacia Zydow na Ziemiach Polskich w okresie okupacji hitlerowkeij. Zbiór
Dokumentów, a c. di Tatiana Berenstein et al., Warszawa 1957, p. 88.18 - Il testo completo
dell'ordinanza è ivi, p. 111 sgg. Un dettagliato resoconto diaristico della vita nel ghetto è fornito da
un farmacista polacco, al quale fu consentito di restare a esercitare: Tadeusz Pankiewicz, Die
Apotheke im Krakauer Ghetto, Bettendorf, Essen 1995.19 - Cfr. l'utilissimo repertorio di Roman
Mogilanski, The Ghetto Anthology. A Comprehensive Chronicle of the Extermination of Jewry in
Nazi Death Camps and Ghettos in Poland, a c. di Benjamin Grey, American Congress of Jews of
Poland, Los Angeles 1985, p. 56.20 - Ralf Ogorreck, Die Einsatzgruppen und die ``Genesis der
Endlösung'', Metropol, Berlin 1996.21 - Cfr. Andrè Gerrits, Antisemitism and Anti-communism. The
Myth of ``Judeo-Communism'' in Eastern Europe, in “East European Jewish Affairs”, 25, London
1995, p. 49 sgg.22 - Un'interessante documentazione sulle azioni dei reparti speciali, composti da
SS e polizia, è costituita da The Einsatzgruppen Reports. Selections from the Dispatches of the Nazi
Death Squads' Campaign against the Jews July 1941-January 1943, a c. di Yitzhak Arad et al.,
Holocaust Library, New York 1989.23 - Bogdan Musial, ``Konterrevolutionäre Elemente sind zu
erschiessen''. Die Brutalisierung des deutsch-sowjetischen Krieges im Sommer 1941, Propyläen
Verlag, Berlin 2000.24 - Su questo aspetto ha richiamato l'attenzione soprattutto Christian Gerlach,
Krieg, Ernährung, Völkermord. Forschungen zur deutschen Vernichtungspolitik im Zweiten
Weltkrieg, Hamburger Edition, Hamburg 1998.25 - Die faschistische Okkupationspolitik in den
zeitweilig besetzten Gebieten der Sowjetunion, a c. di Norbert Müller, Akademie Verlag, Berlin
1991, p. 187.26 - William W. Mishell, Kaddish for Kovno. Life and Death in a Lithuanian Ghetto
1941-1945, Review Press, Chicago 1988, p. 16.27 - Christoph Dieckmann, Das Ghetto und das
Konzentrationslager in Kaunas 1941-1942, in Die nationalsozialistischen Konzentrationslager.
Entwicklung und Struktur, a c. di Ulrich Herbert et al., Wallstein Verlag, Göttingen 1998, p. 439
sgg.28 - Yitzhak Arad, Ghetto in Flames. The Struggle and the Destruction of the Jews in Vilna in
the Holocaust, Yad Vashem, Jerusalem 1980, p. 108 sgg.29 - Dieter Pohl, Nationalsozialistische
Judenverfolgung in Ostgalizien 1941-1944. Organisation und Durchführung eines staatlichen
Massenverbrechens, Oldenbourg, München 1996, p. 161. Si veda anche la monografia di Thomas
Sandkühler, ``Endlösung'' in Galizien. Der Judenmord in Ostpolen und die Rettungsinitiativen von
Berthold Beitz 1941-1944, Dietz, Bonn 1996.30 - Un testimone ricorda quanto avvenne nel
villaggio ucraino di Krasny: “I tedeschi recinsero un pezzo di terra con filo spinato e vi appesero
una tabella con scritto ``Ghetto. Ingresso vietato''”. In Das Schwarzbuch. Der Genozid an den
sowjetischen Juden, a c. di Wassili Grossmann e Iljia Ehrenburg, Rowohlt, Reinbeck bei Hamburg
1994, p. 322.31 - Uno dei pochi studi documentati è quello di Shalom Cholawski, The Jews of
Belorussia during World War II, Harwood Academic Publishers, Amsterdam 1998, che si sofferma
soprattutto sui tentativi di resistenza della popolazione ghettizzata.32 - Leonid Smilovitskii, Minsk
Ghetto. An Issue of Jewish Resistance, in “Shvut”, 17-18, Tel Aviv 1995, p. 161 sgg.33 - Cfr. Dalia
Ofer, Life in the Ghettos of Transnistria, in “Yad Vashem Studies”, 25, Jerusalem 1996, p. 236
sgg.34 - Shachan Avigdor, Burning Ice. The Ghetto in Transnistria, East European Monographs,
Boulder Co., Colorado 1996, p. 341 sgg.35 - Cfr. Randolph Braham, The Politics of Genocide. The
Holocaust in Hungary, Columbia University Press, New York 1981.36 - Tim Cole, Holocaust City.
The Making of a Jewish Ghetto, Routledge, New York 2003.37 - Faschistische Okkupationspolitik
in Polen cit., p. 194.38 - Cit. in Reinhard Steiner, Aspekte jüdischen Lebens im Ghetto LwowLemberg, Magisterarbeit, University of Vienna 1993, p. 34.39 - Mishell, Kaddish for Kovno cit., p.
54.40 - Emanuel Ringelblum, Sepolti a Varsavia, il Saggiatore, Milano 1964, p. 135 [tit. orig.
Notitsn fun Varshever Ghetto, Warszawa 1953].41 - Janina Bauman, Inverno nel mattino. Una
ragazza nel ghetto di Varsavia, il Mulino, Bologna 1994, p. 58.42 - Tra i riferimenti convergenti su
questa figura caratteristica della vita del ghetto ricordo quello di Jonas Turkov, C'etait ainsi... 19391943. La vie dans le ghetto de Varsovie, Austral, Paris 1995, p. 106.43 - Cfr. Wolfgang Sofsky,
L'ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma-Bari 1995 [tit. orig. Die Ordnung
des Terrors, Fischer, Frankfurt am Main 1993].44 - Turkov, C'etait ainsi cit., p. 100.45 - In
generale cfr. Isaiah Trunk, Religious, Educational and Cultural Problems in the Eastern European
Ghettos under German Occupation, in “YIVO Annual”, 14, New York 1969, p. 159 sgg.46 - Leni
Yahil, The Holocaust. The Fate of European Jews, Oxford University Press, New York-London
1990, p. 223.47 - Ivi, p. 219.48 - Citato dalla raccolta di documenti facenti parte dell'archivio di
Emanuel Ringelblum e relativi al ghetto di Varsavia: To Live with Honor and Die with Honor.
Selected Documents from the Warsaw Ghetto Underground Archives ``Oneg Sabbath'', a c. di
Joseph Kermish, Yad Vashem, Jerusalem 1986, p. 537.49 - Sono testimonianze di questo intenso
dibattito i giornali clandestini del ghetto varsaviano: Le voci del ghetto. Antologia della stampa
clandestina ebraica di Varsavia (1941-1942), a c. di Piero Malvezzi, Laterza, Bari 1970.50 - Cfr.
Emanuel Melzer, No Way Out. The Politics of Polish Jewry 1935-1939, Hebrew Union College
Press, Cincinnati 1998.51 - Si veda il diario di uno degli animatori di queste attività: Herman Kruk,
Diary of the Vilna Ghetto, in “YIVO Annual” 13, New York 1965, p. 9 sgg.52 - Cit. in Friedman,
Roads cit., p. 69.53 - Cfr. Christopher R. Browning, Nazi Ghettoization Policy in Poland 19391941, “Central European History”, Riverside CA, 19, 1986, p. 343 sgg.54 - Rimane fondamentale la
monografia di Isaiah Trunk, Judenrat. The Jewish Councils in Eastern Europe under Nazi
Occupation, McMillan, New York-London 1971.55 - Ringelblum, Sepolti a Varsavia cit., p. 224.56
- Benjamin Jacobs, The Dentist of Auschwitz. A Memoir, University Press of Kentucky, Lexington
1995, p. 2.57 - Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano
1992, p. 132 [tit. orig. Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New
York 1963].58 - Jacob Gerstenfeld-Maltiel, My Private War. One Man's Struggle to Survive the
Soviets and the Nazis, Vallentine Mitchell, London-Portland 1993, p. 66.59 - Particolarmente
interessante è il diario di Stanislaw Adler, che descrive dall'interno il funzionamento del Consiglio e
della polizia: In the Warsaw Ghetto 1940-1943. An Account of a Witness, Yad Vashem, Jerusalem
1982.60 - The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan, a c. di Avraham I. Katsch, Collier Books, New
York 1973, p. 161.61 - Un primo studio sulla composizione “sociale” dei Consigli è quello di
Aharon Weiss, Jewish Leadership in Occupied Poland. Postures and Attitudes, in “Yad Vashem
Studies”, 12, Jerusalem 1977, p. 335 sgg.62 - A partire dal tardo autunno del 1941, nel quadro
dell'ormai avviata “Soluzione finale” dal ghetto di Lódź vennero estratti in successive ondate
55.000 persone rispetto alle 10.000 che Rumkowski aveva concordato con le autorità. Nel settembre
del 1942 si ebbe un'ulteriore, tremenda ondata di rastrellamenti, con circa 40.000 vittime. I deportati
finivano a Chelmno. In tutti i casi spettò a Rumkowski stilare le liste e alla polizia del ghetto
operare i rastrellamenti e consegnare gli infelici ai tedeschi. La cronaca dettagliata di tutti gli
avvenimenti nel ghetto è riportata nella straordinaria fonte realizzata dallo stesso Rumkowski per
lasciare ai posteri un segno del suo operato: The Chronicle of the Lódż Ghetto 1941-1944, a c. di
Lucjan Dobroszycki, Yale University Press, New Haven-London 1984.63 - Cfr. Karl Loewenstein,
Minsk. Im Lager der deutschen Juden, Bundeszentrale für deutschen Heimatsdienst, Bonn 1956, p.
36.64 - “Pseudo-messia” sono stati definiti in un pionieristico studio da Philip Friedman, Roads to
Extinction cit., p. 330 sgg.65 - Cit. in Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi,
Torino 1995, p. 495 [tit. orig. The Destruction of the European Jews, Holmes & Meier Publishers,
New York-London 1985].66 - Steiner, Aspekte jüdischen Lebens cit., p. 36.67 - Solly Ganor, Das
andere Leben. Kindheit im Holocaust, Fischer, Frankfurt am Main 1997, p. 67. Il memorialista
riporta la frase da un racconto del padre, che aveva assistito all'incontro.68 - Oskar Rosenfeld, Wozu
noch Welt. Aufzeichnungen aus dem Ghetto Lódź, Neue Kritik, Frankfurt am Main 1994, p. 215.69 Arad, Ghetto in Flames cit., p. 333.70 - Bevölkerungsstruktur und Massenmord cit., p. 101.71 Mary Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario 1939-1945, Einaudi, Torino 1991, p. 138.72 Faschistische Okkupationspolitik in Polen cit., p. 169.73 - Bendet Hershkowitz, The Ghetto in
Litzmannstadt-Lódż, in “YIVO Annual”, 5, New York 1950, p. 105.74 - Cfr. il rapporto stilato dal
governatore di Varsavia, Fischer, nel settembre 1941, in Raporty Ludwiga Fischera gubernatora
dystryktu warszawskiego 1939-1944, a c. di Karol Dunin-Wasowicz et al., Warszawa 1987, p.
101.75 - Sara Selver-Urbach, Through the Window of my Home. Memoirs from Lódż Ghetto, Yad
Vashem, Jerusalem 1986, p. 69.76 - Michal M. Chechinski, My Father's Watch, Gefen, Jerusalem
1994, p. 131.77 - Henri Litman, Les lumières et les ombres du ghetto de Varsovie. Souvenirs vécus
des annès 1939-1943, n.p., Tourcoing 1946, p. 38.78 - Abraham Lewin, A Cup of Tears, Blackwell,
London 1990, p. 132 [trad. it. Una coppa di lacrime: diario dal ghetto di Varsavia, il Saggiatore,
Milano 1983].79 - Lucy Dawidowicz, The War Against the Jews 1933-1945, Bantam, New York
1986, p. 212.80 - Berg, Ghetto di Varsavia cit., p. 72.81 - Un'interessante memoria di un piccolo
contrabbandiere è quella di Joseph Ziemian, The Cigarette Sellers of Three Cross Square, Avon,
New York 1975. In questa come nelle altre testimonianze del genere non viene mai apertamente
ammesso il motivo del profitto, che pur era presente anche per i contrabbandieri individuali.82 Charles G. Roland, Courage under Siege. Starvation, Disease and Death in the Warsaw Ghetto,
Oxford University Press, New York 1992, p. 102.83 - Rosenfeld, Wozu noch Welt cit., p. 119.84 Cfr. Solon Beinfeld, Health Care in the Vilna Ghetto, in “Holocaust and Genocide Studies”, 12,
Oxford University Press 1998, p. 66 sgg.85 - Isaiah Trunk, Epidemics and Mortality in the Warsaw
Ghetto 1939-1942, in “YIVO Annual”, 8, New York 1953, p. 82 sgg.86 - Mark Dvorjetski, Le
ghetto de Vilna. Rapport sanitaire, OSE, Gènève 1946, p. 197.87 - Berg, Ghetto di Varsavia cit., p.
113.88 - Roland, Courage under Siege cit.89 - Malarie de famine. Recherches cliniques sur la
famine executées dans le ghetto de Varsovie en 1942, n.p., Varsovie 1946.90 - David Sierakowiak,
Il diario di David Sierakowiak. Cinque quaderni del ghetto di Lódż, Einaudi, Torino 1997, p.
128.91 - Arnold Mostowicz, Der blinde Maks oder Passierschein durch den Styx, Transit, Berlin
1992, p. 61.92 - Hilberg, Distruzione cit., p. 118.93 - Si vedano i già citati studi di Pohl e di
Sandkühler sulla Galizia, o quello di Christian Gerlach sulla Bielorussia: Kalkulierte Morde. Die
deutsche Wirtschafts- und Vernichtungspolitik in Weissrussland 1941 bis 1944, Hamburger Edition,
Hamburg 1999.94 - Cfr. Yitzhak Arad, Belzec, Sobibór, Treblinka. The Operation Reinhard Death
Camps, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1987.95 - Helen Sendyk, The End of
Days, St. Martin's Press, New York 1994, p. 125.96 - Jurek Becker, Jakob der Lügner, AufbauVerlag, Berlin 1969 [trad. it. Jacob il bugiardo, Editori Riuniti, Roma 1976.]97 - Im Warschauer
Ghetto. Das Tagebuch des Adam Czerniakow 1939-1942, Beck, München 1986, p. 285.98 - Lewin,
Cup of Tears cit., p. 136. Il diario è una delle più dettagliate testimonianze del grande
rastrellamento, seguito dal diarista quasi giorno per giorno.99 - Hilberg, Distruzione cit., p. 505.100
- Sarah Rosen, My Lost World. A Survivor's Tale, Vallentine Mitchell, Portland-London 1993, p.
179.101 - Arad, Ghetto in Flames cit., p. 350 sgg.102 - Sarah Bender, From Underground to Armed
Struggle. The Resistance Movement in the Bialystok Ghetto, in “Yad Vashem Studies”, 23,
Jerusalem 1993, p. 145 sgg.103 - Un'interessante testimonianza diaristica sul periodo finale del
ghetto è quella del diario di Eugenia Szajn-Levin, Aufzeichnungen aus dem Warschauer Ghetto,
Reclam, Leipzig 1995.104 - Arad, Belzec, Sobibór cit., p. 365 sgg.105 - Chechinski, My Father's
cit., p. 139.106 - Chronicle cit., p. 535 sgg.
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