IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ

Anno 6 – Numero 22
19 novembre 2008
NORMATIVA, GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI
IL NUOVO DIRITTO
DELLE SOCIETÀ
D IRETTA DA O RESTE C AGNASSO E M AURIZIO I RRERA
C OORDINATA DA G ILBERTO G ELOSA
In questo numero:
! Esclusione del socio
! Clausole compromissorie
! La nuova disciplina dell’acquisto di azioni
proprie
! Patti di famiglia
ItaliaOggi
CLASSprofessionale
DIREZIONE SCIENTIFICA
Oreste Cagnasso – Maurizio Irrera
COORDINAMENTO SCIENTIFICO
Gilberto Gelosa
RESPONSABILI AREA DI DIRITTO COMMERCIALE
Oreste Cagnasso e Maurizio Irrera
RESPONSABILE AREA DI DIRITTO TRIBUTARIO
Gilberto Gelosa
REDAZIONE
Maria Di Sarli (coordinatore)
Alessandra Bonfante, Maurizio Bottoni, Mario Carena, Marco Sergio Catalano, Fabio
Colombo, Alessandra Del Sole, Massimiliano Desalvi, Elena Fregonara, Sebastiano
Garufi, Stefano Graidi, Alessandro Monteverde, Cristina Saracino, Marina Spiotta
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
Marco Sergio Catalano, Elena Fregonara, Dario Poto, Lucia Starola
INDICE
Pag.
STUDI E OPINIONI
L’esclusione del socio nelle società di persone
di Oreste Cagnasso
6
I limiti soggettivi e oggettivi della clausola compromissoria statutaria
di Maurizio Irrera e Marco Sergio Catalano
11
L’area di applicazione del procedimento di liquidazione delle azioni e
delle quote
di Elena Fregonara
33
PANORAMA LEGISLATIVO
Acquisto di azioni proprie e assistenza finanziaria
di Lucia Starola
63
RELAZIONI A CONVEGNI
Vizi del consenso, patologia ed impugnativa dei patti di famiglia. cenni
sulla conciliazione obbligatoria
di Dario Poto
70
SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE
84
SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO
87
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
3
SOMMARIO
STUDI E OPINIONI
L’esclusione del socio nelle società di persone
Nell’ambito della disciplina della società semplice sono contenute le norme che
regolano le due fattispecie dell’esclusione di diritto e dell’esclusione facoltativa, sia
sotto il profilo, con riferimento a quest’ultima, dei presupposti, sia sotto quello del
procedimento.
di Oreste Cagnasso
I limiti soggettivi e oggettivi della clausola compromissoria statutaria
Viene di seguito pubblicata la seconda parte dello studio riguardante i limiti
applicativi della clausola compromissoria per arbitrato societario ex artt. 34 ss. d. lgs.
n. 5/2003. Seconda parte – I limiti oggettivi.
di Maurizio Irrera e Marco Sergio Catalano
L’area di applicazione del procedimento di liquidazione delle azioni e delle quote
Colmando un vuoto legislativo la riforma delle società di capitali ha introdotto un
meccanismo di liquidazione delle partecipazioni sociali che accostando, in
successione, altri istituti del diritto societario, tutela l’integrità del capitale sociale
allontanando l’eventualità di un depauperamento della società: il complesso sistema
di uscita architettato dal legislatore e collocato nell’ambito del diritto di recesso, sia
per le società per azioni sia per quelle a responsabilità limitata, pare andare oltre la
propria applicazione tipica.
di Elena Fregonara
PANORAMA LEGISLATIVO
Acquisto di azioni proprie e assistenza finanziaria
L’Autrice si sofferma su alcune disposizoni del recente decreto legislativo che
modifica la Direttiva 2006/68/Ce, analizzando in particolare la disciplina
dell’acquisto delle azioni proprie.
di Lucia Starola
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
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SOMMARIO
RELAZIONI A CONVEGNI
Vizi del consenso, patologia ed impugnativa dei patti di famiglia. cenni sulla
conciliazione obbligatoria
Il lavoro prende in esame l’istituto del patto di famiglia, introdotto con la legge 14
febbraio 2006, n. 55, nel codice civile, in cui è disciplinato da sette nuovi articoli
(dall’art. 768 bis all’art. 768 octies). Lo studio analizza più specificamente i profili di
impugnazione del patto di famiglia; vengono quindi trattati alcuni dei più rilevanti
aspetti in cui ciascuno dei vizi del consenso, o della volontà, potrebbe configurarsi nel
particolare contesto proprio dell’atto pubblico, con il quale deve essere stipulato, a
pena di nullità, il contratto denominato patto di famiglia. Lo studio si sofferma, quindi,
sul termine dell’anno per l’esercizio dell’azione, evidenziandone fra l’altro le analogie
con l’identico termine stabilito dall’art. 184, comma 2° cod. civ., per l’azione di
annullamento degli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge, nella comunione
legale dei beni. Si passa poi all’esame dell’impugnazione prevista dall’art. 768 sexies
da parte dei legittimari sopravvenuti dopo la conclusione del patto di famiglia. Si
conclude infine con cenni sul tentativo di conciliazione stabilito dall’art. 768 octies,
con riferimento alle possibilità che tale tentativo di conciliazione possa costituire un
efficace strumento di deflazione del contenzioso sul patto di famiglia.
di Dario Poto
SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE
SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
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STUDI E OPINIONI
L’ESCLUSIONE DEL SOCIO NELLE
SOCIETA’ DI PERSONE
Nell’ambito della disciplina della società semplice sono contenute le norme che
regolano le due fattispecie dell’esclusione di diritto e dell’esclusione facoltativa, sia
sotto il profilo, con riferimento a quest’ultima, dei presupposti, sia sotto quello del
procedimento.
di ORESTE CAGNASSO
1. L’esclusione di diritto
Ai sensi dell’art. 2288 c.c., è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito.
Parimenti è escluso di diritto il socio nei cui confronti un suo creditore particolare abbia
ottenuto la liquidazione della quota.
La prima regola si colloca all’interno della disciplina degli effetti del fallimento
sui rapporti pendenti. Tali effetti, come è noto, sono riconducibili o alla sostituzione
facoltativa del curatore, o a quella automatica o allo scioglimento del rapporto.
Nell’ipotesi di rapporto sociale derivante dalla costituzione di una società semplice la
dichiarazione di fallimento determina lo scioglimento del vincolo. O meglio: determina
lo scioglimento del vincolo limitativamente al socio dichiarato fallito. Nel sistema
previgente si applicava l’opposta regola, per cui il fallimento determinava lo
scioglimento della società civile o della società in nome collettivo o in accomandita
semplice. La regola era, però, derogabile, e quindi i soci potevano impedire tale effetto,
limitando lo scioglimento al vincolo particolare del socio dichiarato fallito.
Il legislatore del 1942, coerentemente con le scelte di fondo operate in relazione
a tutte le vicende relative al vincolo che lega il socio alla società, ha, per contro,
collegato al fallimento del socio lo scioglimento parziale automatico del rapporto
sociale.
Il fondamento di tale regola è stato individuato nel carattere personale della
partecipazione sociale, accentuando i vari interpreti ora il profilo di tutela accordata alla
società, ora quello sanzionatorio a carico del socio.
Quanto all’esclusione del socio, la cui quota sia stata liquidata a favore del
creditore particolare, occorre osservare come la stessa si verifichi nel momento
dell’effettiva liquidazione.
Quest’ultima risulta, peraltro, impedita sia nel caso in cui venga pagato il debito
verso il creditore particolare del socio, sia nell’ipotesi in cui non esista un valore
positivo della quota, sia, infine, nell’ipotesi in cui venga deliberato lo scioglimento della
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STUDI E OPINIONI
L’ESCLUSIONE DEL SOCIO
società. Invero la norma in esame deve essere “raccordata” con il disposto contenuto
nell’art. 2270, secondo comma, c.c.. In conformità ad esso, se gli altri beni del debitore
sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, il creditore particolare del socio può
chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota del suo debitore: la quota deve essere
liquidata entro tre mesi dalla domanda. La liquidazione della quota determina lo
scioglimento automatico del rapporto sociale limitatamente al socio. Tuttavia - così si
chiude la norma in esame - è fatto salvo il caso in cui sia deliberato lo scioglimento
della società. Quest’ultimo, quindi, paralizza il diritto attuale del creditore particolare
del socio, che, per contro, “parteciperà” dei risultati della liquidazione della società.
2. L’esclusione facoltativa
Il legislatore, nell’art. 2286 c.c., individua le cause di esclusione del socio,
mentre, nell’art. 2287 c.c., delinea il procedimento di esclusione.
L’esclusione del socio può avere luogo, innanzi tutto, per gravi inadempienze
delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale. Si tratta, pertanto, del
presupposto proprio della risoluzione del contratto per inadempimento. La peculiarità
della norma consiste nella determinazione della “soglia” dell’inadempimento rilevante:
secondo i principi comuni viene in considerazione, ai fini della risoluzione del contratto,
l’inadempimento di non scarsa importanza; nella norma in esame il legislatore, per
contro, si riferisce all’inadempimento grave. Ma si tratta di una peculiarità presente in
varie norme inserite nella disciplina dei singoli contratti. Può essere sufficiente, al
proposito, il richiamo alla risoluzione nell’ambito del contratto si somministrazione, ove
il presupposto è costituito dall’inadempimento grave e tale da menomare la fiducia nei
successivi adempimenti.
La giurisprudenza ha avuto occasione di esaminare i criteri che debbono essere
adottati nel giudizio di “gravità” dell’inadempimento.
Quest’ultimo deve essere qualificato grave quando sia tale da impedire del tutto
il raggiungimento dello scopo sociale; deve altresì essere qualificato grave anche
quando abbia inciso negativamente sulla situazione della società, rendendo per essa
meno agevole il perseguimento dei propri fini.
Coerentemente con la collocazione del contratto di società all’interno dei
contratti con comunione di scopo, la gravità dell’inadempimento deve quindi essere
valutata tenendo conto degli effetti del medesimo in ordine al raggiungimento dello
scopo sociale.
Al fine di individuare il presupposto dell’esclusione costituito dalle gravi
inadempienze occorre altresì determinare quali siano gli obblighi che la legge e l’atto
costitutivo impongono al socio. In particolare in dottrina si è osservato che, al di là dei
singoli obblighi specificatamente individuati, esiste un generico e fondamentale dovere
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STUDI E OPINIONI
L’ESCLUSIONE DEL SOCIO
del socio, strumentale al conseguimento dello scopo sociale, che è quello di
collaborazione.
Altra dottrina, per contro, ritiene che occorra far riferimento, al fine di stabilire
quali siano i doveri spettanti al socio, al principio dell’esecuzione del contratto secondo
buona fede.
Un secondo gruppo di cause di esclusione è costituito da vicende relative alla
persona del socio e precisamente dalla:
- interdizione;
- inabilitazione;
- condanna ad una pena ce comporti l’interdizione, anche temporaneamente, dei
pubblici uffici.
Un terzo gruppo di cause di scioglimento attiene, infine, all’impossibilità, per il
socio, di adempiere all’obbligazione di conferimento. In particolare il legislatore delinea
tre ipotesi: una relativa al conferimento d’opera, un’altra al conferimento di beni in
natura in godimento, l’ultima al conferimento di beni in natura in proprietà.
Nel caso di conferimento d’opera, il socio può essere escluso per la
sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita. Tale situazione presuppone “la
presenza di cause oggettive che precludano in via definitiva la prestazione dell’opera
personale del socio” e prescinde dalla colposità dell’inadempimento.
Nel caso di conferimento di un bene in natura in semplice godimento,
l’esclusione del socio può essere decisa per il perimento della cosa dovuto a causa non
imputabile agli amministratori.
Infine, nel caso di conferimento in proprietà di un bene, il socio può essere
escluso, se la cosa è perita prima che la proprietà sia acquistata dalla società.
Come risulta immediato dall’esame delle cause di esclusione descritte nell’art.
2286 c.c., la prima ipotesi (salva la differente determinazione del “grado”
dell’inadempimento rilevante) è riconducibile ai presupposti della risoluzione del
contratto per inadempimento. Il terzo gruppo di cause di esclusione è pure facilmente
riconducibile ai presupposti della risoluzione del contratto per impossibilità
sopravvenuta della prestazione. Tuttavia, mentre l’esclusione per inadempimento si
riferisce genericamente ad ogni obbligazione sorta per effetto del contratto sociale, sia
essa derivante dal contenuto legale del contratto, sia essa derivante dal contenuto
pattizio del medesimo, l’esclusione per impossibilità sopravvenuta è collegata ad alcune
ipotesi di impossibilità della sola obbligazione di conferire. Da ciò un primo problema
interpretativo concernente l’ammissibilità di una ricostruzione del dettato normativo
idonea a ricomprendere tutte le ipotesi di impossibilità relative alle prestazioni proprie
di tutte le obbligazioni derivanti dal contratto sociale. Tale lettura permetterebbe di
individuare una nozione di impossibilità della prestazione, quale causa di esclusione del
socio, avente la stessa latitudine della nozione di inadempimento costruita dal
legislatore stesso.
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STUDI E OPINIONI
L’ESCLUSIONE DEL SOCIO
Occorre aggiungere che le cause di esclusione appartenenti al secondo gruppo
sono di incerta collocazione e può essere dubbia la loro riconduzione alle ipotesi di
impossibilità sopravvenuta (in particolare dell’obbligazione di collaborazione).
Alla luce del quadro normativo offerto dal legislatore - caratterizzato da una
certa frammentarietà e da una certa eterogeneità – la dottrina e la giurisprudenza si sono
interrogate in ordine alla possibilità di ricondurre l’esclusione del socio all’interno degli
schemi generali propri della risoluzione del contratto per inadempimento o per
impossibilità sopravvenuta della prestazione. Accogliendo tale fondamento, le norme
relative all’esclusione del socio vengono a costituire “applicazioni speciali” di tali
istituti. Nell’ambito della disciplina della società semplice (delle società di persone) –
secondo tale prospettiva – la risoluzione per inadempimento – nelle società con più di
due soci – può essere fatta valere dai soci stessi (mentre è il socio escluso che dovrà
agire in giudizio qualora intenda opporsi all’esclusione). A sua volta la risoluzione per
impossibilità sopravvenuta non opera di diritto, ma presuppone in ogni caso una
decisione in tal senso da parte dei soci.
La giurisprudenza ritiene, poi, che non vi sia spazio per il ricorso alle regole
comuni in tema di risoluzione per inadempimento o per impossibilità sopravvenuta della
prestazione.
La norma contenuta nell’art. 2287 c.c. delinea il procedimento di esclusione.
Al proposito occorre distinguere l’ipotesi di società con più di due soci
dall’ipotesi di società formata da due soci.
Nel primo caso l’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci. Si tratta di
maggioranza computata per capi (e non in relazione alla parte attribuita a ciascun socio
nella partecipazione agli utili). Ciò è fatto palese dalla stessa lettera dell’art. 2287,
primo comma, c.c., ove si legge: “l’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci,
non computandosi nel numero di questi il socio da escludere”. La maggioranza deve
essere computata senza tener conto, quindi, del socio da escludere.
Il legislatore usa impropriamente la formula deliberazione: infatti nella società
semplice non vale il principio di collegialità in ordine alla decisione dei soci. Da ciò
consegue la non necessità della preventiva audizione del socio escludendo e della
contestazione degli addebiti nei suoi confronti, anche se da una lettura coordinata con le
nuove norme in tema di società a responsabilità limitata, che prevedono in ogni caso la
consultazione di tutti i soci, tale soluzione potrebbe non risultare più coerente con il
sistema societario.
In ogni caso la decisione dei soci deve contenere l’indicazione dei motivi per cui
il socio è escluso: invero, secondo la giurisprudenza , la decisione di esclusione del
socio deve ritenersi invalida qualora mancasse totalmente di motivazione. La decisione
può anche mancare di una formale e rigorosa enunciazione degli addebiti, purché in
concreto sia idonea a consentire all’interessato di individuare gli addebiti medesimi,
così da poter articolare le sue difese.
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STUDI E OPINIONI
L’ESCLUSIONE DEL SOCIO
La decisione di esclusione deve essere comunicata al socio escluso: dal
momento della ricezione di tale comunicazione decorre il termine di trenta giorni
rilevante sotto un duplice profilo:
- fino alla scadenza di tale termine l’esclusione non opera e quindi il socio
escluso conserva la sua posizione di socio;
- fino alla scadenza del termine il socio escluso può proporre opposizione
all’esclusione stessa, promuovendo un’azione giudiziaria dinanzi al tribunale
competente.
L’opposizione invero instaura un processo ordinario di cognizione. La sentenza
che accoglie l’opposizione annulla la decisione di esclusione, reintegrando il socio con
effetto retroattivo: si tratta quindi di una sentenza avente natura costitutiva.
Il legislatore stabilisce quali siano gli effetti dell’opposizione in ordine alla
decisione di esclusione: la prima non sospende l’esecuzione della seconda. Tuttavia il
legislatore stesso ha previsto un provvedimento cautelare tipico, consistente appunto
nella sospensione dell’esecuzione della decisione di esclusione.
Se la società si compone di due soci. l’esclusione può essere solo l’effetto di una
sentenza: infatti, in tal caso, l’esclusione di uno dei due soci è pronunciata dal
Tribunale, su domanda dell’altro.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI SOGGETTIVI E OGGETTIVI
DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA
STATUTARIA∗
Viene di seguito pubblicata la seconda parte dello studio riguardante i limiti applicativi
della clausola compromissoria per arbitrato societario ex artt. 34 ss. d. lgs. n. 5/2003
di MAURIZIO IRRERA e MARCO SERGIO CATALANO
Seconda parte – I limiti oggettivi
1. Premessa
Le disposizioni riguardanti i limiti oggettivi nell’arbitrato societario sono
contenute nel 1°, nel 4° comma dell’art. 34 e nell’art. 35, 5° comma d. lgs. n. 5/20031.
L’art. 34, comma 1, stabilisce come limite generale che l’arbitrato possa riguardare solo
controversie su diritti disponibili relativi al rapporto sociale.
La medesima norma, inoltre, insieme alle altre sopra menzionate, indica le
categorie di controversie assoggettabili alla clausola compromissoria: le liti fra soci e fra
soci e la società (art. 34, 1° comma); le liti con gli organi sociali (art. 34, 4° comma); le
impugnative di delibere assembleari (art. 35, 5° comma).
Tale distinzione fra criteri generali di compromettibilità delle liti societarie e
categorie di controversie in concreto arbitrabili verrà seguita anche nell’analizzare
l’ambito oggettivo di operatività della clausola.
Pertanto, i primi paragrafi saranno dedicati all’esame dei requisiti necessari per
deferire una controversia in arbitrato societario.
Successivamente, si cercherà di delineare un quadro delle attuali linee di
tendenza in merito alla compromettibilità delle singole categorie di liti individuate dalla
disciplina processuale societaria.
∗
Il presente scritto verrà pubblicato, con il titolo I limiti soggettivi ed oggettivi di operatività
della clausola compromissoria statutaria, in AA. VV., L’arbitrato, a cura di Alpa e Vigoriti, in
corso di stampa.
1
Al fine di rendere più scorrevole la lettura, da questo punto gli articoli del d.lg. n. 5/2003
saranno richiamati senza l’indicazione del decreto di appartenenza, salvi i casi in cui ciò sia
necessario per chiarezza espositiva.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
2. Il limite della disponibilità dei diritti in contesa
Pur essendo stato autorizzato, in sede di delega, a prevedere l’arbitrato su
materie indisponibili2, il legislatore processuale societario ha stabilito di assoggettare
alla nuova disciplina arbitrale le controversie, relative al rapporto sociale, che abbiano
ad oggetto diritti disponibili (art. 34, comma 1), concedendo agli arbitri la sola
cognizione incidentale delle questioni non compromettibili, subordinandola peraltro alla
decisione secondo diritto (art. 35, comma 3).
L’insieme di disposizioni viene completato dall’art. 34, comma 5, a norma del
quale non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali
la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero3, che è previsto, in
materia di società per azioni, dall’art. 2409 c.c. per la denuncia al tribunale di gravi
irregolarità della gestione, solo per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio (in ogni caso escluse dall’ambito di applicazione della nuova normativa); dagli
artt. 2436, comma 4 e 2446, comma 4 c.c., che regolano i procedimenti giudiziali per
l’iscrizione nel registro delle imprese delle delibere di modificazione dello statuto e
quello per la riduzione del capitale sociale per perdite; dall’art. 2487, ultimo comma,
nelle cause di revoca per giusta causa dei liquidatori4; ed infine, da leggi speciali.
Il primo e il quinto comma dell’art. 34 presentano una mancanza di
coordinamento, che ha causato una serie di problemi interpretativi. Secondo parte della
dottrina, il combinato disposto dei due commi andrebbe interpretato nel senso di
circoscrivere l’area della non compromettibilità unicamente ai casi in cui sia previsto
l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, considerando per converso arbitrabili
tutte le altre controversie, anche se su diritti indisponibili5. In senso opposto, pur
partendo dal medesimo presupposto – ovvero che la presenza necessaria del pubblico
2
Disposizione, questa, che non mancò di suscitare critiche in dottrina. Cfr. FAZZALARI,
L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Riv. arb., 2002, 443.
3
PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, I, 224 s., ove si possono reperire
alcuni precedenti storici alla disposizione dell’art. 34, comma 5 (ad es., l’art. 1080 del Codice
per il Regno delle Due Sicilie, che stabiliva il divieto di compromettere «sulle controversie nelle
quali deve intervenire il pubblico ministero»).
4
Secondo ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, in Arbitrati speciali, a cura di Carpi,
Bologna 2008., 73 s. solo il procedimento di revoca per giusta causa dei liquidatori avrebbe ad
oggetto diritti, mentre negli altri casi verrebbero in gioco solo interessi; probabilmente per
questo motivo SANTONI, Le clausole compromissorie nella riforma del diritto societario, in
Studium Juris, 2005, 45, limita il divieto di compromettibilità dell’art. 34, comma 5 all’art. 2487
c.c.
5
FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma, cit. 444; FIECCONI, Il nuovo procedimento arbitrale
societario, in Corr. giur., 2003, 972.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
ministero nel processo sia sicuro indice dell’indisponibilità del diritto in lite6 – è stato
sostenuto che l’art. 34, comma 5 avrebbe un mero valore esemplificativo e non
costituirebbe l’unico limite alla compromettibilità delle controversie, che va individuato
nella indisponibilità del diritto controverso7. Così opinando, tuttavia, la norma in
questione verrebbe svuotata di significato, riducendosi ad una mera superfetazione di
quanto già enunciato nell’art. 34, comma 18.
È però possibile pervenire a diversa e maggiormente condivisibile soluzione,
qualora si ritenga che non sempre alla previsione legale dell’intervento obbligatorio del
pubblico ministero corrisponda per le parti la privazione del potere di disporre del
diritto in lite. In questo modo si attribuisce al quinto comma dell’art. 34 valenza
esplicativa rispetto al limite generale della disponibilità del diritto controverso, nel
senso di vietare la compromettibilità delle controversie societarie per le quali sia
previsto l’intervento obbligatorio del p.m., anche nel caso in cui riguardino materie di
per sé disponibili9.
D’altra parte, anche la lettura dell’art. 34, comma 1 ha suscitato qualche
interrogativo. In questo, infatti, si prevede testualmente la possibilità di deferire in
arbitrato societario «le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società
che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi all’oggetto sociale».
Per la compromissione delle liti in arbitrato societario, dunque, la norma richiede
tre requisiti: a) che la controversia abbia ad oggetto “diritti”; b) che tali diritti siano
“disponibili”; c) che i diritti in contesa siano “relativi all’oggetto sociale”.
6
Per l’indisponibilità delle liti in cui sia prevista la partecipazione necessaria del P.M. cfr.
PUNZI, Disegno, cit., I, 225; LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, 3ª ed., Milano,
2007, 43; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, 3ª ed., Milano 1988, 74; ZUCCONI GALLI FONSECA,
Sub art. 806 c.p.c., in Arbitrato, a cura di Carpi, 2ª ed., Bologna 2008, 43 ss.; RUBINOSAMMARTANO, Diritto dell’arbitrato, 5ª ed., Padova, 2006, 264; LUISO, Sub art. 34, in Il nuovo
processo societario, a cura di Luiso, Torino 2006, 566.
7
Fra gli altri: BOVE, L’arbitrato nelle controversie societarie, in Giust. civ., 2003, II, 477;
CARPI, Profili dell’arbitrato in materia di società, in Riv. arb., 2003, 420; AULETTA F., Sub art.
34, in La riforma delle società. Il processo, a cura di Sassani, Torino 2003, 336; GHIRGA, Gli
strumenti alternativi di risoluzione delle controversie nel quadro della riforma del diritto
societario, in www.judicium.it, 2004, § 5.
8
Ed è questa la tesi sostenuta da ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 75.
9
RUFFINI, La riforma dell’arbitrato societario, in Corr. giur., 2003, 1532; ID., Il nuovo
arbitrato per le controversie societarie, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 505; ARIETA, DE
SANTIS, Diritto processuale societario, Padova 2004, 615; NELA, Sub art. 34, in Il nuovo
processo societario, diretto da Ciarloni, Bologna 2004, 956; se non erriamo, SANZO, Sub art.
34, in Il nuovo diritto societario, a cura di Cottino e Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Bologna
2004, III, 2982; e, prima della riforma: VELLANI, Il pubblico ministero nel processo, II,
Bologna, 1970, 622 ss.; LEVONI, La pregiudizialità nel processo arbitrale, Torino, 1975, 79.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Nel presente paragrafo ci occuperemo dei primi due, riservando al prossimo il
tema dell’inerenza al rapporto sociale del diritto in contesa.
I primi due presupposti per l’arbitrabilità delle liti societarie sono identici a
quelli richiesti dall’art. 806 c.p.c. per la compromettibilità delle liti in arbitrato di diritto
comune.
Ed infatti, l’art. 34 1° comma, richiede in primo luogo che le liti in materia
societaria abbiano ad oggetto “diritti”: non potranno, quindi, essere deferite in arbitrato
le controversie in cui entrino in gioco posizioni giuridiche diverse dai diritti, quali ad
esempio gli interessi semplici.
I diritti oggetto d’arbitrato, poi, dovranno essere “disponibili”, il che significa
che non debbano rientrare fra quei diritti (indisponibili) sottratti dalla legge alla libera
disponibilità delle parti a protezione di interessi di carattere superindividuale,
inscindibilmente connessi con le finalità proprie dell’ordinamento giuridico10.
I confini delle categorie dei diritti disponibili ed indisponibili, tuttavia, risultano
poco chiari, essendovi comprese una congerie di posizioni soggettive storicamente
mutevoli e impossibili da qualificare in maniera unitaria.
Una delle “vittime” di questa incertezza classificatoria è stato l’arbitrato
societario, i cui spazi di operatività sono stati fortemente compressi da una
giurisprudenza ante-riforma particolarmente restrittiva, che, pur esprimendo
un’opinione favorevole, «in linea di principio» all’ammissibilità del deferimento agli
arbitri di controversie in materia societaria11, ha ammesso solo la deferibilità in arbitrato
di liti aventi ad oggetto interessi individuali dei soci, negando costantemente la
compromettibilità delle controversie coinvolgenti interessi della società o inerenti alla
violazione di norme inderogabili poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci, dei
creditori o dei terzi12 nonché, come si è visto, delle controversie in cui l’intervento del
pubblico ministero sia espressamente previsto come obbligatorio dalla legge13.
10
Sulla disponibilità dei diritti, vedi, prima della riforma dell’art. 806 c.p.c. operata dal d.lg. n.
40/2006, BERLINGUER, La compromettibilità per arbitri, Torino 1999, I, 17 ss.; PUNZI,
Disegno, cit., I, 218 ss.; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., 62 ss.; IRTI, Compromesso e
clausola compromissoria nella nuova legge sull’arbitrato, in Riv. arb., 1994, 651 ss.;
BERNARDINI PIE., Il diritto dell’arbitrato, Bari, 1998, 43 ss.; FAZZALARI, L’arbitrato, Torino,
1997, 36 ss.; VERDE, La convenzione di arbitrato, in Diritto dell’arbitrato rituale, a cura di
Verde, 3ª ed., Torino, 2005, 90 ss. Per la nozione di «diritto disponibile» a seguito della riforma
dell’arbitrato di diritto comune, cfr. tra gli altri NELA, Sub art. 806 c.p.c., in Le recenti riforme
del processo civile, a cura di Chiarloni, Bologna, 2007, 1585 ss., ove ulteriori riferimenti e
citazioni; ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 806 c.p.c., cit., 22 ss.; RICCI G.F., La convenzione
di arbitrato e le materie arbitrabili nella riforma, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, 759 ss.
11
JAEGER P.G., Appunti sull’arbitrato e le società commerciali, in Giur. comm., 1990, I, 221.
12
Ex pluris: Cass., 10 ottobre 1962, n. 2910, in Giust. civ., 1963, I, 29 ss.; Cass., 24 maggio
1965, n. 999, in Giust. civ., 1965, I, 1575 ss., con nota di GIANNATTASIO, Sulla natura dell’atto
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Tale orientamento giurisprudenziale è stato criticato duramente dalla dottrina, in
entrambi i suoi aspetti principali.
Da un lato, infatti, si è rilevato come sia fragile il criterio per il quale sono
arbitrabili solo le controversie aventi ad oggetto diritti individuali dei singoli soci, in
considerazione del fatto che ogni lite può, in astratto, coinvolgere interessi di terzi, tanto
più in materia societaria, dove risulta impossibile tracciare una linea di demarcazione
fra gli interessi del socio e quelli della società. In particolare, è stata contestata anche la
sussistenza di un interesse della società indipendente ed autonomo rispetto a quelli dei
singoli soci; al contrario, l’interesse sociale è costituito dalla somma degli interessi dei
singoli soci al conseguimento dell’oggetto sociale e alla percezione degli utili
corrispondenti14. In ogni caso, anche qualora venissero riconosciuti interessi di natura
di conferimento e sui limiti della deferibilità ad arbitri delle impugnazioni di deliberazioni
sociali; Cass., 18 febbraio 1988, n. 1739, in Foro it., 1988, I, 3349 ss.; Cass., 30 marzo 1998, n.
3322, in Foro it. Mass., 1998, 351; Cass., 6 luglio 2000, n. 9022, in Foro pad., 2000, I, 313 ss.;
Cass., 19 settembre 2000, n. 12412, in Giust. civ. 2001, 405 ss., con nota di VIDIRI,
Compromesso (e clausola compromissoria) e controversie in materia societaria; Cass., 21
dicembre 2000, n. 16056, in Giust. civ. mass., 2001, 22; Cass., 23 febbraio 2005, n. 3772, in
Società, 2006, 637 ss., con nota di SOLDATI, Arbitrato societario ed impugnazione di delibera
assembleare consortile; in Riv. arb., 2006, 297 ss., con nota di GROPPOLI, L’incidenza
dell’interesse «sociale» sull’arbitrabilità. V. anche, fra le più recenti pronunce di merito e lodi
arbitrali: Trib. Ravenna, 3 febbraio 2006, in Giur. it., 2006, 1875 ss., con nota di CERRATO,
Scioglimento delle società e arbitrato: nihil sub sole novi?; in Società, 2007, 607 s.., con nota di
MORELLINI, Le controversie deferibili agli arbitri e la decisiva volontà delle parti; Trib.
Milano, 4 ottobre 2005 e Trib. Milano 27 settembre 2005, in Giur. comm., 2006, II, 1128 ss.,
con nota di CERRATO, Tre problemi in materia di arbitrato endosocietario; Trib. Lucca, 11
gennaio 2005, in www.judicium.it, 2005, con commento critico di MERONE, La
compromettibilità in arbitri delle impugnative di delibere assembleari; Trib. Verona, 15 marzo
2005, inedita; Trib. Napoli, 2 maggio 2003, in Giur. merito, 2004, 249 ss., con nota di
ROCCHIO, Due problemi in tema di società consortili: i limiti della clausola compromissoria e
le ipotesi «atipiche» di esclusione dei soci; Trib. Napoli, 29 marzo 2003, in Società., 2003, 1251
ss., con nota di SOLDATI, Limiti alla deferibilità al giudizio arbitrale delle controversie tra soci
e tra soci e società; Lodo Arbitrale, 15 aprile 2002, in Riv. arb., 2002, 557 ss., con nota di
AMADEI, In favore della compromettibilità in arbitri della controversia sulla esclusione
reciproca dei soci in una società di due persone; App. Firenze, 31 gennaio 2001, ibidem, 315
ss., con nota di FUSILLO, Disponibilità del diritto ed ammissibilità della clausola
compromissoria nelle controversie in materia societaria. Rescindente e rescissorio nel giudizio
di impugnazione per nullità del lodo.
13
Trib. Roma, 10 luglio 1962, in Temi romana, 1964, 375 ss.; Trib. Roma, 23 luglio 1984, in
Società, 1985, 492 ss., con commento di RORDORF, Deferibilità ad arbitri di controversie
relative a deliberazioni assembleari.
14
V. per tutti JAEGER P.G., Appunti sull’arbitrato, cit., 221.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
pubblicistica in capo alle società, tali interessi non potrebbero precludere il ricorso
all’arbitrato, il cui oggetto può essere dichiarato indisponibile solo per espressa
previsione di legge che ne renda nulla la disposizione15, o per contrasto con l’ordine
pubblico16. Sotto altro profilo, peraltro, i terzi non sono sprovvisti di tutela nei confronti
del lodo che incida la loro sfera patrimoniale, potendo proporre l’opposizione di terzo,
stante il combinato disposto degli artt. 404 e 831, comma 3, c.p.c.17 ed essendo concessa
loro, per quanto attiene al procedimento arbitrale societario, la facoltà di intervenire
volontariamente in giudizio o, se soci, di esservi chiamati da una delle parti o dal
collegio arbitrale.
Dall’altro lato, la disponibilità di un diritto non può essere negata nemmeno
nell’ipotesi in cui l’interesse di cui si controverte sia protetto da norme imperative o
inderogabili, sia se esse fissino la competenza funzionale dell’autorità giudiziaria, sia se
sanciscano la nullità di determinati atti di disposizione di diritti. Nel primo caso, infatti,
tali norme sono destinate ad operare solo all’interno della giurisdizione statale, e non nel
caso in cui siano arbitri a decidere18. Per quanto riguarda la seconda ipotesi, invece, è
comune opinione che all’inderogabilità di una norma non corrisponda l’indisponibilità
del diritto da essa tutelato, bensì l’obbligo per gli arbitri di rispettare tale norma nel
corso del procedimento arbitrale19.
La disposizione dell’art. 34, comma 1, che potrebbe essere considerata
pleonastica, in quanto, se non ci fosse stata, i limiti oggettivi alla compromettibilità
delle controversie sarebbero comunque stati desunti dall’art. 806 c.p.c.20, assume quindi
il significato di ricondurre il tema della deferibilità in arbitrato delle controversie
15
NELA, Sub art. 34, cit., 950; TETI, L’arbitrato nelle società, in Riv. arb., 1993, 302 s.;
BERLINGUER, La compromettibilità per arbitri, cit., II, 223.
16
LUISO, Sub art. 34, cit., 563 s..
17
SANGIOVANNI, Le clausole compromissorie statutarie nel nuovo diritto societario italiano, in
www.judicium.it, 2004, § 5.
18
NELA, op. cit., 951.
19
BOVE, L’arbitrato, 475; AULETTA F., Sub art. 34, cit., 331 il quale rileva che «altro, invero, è
il limite alla transigibilità, altro il limite al giudizio sopra diritti transigibili, dal momento che
l’inderogabilità di una norma non immuta il diritto bensì l’eventuale giudizio sopra di esso»;
NELA, op. cit.., 952 il quale conclude che l’inderogabilità delle norme non costituisce di per sé
un ostacolo alla facoltà di devolvere le relative liti in arbitrato. Solo se tramite quest’ultimo si
realizzerà una forma indiretta di disposizione di diritti indisponibili sanciti da norme imperative,
scatterà l’impossibilità di compromettere, come conseguenza dell’indisponibilità del diritto.
20
Peraltro, per una diversa ricostruzione della nozione di disponibilità del diritto in materia
societaria, v. ZOPPINI, I «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» nel nuovo arbitrato
societario, in www.judicium.it, 2004, § 4, secondo cui la «disponibilità», cui si riferisce l’art.
34, comma 1, dovrebbe essere intesa come se dicesse che è arbitrabile tutto ciò che è
socialmente decidibile, senza ulteriori restrizioni.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
societarie entro l’alveo della disponibilità dei diritti, in accoglimento delle obiezioni
mosse dalla dottrina contro le restrizioni imposte surrettiziamente in materia dalla
giurisprudenza.
La formulazione piuttosto ambigua della norma, tuttavia, ha suscitato qualche
dubbio sulla sua effettiva portata. Per alcuni commentatori, infatti, il legislatore delegato
avrebbe fatto pieno uso delle facoltà concessegli dal delegante, permettendo all’arbitrato
un «vistoso ingresso nel campo delle controversie in materia non disponibile»21. Siffatta
interpretazione fa leva sul tenore letterale della norma, la quale prevede espressamente
che le controversie fra soci e società debbano vertere su diritti disponibili, ma non ripete
tale limite per le altre categorie di liti societarie nominate nell’impianto normativo,
ovvero le liti coinvolgenti gli organi sociali (art. 34, comma 4) e le impugnative di
delibere assembleari (art. 35, comma 5 e 36, comma 1), le quali pertanto sarebbero
sempre arbitrabili, a prescindere dalla loro disponibilità22; non molto diversa è la tesi, di
cui abbiamo già trattato, secondo la quale l’unico limite alla compromettibilità sarebbe
dato dalla previsione legislativa dell’intervento obbligatorio del P.M.
Ma, a nostro sommesso avviso, sembra preferibile l’opinione maggioritaria,
secondo cui il criterio della disponibilità dei diritti varrebbe come limite generale alla
deferibilità in arbitrato di tutte le liti societarie, essendo incluse nelle liti «tra i soci
ovvero tra i soci e la società» tutte le tipologie di liti societarie. Anche se, com’è stato
osservato, tale tesi potrebbe risultare poco funzionale rispetto all’obiettivo di
incrementare il ricorso alla giustizia arbitrale, soprattutto nell’ipotesi in cui la
giurisprudenza non muti gli orientamenti restrittivi sinora seguiti23.
3. La necessaria inerenza della controversia al rapporto sociale.
Il secondo requisito che la legge indica, per delimitare l’ambito applicativo
dell’arbitrato societario, è costituito dalla necessaria inerenza della controversia al
rapporto sociale.
Per precisare il significato dell’espressione legislativa «diritti […] relativi al
rapporto sociale», gli interpreti si sono riferiti all’esperienza del processo del lavoro, il
cui ambito di operatività è delimitato dall’art. 409 c.p.c., ai sensi del quale tale rito si
applica alle controversie relative ai rapporti di lavoro elencati nell’articolo medesimo.
21
RICCI E., Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 521.
RICCI E., op. loc. cit.; MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione nella riforma del processo
societario, in www.judicium.it, 2003, § 5. In giurisprudenza, Trib. Como, 29 settembre 2006, in
Società, 2007, 1277 ss., con nota critica di FANTI, Impugnazione di bilancio e compromettibilità
in arbitri della relativa controversia.
23
SANGIOVANNI, Le clausole compromissorie statutarie, cit., § 5.
22
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Su questa base si è giunti ad affermare che si può definire relativa ad un rapporto, tanto
la controversia che abbia direttamente ad oggetto il rapporto in questione, quanto quella
che abbia ad oggetto un diritto che trovi la propria causa petendi
nell’esistenza/inesistenza o nel modo d’essere del rapporto.
Quindi, potranno sicuramente essere oggetto di clausola compromissoria sia le
controversie relative all’esistenza/inesistenza, qualificazione e disciplina del rapporto
sociale, sia quelle relative a diritti che trovano la loro fattispecie costitutiva nel rapporto
sociale, anche se di essi sono titolari non soci24.
Per converso, saranno certamente escluse: le liti che abbiano ad oggetto o
comunque riguardino esclusivamente rapporti tra i soci in contesa, senza coinvolgere la
vita societaria25; le controversie involgenti gli organi sociali, qualora non siano
espressamente menzionate nel patto compromissorio (stante il disposto dell’art. 34,
comma 4), nonché, più in generale, tutte quelle che non siano contemplate dalla clausola
compromissoria, nel caso di devoluzione parziale in arbitrato delle liti societarie.
È invece dubbio se siano da considerare relative al rapporto sociale, e quindi
assoggettate alla disciplina dell’arbitrato societario, le controversie: a) riguardanti patti
parasociali e negozi di trasferimenti di quote; b) in materia di lavoro e previdenziali; c)
in cui il socio agisca uti tertius nei confronti della società.
Per quanto concerne l’ipotesi sub lett. a), coloro che non ritengono applicabile la
disciplina dell’arbitrato societario alle liti riguardanti patti parasociali e negozi di
trasferimento di quote societarie muovono dall’assunto che tali liti siano estranee alla
vita endosocietaria. Esse, infatti, non riguarderebbero direttamente l’intero gruppo
vincolato dalla clausola compromissoria statutaria, ma solo la parte dei soci e gli
eventuali terzi che abbiano stipulato il patto o il negozio; pertanto le relative
controversie potrebbero dar luogo ad un arbitrato di diritto comune e non a quello
speciale per clausola statutaria26.
24
LUISO, op. cit., 568, che pone l’esempio di chi sia subentrato in un diritto o in un obbligo di
cui era originariamente titolare il socio, senza tuttavia acquisirne lo status.
25
CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, cit., 1290;
CHIARLONI, Appunti sulle controversie deducibili per arbitrato societario e sulla natura del
lodo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 134; DE NOVA, Controversie societarie: arbitrato
societario o arbitrato di diritto comune?, in Contratti, 2004, 848.
26
CHIARLONI, op. loc. cit.; CARPI, Profili dell’arbitrato, cit., 416; DE NOVA, op. loc. cit.;
MORELLINI, Artt. 34 ss. del d.lgs. n. 5: ambito di applicazione e nullità della clausola
compromissoria, in Società, 2004, 1000 s.; RICCI E., Il nuovo arbitrato societario, cit., 523;
RUFFINI, La riforma, cit., 1528; SANGIOVANNI, Le clausole compromissorie, cit., § 2.2;
SOLDATI, La nuova clausola compromissoria statutaria, in www.judicium.it, 2004, § 1;
MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione, cit., § 6; AULETTA F., Sub art. 34, cit., 340; BISIGNANI,
Sub art. 34, in Processo, arbitrato e conciliazione nelle controversie societarie, bancarie e del
mercato finanziario. Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, a cura di Alpa e Galletto,
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
A questa interpretazione restrittiva dell’area dei diritti relativi al rapporto sociale
sono state mosse alcune fondate obiezioni. Innanzitutto, per quanto riguarda i patti
parasociali, è stato contestato il concetto di estraneità al rapporto sociale, poiché – si
sostiene – il legislatore delegato, avendo introdotto, fra le norme del codice civile che
regolano la società, una disciplina sostanziale di tali accordi con gli artt. 2341-bis ss.
c.c.27, ha dimostrato di volerli considerare parte integrante della vita societaria, ferma
restando la loro efficacia obbligatoria, perlomeno nelle società non quotate28. Con
riferimento, invece, ai trasferimenti di partecipazioni sociali, si è affermato che, per
quanto concretamente non riguardino tutti i soci, in relazione alla dimensione
contenutistica ed oggettiva possano dare luogo a controversie riferibili all’oggetto
sociale e come tali rientranti nella sfera di applicazione della norma29.
In aggiunta, si è osservato, da un lato, che l’art. 1 d. lgs. 5/2003, nel definire
l’ambito di applicazione delle norme speciali di procedura, ha stabilito esplicitamente
l’applicazione di tali disposizioni anche «in tutte le controversie […] relative a […] b)
trasferimento delle partecipazioni sociali, nonché ogni altro negozio avente ad oggetto
le partecipazioni sociali o i diritti inerenti; c) patti parasociali, anche diversi da quelli
disciplinati dall’art. 2341-bis codice civile»30. Dall’altro lato, si è altresì rilevato che
l’art. 12, comma 1 della legge delega aveva concesso al legislatore delegato di riformare
la disciplina della clausola compromissoria statutaria per tutte o alcune delle
controversie di diritto societario, comprese quelle relative al trasferimento delle
partecipazioni sociali ed ai patti parasociali; pertanto l’esclusione di tali categorie di
Milano, 2004, 229 s. Parzialmente difforme, SANTONASTASO, L’arbitrato nelle società, in
Cons. Stato, II, 2004, 709 ss., invece favorevole in astratto all’arbitrabilità delle controversie
relative ad alcuni strumenti partecipativi non societari, quali il “patrimonio costituito per uno
specifico affare” di cui all’art. 2447-bis c.c.; con riferimento alla cessione di azioni o quote,
NOBILI, Arbitrato e controversie societarie, in Conciliazione e arbitrato nelle controversie
societarie, a cura dell’A.I.A., Roma, 2003, 64; contrario all’applicabilità delle norme
sull’arbitrato societario ai patti parasociali, ma favorevole all’estensione per il trasferimento di
partecipazioni societarie, DANOVI F., L’arbitrato nella riforma del diritto processuale
societario, in www.judicium.it, 2004, § 9.
27
Sulla disciplina dei patti parasociali dopo la riforma del diritto societario, cfr. MAZZAMUTO, I
patti parasociali: una prima tipizzazione legislativa, in Contr. e impr., 2004, 1086 ss.; RIOLFO,
I patti parasociali, Padova, 2003; PAVONE LA ROSA, I patti parasociali nella nuova disciplina
della società per azioni, in Giur. comm., 2004, 5 ss.
28
ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 5; ARIETA, DE SANTIS, Diritto
processuale societario, cit., 608.
29
DANOVI F., op. loc. cit., il quale dubita dell’applicabilità della norma nei casi in cui il
trasferimento della partecipazione non si sia perfezionato, ma abbia costituito oggetto
unicamente di un obbligo successivamente inadempiuto.
30
Contra, LA CHINA, L’arbitrato, cit., 290, il quale ritiene che l’arbitrato societario possa
trovare la propria fonte unicamente nell’art. 34, comma 1.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
controversie sarebbe dovuta avvenire sulla base di un’esplicita previsione del legislatore
delegato.
Ne consegue che le liti concernenti patti parasociali e trasferimenti di
partecipazioni rientrano fra quelle relative al rapporto sociale, e possono essere deferite
in arbitrato societario fondato su clausola compromissoria statutaria31. Con una
limitazione. Infatti, qualora nei patti parasociali o nei negozi di trasferimento di quote
sia contenuta una clausola compromissoria specifica, distinta ed autonoma rispetto a
quella eventualmente contenuta nell’atto costitutivo, ad essa non potrà essere applicata
direttamente la disciplina dell’arbitrato societario, il cui ambito di operatività è
circoscritto ai soli patti compromissori statutari32.
Gli accordi compromissori contenuti nei patti parasociali e nei negozi di
trasferimento delle quote sociali, pertanto, continueranno ad essere disciplinati dalle
norme di diritto comune33.
Le norme speciali, tuttavia, potranno essere recepite convenzionalmente dai
litiganti. Queste, infatti, pur essendo sicuramente inapplicabili in via diretta o in via
analogica, potranno essere richiamate, in virtù dell’art. 816 bis c.p.c., che concede alle
parti di determinare le regole che gli arbitri devono seguire nel procedimento34.
Per quanto concerne, invece, le controversie in materia di lavoro e previdenziale,
la risposta all’interrogativo sull’applicabilità della disciplina arbitrale societaria deve
essere differenziata, a seconda che si tratti di cooperative o di altri tipi societari.
31
Nello stesso senso, pare, Trib. Bari, 7 dicembre 2004, cit.; d’altra parte, prima della riforma la
compromettibilità delle questioni su patti parasociali non suscitava particolari problemi. Cfr.,
infatti, App. Bologna, 11 giugno 1994, in Notariato, 1995, 27 ss.
32
Contra, SALI, Arbitrato e riforma societaria: la nuova clausola arbitrale, in Nuova giur. civ.
comm., 2004, II, 118 ss., il quale però, in ID., L’arbitrato per le nuove società.Dodici (piccoli)
nodi applicativi e qualche proposta, in www.judicium.it, 2004, § 9 pare tornare sui suoi passi, e
ritenere prematura l’applicabilità delle norme del decreto processuale alle controversie in
materia di patti parasociali e trasferimento di quote sociali; BRIGUGLIO, Conciliazione e
arbitrato nelle controversie societarie, in Conciliazione e arbitrato nelle controversie
societarie, a cura dell’A.I.A., Roma, 2003, 28 s.; BOVE, L’arbitrato, cit., 493.
33
ARIETA, DE SANTIS, Diritto processuale societario, cit., 608; AULETTA F., Sub art. 34, cit.,
337, nota 39.
34
Nello stesso senso, CORSINI, L’arbitrato, cit., 1290; NELA, Sub art. 34, cit., 957, per il quale
le parti non possono richiamare solo le norme in astratto applicabili, ma tutta la disciplina del
nuovo arbitrato societario, fermo restando che l’arbitrato su patti parasociali non potrà definirsi
“endosocietario”; nello stesso senso, MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione, cit., § 4.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
In quest’ultimo caso, infatti, sembra evidente che le liti debbano essere regolate
dalla disciplina dell’arbitrato di diritto comune35, contenuta oggi negli artt. 806, 2°
comma, c.p.c., per l’arbitrato rituale, nonché 412-ter e 412-quater c.p.c.36.
Per quanto riguarda le cooperative, la situazione appare ancora nebulosa. L’art. 5
della l. 142/2001, infatti, aveva previsto la competenza del giudice ordinario per le liti
riguardanti il rapporto associativo e quella funzionale del giudice del lavoro per le
controversie inerenti alla prestazione lavorativa del socio, alle quali poteva altresì essere
applicato il procedimento arbitrale previsto dagli artt. 412-ter e 412-quater c.p.c. Con
l’art. 9 della riforma Biagi (d. lgs. 30/2003), tuttavia, tale sistema di “doppio binario” è
stato abolito, tutte le questioni – comprese quelle concernenti la prestazione mutualistica
– sono state devolute alla competenza del tribunale ordinario ed è stato eliminato ogni
riferimento all’arbitrato; parallelamente, con il d. lgs. 6/2003 di riforma del diritto
societario sostanziale, si è attenuata la distinzione fra rapporto societario e prestazione
lavorativa37 del socio lavoratore.
Per semplicità e coerenza sistematica, parrebbe che sia le controversie relative al
rapporto associativo, sia quelle relative alla prestazione mutualistica siano assoggettabili
ad arbitrato societario sulla base di una valida clausola compromissoria statutaria38.
Per contro, fondandosi sulla distinzione tra “rapporto mutualistico” e
“prestazione lavorativa”, è possibile sostenere che solo le cause riguardanti il primo
siano attribuite al giudice ordinario, mentre le seconde siano di competenza del giudice
del lavoro39, e, conseguentemente, arbitrabili soltanto secondo la disciplina di diritto
comune40.
Per quanto riguarda, infine, le controversie in cui il socio agisce uti tertius nei
confronti della società, l’orientamento prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza
ne nega l’inerenza al rapporto sociale41.
35
NELA, Sub art. 34, cit., 943 s. che fa salva l’ipotesi di recepimento convenzionale, ad opera
delle parti, della disciplina dell’arbitrato societario.
36
Sulla disciplina dell’arbitrato nel diritto del lavoro, v. da ultimo BORGHESI, Arbitrato per le
controversie di lavoro, in Arbitrati speciali, a cura di Carpi, cit., 3 ss.
37
Per esempio, l’art. 2533, comma 4 c.c., stabilisce che, in assenza di diversa previsione
nell’atto costitutivo, il rapporto mutualistico si sciolga contestualmente allo scioglimento del
rapporto sociale.
38
CABRAS, I principi dell’arbitrato e l’arbitrato societario, in www.dircomm.it, 2005, § 10;
dubitativamente, ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 114 ss.
39
V. GAROFALO, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa contenuti
nel d. d. l. 848 B, in Lavoro nella giur., 2003, 7 ss.
40
L’ipotesi è formulata da ZUCCONI GALLI FONSECA, op. loc. cit.
41
NELA, Sub art. 34, cit., 943, che fa l’esempio di un’azione avente ad oggetto un contratto per
fornitura di servizi dalla società al socio. In giurisprudenza, cfr. Cass., 20 dicembre 1990, n.
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Quest’orientamento, peraltro, potrebbe essere oggi superato dall’art. 808 quater
c.p.c., introdotto dal d.lg. n. 40/2006, per il quale, in caso di dubbio, la competenza
arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto a cui
si riferisce la convenzione d’arbitrato. Dal che si potrebbe inferire che, nel caso –
frequente nella prassi – di clausola compromissoria statutaria di tenore
onnicomprensivo, anche le liti coinvolgenti il socio uti tertius rientrino fra quelle
devolute alla cognizione arbitrale42.
4. Le liti compromettibili: A) L’impugnazione delle delibere
assembleari.
La tipologia di liti societarie maggiormente colpita dagli orientamenti restrittivi
della giurisprudenza in punto di arbitrabilità delle liti è, senza alcun dubbio, quella delle
impugnazioni di delibere assembleari.
Né, sul punto, hanno contribuito a far chiarezza le disposizioni contenute nella
disciplina dell’arbitrato societario. Gli artt. 34 ss., infatti, toccano (solo indirettamente)
il tema della compromettibilità delle impugnazioni di delibere assembleari in due
norme: nell’art. 35, comma 5, che si concede agli arbitri il potere di sospendere la
delibera impugnata; nell’art. 36, ove si impone il giudizio secondo diritto, con lodo
impugnabile anche per violazioni di norme di diritto sostanziale, quando l’oggetto delle
controversie sia la validità delle delibere assembleari.
Non vi è dunque una disposizione che stabilisca chiaramente quali delibere siano
arbitrabili e quali no, sicché – oggi come già prima della riforma del diritto societario –
spetta agli interpreti stabilire i confini della compromettibilità delle delibere
assembleari.
Secondo l’orientamento (formatosi prima della riforma del diritto societario, ma)
tuttora prevalente in giurisprudenza, le liti riguardanti la validità di delibere assembleari
potrebbero considerarsi compromettibili solo nell’ipotesi in cui l’oggetto della delibera
impugnata coinvolga esclusivamente gli interessi del singolo socio. Non sarebbero
arbitrabili, invece, le impugnazioni di delibere riguardanti interessi della società, o
adottate in violazione di norme inderogabili poste a tutela dell’interesse collettivo dei
soci o dei terzi43. In forza di tale distinzione, si nega, ad esempio, la compromettibilità
12077, in Società, 1991, 761 ss.; Trib. Milano, 26 luglio 1999, in Dossier Guida dir., 1999, 7,
75.
42
In questo senso parrebbe anche ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato societario, cit., 68.
43
V., tra le ultime pronunce di legittimità e di merito: Trib. Milano, 4 ottobre 2005 e Trib.
Milano, 27 settembre 2005, cit.; Trib. Lucca, 11 gennaio 2005, cit.; Cass., 23 febbraio 2005, n.
3772, cit.; Cass., 23 gennaio 2004, n. 1148, in Società, 2004, 713 ss.; Trib. Modena, 29 maggio
2001, in Dir. e prat. soc., 2001, 18, 76 ss., con nota di SOLDATI, Impugnazione delle delibere
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
delle impugnazioni di delibere in tema di bilancio44, di azzeramento del capitale sociale
per perdite45, o per vizi legati alla convocazione o al funzionamento dell’assemblea46.
Per contro, si ritengono disponibili, in quanto riguardanti gli interessi del singolo socio,
ad esempio, le impugnative delle delibere che autorizzano l’azione di responsabilità nei
confronti degli amministratori e dei sindaci47, nonché quelle relative all’ammissione o
all’esclusione del socio48.
Tuttavia, come è stato messo in luce dalla dottrina, tale criterio discretivo rende
quasi impraticabile il ricorso alla giustizia arbitrale, poiché è impossibile individuare
con precisione un interesse del socio che sia completamente estraneo agli interessi della
società49.
Sono stati, quindi, proposti altri criteri per distinguere fra delibere
compromettibili e non arbitrabili.
assembleari e limiti delle clausole compromissorie; Trib. Milano, 6 marzo 2003, in Giur. it.,
2003, 1411 ss.; App. Firenze, 31 gennaio 2001, cit.; Cass., 19 settembre 2000, n. 12412, cit.;
Cass., 6 luglio 2000, n. 9022, cit.; Cass., 30 marzo 1998, n. 3322, cit.; Cass., 18 febbraio 1988,
n. 1739 cit. Ancor più restrittiva Cass., 23 ottobre 1998, n. 10530, in Foro it., 1998, I, 3125,
secondo cui le impugnative di delibere assembleari non sarebbero mai compromettibili perché
sempre riguardanti interessi della società o di terzi. Contra, Trib. Milano, 10 gennaio 2000, in
Giur. it., 2000, 1239 ss.; Trib. Milano, 29 gennaio 1998, in Giur. it., 1998, I, 2, 1196 ss. con
nota di MURATORE, Osservazioni in tema di compromissione in arbitri delle deliberazioni
assembleari di società. In tali pronunce si afferma che la disponibilità dell’azione non sia di per
sé confliggente con il carattere imperativo della disciplina sostanziale, poiché in arbitrato il
singolo non disporrebbe tanto della disciplina, quanto dell’interesse concreto alla sua
osservanza, vale a dire del diritto di azione.
44
Cfr., fra tutte, Cass., 30 marzo 1998, n. 3322, cit.; Cass., 18 febbraio 1988, n. 1739, cit.; Trib.
Napoli, 6 marzo 1993, in Società, 1993, 982 ss.; Trib. Genova, 25 gennaio 1982, in Giur.
comm., 1982, II, 684 ss. In dottrina: SILINGARDI, Il compromesso in arbitri nelle società di
capitali. Analisi di un’esperienza statutaria, Milano 1979, 75.
45
Trib . Milano, 27 settembre 2005, cit.
46
Cass., 26 maggio 1965, n. 999, cit.; Trib. Roma, 3 dicembre 1999, in Giur. romana, 2000,
288; Trib. Milano, 4 giugno 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, 175.
47
V. per tutti DALMOTTO, L’azione di responsabilità contro gli amministratori della società per
azioni (artt. 2393 e 2393-bis c.c. novellati dal d. lgs. N. 6 del 2003), in www.judicium.it, § 2.2,
ove ulteriori riferimenti e citazioni.
48
Sulle quali torneremo nel prossimo paragrafo.
49
V. per tutti DE FERRA, Clausole arbitrali nel diritto delle società, in Riv. arb., 1995, 192 s.;
JAEGER P.G., Appunti sull’arbitrato, cit., 221.
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I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Secondo una tesi sarebbero arbitrabili le delibere viziate, ma convalidabili,
mentre non lo sarebbero quelle afflitte da vizi di nullità tali da non consentirne la
convalida50.
Prima della riforma del diritto societario sostanziale, la distinzione fra delibere
suscettibili di convalida – compromettibili – e delibere non convalidabili, quindi non
arbitrabili, coincideva con quella fra delibere annullabili e delibere nulle per
impossibilità o illiceità dell’oggetto. Le prime, infatti, potevano essere impugnate entro
un termine decadenziale ed erano sostituibili con altre conformi alla legge e all’atto
costitutivo. Per le seconde, invece, l’art. 2379 c.c. previgente prevedeva – tramite il
richiamo alla disciplina generale delle nullità negoziali – il divieto di convalida della
delibera nulla, nonché la sua impugnabilità senza limiti di tempo, da parte di chiunque
vi avesse interesse.
Dopo l’emanazione del d.lg. n. 6/2003, la situazione è radicalmente mutata. Il
legislatore, infatti, ha profondamente innovato la disciplina delle impugnazioni di
delibere assembleari societarie, restringendo termini e condizioni per farne valere
l’invalidità, con l’obiettivo di renderle più stabili51.
Per quanto riguarda le delibere annullabili per non conformità alla legge o
all’atto costitutivo, ad esempio, il potere di impugnare la delibera viene attribuito ora
solo a chi detenga una partecipazione qualificata nel capitale (arg. ex art. 2377, comma
3 c.c.), entro novanta giorni dalla data della deliberazione, ovvero dell’iscrizione o del
deposito nel registro delle imprese (art. 2377, comma 5 c.c.)52. Inoltre, qualora la
delibera annullabile impugnata sia sostituita da altra delibera assunta in conformità alla
legge o allo statuto, non può più essere annullata (art. 2377, comma 8 c.c.). Ed ancora,
durante il procedimento d’impugnazione, il giudice, ove lo ritenga utile, potrà esperire il
tentativo di conciliazione, suggerendo eventualmente le modifiche che ritenga
opportuno apportare alla delibera impugnata per ripristinarne l’efficacia (art. 2378,
comma 4 c.c.).
Impugnabilità limitata, generale conciliabilità, nonché possibilità di convalida o
sostituzione con delibera valida, peraltro, sono oggi previste anche per le delibere affette
da alcune tipologie di nullità (le c.d. nullità sanabili). Si tratta delle delibere nulle per
mancata convocazione dell’assemblea o per mancanza del verbale, nonché di quelle
aventi oggetto impossibile od illecito. Per tali ipotesi, infatti, l’art. 2379 c.c. dispone che
la nullità possa essere rilevata, anche d’ufficio, solo entro i tre anni successivi alla
50
ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 788 ss.; JAEGER P.G.,
Appunti, cit. 220 ss.; PUNZI, Disegno, cit., I, 257 ss.; CARPI, Profili, cit., 417 s.; CHIARLONI,
Appunti, cit., 130 s. In giurisprudenza, Trib. Roma, 23 luglio 1984, cit.; sulla base di presupposti
differenti: Trib. Milano, 10 gennaio 2000, cit.; Trib. Milano, 29 gennaio 1998, cit.
51
CORSINI, L’arbitrato, cit., 1289; SALVANESCHI, L’oggetto del nuovo arbitrato societario, in
AA. VV., Studi di procedura civile in onore di G. Tarzia, III, Milano, 2005, 2218 ss.
52
CORSINI, op. loc. cit.
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I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
deliberazione, oppure – ove prevista – alla sua iscrizione nel registro delle imprese.
Inoltre, l’impugnazione della delibera per mancata convocazione non potrà essere
esercitata da chi abbia assentito allo svolgimento dell’assemblea, mentre la mancanza
del verbale potrà essere sanata mediante un verbale redatto prima dell’assemblea
successiva (art. 2379-bis c.c.). In forza del rinvio operato dall’art. 2379 c.c. all’art.
2377, 8° comma, c.c., infine, si prevede che la nullità non possa essere dichiarata ove
venga sostituita da altra valida.
L’unica fattispecie di delibera insanabilmente nulla è costituita dalla delibera
modifichi l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili. Per tale fattispecie
ancora oggi è previsto il nonché la rilevabilità, anche d’ufficio, da parte di chiunque vi
abbia interesse e senza limiti di tempo.
Pertanto, alla luce della riforma della disciplina delle delibere assembleari, i
sostenitori della tesi dell’arbitrabilità delle delibere convalidabili o sanabili, ritengono
che siano compromettibili tanto le delibere annullabili quanto quelle viziate da nullità
sanabile. Non lo sarebbero, per converso, quelle insanabilmente nulle per aver
modificato l’oggetto sociale prevedendo attività illecite od impossibili53.
Movendo dall’equazione tra transigibilità e disponibilità del diritto –
espressamente sancita dall’art. 806 c.p.c. ante d.lg. n. 40/2006 – si è altresì sostenuto
che tali delibere non potessero essere deferite in arbitrato, ostandovi la previsione di
nullità della transazione su negozio illecito di cui all’art. 1972, 1° comma, c.c.54.
Ma questa tesi è messa in discussione da chi afferma che la disciplina
dell’arbitrato societario prima, e la riforma dell’arbitrato di diritto comune poi, abbiano
definitivamente rotto il nesso fra compromettibilità e transigibilità55, imponendo il solo
requisito della disponibilità dei diritti per il deferimento in arbitrato delle liti. Da ciò
deriverebbe che il divieto di accordo transattivo su titolo illecito ex art. 1972, 1° comma,
c.c., essendo dettato per la transazione, non dovrebbe trovare applicazione in arbitrato.
Pertanto, dovrebbe ritenersi valido in via generale l’arbitrato sul contratto illecito e, in
materia societaria, l’arbitrabilità (non solo delle delibere annullabili e sanabilmente
nulle, ma anche) delle delibere radicalmente nulle, che abbiano modificato l’oggetto
sociale prevedendo attività illecite o impossibili.
Per questa via, alcuni commentatori sono giunti ad affermare la piena
compromettibilità non solo delle delibere annullabili e sanabilmente nulle, ma di tutte le
delibere assembleari56 viziate, senza alcuna distinzione57.
53
CARPI, op. loc. cit.; CHIARLONI, op. loc. cit.
CHIARLONI, op. loc. cit.
55
Per una sintesi del dibattito relativo all’applicabilità dell’art. 1972, 1° comma, c.c.
all’arbitrato, v. ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 806 c.p.c., cit., 18 ss.
56
E, per analogia, anche delle delibere assunte dal consiglio d’amministrazione, in virtù del
rinvio compiuto dall’art. 2388 c.c. alla disciplina dell’impugnativa delle delibere assembleari.
Cfr. ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 80.
54
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I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Alla medesima conclusione, peraltro, è giunta altra dottrina, che ha rilevato
come nella disciplina dell’arbitrato societario l’impugnativa di delibere sia richiamata
come possibile oggetto di arbitrato senza ulteriori limitazioni, se non l’imposizione del
giudizio secondo diritto e dell’impugnazione del lodo per violazione di norme di diritto
sostanziale58. Imposizione, quest’ultima, che si spiegherebbe per il fatto che sovente
nelle impugnative vengono in gioco norme inderogabili, che non possono essere
ignorate in base ad accordo negoziale tra le parti in lite59. In altri termini, il legislatore
avrebbe accolto la soluzione secondo cui le impugnative di delibere assembleari
sarebbero tutte arbitrabili; ma per evitare che, tramite l’arbitrato, le parti disponessero di
diritti disponibili in modo da violare norme inderogabili, ha imposto il giudizio secondo
diritto e l’impugnazione del lodo ai sensi dell’art. 829, comma 3, c.p.c.
57
SALVANESCHI, op. loc. cit.. V. anche CORSINI, op. loc. cit.; ZUCCONI GALLI FONSECA, ult.
op. cit., 79, che rilevano come l’accoglimento della tesi in parola consentirebbe di superare gli
orientamenti restrittivi della giurisprudenza e reputare compromettibile in arbitri anche
l’impugnazione della delibera di approvazione del bilancio, la quale, ai sensi dell’art. 2434-bis
c.c., non può essere impugnata dopo che è stato approvato il bilancio successivo (nello stesso
senso, cfr. NOBILI, Arbitrato, cit., 62 ss.).
58
V. gli Autori menzionati alla nota precedente, a cui adde LUISO, Sub art. 34, cit., 565 e, nella
giurisprudenza arbitrale, Lodo Arbitrale Siracusa, 31 marzo 2007, in Società, 2007, 1417, con
nota di SCOGNAMIGLIO, Arbitrato societario e impugnazione di delibera assembleare di
approvazione del bilancio. Per un’impostazione differente del tema, v. però RICCI E., Il nuovo
arbitrato, cit., 522 ss., per il quale il legislatore, consentendo l’impugnazione delle delibere
assembleari, avrebbe sfruttato la delega legislativa nella parte in cui consentiva di devolvere in
arbitrato materie non disponibili. Secondo l’Autore, infatti, le delibere nulle sarebbero del tutto
indisponibili, mentre quelle annullabili lo sarebbero solo parzialmente, poiché il titolare del
diritto di impugnativa, pur potendo rinunciare all’impugnazione, non potrebbe mai, con un
accordo negoziale, ottenere la stessa dichiarazione di nullità o lo stesso annullamento ottenibili
con lodo arbitrale. L’obbligo di giudicare secondo diritto sarebbe giustificato proprio
dall’indisponibilità dell’oggetto della lite. Nello stesso senso, cfr. in dottrina MICCOLIS,
Arbitrato e conciliazione, cit., § 5; FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma, cit., 444, critico nei
confronti della riforma; in giurisprudenza, Trib. Como 29 settembre 2006, cit. Ma contro tale
tesi è sufficiente ribadire (v. supra, § 2 di questa sezione) che anche nei confronti
dell’impugnativa di delibera assembleare opera il limite della disponibilità dei diritti imposto
dall’art. 34, 1° comma.
59
BOVE, L’arbitrato, cit., 475; LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003,
710; ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 80, per la quale il legislatore ha
mostrato di «voler convertire l’indisponibilità del diritto in protezione dell’inderogabilità della
normativa applicabile, con riguardo a tutte le ipotesi di impugnativa di delibera», riteniamo
probabilmente in ossequio agli orientamenti più restrittivi della giurisprudenza formatasi prima
della riforma dell’arbitrato societario.
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I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
5. Segue: B) Le altre controversie fra soci o fra questi e la società.
Vengono ritenute generalmente compromettibili, in quanto attinenti all’interesse
del singolo socio, le controversie in materia di valutazione dei conferimenti60, di
ammissione ed esclusione nella società61, nonché in materia di recesso62 e liquidazione
della quota sociale63.
Tuttavia, nonostante le affermazioni di principio, sono sorti dei dubbi in merito
alla compromettibilità delle controversie relative all’esclusione del socio nella società di
persone costituita da due soli soci.
In quest’ipotesi, infatti, la fuoriuscita dal gruppo sociale di un elemento,
comporterebbe lo scioglimento della società. Cosicché, secondo un orientamento
giurisprudenziale, non verrebbero più in gioco solo interessi disponibili dei singoli soci,
ma subentrerebbe un interesse pubblico alle questioni riguardanti la vita della società
stessa. Di conseguenza, le domande relative all’esclusione di uno dei due soci
dovrebbero essere riservate alla competenza funzionale del Tribunale, ai sensi dell’art.
2287, comma 3 c.c.64.
Contro tale tesi, però, si obietta che lo scioglimento della società non è una
conseguenza automatica dell’esclusione del socio. Ai sensi dell’art. 2272, numero 4,
c.c., infatti, il socio superstite ha sei mesi di tempo – durante i quali la società continua
ad esistere – per far entrare nuovi soci nel gruppo sociale. Pertanto, le liti sull’esclusione
del socio in una società composta da due soci potranno essere devolute in arbitrato65.
60
V. sul punto SOLDATI, Le clausole compromissorie nelle società, cit., 156.
V. le pronunce citate di seguito nelle note 126 e 127.
62
Tra le ultime pronunce: Cass., 7 marzo 1995, n. 2657, in Gius, 1995, 934 ss.; Cass., 3 agosto
1988, n. 4814, in Società, 1988, 1135 ss; Cass., 20 aprile 1985, n. 2611, in Società, 1985, 963.
63
Cfr. Trib. Pavia, 17 dicembre 1987, in Società, 1988, 270 ss., con nota di PROTETTÌ E.,
Devoluzione ad arbitri delle controversie tra soci; Cass., 3 agosto 1988, n. 4814, cit. Contra,
per un caso di liquidazione a socio defunto, Trib. Como, 2 marzo 1987, in Società, 1987, 816
ss.: nella fattispecie la morte del socio determinava lo scioglimento dell’ente, coinvolgendo –
secondo la pronuncia citata – interessi fuoriuscenti da quelli delle singole parti.
64
Cass., 20 aprile 1985, n. 2611, cit.; Cass., 19 settembre 2000, n. 12412, cit., che estende
l’orientamento in parola anche alle società di capitali; Trib. Milano, 6 marzo 2003, cit.; Lodo
Arbitrale, 15 aprile 2002, cit.
65
Tra le più recenti: Trib. Napoli, 29 marzo 2003, cit.; App. Trento, 20 marzo 1999, in Società,
1999, 957 ss., con nota di STESURI, Deferibilità in arbitri dell’esclusione del socio di s.n.c. con
due soli soci; Trib. Catania, 13 settembre 1999, in Giur. comm., 2000, II, 507 ss., con nota di
MIRONE, Questioni in tema di arbitrato e controversie societarie, con riferimento particolare al
bilancio di società di persone; Cass., 4 dicembre 1995, n. 12487, in Giur. it., 1996, I, 722 ss. In
dottrina, cfr. GABRIELLI, Considerazioni sull’interpretazione e sull’invalidità di clausole
compromissorie, in Vita notarile, 1998, 973 ss.
61
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I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Questo orientamento, peraltro, risulterebbe confermato dalle precise scelte
compiute con la riforma del diritto sostanziale societario, che ammette, per le società di
capitali, sia la possibilità di costituire la società per atto unilaterale da parte di un solo
socio (art. 2328, comma 1 c.c.), sia che l’intero capitale sia concentrato nelle mani di un
solo socio66.
Con riferimento alle altre categorie di liti tra soci, o fra questi e la società, si
dibatte in dottrina se sia o meno compromettibile la lite sulla domanda di dichiarazione
di nullità del contratto sociale67.
Del pari, è dubbia la deferibilità in arbitrato delle controversie relative allo
scioglimento della società. La giurisprudenza, infatti, le ritiene non compromettibili,
poiché trascenderebbero gli interessi del singolo socio per involgere quelli della società,
superindividuali e pertanto non disponibili68. In dottrina, per contro, è stato rilevato
come tale controversia dovrebbe ritenersi arbitrabile, in forza della disciplina
sostanziale posta dall’art. 2484 c.c. La norma, infatti, parrebbe stabilire che la
dichiarazione di scioglimento produca effetto solo dal momento dell’iscrizione nel
registro delle imprese, vale a dire da una dichiarazione negoziale proveniente dai soci.
Dal che parrebbe emergere una tendenziale disponibilità della materia, considerato che,
in ultima analisi, l’efficacia dello scioglimento viene rimessa alla volontà delle parti di
pubblicizzare la relativa dichiarazione69.
6. Segue: C) Le liti coinvolgenti gli organi sociali.
Nell’indagare i limiti sulla compromettibilità delle liti involgenti gli organi
sociali inizieremo dalla fattispecie più comune, vale a dire l’azione sociale di
responsabilità nei confronti degli amministratori, disciplinata dagli artt. 2393 e 2393 bis
c.c.70.
66
NELA, Sub art. 34, cit., 955, testo e nota 93.
Per la non compromettibilità, v. RICCI E., Il nuovo arbitrato societario, cit., 522. Contra, per
l’arbitrabilità della lite sulla dichiarazione di nullità del contratto sociale, ZUCCONI GALLI
FONSECA, Arbitrato societario, cit. 81
68
Cass., 19 settembre 2000, n. 12412, cit.; Trib. Milano, 6 marzo 2003, cit.; Trib. Modena, 12
maggio 2004 (decr.), in Società, 2004, 1270, con nota di SOLDATI, Clausola arbitrale societaria
e nomina del liquidatore; T. Ravenna, 3 febbraio 2006, cit.
69
Così, se non erriamo, ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 81.
70
Poiché le norme sull’azione di responsabilità sono estese dagli artt. 2407, ultimo comma,
2489, comma 2, 2396, 2409-sexies, 2409-decies, 2409-noviesdecies, c.c. ai sindaci, ai
liquidatori, ai direttori generali, ai soggetti incaricati del controllo contabile ed agli organi di
amministrazione e controllo previsti nel sistema monistico e dualistico, non v’è dubbio che sia
compromettibile anche l’azione di responsabilità promossa contro tali organi. Così come, d’altra
67
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STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Dottrina e giurisprudenza, superando l’orientamento contrario prevalente sotto la
vigenza del codice di commercio71, già da tempo ammettono pressoché pacificamente
che l’azione sociale di responsabilità sia devoluta in arbitrato72.
A fondamento della compromettibilità dell’azione sociale di responsabilità si è
individuato l’art. 2393, comma 4, c.c. del testo anteriore alla riforma del diritto
societario: la disposizione prevedeva espressamente la possibilità di rinunziare
all’azione o di transigere, purché vi fosse la deliberazione espressa dell’assemblea e non
vi fosse il voto contrario di almeno un quinto del capitale sociale. Poiché l’allora
vigente art. 806 c.p.c. concedeva di compromettere per arbitri le liti aventi ad oggetto
diritti che potessero formare oggetto di transazione, se ne desumeva l’arbitrabilità
dell’azione sociale di responsabilità.
Tale conclusione permane valida anche a seguito alla riforma del diritto
societario sostanziale. Il previgente art. 4° comma dell’art. 2393 c.c. è stato infatti
trasfuso, senza sostanziali variazioni, nel novellato art. 2393, 5° comma, c.c., il quale
tuttavia – differendo dalla formulazione precedente – differenzia il quorum deliberativo
necessario per l’opposizione alla rinuncia o alla transazione riguardanti l’azione sociale
di responsabilità, a seconda che essa sia stata promossa in una società che faccia ricorso
al mercato del capitale di rischio o in una società che non vi ricorra. Nella prima ipotesi,
infatti, rimarrà ferma la necessità del voto contrario alla rinuncia o alla transazione di
almeno un quinto del capitale sociale, mentre per la seconda ipotesi si reputa sufficiente
il voto contrario di almeno un ventesimo del capitale sociale, ovvero la misura prevista
per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità esercitata dai singoli soci, ai sensi
dell’art. 2393-bis c.c. La norma permette alla minoranza dei soci, che detengano almeno
un quinto del capitale sociale – o la diversa misura (non superiore al terzo) prevista
dallo statuto – di esercitare l’azione sociale di responsabilità. Essi potranno, ai sensi
dell’art. 2393-bis, comma 6, c.c., rinunciare all’azione o transigere, fermo restando che
ogni corrispettivo per rinuncia o transazione andrà a vantaggio della società.
parte, potrà essere compromessa in arbitri l’azione di responsabilità proposta dal consiglio di
sorveglianza, che ai sensi dell’art. 2409-decies c.c. può rinunciare all’azione o transigere a
maggioranza assoluta. Cfr. sul punto CORSINI, op. loc. cit.; CHIARLONI, Appunti, cit., 130, nota
11.
71
V. ad esempio App. Firenze, 14 agosto 1934, in Riv. dir. comm., 1936, II, 156 ss., con nota di
ALLORIO, Responsabilità degli amministratori di anonime e arbitrato.
72
Cfr. Trib. Bologna, 25 maggio 2005, in Giur. it., 2006, 1639 ss., con nota di RESTANO, Brevi
considerazioni sull’arbitrato quale strumento per la risoluzione delle controversie tra
amministratori e società; Trib. Catania, 20 febbraio 1999, in Giur. comm., 2000, II, 507 ss., con
nota di MIRONE, op. cit.; Cass., 2 settembre 1998, n. 8699, in Giust. civ., 1999, I, 1439 ss., con
nota di VIDIRI, Azione sociale ex art. 2393 c.c.: quorum deliberativo e compromesso arbitrale;
App. Milano, 14 gennaio 1992, in Società, 1992, 655; Trib. Milano, 2 dicembre 1982, ivi, 1983,
631.
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I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
Per le s. r. l., invece, l’art. 2476 c.c. dispone che l’azione sociale di
responsabilità sia proponibile da ciascun socio, e che possa essere oggetto di rinuncia o
transazione solo con il voto favorevole di due terzi del capitale sociale, e senza
l’opposizione di almeno un decimo del capitale.
Da tali disposizioni si evince come l’azione sociale di responsabilità nelle
società amministrate secondo il sistema tradizionale, dunque, è da considerarsi, oggi
come allora, pienamente arbitrabile.
Maggiormente dubbia è la deferibilità in arbitrato delle liti riguardanti la revoca
degli amministratori. In effetti, per tale fattispecie, la giurisprudenza è pervenuta a
decisioni contrastanti, a seconda che la revoca riguardi amministratori di società di
persone o di capitali. Nel primo caso, infatti, si è da ultimo negata l’arbitrabilità della
lite, fondandosi sul presupposto che la «giusta causa» richiesta dall’art. 2259 c.c. per la
domanda di revoca riguarderebbe interessi collettivi e per questo non compromettibili73.
Per quanto riguarda la revoca dell’amministratore di società di capitali, invece, sebbene
non manchino pronunce che per motivi analoghi ne negano l’arbitrabilità74, vi sono
recenti segnali di apertura alla soluzione arbitrale. Da un lato, infatti, si è messa in
discussione la tralatiziamente affermata sovraindividualità dei diritti in contesa.
Dall’altro lato, inoltre, si è osservato che, quantomeno nelle società per azioni,
generalmente la revoca dell’amministratore viene effettuata congiuntamente alla
delibera di autorizzazione dell’azione di responsabilità, di cui è pacificamente
riconosciuta la compromettibilità. Il che renderebbe arbitrabile anche l’impugnativa
della domanda di revoca ad essa collegata75.
Al contrario, non sarà certamente sottoposta alla clausola compromissoria
statutaria l’azione di responsabilità promossa dai creditori sociali ex art. 2394 c.c.,
73
Cass., 18 febbraio 1988, n. 1739, cit.; Trib. Belluno, 26 ottobre 2005, cit.; Trib. Catania, 19
dicembre 2003, in Vita notarile, 2004, 910 ss.; Trib. Biella, 8 gennaio 2001, in Giur. it., 2001,
978 ss., con nota di BERTOLOTTI, Revoca di amministratore, tutela cautelare, compromettibilità
in arbitri: osservazioni sul tema; Trib. Cagliari, 17 novembre 1997, in Riv. giur. sarda, 1998,
749 ss., con nota di PACINI; Trib. Trieste, 12 dicembre 1990, in Società, 1991, 818 ss., con nota
di RONCO S., Revoca dell’amministratore di società personale; Trib. Padova, 20 giugno 1989,
in Foro pad., 1989, I, 327 ss.; Pret. Sestri Ponente, 2 marzo 1989, in Foro it., 1989, I, 2356.
Contra, Trib. Monza, 14 dicembre 2001, in Società, 2002, con nota di CUPIDO, Procedimento
per la revoca dell’amministratore di società personale; Coll. Arbitrale, 22 luglio 1998, in Corr.
giur., 1999, 613 ss., con nota di SALVANESCHI, Esclusione del socio amministratore e clausola
compromissoria.
74
Cfr. in motivazione Trib. Bari, 2 novembre 2006, in Giur. it., 2007, 223 ss., con nota di
CERRATO, che però non tocca la questione.
75
V., per questi rilievi, Trib. Bari, 7 giugno 2007, in Guida dir., 2007, 32, 66; Trib. Salerno, 1
giugno 2006, inedita; Trib. Milano, 25 giugno 2005 e Trib. Bologna, 25 maggio 2005, entrambe
in Giur. it., 2006, 1639 ss., con nota di RESTANO, cit.
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
30
STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
poiché, non essendo i creditori parte del gruppo sociale, non saranno vincolati dalla
clausola76.
Parimenti, sino ad oggi non si è reputata compromettibile l’azione individuale
del socio o del terzo, che l’art. 2395 c.c. concede al singolo socio o al terzo che siano
stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori. Per un verso,
infatti, si è rilevato come la lite relativa non si fondasse sul rapporto sociale, ma sul dolo
o la colpa dell’amministratore77. Per altro verso, si è altresì osservato che ove a
promuovere l’azione fosse il terzo, questi non sarebbe compreso nell’ambito soggettivo
di operatività del patto compromissorio78. Tale tesi, tuttavia, potrebbe essere sovvertita
relativamente all’azione promossa dal socio, alla luce dell’art. 808 bis c.p.c., introdotto
dal d.lg. n. 40/2006. La norma, infatti, consente espressamente di deferire in arbitrato
rapporti extracontrattuali determinati, sicché pare oggi possibile ritenere che anche
l’azione individuale promossa dal socio sia coperta dalla clausola compromissoria
statutaria79. A condizione, ovviamente, di condividere la tesi secondo cui tale clausola
copra non solo le liti derivanti dal contratto, ma anche i diritti di natura extracontrattuale
che ad esso si riferiscano80.
Dottrina e giurisprudenza concordano, inoltre, nel ritenere non compromettibile
la denuncia al Tribunale di gravi irregolarità amministrative, ai sensi dell’art. 2409 c.c.
(richiamato dall’art. 2545 quinquiesdecies c.c. per le cooperative), per due ordini di
motivazioni81. In primo luogo, si fa discendere la non arbitrabilità dalla struttura del
procedimento, poiché si tratta di procedimento camerale82, non avente ad oggetto diritti,
ma solo l’interesse ad ottenere il controllo sull’operato della società83. In seconda
battuta, osterebbe all’arbitrabilità della lite la finalità lato sensu pubblicistica della
76
NOBILI, Arbitrato, cit., 60 ss.
Cass., 2 settembre 1998, n. 8699, cit.
78
NOBILI, op. loc. cit.
79
ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 68; BARBIERI, BELLA, Il nuovo diritto
dell’arbitrato, in Tratt. Galgano, 45, Padova, 2007, 455.
80
Per tale tesi, v. ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 808 bis, in Arbitrato, commentario diretto
da Carpi, 2ª edizione, Bologna 2007, 149 s.
81
Fra le quali non assume particolare rilievo il fatto che la norma preveda l’intervento
obbligatorio del P.M.: questo, infatti, è previsto solo per le società aperte, escluse dall’ambito di
operatività del d.lg. n. 5/2003. Conf. NELA, Sub art. 34, cit., 955; AULETTA F., Sub art. 34, cit.,
335.
82
App. Ancona, 14 febbraio 1998, in Società, 1998, 941 ss., con nota di PISELLI, Irrilevanza di
clausola compromissoria ai fini del procedimento ex art. 2409; T. Taranto, 17 maggio 1996, in
Gius, 1996, 1848 ss.; Cass. S.U., 23 ottobre 1961, n. 2347, in Foro pad. 1961, I, 1225.
83
Sulla natura del giudizio ex art. 2409 c.c., cfr. Cass., 15 marzo 2001, n. 3750, in Giust. civ.
Mass., 2001, 487; Cass., 12 luglio 2000, n. 9257, in Dir. Fall., 2000, II, 857 ss.; SOLDATI, Le
clausole compromissorie, cit., 140.
77
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
31
STUDI E OPINIONI
I LIMITI DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA STATUTARIA
norma, vale a dire far iniziare allo Stato un’indagine sulla vita societaria, affinché venga
accertato se si sono o meno verificate gravi irregolarità84.
Del pari, non potranno essere compromesse in arbitri le liti relative all’istanza di
nomina giudiziale e di revoca per giusta causa dei liquidatori. Per quanto riguarda le
controversie sulla nomina, si ritengono non arbitrabili perché il relativo procedimento è
affidato alla camera di consiglio e perché non avrebbero ad oggetto diritti, ma semplici
interessi85. La controversia sulla revoca dei liquidatori, invece non potrà essere deferita
in arbitrato, dato che per essa l’art. 2487 c.c. impone l’intervento obbligatorio del
pubblico ministero86.
Diversamente, si ritiene comunemente deferibile in arbitrato la lite sulla revoca
dei sindaci, previa tuttavia l’autorizzazione giudiziale imposta dall’art. 2400, 2° comma,
c.c. novellato87.
84
NELA, Sub art. 34, cit., 955.
ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 82.
86
Cfr. da ultimo Trib. Modena, 12 maggio 2004, cit.
87
ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, cit., 82; CORSINI, op. cit., 1289.
85
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
32
STUDI E OPINIONI
L’AREA DI APPLICAZIONE
DEL PROCEDIMENTO DI
LIQUIDAZIONE
DELLE AZIONI E DELLE QUOTE
Colmando un vuoto legislativo, la riforma delle società di capitali ha introdotto
un meccanismo di liquidazione delle partecipazioni sociali che accostando, in
successione, altri istituti del diritto societario, tutela l’integrità del capitale sociale
allontanando l’eventualità di un depauperamento della società: il complesso sistema di
uscita architettato dal legislatore e collocato nell’ambito del diritto di recesso, sia per
le società per azioni sia per quelle a responsabilità limitata, pare andare oltre la
propria applicazione tipica.
di ELENA FREGONARA*
1. Un diverso approccio al tema
L’inedito procedimento per la liquidazione delle partecipazioni sociali appare di
grande interesse, da un lato, per il fatto che è stato colmato un vuoto legislativo
attraverso l’introduzione di un meccanismo che accostando, in successione, altri istituti
del diritto societario, tutela l’integrità del capitale sociale allontanando l’eventualità di
un depauperamento della società; dall’altro lato, il complesso sistema di uscita
architettato dal legislatore e collocato nell’ambito del diritto di recesso, sia per le società
per azioni sia per quelle a responsabilità limitata, pare andare oltre la propria
applicazione tipica.
Quest’ultimo profilo si rivela di grande interesse per l’interprete e merita di
essere approfondito verificando la possibilità di un’estensione del procedimento di
liquidazione in esame al di là del suo più tradizionale campo di azione. L’ipotesi,
peraltro, risulta in parte confermata dal dato normativo che, in altri contesti,
direttamente ovvero indirettamente, rinvia a queste norme.
*
Il contributo è tratto dal volume Recesso e procedimento per la liquidazione delle azioni e
delle quote, Giuffrè, 2008.
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2007
33
STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Il principio di conservazione dell’integrità del capitale sociale, e quindi di
riflesso dell’ente sociale, che costituisce il leit motiv del procedimento in questione,
potrebbe indurre un’ulteriore diffusione dello stesso oltre i confini tracciati dal
legislatore.
Non si può, dunque, sottovalutare l’incidenza che tale procedimento può
suscitare sull’intero sistema societario potendo, in qualche misura, risultare un
meccanismo ‘universale’ di alienazione delle partecipazioni ai soci uscenti: l’eventuale
‘strategico’ innesto dovrà, pertanto, essere valutato anche alla luce dei diversi scenari
normativi di s.p.a. ed s.r.l.
2. L’area di applicazione
Il nuovo procedimento di liquidazione copre una vasta area di applicazione: in
questo senso si può distinguere tra ipotesi di recesso tipiche, convenzionali, non inserite
nella sedes materiae ed ipotesi ‘affini’ al recesso.
In primo luogo, in sede di riforma delle società di capitali, il nostro ordinamento
ha conosciuto un significativo ampliamento delle cause di recesso ‘tradizionali’. Gli
artt.li 2437 e 2473 c.c., dedicati alla regolamentazione dell’istituto rispettivamente nelle
società per azioni ed in quelle a responsabilità limitata, prospettano un elenco di cause
legali inderogabili; per le s.p.a. sono poi previste anche due ipotesi di recesso derogabili
dallo statuto (1). Per le società quotate l’art. 2437 quinquies c.c. sancisce una specifica
causa di recesso per quanti non abbiano concorso alla deliberazione che comporta
l’esclusione dalla quotazione.
(1) In base all’art. 2437 c.c.: «hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci
che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti: a) la modifica della clausola dell’oggetto
sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società; b) la
trasformazione della società; c) il trasferimento della sede sociale all’estero; d) la revoca dello
stato di liquidazione; e) l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal successivo
comma ovvero dallo statuto; f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in
caso di recesso; g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione.
Salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che non hanno
concorso all’approvazione delle deliberazioni riguardanti: a) la proroga del termine; b)
l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari».
In base all’art. 2473 c.c.: «in ogni caso il diritto di recesso compete ai soci che non hanno
consentito al cambiamento dell’oggetto o del tipo di società, alla sua fusione o scissione, alla
revoca dello stato di liquidazione, al trasferimento della sede all’estero, alla eliminazione di una
o più cause di recesso previste dall’atto costitutivo e al compimento di operazioni che
comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto della società determinato nell’atto
costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci a norma dell’art. 2468,
quarto comma».
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
34
STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Fin qui il ‘fenomeno recesso’, pur amplificato rispetto al recente passato, pare
‘controllabile’.
L’attuale disciplina, tuttavia, contempla la possibilità, per le sole società per
azioni ‘chiuse’ e per tutte le società a responsabilità limitata, di introdurre ulteriori cause
facoltative di recesso. Viene, inoltre, previsto un diritto di recedere, in ogni momento,
con preavviso, per i soci di società costituita a tempo indeterminato.
L’analisi del tema dovrà poi necessariamente spostarsi dalla sedes materiae,
giacché vi sono alcune cause di recesso che risultano disciplinate in altri settori del
codice civile o, addirittura, in altri contesti normativi.
Per completare l’indagine relativa all’ambito legale di applicazione della
fattispecie verranno esaminate ipotesi ‘affini’ al recesso, ovvero altre fattispecie in cui
la legge rinvia espressamente al procedimento in oggetto.
3. Il recesso convenzionale
Con la riforma si è assistito ad una rivoluzione in tema di recesso non solo con
riferimento all’estensione normativa dell’istituto: nell’ambito delle s.p.a. che non fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio (2) e delle s.r.l. è stato, infatti, superato il
principio della tassatività delle ipotesi di exit (3).
Oggi, dunque, analogamente a quanto accade nelle società di persone, i soci
hanno la facoltà di ampliare, attraverso l’autonomia statutaria, i già estesi margini legali
di operatività dell’istituto. Sulla scorta degli insegnamenti dottrinali in tema di società
personali, l’atto costitutivo potrebbe, dunque, prevedere ipotesi di recesso che
valorizzino elementi personalistici: «i soci possono recedere se anche il bilancio di un
solo esercizio chiude in passivo (oppure quando si siano avuti x bilanci, di successivi
esercizi, chiusi in passivo); (…) in caso di trasferimento di residenza, o del
raggiungimento di una certa età, o di assunzione di incarichi particolari; (…) in caso di
scadenza o comunque di inefficacia o invalidità di un brevetto d’invenzione» (4).
(2) Per quanto concerne l’estensione della nuova disciplina del recesso convenzionale alle
società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la Relazione ministeriale ha chiarito
che tale estensione creerebbe «una turbativa che in società con diffusa platea azionaria
porterebbero facili e diffusi recessi».
(3) Sul tema v. M. CALLEGARI, Articolo 2437. Diritto di recesso, in COTTINO, BONFANTE,
CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto societario, artt. 2409 bis2483 c.c., **, Bologna, 2004, p. 1404; S. CARMIGNANI, Articolo 243. Diritto di recesso, in La
riforma delle società. Commentario del D.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, a cura di Sandulli-Santoro,
tomo III, Torino, 2003, p. 882; A. TOFFOLETTO, L’autonomia privata e i suoi limiti nel recesso
convenzionale del socio di società di capitali, in Riv. dir. comm., 2004, p. 347 e ss.
(4) Così M. GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 531; P. PISCITELLO, Recesso ed
esclusione nella s.r.l., in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
35
STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Il tracciato dei nuovi confini appare decisamente elastico: sembra addirittura
possibile la previsione di un «potere generico di recesso in presenza di giusta causa»
(5). Nel caso di adozione da parte della società di una formula di tal genere, occorrerà
interpretarla alla luce del patrimonio dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi con
riferimento alla disciplina del recesso nelle società di persone; in merito è stato
autorevolmente affermato che ricorre una giusta causa quando «si sono determinati dei
fatti, che non dipendono dal comportamento del recedente, che hanno così
profondamente inciso sui rapporti sociali da non consentirne ulteriormente la
prosecuzione» (6).
Resta, viceversa, controversa la legittimità di una generale facoltà di recesso ad
nutum (7).
Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 3, Torino, 2007, p. 727, l’a. riferendosi
alle sole s.r.l. ipotizza quali possibili cause di recesso convenzionali: l’aumento del capitale, il
mutamento del sistema di amministrazione; il compimento di particolari atti di gestione destinati
ad avere una particolare incidenza sull’andamento economico della società, la cessazione di uno
o più amministratori.
(5) Così O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, Padova, 2007, p. 168, l’ a. tratta il
tema nell’ambito delle s.r.l., ma non sembra vi siano ostacoli ad estendere la riflessione alle
s.p.a. ‘chiuse’. Contra, P. PISCITELLO, Recesso, cit., p. 729, secondo cui appare opportuno, al
fine di evitare un incremento del contenzioso, che si indichino nell’atto costitutivo le ipotesi che
integrano una ‘giusta causa di recesso’.
(6) Così G. FERRI, Delle società, art. 2247-2324, in Commentario del codice civile a cura di
Antonio Scialoja e Giuseppe Branca, 3ª ed., Bologna, 1981, p. 283; M. GHIDINI, Le società
personali, cit., p. 534, l’a. afferma che «la giusta causa comprende innanzitutto i fatti che
legittimerebbero la proposizione dell’azione di risoluzione del contratto, imputabili ad uno o più
soci, tali da giustificare la pretesa di uscire dalla società. l’esemplificazione è ovvia:
inadempimento da parte di altri soci alle obbligazioni sociali, amministrazione disonesta o
disordinata, mancata o irregolare tenuta della contabilità, stipulazione di contratti rischiosi,
sistematico esautoramento del socio ecc. Ma la giusta causa comprende anche circostanze
diverse da quelle che legittimerebbero l’azione di risoluzione per inadempimento; essa può
consistere anche nel fatto incolpevole di un (altro) socio, come la sua interdizione, o in un
evento esterno, indipendente dai soci, come l’emanazione di una nuova legge (fiscale, doganale,
ecc.), la persistente improduttività dell’impresa sociale, benché nulla possa rimproverarsi agli
amministratori. Può consistere in un fatto che risiede nella stessa persona del recedente (es. una
sua malattia che gli rende impossibile o difficile interessarsi della società; il trasferimento della
residenza non preordinato, ecc.). Può consistere in una situazione attribuibile, in maggior o in
minor grado, a tutti i soci, come lo stato di grave discordia insorto tra di essi».
(7) In questo senso O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, cit., p. 168; M.
CALLEGARI, Articolo 2437, cit., p. 1407. Contra S. CARMIGNANI, Articolo 2437, cit., p. 882,
l’a., pur riconoscendo i rischi connessi ad una «incontenibilità della previsione statutaria di casi
convenzionali di exit» pare affermare l’ammissibilità di una clausola di generale di recesso ad
nutum laddove ritenuta rispondente agli interessi delle parti; M. STELLA RICHTER, Diritto di
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
36
STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Nell’ambito delle società a responsabilità limitata è stato addirittura osservato
che non paiono sussistere ostacoli alla previsione di «particolari clausole di recesso» a
favore di un determinato socio (8).
Si intuisce, dunque, quale sia la difficoltà di conoscere quante saranno le
applicazioni concrete dell’istituto e delle relative modalità di liquidazione della
partecipazione sociale: la possibilità di introdurre ulteriori cause di recesso
convenzionali rende, infatti, potenzialmente infinita la sfera di operatività del
procedimento in esame (9).
4. Ipotesi di recesso non inserite nella sedes materiae
L’indagine relativa all’area di applicazione del procedimento di liquidazione
impone di occuparsi di alcune nuove ipotesi di recesso che il legislatore ha inserito in
altri settori del codice civile ovvero in altri contesti normativi.
4.1. L’art. 2497 quater c.c.
In tale prospettiva rileva l’art. 2497 quater c.c. cui, per la verità, sia l’art. 2437
sia l’art. 2473 c.c. fanno espresso rinvio; questa disposizione introduce tre ipotesi di
recesso per i soci di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento (10).
recesso ed autonomia statutaria, in Riv. dir. comm., 2004, p. 395, secondo la quale «la
circostanza che il quarto comma dell’art. 2437 cod. civ. parli di “ulteriori cause” e le esigenze di
tutela del patrimonio e dei creditori sociali spingono ad escludere che lo statuto di una società
per azioni possa prevedere la possibilità per i soci di recedere ad nutum (salva naturalmente
l’ipotesi legalmente prevista della società contratta a tempo indeterminato). In altre parole, sarà
necessario ancorare il diritto di recesso, statutariamente riconosciuto, a precisi e circoscritti
presupposti obiettivamente riscontrabili»; con riferimento alle società a responsabilità limitata,
viceversa, l’a. ne ammette la previsione.
(8) Così P. PISCITELLO, Recesso, cit., p. 730.
(9) Resta il rischio, soprattutto nell’ambito delle s.p.a., di esaltare esageratamente il dato
personalistico, riducendo la tutela dell’integrità del capitale sociale ad una mera clausola di stile.
(10) Il socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento può recedere: a) quando
la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento ha deliberato una
trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, ovvero ha deliberato una
modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo
sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta ad attività di
direzione e coordinamento, b) quando a favore del socio sia stata pronunciata, con decisione
esecutiva, condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497;
in tal caso il diritto di recesso può essere esercitato soltanto per l’intera partecipazione del socio;
c) all’inizio ed alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, quando non si tratta di
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
L’ultimo comma sancisce l’applicazione, «a seconda dei casi ed in quanto compatibili»,
delle disposizioni previste per il diritto di recesso del socio nella società per azioni o in
quella a responsabilità limitata.
Termini, modalità e criteri di valutazione della partecipazione saranno, dunque,
regolati alla luce di quella normativa. Il richiamo anche della disciplina relativa al
procedimento di liquidazione risulta implicito; tuttavia il funzionamento di questo
meccanismo va analizzato sotto il profilo della compatibilità con la fattispecie in esame
(11).
In primo luogo, emergono concreti problemi nell’individuazione del termine di
decadenza per l’esercizio del disinvestimento che sembrano ripercuotersi sull’avvio e
sullo svolgimento del procedimento di liquidazione (12). Per superare l’impasse si è
ritenuto che gli amministratori della controllante, in forza del dovere di corretta gestione
del gruppo, dovrebbero «comunicare agli amministratori della controllata il verificarsi
delle condizioni che legittimano il recesso e nei compiti degli amministratori di questa –
se si tratta di s.r.l. – proporre quelle modifiche dell’atto costitutivo che valgano ad
omogeneizzare i termini previsti per l’esercizio del diritto tra controllante e controllata»
(13).
Pare poi significativa una distinzione tra i casi in cui il controllo sia di tipo
‘partecipativo’, c.d. controllo di diritto, ovvero dipendente da un’influenza dominante,
c.d. controllo di fatto, giacché il mutamento delle originarie condizioni è provocato da
vicende attinenti alla holding.
una società con azioni quotate in mercati regolamentati e ne deriva un’alterazione delle
condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto.
(11) Sul tema v. M. CALLEGARI, Articolo 2497 quater. Diritto di recesso, in COTTINO,
BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto societario,
artt. 2484-2548 c.c., ***, Bologna, 2004, p. 2212; A. IRACE, Articolo 2497 quater. Diritto di
recesso, in La riforma delle società., a cura di Sandulli-Santoro, tomo III, Torino, 2003, p. 337.
(12) M. CALLEGARI, Articolo 2497 quater, cit., p. 2212, sul punto l’a. pone alcune interessanti
questioni: «ci si può domandare se, nel caso in cui presupposto del recesso sia la modifica
dell’oggetto della controllante ovvero la sua trasformazione, tali cause siano da ricondurre ai
‘fatti’ ovvero alle ‘delibere assembleari’, con un diverso termine di decadenza per l’esercizio del
recesso a seconda della soluzione accolta. Qualora poi il diritto spetti al socio di s.r.l.
controllata, i termini per l’esercizio, essendo previsti nell’atto costitutivo, potrebbero essere
superiori ai novanta giorni concessi, dall’art. 2437 bis, 1° co., alla s.p.a. controllante per
revocare la delibera che lo ha originato. Ulteriori problemi di individuazione della scadenza
nascono anche con riferimento all’ipotesi dell’inizio o della cessazione dell’attività di direzione
e coordinamento; situazioni che possono dipendere tanto da fatti (es. acquisto di un pacchetto
azionario) quanto da deliberazioni (es. approvazione di un contratto di collegamento)».
(13) Così A. IRACE, Articolo 2497 quater, cit., p. 338.
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
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38
STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Nella prima ipotesi, il potere della controllante discende dal possesso da parte
della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria della controllata: i costi
ed i rischi del recesso, seppur formalmente a carico della seconda, in realtà saranno
sopportati dalla prima, che vedrà ridotta la sua partecipazione. In questo senso la
controllante avrà tutto l’interesse a salvaguardare il capitale della controllata e, quindi,
ad acquistare ovvero far acquistare le partecipazioni del socio uscente.
Nel secondo caso, quando il controllo deriva da un’influenza dominante,
soprattutto se in virtù di particolari vincoli contrattuali o clausole statutarie, gli effetti
del recesso non ricadranno sul patrimonio della controllante ed il rischio di scioglimento
pare rappresentare per la controllata un costo eccessivo; nell’ipotesi di entrata o uscita
dal gruppo, nonché in quella di delibera di trasformazione con mutamento dello scopo
sociale della controllante, laddove non fosse possibile ricollocare diversamente le
partecipazioni, ai soci della controllata, in assenza di vantaggi compensativi, rimane,
dunque, la possibilità di promuovere l’azione di responsabilità verso la controllante ai
sensi dell’art. 2497 c.c. (14).
4.2. L’art. 2481 bis c.c.
Nell’ambito della disciplina delle società a responsabilità limitata, l’art. 2481
bis, primo comma, c.c. riconosce il diritto di recesso ai soci che non hanno approvato la
decisione di aumentare il capitale sociale attraverso l’offerta di quote di nuova
emissione a terzi, se l’atto costitutivo lo consenta: in questo caso, l’istituto rappresenta
un correttivo all’esclusione del diritto di opzione in capo ai soci (15).
Il rinvio espresso, genericamente, all’art. 2473 c.c. pare rivolto, naturalmente e
logicamente, anche al procedimento di liquidazione delle quote con tutte le relative
conseguenze che ne deriveranno per la società sul piano finanziario.
La maggioranza, arbitra di scegliere se sopprimere il diritto dei soci di
sottoscrivere le quote di nuova emissione in favore di terzi, corre il pericolo di subire i
costi derivanti dall’operazione, laddove i soci dissenzienti, assenti ovvero astenuti, si
avvalgano del diritto in esame.
Nella società a responsabilità limitata, dunque, a differenza di quanto accade
nelle società per azioni, l’esclusione del diritto di opzione «potrebbe risultare
praticamente attuabile molte volte solo con il consenso di tutti i soci o comunque di una
(14) In questo senso ID, op. ult. cit., p. 337.
(15) Sul tema v. S. CERRATO, Articolo 2481 bis. Aumento di capitale mediante nuovi
conferimenti, in COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il
nuovo diritto societario, artt. 2409 bis-2483 c.c., **, Bologna, 2004, p. 1974; E. FAZZUTI,
Articolo 2481 bis. Aumento di capitale mediante nuovi conferimenti, in La riforma delle società,
a cura di Sandulli-Santoro, tomo III, Torino, 2003, p. 187.
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vasta percentuale del capitale sociale» (16): diversamente, l’esercizio del recesso rischia
di inferire il «colpo fatale» per la stessa esistenza di una società già alla ricerca di nuovi
conferimenti (17).
4.3. L’art. 34 d.lgs. 5/2003.
In altro contesto normativo, l’art. 34 d.lgs. 5/2003 introduce un’ulteriore causa di
recesso: «le modifiche dell’atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole
compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi
del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta
giorni, esercitare il diritto di recesso».
La norma attribuisce un diritto di recesso dalla società a coloro che non
concordino con la modificazione in questione: la regola opera nell’ambito sia delle
società per azioni sia delle società a responsabilità limitata. Non viene esplicitamente
richiamata la relativa disciplina del recesso, ma l’applicazione del procedimento, come
di tutte le altre regole, pare sottintesa.
Si registra, tuttavia, una ‘sconveniente’ coincidenza tra il periodo offerto in
quest’ipotesi al socio per recedere ed il termine concesso alla società per azioni per
revocare la delibera ‘incriminata’. In altre parole, l’art. 2437 bis, ultimo comma, c.c.
consente alla società, entro novanta giorni, di azzerare gli effetti della delibera assunta e,
quindi, impedire l’esercizio del recesso ovvero renderlo inefficace: la revoca garantisce,
infatti, all’ente, dopo aver valutato il numero e la consistenza dei recessi esercitati nei
quindici giorni successivi alla delibera ovvero nei trenta giorni dalla conoscenza del
fatto, la possibilità di un ripensamento, per porre rimedio ad un’eventuale situazione di
financial distress.
Questo obiettivo, evidentemente, non può essere raggiunto nella fattispecie in
esame, giacché il termine per l’esercizio del diritto di exit subisce un allungamento
venendo a sovrapporsi al periodo di tempo concesso alla società per decidere se
ripristinare lo status quo ante.
La mancanza di coordinamento tra le previsioni normative, nell’ambito delle
s.p.a., pare senza soluzione: entrambi i termini, come sanciti dalla legge, non sembrano
suscettibili di una deroga in peius in sede di redazione dello statuto.
Delicati problemi si pongono anche nell’ambito delle società a responsabilità
limitata: in questo caso, è rimasta nella penna del legislatore la previsione di un termine
per l’esercizio della revoca.
Il silenzio della legge sul punto suggerisce di inserire nell’atto costitutivo un
termine finale oltre il quale la società non potrà più ‘tornare sui suoi passi’;
(16) Così O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, cit., p. 334.
(17) Così S. CERRATO, Articolo 2481 bis, cit, p. 1975.
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diversamente, si potrebbe ritenere applicabile per analogia l’ultimo comma dell’art.
2437 bis c.c. e si riproporranno le problematiche emerse rispetto a quella disposizione.
Come già osservato in altra sede, tuttavia, la società deve rimediare alla
situazione senza che il socio subisca conseguenze dal cambiamento medio tempore
realizzatosi (18): in questo senso, la decisione di revocare la delibera deve essere, in
ogni caso, tempestiva. Pare, dunque, inammissibile l’introduzione di un’ulteriore
estensione dei novanta giorni concessi alla società per azioni.
4.4. Le clausole di mero gradimento
Il diritto di recesso viene poi richiamato nell’ambito della disciplina relativa alle
clausole di mero gradimento, nonché di quelle che sottopongono a particolari condizioni
il trasferimento mortis causa, sia nelle s.p.a. sia nelle s.r.l. In entrambe le ipotesi il
diritto di exit costituisce un correttivo al rischio di ‘intrasferibilità’ delle partecipazioni
sociali che discende dall’introduzione di clausole siffatte. In questo senso, colui che
intende alienare la propria partecipazione non resta ‘prigioniero’ della stessa, avendo la
possibilità di avvalersi dello strumento del recesso.
L’esercizio del diritto mette in moto il complesso meccanismo della liquidazione
delle partecipazioni sociali: questa soluzione si presume nelle società per azioni, giacché
la norma fa rinvio esplicito al solo articolo in tema di criteri per la determinazione del
valore delle azioni, mentre pare confermata dal dato normativo nelle società a
responsabilità limitata.
Con riguardo alle prime, l’art. 2355 bis, secondo comma, c.c. nel subordinare
l’efficacia della clausola di mero gradimento all’espressa previsione statutaria di un
obbligo di acquisto delle azioni a carico della società ovvero degli altri soci, oppure del
diritto di recesso dell’alienante, specifica che «resta ferma l’applicazione dell’art.
2357». La significativa precisazione pare riferirsi non solo all’obbligo di acquisto delle
azioni da parte della società, ma anche al meccanismo di rimborso innescato
dall’esercizio del recesso, confermandone l’applicazione (19). Sotto quest’ultimo
profilo, tuttavia, si registra un contrasto con quanto sancito dall’art. 2437 quater c.c.: in
quella sede, infatti, il legislatore espressamente consente di derogare i limiti quantitativi,
previsti dall’art. 2357 c.c., per l’acquisto di azioni proprie.
(18) Così A. PACIELLO, 2437- bis. Aumento di capitale mediante nuovi conferimenti, in Società
di capitali, commentario diretto da Piccolini e Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 1121.
(19) Sul tema v. A.M. DENTAMARO, Articolo 2355 bis. Limiti alla circolazione delle azioni, in
COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto
societario, artt. 2325 - 2409 c.c., *, Bologna, 2004, p. 378 ss.; D. VATTERMOLI, Articolo 2355
bis. Limiti alla circolazione delle azioni, in La riforma delle società, a cura di Sandulli-Santoro,
tomo I, Torino, 2003, p. 181.
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Emerge, dunque, un difetto di coordinamento tra le due norme: da un lato si
riconosce il diritto di recesso all’alienante con la conseguente applicazione di tutta la
relativa normativa, compreso il procedimento per la liquidazione delle azioni; dall’altro
si puntualizza un rinvio, senza eccezioni, ad una disciplina dalla quale le norme sul
diritto di recesso esplicitamente si discostano.
Il dato letterale conforta un’interpretazione restrittiva: l’acquisto di azioni
proprie seguirà le regole di diritto comune. Tale soluzione, peraltro, supera uno dei
punti oscuri della disciplina del nuovo procedimento, salvaguardando il principio di
effettività del capitale sociale, nonché la società dal rischio di non riuscire ad adottare
importanti delibere, considerata la necessità di computare tali azioni nel quorum
assembleare.
Sembra interessante anche osservare il fatto che i primi due ‘correttivi’ indicati
dal legislatore, ossia acquisto da parte della società ovvero degli altri soci, benché non
previsti nel testo della clausola di mero gradimento, verrebbero, in qualche maniera,
‘recuperati’ attraverso lo svolgimento del procedimento di liquidazione.
Meno problematica appare la situazione nelle società a responsabilità limitata:
l’art. 2469, secondo comma, afferma che «qualora l’atto costitutivo preveda
l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di
organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni o limiti, o ponga condizioni
o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i
suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473».
In quest’ambito, il diritto di recesso rappresenta un correttivo legale di natura
inderogabile, che non necessita di una specifica previsione nell’atto costitutivo, e il
rinvio tout court all’art. 2473 c.c. determina l’applicazione del relativo procedimento
per il rimborso delle quote sociali.
In tale prospettiva, la norma trova un punto di equilibrio tra l’interesse del socio
ad uscire dalla compagine sociale e quello della società e dei creditori sociali
all’integrità dal capitale sociale: le modalità di liquidazione sancite in sede di recesso
risultano, infatti, preordinate a scongiurare il pericolo di un depauperamento dello stesso
capitale (20).
4.5. L’art. 2343 c.c.
Nelle società per azioni, in caso di conferimenti in natura, se risulta che il valore
dei beni o dei crediti conferiti è inferiore di oltre un quinto rispetto a quello per cui
(20) In questo senso P. REVIGLIONO, Articolo 2469. Trasferimento delle partecipazioni, in
COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto
societario, artt. 2409 bis-2483 c.c., **, Bologna, 2004, p. 1819. Sul tema cfr. C. ZAGANELLI,
Articolo 2469. Trasferimento delle partecipazioni, in La riforma delle società, a cura di
Sandulli-Santoro, tomo III, Torino, 2003, p 62 ss.
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avvenne il conferimento, il socio conferente può versare la differenza in denaro ovvero
recedere dalla società; in quest’ultimo caso, ha diritto alla restituzione del conferimento
qualora sia possibile, in tutto o in parte, in natura (21).
Sul punto, attenta dottrina ha osservato: «dire che il socio ‘ha diritto’ potrebbe
significare che sarebbe comunque il recedente a valutare le proprie convenienze, e cioè
se richiedere la restituzione del conferimento (esercitando in tal modo una facoltà a lui
attribuita), ovvero pretendere una somma di denaro; soluzione, quest’ultima, che
diverrebbe obbligata qualora il socio non esprimesse alcuna volontà» (22).
Si intuisce, dunque, il rischio a cui risulta esposta la società: il conferente può
scegliere di essere rimborsato in denaro secondo le modalità e i criteri stabiliti per il
recesso e, quindi, in base alle regole fissate nel procedimento di liquidazione delle
azioni, seguendo quel percorso a tappe tracciato dall’art. 2437 quater c.c.
In questa prospettiva pare che la volontà del recedente, che non può ovvero
rinuncia a integrare la propria partecipazione iniziale, potrebbe compromettere la stessa
vita della società, nell’ipotesi in cui, trattandosi di una fase costitutiva, gli altri soci non
intendano rischiare oltre ciò che hanno già conferito, i terzi non siano interessati e l’ente
non abbia sufficienti riserve disponibili. Con la riduzione del capitale sociale verrà
offerta ai creditori la possibilità di opporsi e quindi di provocare lo scioglimento della
società stessa.
4.6. La trasformazione progressiva
Nell’ambito della riforma delle società di capitali è stata introdotta una nuova
specifica causa di recesso che ha toccato anche il sistema delle società personali: la
deliberazione di trasformazione di queste ultime in società di capitali, c.d.
trasformazione progressiva, salvo diversa disposizione del contratto sociale, «è decisa
con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a
ciascuno negli utili; in ogni caso al socio che non ha concorso alla decisione spetta il
diritto di recesso» (23).
Il recesso, dunque, in questo contesto rappresenta uno strumento di tutela a
favore del socio dissenziente rispetto ad un cambiamento radicale della realtà societaria
a cui partecipa: la norma, tuttavia, tace in ordine alla disciplina applicabile, se quella
della ‘società di partenza’ ovvero della ‘società di arrivo’, con riferimento ai
(21) Così dispone l’art. 2343 c.c.
(22) Così A. BERTOLOTTI, Articolo 2343. Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti, in
COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto
societario, artt. 2325 - 2409 c.c., *, Bologna, 2004, p. 191. Sul tema v. M. C. CARDARELLI,
Articolo 2343. Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti, in La riforma delle società,
a cura di Sandulli-Santoro, tomo I, Torino, 2003, p. 112.
(23) Così recita l’art. 2500 ter c.c.
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presupposti, alle modalità di esercizio di tale diritto ed alle modalità e criteri di
liquidazione della quota.
La soluzione del problema, come evidente, si riflette anche sull’estensione del
campo operativo del procedimento di liquidazione in esame.
Nel silenzio della legge, si prospettano scenari differenti a seconda del momento
in cui viene comunicato il recesso: come noto, infatti, l’art. 2500, terzo comma, c.c.
dispone che la trasformazione ha piena efficacia dall’ultimo degli adempimenti
pubblicitari richiesti. In questo senso la conclusione degli adempimenti pubblicitari
funge da ‘spartiacque’: ante iscrizione troverà applicazione la normativa delle società
personali, post iscrizione la fattispecie sarà regolata dalle norme dedicate al recesso
nelle società per azioni ovvero nelle società a responsabilità limitata.
Il trattamento riservato al recedente appare, dunque, sostanzialmente diverso in
relazione ai termini ed alle modalità di comunicazione, alla possibilità di uscire solo
parzialmente dalla compagine sociale, al diritto di essere preventivamente informato in
ordine alla determinazione del valore della quota, ai criteri stessi di valutazione della
quota ed alle modalità di liquidazione. Tali profili risultano, infatti, disciplinati nel
rispetto di principi divergenti a seconda che ci si trovi in una realtà societaria di stampo
personalistico ovvero in uno dei due modelli, azionario o non, di società di capitali (24).
Pare, tuttavia, che, nel breve arco temporale che potrebbe intercorrere tra
l’assunzione della delibera e l’iscrizione della stessa, risulti praticamente impossibile
per i soci dissenzienti esercitare il diritto ed anche essere liquidati secondo i criteri
previsti dalla disciplina delle società personali. In quest’ottica, sembra più probabile che
i presupposti e le modalità di comunicazione del recesso vengano recuperati nella
(24) Sul tema v. C. MOSCA, Articolo 2500-ter. Trasformazione di società di persone, in
Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari,
Trasformazione - Fusione - Scissione, a cura di L. Bianchi, Milano, 2006, p. 128 ss., ove l’a.
svolge una dettagliata analisi delle principali differenze tra la disciplina applicabile al recesso in
una società di persone ed in una società di capitali, osservando, in merito ai criteri di
valorizzazione della quota, che «questa diversa disciplina può condizionare l’esercizio stesso del
recesso, giacché i soci risultano maggiormente tutelati qualora il valore delle quote sia calcolato
tenendo conto delle prospettive reddittuali, e non solo della consistenza patrimoniale della
società. È tra l’altro verosimile che siano proprio le prospettive di crescita e reddittuali ad aver
supportato il passaggio della società ad una forma più ‘evoluta’, sicché il socio potrebbe trarre
beneficio da una valutazione che consideri ulteriori elementi oltre alla valutazione solo di tipo
patrimoniale». Quanto alla possibilità di esercitare un recesso parziale, oggi espressamente
prevista per le società per azioni, l’a. precisa che «nella trasformazione c.d. progressiva, il
recesso parziale permette al socio di continuare a partecipare alla società, qualora, per esempio
egli pur confidando nella bontà dell’investimento economico, desideri ‘uscirne’ solo in parte,
anche in ragione, della circostanza che egli non sarà più chiamato a ricoprire il ruolo di
amministratore della società».
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disciplina delle società di persone, mentre i criteri e le modalità di liquidazione in quella
della società di capitali di volta in volta prescelta; in ogni caso, in assenza, nell’ambito
delle società personali, di un metodo collegiale per l’assunzione delle decisioni nonché
di un sistema informativo adeguato, potrà accadere che taluni soci vengano a
conoscenza dell’operazione solo al momento della pubblicità della stessa presso il
registro delle imprese.
Questi gli scenari che potrebbero realizzarsi, salvo una diversa precisa
indicazione nell’atto di trasformazione in ordine ai termini e criteri per la liquidazione
del recedente. Un’ulteriore ricostruzione della fattispecie, dunque, potrebbe emergere
dalla stessa delibera di trasformazione: i soci potrebbero fissare in quella sede le
condizioni per l’esercizio del recesso, ancorandole alla normativa delle società di
persone ovvero a quella, forse più appropriata, delle società di capitali (25).
La predeterminazione di un ‘codice’ di comportamento della società in seguito
alla delibera di trasformazione progressiva potrebbe, effettivamente, garantire una
maggiore tutela del socio dissenziente che, con la riforma, ha perso il diritto di veto
rispetto ad una vera e propria ‘rivoluzione endosocietaria’.
In tale prospettiva, l’applicazione della disciplina dedicata all’istituto del recesso
nelle s.p.a. ovvero nelle s.r.l., sin dalla comunicazione dell’esercizio del relativo diritto
e, comunque, in fase di liquidazione della quota, consente alla società di adottare
soluzioni alternative all’immediata riduzione del capitale sociale per rimborsare i soci
recedenti. Tale modalità operativa, infatti, sembra la più vantaggiosa per la società
trasformanda, giacché, salvaguardando l’integrità del capitale sociale, riduce il pericolo
di non riuscire, in concreto, a realizzare l’operazione per insufficienza finanziaria.
Anche nell’ipotesi in cui venga deliberata l’operazione inversa, c.d.
trasformazione regressiva, al socio dissenziente di s.p.a. e s.r.l. è riconosciuto il diritto
(25) ID, op. ult. cit., p. 130, ove l’a. auspica la fissazione di regole uniformi per escludere che
vengano, di volta in volta, invocati criteri variabili a svantaggio della tutela del socio. In tale
prospettiva osserva che «i criteri applicabili per la liquidazione della quota non devono rivelarsi
in funzione del momento scelto per la comunicazione dell’operazione ai soci di minoranza, il
che significa evitare che la liquidazione della quota al socio recedente avvenga in funzione di
una scelta di convenienza effettuata dalla maggioranza. Può, infatti, succedere che il socio
comunichi alla società la sua intenzione di recedere alla stipulazione dell’atto di trasformazione
o immediatamente dopo, sicché la società riesce ad effettuare la liquidazione della quota prima
della conclusione degli adempimenti pubblicitari. Oppure, nonostante la tempestiva
comunicazione del socio della sua volontà di uscire dalla società, la liquidazione della quota
potrebbe essere effettuata allorché la trasformazione nella società di capitali sia ormai efficace a
tutti gli effetti. Inoltre, anche in considerazione dell’assenza di un termine per l’esercizio del
recesso, la stessa notizia dell’intenzione di recedere potrebbe essere validamente comunicata
quando la trasformazione in società di capitali è ormai pienamente efficace».
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di exit: in questo caso, tuttavia, alla luce delle osservazioni che precedono, i presupposti
e le modalità di comunicazione del recesso saranno regolati in base alla disciplina delle
società di capitali, viceversa, la liquidazione della partecipazione avverrà,
verosimilmente, secondo i tempi e i modi previsti per le società personali.
Un’analoga situazione si configura nei casi di trasformazione c.d. interna tra
società di capitali, da società azionaria a s.r.l. e viceversa: anche in tali ipotesi, in
assenza di una diversa previsione, troverà applicazione la disciplina delle società per
azioni ovvero quella delle società a responsabilità limitata in funzione della conclusione
o meno degli adempimenti pubblicitari richiesti dalla legge rispetto all’esercizio del
diritto di recesso (26).
Il tema si segnala giacché, come noto, a seguito della riforma, la normativa
dedicata al recesso nelle s.r.l. si è affrancata da quella delle s.p.a.: il cambiamento ha
comportato variazioni tra i due modelli non di poco conto soprattutto per quanto
riguarda le modalità e i termini per l’esercizio del diritto di recesso che, nelle prime,
sono stati affidati in toto all’autonomia statutaria, senza peraltro contemplare la
possibilità del recesso parziale. Il procedimento di liquidazione delle partecipazioni
sociali è regolato in entrambe le società secondo lo stesso schema di base, seppure con
varianti dovute alla diversa struttura nonché ad un differente scenario normativo di
riferimento.
Il problema di quale disciplina applicare si ripete, negli stessi termini ora
prospettati, per le sole società a responsabilità limitata nei casi di deliberazione delle
operazioni straordinarie di fusione e scissione, giacché, in forza dell’art. 2473 c.c.,
l’assunzione di tali decisioni costituisce legittima causa di exit per i dissenzienti.
5. Ipotesi affini al recesso
Il tema di maggiore interesse, nell’indagine relativa all’operatività del nuovo
procedimento di rimborso delle partecipazioni sociali, è rappresentato dal rinvio allo
stesso operato dal legislatore in situazioni differenti rispetto al diritto di recesso, ma, in
qualche maniera, a quest’ultimo assimilabili.
(26) Pare di diverso avviso P. REVIGLIONO, Il recesso nella società a responsabilità limitata,
Milano, 2008, p. 307, l’a. afferma che «la “conversione” della quota del socio in una
partecipazione avente natura giuridica diversa (ad esempio, nelle azioni che gli sono state
assegnate in conseguenza della trasformazione della società originaria in s.p.a.) non impedisce
che il recesso possa realizzarsi secondo le modalità indicate dall’art. 2473».
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
5.1. Le azioni riscattabili
Nell’ambito delle società per azioni, viene in rilievo l’art. 2437 sexies c.c. il
quale recita: «le disposizioni degli articoli 2437-ter e 2437-quater si applicano, in
quanto compatibili, alle azioni o categorie di azioni per le quali lo statuto prevede un
potere di riscatto da parte della società o dei soci. Resta salva in tal caso l’applicazione
della disciplina degli articoli 2357 e 2357-bis».
Il contesto è quello delle clausole statutarie che, al verificarsi di predeterminate
condizioni, consentono alla società stessa ovvero ai soci la facoltà di riscattare le azioni
di altro socio: si tratta di un «meccanismo tecnico-procedimentale di stipulazione, da
parte della società o dei soci, di un contratto di compravendita di azioni in seguito ad un
patto di opzione tra azionista e società-soci, subordinato al verificarsi della condizione
sospensiva costituita dal venir meno di determinate caratteristiche personali» (27).
Si è parlato di evidenti profili di analogia tra la fattispecie in esame ed il recesso
«ponendosi entrambe quali cause di scioglimento unilaterale del rapporto sociale» (28):
in questa prospettiva si è osservato che l’affinità sostanziale tra i due istituti, «sul
duplice versante sia del socio, che, rivendendo le azioni alla società, ha, tramite il
riscatto, la garanzia dell’allocazione del pacchetto, sia della società, la quale, tramite la
clausola, si riserva il diritto di ‘recedere’ dal rapporto con il socio divenuto non più
‘utile’ in seguito al verificarsi di determinati eventi previsti dallo statuto» (29),
giustifica l’applicazione della medesima disciplina della liquidazione. La collocazione
della norma, infine, offre un’ulteriore conferma di questa ricostruzione, deponendo,
chiaramente, nel senso della «contiguità fra i due istituti» (30).
Così il rimborso delle azioni, sia che avvenga in sede di recesso che di riscatto,
pone il problema della tutela dell’integrità del capitale sociale.
La norma in questione, tuttavia, non richiama interamente la normativa del
recesso, ma i soli articoli dedicati alla determinazione del valore delle azioni ed al
procedimento di liquidazione dello stesso «in quanto compatibili», facendo salva
l’applicazione dell’integrale disciplina relativa all’acquisto di azioni proprie.
(27) Così S. CARMIGNANI, Articolo 2437 sexies. Azioni riscattabili, in La riforma delle società, a
cura di Sandulli-Santoro, tomo II, Torino, 2003, p. 902, l’a. elenca le possibili ipotesi di riscatto:
«si pensi alla cancellazione dell’azionista da un albo professionale, alla cessazione del rapporto
di lavoro in ordine alle azioni con prestazioni accessorie, alla morte del socio o, più in generale,
al riscatto pattuito nel caso di azioni proprie offerte in vendita ai dipendenti con l’obbligo di
conservazione del pacchetto acquistato per un certo periodo».
(28) Così M. CALLEGARI, Articolo 2437 sexies. Azioni riscattabili, in COTTINO, BONFANTE,
CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto societario, artt. 2409 bis 2483 c.c., **, Bologna, 2004, p. 1447.
(29) Così S. CARMIGNANI, Articolo 2437 sexies, cit., p. 903.
(30) Così D. GALLETTI, Art. 2437 sexies. Azioni riscattabili, in Il nuovo diritto delle società, a
cura di Alberto Maffei Alberti, volume II, Padova, 2005, p. 1636.
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Nell’ipotesi del riscatto, la società introduce una sorta di ‘acquisto programmato
delle azioni’, stabilendo, anticipatamente, il soggetto legittimato all’acquisto-riscatto:
questa previsione pare segnare il destino di quelle azioni, se la società ovvero i soci si
avvarranno del potere, loro concesso, di riscattarle.
In questo senso sembra da interpretare il rinvio al meccanismo di rimborso delle
azioni: laddove la società ovvero i soci non acquistino le azioni prende avvio la
procedura di liquidazione di cui all’art. 2437 quater c.c. (31), con l’esclusione della
deroga al terzo comma dell’art. 2357 c.c., in quanto espressamente incompatibile.
Quest’ultima soluzione, come già osservato per le clausole di mero gradimento, da un
lato, risulta contraddittoria rispetto all’espresso rinvio all’art. 2437 quater c.c., dall’altro
lato, pare opportuna giacché supera i problemi sollevati dalla deroga nell’ambito della
(31)A. PACIELLO, 2437-sexies Azioni riscattabili, in Società di capitali, commentario diretto da
Piccolini e Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 1148, l’a. ritiene che, qualora vi sia un
obbligo di acquisto in capo alla società ovvero ai soci, risulta «fuori luogo» lo sbrigativo
richiamo della disciplina contenuta nell’art. 2437 quater c.c.: «se titolare del potere è la società,
non sono percorribili i momenti procedimentali rappresentati dall’offerta in opzione agli altri
soci e, in caso residuino azioni inoptate, ai terzi, mentre, qualora lo statuto individui nei soci i
soggetti onerati, ad essi occorrerà offrire le azioni nel rispetto del principio della parità di
trattamento. Continuando a distinguere le due possibilità di apice, nel caso che obbligati
all’acquisto siano i soci, e questi si rendano inadempienti, fermi i rimedi generali sul piano
obbligatorio, la società non potrà riscattare le azioni a meno di instaurare un’autonoma
procedura ai sensi dell’art. 2357. Non direi quindi possa trovare applicazione la restante
disciplina contenuta nell’art. 2437 quater, che riguarda la riduzione del capitale e i possibili esiti
dissolutivi dell’impresa societaria. Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi di
riscatto da parte della società se l’acquisto delle azioni avviene utilizzando riserve disponibili.
Neppure compatibile con l’art. 2437 quater, co. 6 e 7, è l’ipotesi in cui per procedere al riscatto
delle azioni occorre deliberare la riduzione del capitale. In primo luogo sarebbe incongruo far
discendere dall’eventuale delibera di scioglimento anticipato, assunta in alternativa alla
riduzione, l’effetto di paralizzare il rimborso delle azioni da riscattare, non foss’altro perché tale
rimedio finirebbe per rappresentare una, fin troppo comoda, soluzione all’inadempimento
dell’obbligo assunto dalla società. Inoltre, la disciplina del co. 7, già particolarmente punitiva in
riferimento alla fattispecie per la quale è pensata, lo sarebbe ancor di più, e del tutto
ingiustificatamente, se applicata all’ipotesi in esame. Pur ammettendo che la vittoriosa
opposizione dei creditori alla riduzione del capitale a seguito di riscatto obbligatorio comporti la
necessaria conseguenza dello scioglimento della società, ciò non implica anche il conseguente
effetto interdittivo dell’obbligo di procedere al rimborso delle azioni da riscattare, in quanto del
tutto differente è il contesto sistematico che lo giustifica. Escluderei, peraltro, che alla tutela
prevista in via generale dell’art. 2445 si possa aggiungere l’estrema conseguenza dello
scioglimento, poiché nel caso del riscatto di azioni la società non si trova in quella condizione,
che fonda la già debole motivazione addotta al caso del recesso, che giustifica il più generale
disfavore verso la conservazione dell’impresa nel mercato».
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disciplina del recesso, salvaguardando la società soprattutto di fronte al rischio di
pericolosi annacquamenti del capitale sociale.
A seconda, dunque, che la clausola preveda il riscatto da parte della società
ovvero dei soci, nel caso di mancato esercizio di quel potere, si procederà alla
liquidazione delle azioni seguendo le altre modalità tracciate dalla legge nel
procedimento richiamato.
Il rischio, autorizzato dal dato normativo, è quello di innescare una procedura
che può pregiudicare la società e la sua stessa continuità: sul punto è doveroso
domandarsi se non vi siano profili di incompatibilità con gli effetti, particolarmente
gravosi, dell’accoglimento dell’opposizione dei creditori alla riduzione del capitale
sociale ovvero se valgano, in questo ambito, le stesse ragioni che li hanno giustificati in
quella sede.
Quest’ultima soluzione pare la più coerente con il chiaro tenore letterale della
norma in esame: diversamente, il rinvio all’art. 2437 quater c.c. risulterebbe ‘sterile’
ovvero, quantomeno, necessiterebbe di ulteriori precisazioni in ordine ai margini di
compatibilità, secondo lo schema già utilizzato per la disciplina dell’acquisto di azioni
proprie (32).
5.2. L’esclusione del socio dalla s.r.l.
Nell’ambito della disciplina delle società a responsabilità limitata emerge
un’altra fattispecie in cui il legislatore fa espresso rinvio al procedimento di
liquidazione. Si tratta dell’art.2473 bis c.c., a mente del quale l’atto costitutivo può
prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio e, in tal caso, si
applicano le disposizioni dell’art. 2473 c.c. «esclusa la possibilità di rimborso della
partecipazione mediante riduzione del capitale».
Pare evidente l’affinità con l’istituto del recesso che legittima l’applicazione
della relativa disciplina: entrambe le ipotesi, infatti, rappresentano modalità di uscita del
singolo socio dalla compagine sociale (33).
(32) Come avviene nell’ipotesi di esclusione per giusta causa nelle società a responsabilità
limitata ove la legge espressamente nega la possibilità di liquidare il socio escluso attraverso la
riduzione del capitale sociale, v., infra, in questo paragrafo.
(33) Sul tema v. O. CAGNASSO, Articolo 2473 bis. Esclusione del socio, in COTTINO,
BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto societario,
artt. 2409 bis - 2483 c.c., **, Bologna, 2004, p. 1846; S. MASTURZI, Articolo 2473 bis.
Esclusione del socio, in La riforma delle società, a cura di Sandulli-Santoro, tomo III, Torino,
2003, p. 95.
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S’impone l’analisi di due profili: da un lato, l’espressa deroga a tutta una fase del
procedimento e le relative conseguenze, dall’altro lato, l’ambito di operatività della
fattispecie.
In primo luogo, si osserva che il rinvio operato genericamente all’art. 2473 c.c.
vale ad attivare il procedimento di liquidazione ivi previsto. Sul punto, viene in rilievo
la significativa formula normativa che, senz’ombra di dubbio, nega la possibilità di
liquidare il socio escluso attraverso la riduzione del capitale sociale a differenza di
quanto accade per il recedente: la deroga, forse, si può comprendere alla luce dei diversi
interessi tutelati nell’ambito dei due istituti (34).
Il socio recede perché si è creata una situazione che ne legittima l’uscita: non
può, dunque, rimanere ‘prigioniero’ della società e quest’ultima dovrà fare tutto il
possibile per rimborsarlo, correndo il rischio di sciogliersi anticipatamente.
Diverso è il caso della società che, in base ad una «giusta causa» fissata dall’atto
costitutivo, delibera l’allontanamento di un ‘elemento di disturbo’: la valutazione spetta
alla stessa società che, consapevole della propria situazione patrimoniale nonché della
difficoltà di collocare la partecipazione, potrebbe decidere di rinunciare alla ‘manovra’
(35).
Nell’ipotesi in cui si proceda ugualmente nell’operazione di esclusione, la
liquidazione del socio passa attraverso l’offerta della quota agli altri soci oppure a terzi
concordemente individuati dagli stessi soci e, ove possibile, il rimborso deve avvenire
con riserve disponibili: l’inutile esperimento di queste tappe comporta l’arresto del
meccanismo, non potendo farsi luogo alla riduzione del capitale.
Sul punto è stato osservato che l’interesse a salvaguardare l’integrità del capitale
sociale e la continuità dell’impresa prevarrebbe rispetto a quello di escludere il socio: la
conseguenza sarebbe da individuarsi nel ripristino dello status quo ante e, quindi,
(34) S. MASTURZI, op. loc. ult. cit., l’a., efficacemente, osserva che «proprio quando la
partecipazione del socio, per cause a lui in qualche modo imputabili, non solo mina l’intuitus
sulla base del quale fu contratta la società, ma ne pregiudica l’efficienza, la maggioranza sia
costretta tra i presupposti legittimanti l’esercizio del diritto – come detto, necessariamente
contenuti – e la sussistenza della disponibilità degli altri soci e/o di terzi al riscatto della
partecipazione; mentre analoghi limiti (può) non incontra(re) il singolo, nell’esercizio del
recesso».
(35) Nello stesso senso cfr. B. PETRAZZINI, L’esclusione del socio nella s.r.l., in Le nuove s.r.l., a
cura di M. Sarale, Bologna, 2008, p.286.
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nell’implicita revoca dell’esclusione e nella conservazione dello stato di socio in capo
all’escluso (36).
Tale ultima ricostruzione, tuttavia, non pare persuasiva: come già detto, la
delibera di esclusione costituisce una scelta della società che, dopo aver
preventivamente giudicato la fattibilità o meno del rimborso, potrà, nella seconda
ipotesi, astenersi dalla relativa decisione.
Modificando il presupposto e supponendo che la società non voglia rinunciare
all’esclusione e non possa soddisfare le pretese creditorie del socio escluso, l’unica
soluzione sarà rappresentata dalla messa in liquidazione della stessa società (37).
Una possibile via d’uscita dalla situazione di ‘blocco’, eventualmente creatasi,
sembra possa consistere nella previsione di un obbligo di acquisto della partecipazione
in capo ad uno o più soci, secondo lo schema delle clausole di mero gradimento ex art.
2355 bis c.c.
L’altro aspetto su cui merita soffermarsi è rappresentato dall’area di
applicazione della fattispecie: l’opportunità offerta ai soci di introdurre nell’atto
costitutivo infinite ipotesi di esclusione per «giusta causa» rende indeterminabile il
campo di operatività del procedimento in esame. Tuttavia, va segnalato che le situazioni
legittimanti l’esclusione devono essere espressamente indicate nell’atto costitutivo, non
potendo ricondursi ad una generica ‘giusta causa’ (38): sul punto autorevole dottrina
rileva, alla luce degli effetti dell’istituto anche sotto il profilo economico, l’opportunità
(36) In questo senso D. GALLETTI, Art. 2473 bis, in Il nuovo diritto delle società, a cura di
Alberto Maffei Alberti, volume II, Padova, 2005, p. 1923. Contra v. B. PETRAZZINI, op. ult. cit.,
p. 282 e 286, secondo cui l’efficacia dell’esclusione pare indipendente dal rimborso della
partecipazione producendo i suoi effetti dal decorso del termine concesso all’escluso per fare
opposizione, pertanto non potrà essere sospensivamente condizionata alla possibilità di ricorrere
ad una modalità di liquidazione della quota diversa dalla riduzione del capitale.
(37) In questo senso v. O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, cit., p. 171; B.
PETRAZZINI, op. ult. cit., p. 286, l’a. sottolinea che «l’esigenza di tutelare i terzi, se giustifica
l’impossibilità di procedere al rimborso riducendo il capitale, non può tuttavia spingersi fino ad
obbligare i soci a rinunciare a estromettere un socio dalla compagine sociale, vanificando gli
effetti della decisione di escluderlo».
(38) Per un completo esame di clausole statuarie di cooperative ritenute eccessivamente
generiche v.: G. BONFANTE, Le clausole di ammissione, esclusione e recesso, in Società, 2000,
p. 787.
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«che i soci, in sede di redazione dell’atto costitutivo, [usino] con molta prudenza e con
molta cura i margini di autonomia concessi loro dal legislatore» (39).
Tale ricostruzione consente di limitare le possibilità di uso distorto ed
opportunistico dell’istituto: è destinata progressivamente ad emergere una tendenza al
ricorso degli schemi dettati per l’analogo istituto nelle società di persone e nelle
cooperative (40).
Come, dunque, già osservato in ordine alle cause di recesso convenzionali,
anche in questo caso ci si trova di fronte ad una significativa possibile ‘estensione
all’infinito’ della capacità operativa del nuovo sistema di rimborso dei soci uscenti.
(39) Così O. CAGNASSO, Articolo 2473 bis, cit. p. 1848, l’a. sottolinea «l’estrema incompletezza
della disciplina, tale per cui, in assenza di una completa descrizione statutaria della fattispecie,
l’esclusione non potrebbe mai essere azionata, costituisce un chiaro invito all’autonomia
statutaria affinché regoli la materia in maniera convenzionale». Sul tema cfr. le considerazioni
di B. PETRAZZINI, op. ult. cit., p. 269 ss., l’a. affronta anche la questione se sia possibile
prevedere clausole di esclusione automatica in grado di operare per il solo fatto di essere state
previste dai soci in sede di redazione dell’atto costitutivo, pervenendo ad una soluzione
negativa: «un medesimo evento può costituire giusta causa di esclusione in relazione ad un
socio e non ad un altro, ovvero in un certo momento e non in un altro, di modo che sembra
maggiormente opportuno rimettere ad una specifica decisione della società la scelta se ricorrere
o meno allo scioglimento del singolo rapporto sociale».
(40) In questo senso D. GALLETTI, op. loc. ult. cit., secondo il quale «si assisterà ad una
standardizzazione ed un appiattimento delle clausole sul concetto di “grave inadempimento”
alle obbligazioni che gravano sul socio e sulla base dello statuto, e della legge. In tal modo si
potrà rimediare a talune vistose lacune della nuova disciplina della s.r.l., come ad es. per il
divieto di concorrenza, senza bisogno di ricorrere a proposte di integrazione “tipologiche”, che a
seconda delle evenienze facciano applicazione o dell’art. 2390 c.c. o dell’art. 2301 c.c. allo
stesso modo, l’impossibilità per il socio che abbia conferito la propria opera di prestare il
servizio pattuito potrà essere causa di esclusione, a prescindere dal regime di “garanzia” sancito
dall’art. 2464 c.c., il quale opererà, tutelando la stabilità finanziaria della società, in quei casi in
cui la maggioranza non voglia avvalersi dell’esclusione. Ma non sembra neppure che la nozione
di “giusta causa” debba essere ristretta alle circostanze di natura soggettiva: anche il venir meno
nei soci di particolari requisiti soggettivi, purché non bizzarri o denotanti una mera volontà
capricciosa, tesa a precostiuirsi la possibilità arbitraria di estromettere una partner, potrà
integrare l’art. 2473 bis, se previsto nell’atto costitutivo. Si pensi ad es. al venir meno per un
socio dell’iscrizione in un certo albo, necessaria proprio perché lo stesso assuma la posizione di
legale rappresentante della società (ad es. le società che esercitano l’attività di mediazione). In
particolare il fallimento, o la sottoposizione a procedura concorsuale, di un socio potrà essere
previsto come causa di esclusione, a somiglianza di quanto avviene nell’art. 2288 c.c.».
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5.3. La fusione per incorporazione di società possedute al novanta per cento
Nell’ambito delle operazioni straordinarie, ed in particolare con riferimento alla
fusione per incorporazione di società possedute al novanta per cento, emerge un
particolare meccanismo di uscita funzionalmente analogo al recesso: ai soci della
società incorporanda può venire concesso «il diritto di far acquistare le loro azioni o
quote dalla società incorporante per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri
previsti per il recesso» (41).
L’attribuzione di questa opzione di vendita rappresenta, da un lato, condizione
necessaria e sufficiente affinché si verifichino gli effetti semplificatori e l’operazione
possa essere attuata senza la predisposizione della relazione degli esperti; dall’altro lato,
garanzia di effettiva tutela dei soci di minoranza che si vedranno riconosciuto un
corrispettivo di uscita coincidente, quanto più possibile, col valore effettivo delle loro
azioni o quote, in basi ai criteri introdotti per il recesso.
Il rinvio all’istituto del recesso pare, alla luce del chiaro dato letterale, rivolto
esclusivamente ai criteri previsti per la determinazione del corrispettivo: nulla è detto in
ordine ad altri profili, quali le modalità di informazione dei soci, i termini per l’esercizio
del diritto di vendita e per la liquidazione della partecipazione, che potrebbero,
ragionevolmente, venire disciplinati ricorrendo, per analogia, ai principi stabiliti in tema
di recesso (42).
Per quanto riguarda il problema della liquidazione, e quindi dell’eventuale
applicabilità del meccanismo di rimborso, si osserva che, nella fattispecie in esame, la
norma espressamente individua nell’incorporante il soggetto tenuto ad acquistare la
partecipazione del socio uscente; in questo caso, peraltro, non si tratterebbe di un
acquisto di azioni ovvero quote proprie e, di conseguenza, non troverebbero
applicazione i limiti sanciti per quelle ipotesi.
Sul punto, secondo l’orientamento del Consiglio Notarile di Milano,
«l’interpretazione teleologica della norma induce a ritenere che l’impegno all’acquisto
(41) Sul tema v. O. CAGNASSO, Articolo 2505 bis. Incorporazione di società possedute al
novanta per cento, in COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto
da), Il nuovo diritto societario, artt. 2484 - 2548 c.c., ***, Bologna, 2004, p. 2352; M.T.
BRODASCA, Articolo 2505 bis. Incorporazione di società possedute al novanta per cento, in
Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari,
Trasformazione - Fusione - Scissione, a cura di L. Bianchi, Milano, 2006, p. 1003; R. MICCOLI,
Articolo 2505 bis. Incorporazione di società possedute al novanta per cento, in La riforma delle
società, a cura di Sandulli-Santoro, tomo III, Torino, 2003, p. 478.
(42) Così M.T. BRODASCA, Articolo 2505 bis, cit., p. 1003.
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possa pervenire tanto dai soci dell’incorporante (se c’è il loro accordo) ovvero che la
società possa anche indicare un proprio socio o un terzo (sempre gli altri soci
dell’incorporante siano d’accordo) disposto ad impegnarsi all’acquisto. Non sembra che
tale estensione pregiudichi i soci di minoranza della o delle società incorporande il cui
interesse tutelato è quello di conseguire una congrua somma di denaro, apparendo
irrilevante a questi fini il soggetto che effettuerà l’acquisto e il relativo esborso» (43).
Attraverso lo strumento dell’autonomia statutaria parrebbe, dunque, possibile
ricostruire un sistema di acquisto programmato delle partecipazioni, che possono essere
offerte alla società incorporante, ai soci di quella ed a terzi concordemente individuati: il
meccanismo potrebbe risultare molto simile a quello dettato nell’ambito del recesso.
In ogni caso, sembra da escludersi un’applicazione diretta del procedimento per
la liquidazione come disciplinato negli artt.li 2437 quater e 2473 c.c. (44).
5.4. La scissione e l’assegnazione di quote non proporzionali
Rimanendo nell’ambito delle operazioni straordinarie, si segnala un’altra ipotesi
assimilabile al recesso, quale strumento di tutela del socio estraneo al gruppo di
comando: in caso di scissione della società il relativo progetto, qualora prospetti
un’assegnazione di azioni o quote ai soci non proporzionale alla loro partecipazione
originaria, deve prevedere il diritto in capo ai soci che non approvino l’operazione «di
far acquistare le proprie partecipazioni per un corrispettivo determinato alla stregua dei
criteri previsti per il recesso, indicando coloro a cui carico è posto l’obbligo di acquisto»
(45).
Anche in questa fattispecie, il dato normativo, letteralmente, rinvia alla
disciplina del recesso solo per la determinazione della quota di liquidazione; l’interprete
è chiamato a verificare l’eventuale applicabilità, per analogia, delle ulteriori regole
fissate in quella sede concernenti le modalità di pagamento della partecipazione.
(43) Così Massima n. 58, in AA. VV., Le massime del consiglio notarile di Milano, Milano,
2005, p. 121.
(44) In questo senso M. T. BRODASCA, Articolo 2505 bis, cit., p., 1005.
(45) Sul tema O. CAGNASSO, Articolo 2506 bis. Progetto di scissione, in COTTINO, BONFANTE,
CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto societario, artt. 2484 2548 c.c., ***, Bologna, 2004, p. 2363; L.G. PICONE, Articolo 2506 bis. Progetto di scissione,
in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari,
Trasformazione - Fusione - Scissione, a cura di L. Bianchi, Milano, 2006, p. 1130; P.A.
SPILATERI, Articolo 2506 bis. Progetto di scissione, in La riforma delle società, a cura di
Sandulli-Santoro, tomo III, Torino, 2003, p. 495.
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La norma dispone che il progetto di scissione deve indicare coloro in capo ai
quali è posto l’obbligo di acquisto: può trattarsi di soci, verosimilmente il socio di
maggioranza, della stessa società scissa ovvero di un terzo interessato a diventare socio
(46).
È, dunque, ipotizzabile che la società che intenda procedere alla scissione faccia
precedere alla delibera attuativa dell’operazione una fase di trattative in cui i soci di
maggioranza determineranno le modalità di liquidazione delle partecipazioni degli
eventuali dissenzienti. In questa prospettiva, si potrebbe immaginare lo svolgimento di
una successione di ipotesi simile a quella tracciata nell’ambito del recesso; tuttavia, al di
là di qualche verosimile somiglianza, resta esclusa l’importazione integrale del modello
di liquidazione.
5.5. Le c.d. partecipazioni reciproche
Difficile risulta, invece, la comprensione dei rinvii operati al procedimento in
esame dagli artt.li 2359 ter e quater c.c. nell’ambito della disciplina delle c.d.
partecipazioni reciproche, ossia dell’acquisto di azioni o quote della società controllante
da parte delle controllate.
Come noto, in forza dell’art. 2359 bis c.c., la società controllata può acquistare
azioni o quote nella controllante solo nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve
disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato, se sono interamente liberate, purché
vi sia l’autorizzazione dell’assemblea e, infine, per una quantità, in ogni caso, non
superiore al decimo del capitale sociale della controllante, computandosi a tal fine anche
le azioni possedute dalla controllante stessa e da altre controllate: le partecipazioni
(46) In merito L.G. PICONE, Articolo 2506 bis, cit., p. 1135, l’a. solleva un’interessante questione
in ordine alla conseguenze di un eventuale inadempimento del soggetto che si è impegnato ad
acquistare le partecipazioni: «sebbene il legislatore non dica nulla in proposito, e la lettera della
legge possa far ritenere assolto l’obbligo degli amministratori (per la validità della scissione)
con la semplice indicazione dei soggetti obbligati, lasciando quindi il rischio-inadempimento a
tutto carico dei soci dissenzienti, una simile interpretazione non appare ragionevole. In tal caso,
infatti, si potrebbe facilmente aggirare la norma, indicando come soggetto obbligato ad
acquistare le partecipazioni dei soci dissenzienti, una ‘testa di legno’ o comunque un soggetto
incapiente, lasciando così i soci dissenzienti del tutto insoddisfatti. Ma ciò non sembra coerente
con lo scopo della norma, verosimilmente intesa a garantire che il socio dissenziente ottenga la
liquidazione della propria partecipazione nel caso di scissione non proporzionale». In questo
senso, deve ritenersi che l’eventuale inadempimento del soggetto indicato nel progetto di
scissione quale acquirente della partecipazione dei soci dissenzienti sia causa di invalidità della
stessa operazione di scissione.
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acquistate in violazione devono essere alienate «secondo modalità da determinarsi
dall’assemblea entro un anno dal loro acquisto».
D’altro canto, l’art. 2359 quater c.c. disciplina i casi speciali di acquisto di
azioni o quote della controllante, stabilendo che i suddetti limiti sono superabili quando
l’acquisto avvenga a titolo gratuito, per effetto di successione universale, fusione,
scissione o in via di esecuzione forzata; resta fermo il ‘tetto’ del decimo del capitale
sociale, ma, in questo caso, il termine per l’alienazione, secondo le modalità determinate
dall’assemblea, è allungato fino a tre anni dall’acquisto.
In entrambe le ipotesi, qualora le partecipazioni non siano state alienate, la
società controllante «deve procedere senza indugio al loro annullamento ed alla
corrispondente riduzione del capitale, con rimborso secondo i criteri indicati dagli
articoli 2437 ter e 2437 quater». La modifica costituisce mero adeguamento delle
norme e sostituisce il precedente rinvio al solo art. 2437 c.c.
Sul punto sorgono, dunque, alcuni problemi di coordinamento con il restante
sistema. In primo luogo, le disposizioni in esame, applicabili sia alle società per azioni
sia alle società a responsabilità limitata, richiamano, esclusivamente, i criteri per la
determinazione del valore e il procedimento relativo al rimborso delle azioni.
In ogni caso, pare che il percorso tracciato dalle norme escluda ‘spazi di
manovra’ per il meccanismo ex art. 2437 quater c.c.: le azioni o quote vengono
annullate, il capitale ridotto in misura corrispondente e la controllata verrà rimborsata
secondo i criteri di valutazione previsti per il recesso. In questo contesto, non sembra
poter trovare collocazione il procedimento in esame.
6. Un possibile limite all’esportabilità del modello?
Nel procedimento di liquidazione delle partecipazioni la tutela dell’integrità del
capitale e degli interessi dei creditori sociali rappresenta il leit motiv del recente
intervento del legislatore: ove possibile, la società deve tentare di rimborsare i soci
uscenti attraverso meccanismi che non incidano sul capitale sociale, la cui riduzione
costituisce, dunque, un’ipotesi eccezionale, una strada preferibilmente da non
percorrere.
Come detto più volte, i passaggi prospettati dalla legge paiono, infatti,
tendenzialmente obbligatori, con leggere varianti tra la fattispecie introdotta per la s.p.a.
e quella relativa alla s.r.l.: in primo luogo, la partecipazione viene offerta ai soci,
successivamente a terzi, se ci sono riserve disponibili, il socio uscente viene rimborsato
con quelle, in mancanza si procede alla riduzione del capitale sociale.
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In questa prospettiva, sembra legittimo affermare che l’ordinamento societario
ha privilegiato la conservazione dell’ente, allontanando, laddove possibile, la riduzione
del capitale.
D’altro canto si registra, in un altro settore del codice, un importante
cambiamento: il testo dell’art. 2445 c.c., che nella precedente formulazione disciplinava
la riduzione del capitale «esuberante», è stato modificato sopprimendo il requisito
dell’esuberanza. L’innovazione, che soddisfa esigenze di certezza del diritto, ha
semplificato la normativa in esame, giacché il presupposto risultava di difficile
valutazione in concreto. Tuttavia, tale modifica sembrerebbe facilitare, nell’ambito delle
società per azioni, il ricorso all’istituto: la riduzione pare ammessa, senza alcun vincolo
riguardante l’eccedenza del capitale rispetto all’attività sociale, salva l’opposizione dei
creditori.
Con la cancellazione dell’inciso recante il riferimento all’esuberanza, dunque,
appare ‘liberalizzata’ la decisione di ridurre il capitale sociale. In merito si è affermato
che la società deve ritenersi sempre libera di procedere a tale operazione anche in
presenza di riserve disponibili, qualunque sia la loro consistenza (47): lo schema
proposto risulterebbe, dunque, in aperto contrasto con il meccanismo della liquidazione
collaudato dal legislatore della riforma che subordina gli interventi sul capitale sociale
ad una serie programmata di strumenti alternativi, tra cui l’impiego delle riserve, per
rimborsare i soci uscenti.
A presidiare la situazione, oltre ai previgenti limiti legali, è stata inserita nella
norma una precisazione: «l’avviso di convocazione dell’assemblea deve indicare le
ragioni e le modalità della riduzione».
Secondo un’interpretazione che valorizza la nuova formula, l’eliminazione del
parametro dell’esuberanza non comporterebbe una totale libertà della società rispetto
all’assunzione della delibera in questione: l’arbitrio dei soci sarebbe limitato
dall’obbligo di carattere formale di indicare, nell’avviso di convocazione, le ragioni che
giustificano l’operazione. Tale onere di motivazione, posto in capo agli amministratori,
dovrebbe inibire il ricorso all’istituto in oggetto che pregiudica non tanto gli interessi
dei creditori sociali, in ogni caso tutelati dal diritto di opporsi alla delibera, quanto quelli
dei soci di minoranza alla conservazione di una determinata partecipazione al capitale
sociale: in questo senso «sarebbe certamente errato ritenere che la riduzione del capitale
sia divenuta operazione assolutamente discrezionale e liberamente eseguibile da parte
(47) R. NOBILI, La riduzione del capitale, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian
Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Torino, 3, 2007, p. 304. Contra F.
PLATANIA, Art. 2445. Riduzione del capitale sociale, in Società per azioni: obbligazioni,
bilancio, recesso, operazioni sul capitale, in La riforma del diritto societario, a cura di Lo
Cascio, Milano, 2005, p. 530.
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della società in qualunque circostanza (…) la delibera deve essere motivata da ragioni
effettive, controllabili e collegate alle esigenze economiche della società» (48).
Emergono, dunque, nuovi problemi esegetici: la previsione dell’obbligo di
indicare le ragioni della delibera non fornisce alcun elemento per stabilire gli interessi
che, in concreto, devono essere tutelati. Bisognerà, caso per caso, verificare la
ricorrenza delle valide motivazioni che giustificano l’operazione (49).
Secondo una differente ricostruzione della fattispecie, visti i criteri direttivi
contenuti nella legge delega, che imponevano di semplificare la disciplina della
riduzione del capitale ampliando le ipotesi di riduzione reale, la novella va interpretata
riconoscendo sempre alla società una piena libertà rispetto alla delibera in questione
(50). Tale soluzione si giustificherebbe, tra l’altro, col fatto che l’indicazione dei motivi
nell’avviso di convocazione ha la sola funzione di informare preventivamente i soci al
fine di poter votare in maniera consapevole; né pare individuabile un interesse ‘tipico’
del socio a conservare la posizione patrimoniale acquisita (51).
Sul punto, peraltro, la lettura dell’analoga norma nell’ambito delle società a
responsabilità limitata svela un difetto di coordinamento che non aiuta l’interprete:
mentre la restante disciplina si mostra sostanzialmente coincidente con quella delle
società per azioni, l’art. 2482 c.c. nulla dice in ordine all’obbligo di motivare la delibera
di riduzione del capitale sociale. Ne deriva che, in quella sede, tale decisione
risulterebbe, effettivamente, libera da ogni vincolo, ad eccezione del rispetto della
regola, espressamente richiamata, che impone la presenza di un capitale minimo. Il
(48) Così F. PLATANIA, Art. 2445, cit., p. 526.
(49) In questo senso v. M. CAVANNA, Articolo 2445. Riduzione del capitale sociale, in COTTINO,
BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (commentario diretto da), Il nuovo diritto societario,
artt. 2409 bis - 2483 c.c., **, Bologna, 2004, p. 1608, secondo il quale gli interessi da tutelare
vanno individuati in via interpretativa, in questa prospettiva la previsione dell’obbligo di
motivare la delibera «non sembra avere apportato decisivi contributi chiarificatori alla
ricostruzione della ratio dell’istituto». Sul punto F. PLATANIA, Art. 2445, cit., p. 527, l’a.
osserva che «malgrado l’apparente mutamento della norma, ancora oggi la riduzione del
capitale può ritenersi legittima solo quando la società sia effettivamente e concretamente
sovracapitalizzata».
(50) In questo senso v. R. NOBILI, La riduzione del capitale, cit., p. 299, l’a. precisa che
resterebbe «il solo limite, di carattere generale, del rispetto delle norme in tema di conflitto di
interessi e di abuso della maggioranza (oltre che, naturalmente, del divieto di violare la norme
espressamente richiamate dall’art. 2445 c.c.: l’art. 2327 c.c. sul capitale minimo e l’art. 2413
c.c. sulle obbligazioni in circolazione; nonché le disposizioni del secondo comma dell’art. 2445
c.c. in tema di azioni proprie)».
(51) Così ID, op ult. cit., p. 302, l’a. segnala inoltre che, per principio generale, l’interesse della
società ad assumere una determinata decisione è quello che la maggioranza dei soci, riunita in
assemblea, identifica come tale e, quando eccezionalmente il legislatore ha inteso limitare
l’autonomia dell’assemblea, sottoponendola a controlli esterni, lo ha detto espressamente.
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
chiaro dato normativo può forse rappresentare un ulteriore elemento sintomatico della
legittimità di un’interpretazione più liberale della fattispecie anche nel settore delle
società per azioni?
A seconda di come viene interpretata la formula legislativa che prevede,
quantomeno nelle società azionarie, di indicare nell’avviso di convocazione
dell’assemblea le ragioni della riduzione, potrebbero emergere scenari differenti.
Secondo una prima ricostruzione, la motivazione potrebbe divenire, nella prassi,
un semplice requisito di forma: l’assenza di parametri su cui fondare le ragioni della
decisione renderebbe ancor meno rigoroso il controllo del notaio, confinato alla mera
presa d’atto dell’esistenza di un’apparente motivazione. La soluzione sembrerebbe
ulteriormente confermata dall’assoluto silenzio sul punto nell’analoga norma
nell’ambito delle società a responsabilità limitata.
D’altro canto, è stato osservato che gli amministratori, nel porre all’ordine del
giorno l’operazione di riduzione, devono attenersi a quel particolare canone di diligenza
che deve sempre guidare il loro comportamento (52). In questa prospettiva, sia nelle
s.p.a. sia nelle s.r.l., potrebbe delinearsi un regime più severo: non sembra possibile
lasciare al libero arbitrio la scelta di ‘indebolire’ patrimonialmente la società, pena la
responsabilità dei gestori.
In ogni caso, come ha osservato autorevole dottrina, nella situazione in esame si
ravvisa anche una condizione implicita, che dovrebbe limitare un uso indiscriminato
dell’istituto, giacché si deve sempre garantire «la possibilità, nonostante la riduzione del
capitale, di proseguire l’attività sociale» (53).
6.1 - Il sistema appare scoordinato: a fronte di un sensibile aumento delle ipotesi
di recesso, da un lato, si tenta, attraverso l’impiego di un complicato meccanismo di
uscita, di scongiurare la riduzione del capitale, mentre dall’altro lato, viene unicamente
previsto un generico obbligo di motivazione, in ogni caso solo per le società azionarie.
Parrebbe, dunque, che la situazione patrimoniale della società venga resa più
stabile se legata al recesso e alle altre ipotesi esaminate, viceversa, la strada della
riduzione del capitale sembra sempre percorribile senza particolari condizioni se non
quelle legate ai limiti previsti nelle rispettive normative per le s.p.a. e le s.r.l.
Sembrerebbe, dunque, possibile configurare due differenti modelli normativi per
procedere alla riduzione del capitale sociale: uno più restrittivo, che impone il rispetto di
una serie di obblighi graduali, l’altro più liberale per il quale pare sufficiente
l’indicazione di una generica motivazione.
(52) In questo senso D. BONACCORSI DI PATTI, Articolo 2445. Riduzione del capitale sociale, in
La riforma delle società., a cura di Sandulli-Santoro, tomo 2/II, Torino, 2003, p. 933.
(53) Così O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, cit., p. 342.
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
Si pone pertanto il problema di valutare se la segnalata asimmetria possa giocare
a sfavore del corretto funzionamento del procedimento di rimborso: in altre parole,
esiste il rischio di eludere il percorso a tappe imposto dalla legge per la liquidazione del
socio uscente, attraverso il ricorso diretto alla riduzione del capitale sociale? inoltre, in
presenza della regola generale, il procedimento di rimborso è esportabile? L’esame delle
aree di applicazione di due modelli può aiutare a comprendere la, forse solo apparente,
contraddizione.
Il modello ‘più restrittivo’ viene impiegato in tutte le ipotesi di recesso,
comprese quelle inserite in una diversa sedes materiae, nonché in quelle situazioni
affini al recesso in cui il legislatore ha espressamente rinviato a quel procedimento di
liquidazione ‘garantista’ (54): l’area legale di operatività risulta, come visto,
decisamente estesa. Si tratta di situazioni che hanno un denominatore comune: il fatto di
riguardare solo alcuni soci, in questo senso si può parlare di ipotesi di ‘disinvestimento
parziale’. In tale prospettiva, ha senso il meccanismo ‘progressivo’ coniato dalla
riforma: attraverso l’offerta delle partecipazioni agli altri soci, a terzi ovvero il rimborso
con le riserve disponibili e gli utili distribuibili è possibile, per i soci restanti,
salvaguardare la compagine esistente, per la società, tutelare il capitale sociale.
D’altro canto, il modello ‘più liberale’ si può riferire a quelle ipotesi in cui il
disinvestimento tocca le partecipazioni di tutti i soci: si parlerà, in questo caso, di
‘disinvestimento totale’, giacché concerne l’intera compagine societaria.
Esclusi, in tal maniera, il rischio di sovrapposizione e contraddittorietà tra i due
modelli, sembra anzi possibile trovare un punto di coordinamento tra i relativi sistemi
operativi: alla luce del meccanismo di liquidazione pare che anche la riduzione reale
implichi, quale presupposto implicito, l’utilizzo delle riserve disponibili prima di
intaccare il capitale sociale. La prospettata soluzione risulta equilibrata: di fronte al
rischio di un uso distorto dell’istituto, conseguente all’abrogazione del requisito
dell’esuberanza, si consente all’ente di salvaguardare, ove possibile, l’integrità del
capitale e, quindi, la normale prosecuzione dell’attività d’impresa.
7. ‘Esportabilità’ del modello
L’innovativo assetto del meccanismo coniato nell’ambito del recesso per la
liquidazione delle partecipazioni sociali, che, accostando istituti noti del diritto
societario, tenta di preservare compagine e capitale sociale, ne ha determinato, come
visto, una significativa espansione oltre la propria tradizionale sfera applicativa,
rendendolo un modello ‘esportabile’ anche in altre fattispecie di ‘disinvestimento
parziale’ che presentino profili di analogia con l’istituto di riferimento.
(54) V., supra, parr. 2, 3, 4 e 5.
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
L’applicazione, in tutto o in parte, del procedimento di liquidazione, per
espressa previsione legislativa, in contesti normativi differenti rispetto a quello del
diritto di recesso suggerisce, quindi, di verificare la possibilità di una sua ulteriore
estensione ad altre fattispecie al fine di creare un sistema di rimborso ‘tipo’, ossia un
paradigma per la regolazione dell’uscita di singoli soci e la relativa alienazione delle
azioni e delle quote: la ‘esportabilità’ del modello pare, tuttavia, circoscritta alle
ipotesi di disinvestimento parziale.
Al proposito si prospettano due esempi, l’uno nell’ambito dell’acquisto di azioni
o quote della controllante da parte della controllata, l’altro con riguardo
all’introduzione di una clausola statutaria per l’ipotesi della morte di un socio.
In primo luogo, vengono in rilievo gli artt.li 2359 ter e 2359 quater c.c. i quali,
con riguardo alle operazioni di acquisto di azioni o quote della controllante da parte
della controllata, stabiliscono che la violazione dei limiti fissati dalla legge impone di
alienare, entro precisi termini, le partecipazioni in esubero «secondo modalità da
determinarsi dall’assemblea» (55).
Il legislatore, dunque, non fornisce alcuna indicazione sulla procedura da seguire
per il disinvestimento di tali partecipazioni; è l’assemblea a dover fissare le regole per il
trasferimento delle medesime: in questo senso l’organo deliberativo pare libero di
scegliere come muoversi.
In tale ambito sembra interessante verificare come possa interagire il
meccanismo di liquidazione ex artt.li 2437 quater e 2473, quarto comma, c.c.: potrebbe
rappresentare, attraverso una apposita previsione statutaria, un modello di condotta per
la società?
A sostegno di questa tesi emergono argomentazioni di carattere sistematico: il
tentativo di alienare le partecipazioni mediante la collocazione delle stesse presso i soci
e i terzi, nonché il rimborso tramite riserve disponibili, costituiscono per la società
un’occasione di tutela, in primo luogo, degli equilibri endosocietari, salvaguardando il
peso di ciascun socio nell’organizzazione, e, comunque, dell’integrità del capitale e
degli interessi dei creditori sociali. In questo senso il percorso tracciato dal legislatore
garantisce il rispetto di principi fondamentali dell’ordinamento societario.
L’esito negativo di questi tentativi comporterebbe l’annullamento delle
partecipazioni e la corrispondente riduzione del capitale sociale.
Il dato normativo consentirebbe, nel caso, solo l’applicazione della prima parte
del procedimento: l’eventuale riduzione del capitale segue le regole ordinarie e se
l’assemblea non provvede, gli amministratori e i sindaci devono chiedere l’intervento
del tribunale ai sensi dell’art. 2446, secondo comma, c.c.
Lo schema prospettato, peraltro, non rappresenta una novità per il nostro
ordinamento: già gli artt.li 2344 e 2466 c.c., dedicati al trattamento del socio moroso nei
(55) Sul tema v. anche, supra, par. 5.5.
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STUDI E OPINIONI
RECESSO: LIQUIDAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE
conferimenti, rispettivamente nell’ambito delle società per azioni e delle società a
responsabilità limitata, segnalano un modus procedendi per l’alienazione delle
partecipazioni dei soci inadempienti che ricorda il modello in esame, perseguendone le
medesime finalità di tutela. In effetti, tali norme prevedono la possibilità di offrire le
azioni e quote agli altri soci, e in mancanza di acquirenti le partecipazioni possono
essere collocate sul mercato con modalità differenti a seconda che si tratti di s.p.a.
ovvero s.r.l.; se, dunque, il tentativo di rimettere in circolazione le partecipazioni non va
a buon fine, per assenza di compratori interessati, le stesse devono essere annullate ed il
capitale ridotto in misura corrispondente.
Attraverso l’autonomia statutaria, pare sia possibile regolare preventivamente le
modalità di svolgimento della liquidazione della partecipazione del socio defunto:
diversamente, tale evento, nell’ambito delle società di capitali ed in assenza di una
apposita previsione dello statuto ovvero dell’atto costitutivo (56), determina
l’automatica prosecuzione del rapporto sociale con gli eredi.
Nelle società per azioni, tuttavia, non risulta legittima una clausola statutaria che
imponga specifici schemi di alienazione delle azioni del de cuius, giacché rischierebbe
di provocarne l’intrasferibilità assoluta (57).
Nelle società a responsabilità limitata, viceversa, l’ordinamento pare ammettere
l’introduzione nell’atto costitutivo di clausole di intrasferibilità assoluta mortis causa.
In questo caso, l’art. 2469 c.c. fa salvo il diritto di recesso, non se ne comprende, però,
in concreto il funzionamento: «gli eredi non subentrano nella posizione del de cuius e
quindi non possono recedere: la norma deve interpretarsi nel senso che spetta loro la
liquidazione della quota secondo le modalità ed i criteri di liquidazione previsti per il
caso di recesso» (58).
I soci di s.r.l. potrebbero, dunque, stabilire che, al verificarsi della morte di uno
di essi, la partecipazione del de cuius, secondo il noto modello, venga offerta ai
superstiti, a terzi concordemente individuati ovvero rimborsata attraverso gli utili
distribuibili e le riserve disponibili; sembrano, invece, incompatibili le ulteriori tappe
del procedimento di liquidazione con i relativi esiti afflittivi per la società: ricalcando lo
schema adottato dall’art. 2473 bis c.c., per l’ipotesi dell’esclusione, si potrebbe, quindi,
rinviare ad una sola parte del meccanismo per il rimborso delle partecipazioni sociali.
L’interesse perseguito sarebbe quello di salvaguardare i delicati equilibri di
compagini societarie di dimensioni medio-piccole ma, probabilmente, non di stampo
familiare.
(56) Secondo le indicazioni contenute negli artt.li 2355 bis, terzo comma, c.c. e 2469, secondo
comma, c.c., rispettivamente per le s.p.a. e le s.r.l.
(57) Sul tema v. A. DENTAMARO, Articolo 2355 bis, cit., p. 393; D. VATTERMOLI, Articolo
2355-bis, cit., p. 181.
(58) Così O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, cit., p. 147.
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PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE E
ASSISTENZA FINANZIARIA
L’Autrice si sofferma su alcune disposizoni del recente decreto legislativo che
modifica la Direttiva 2006/68/Ce, analizzando in particolare la disciplina dell’acquisto
delle azioni proprie.
di LUCIA STAROLA
Il decreto legislativo approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 1°
agosto 20081 prevede importanti modifiche alla disciplina dell’acquisto di azioni proprie
e dell’assistenza finanziaria.
1. Acquisto di azioni proprie
Per analizzare la novella occorre risalire alla Seconda direttiva. La direttiva n.
77/91/CEE, del Consiglio del 13 dicembre 1976, nella sua formulazione originaria (art.
19), prevedeva la durata massima dell’autorizzazione da parte dell’assemblea nel
termine di 18 mesi e stabiliva un limite massimo per l’acquisto nella misura del 10% del
capitale sottoscritto.
Nella prospettiva di accrescere la flessibilità e ridurre gli oneri amministrativi2, la
direttiva n. 2006/68/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 6 settembre 2006,
ha modificato la disciplina comunitaria, in particolare prevedendo che:
−
l’autorizzazione assembleare può avere la durata determinata dalla
legislazione nazionale, in ogni caso non superiore a cinque anni;
−
il limite massimo relativo al capitale può essere introdotto dagli Stati
membri, ma non può essere inferiore al 10%.
E’ inoltre stato previsto che gli Stati membri possano subordinare l’acquisizione
di azioni proprie ad altri requisiti specifici in materia di obblighi di comunicazione e di
trasparenza, statuendo specificatamente che lo Stato membro può imporre la condizione
1
D.lgs., 4 agosto 2008, n. 142, pubblicato su G.U., 15 settembre 2008, n. 216.
Il quarto considerando della direttiva n. 2006/68/CE, recita: “Le società per azioni dovrebbero
poter acquistare azioni proprie nei limiti delle riserve distribuibili e il periodo per il quale
l’assemblea può autorizzare l’acquisto dovrebbe essere esteso, in modo da accrescere la
flessibilità e da ridurre gli oneri amministrativi a carico delle società, le quali devono poter
reagire rapidamente agli sviluppi del mercato che incidano sul prezzo delle loro azioni”.
2
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
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63
PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE
che “l’acquisizione non pregiudichi la soddisfazione dei diritti dei creditori”3, sempre
nell’ottica di “promuovere l’efficienza e la competitività delle imprese senza ridurre le
tutele di cui beneficiano gli azionisti ed i creditori”4.
In linea con la formulazione originaria della direttiva n. 77/91/CEE, in materia di
azioni proprie la norma pre-vigente in Italia (art. 2357 c.c.) imponeva un limite
all’acquisto di azioni proprie (pari ad una valore nominale del 10% del capitale sociale e
nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili), e l’autorizzazione
all’acquisto accordata dall’assemblea per un periodo massimo di diciotto mesi.
La legge Comunitaria 20075, nel delegare il Governo all’attuazione della direttiva
n. 2006/68/Ce, indicava i seguenti principi e criteri direttivi:
1)
non avvalersi, per le società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di
rischio, della facoltà prevista per gli Stati membri di subordinare l’acquisizione
delle azioni proprie:
− ad un limite non inferiore al 10% del capitale sottoscritto;
− alla previsione statutaria della facoltà di acquisto delle azioni proprie;
− al soddisfacimento di adeguati requisiti in materia di obblighi di
comunicazione;
− a specifici obblighi in tema di annullamento delle azioni proprie;
− alla condizione che l’acquisizione non pregiudichi la soddisfazione dei diritti
dei creditori;
2)
avvalersi, per le società che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio, della
facoltà di determinare un limite per l’acquisto delle azioni proprie, confermandolo
nel 10% del capitale sociale, e confermando inoltre la durata massima di diciotto
mesi per l’autorizzazione assembleare.
In conclusione, secondo i criteri direttivi della legge Comunitaria, tutto immutato
per le società quotate o diffuse e massima flessibilità per le società chiuse.
Il decreto di recepimento prevede, invece, anche per le società chiuse, la
conferma della durata massima dell’autorizzazione nel limite di diciotto mesi
preesistente, giustificandola nella relazione ministeriale “in ragione tanto
dell’eliminazione del limite quantitativo, quanto di omogeneità con le società che fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio”. Si nota quindi il mantenimento di un
elemento di rigidità del sistema e l’apertura unicamente nell’eliminare – per le società
chiuse – il limite del 10% del capitale sociale.
La modifica è stata apportata inserendo all’art. 2357 c.c. la specificazione che, per
le società quotate o diffuse, vige il limite della decima parte del capitale sociale.
3
Art. 19, par. 1, n. (v)
Secondo considerando della direttiva n. 2006/68/CE.
5
Art. 23 della legge 25 febbraio 2008 n. 34.
4
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
64
PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE
Analoga modifica di coordinamento viene apportata all’art. 2445 nel caso di riduzione
del capitale sociale.
L’eliminazione per le società chiuse del limite quantitativo può condurre a
delineare situazioni interessanti, quali quella dell’acquisto anche di quote di
maggioranza, ovvero operazioni propedeutiche ad una cessione a terzi dell’intero
pacchetto societario. In ogni caso, non si dovrà dimenticare che la direttiva comunitaria
intende accrescere la flessibilità per ricercare la promozione dell’efficienza e della
competitività delle imprese, ma senza ridurre le tutele dei creditori. Questo obiettivo
dovrebbe essere vincolante, pur non avendo la legge delega esplicitamente richiamato il
principio che l’acquisizione non deve pregiudicare la soddisfazione dei diritti dei
creditori.
In proposito non è stato richiamato nemmeno quanto indicato al par. 1 lettera (iv)
dell’art. 19 della direttiva, ove si prevede che il valore nominale delle azioni proprie
annullate vada iscritto in una riserva non distribuibile, al fine di non sottrarre
surrettiziamente risorse al vincolo corrispondente al capitale sociale.
Con riferimento alla legge delega, suscita, infine, qualche perplessità non aver
eliminato il vincolo del 10% per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio6, le uniche per le quali l’acquisto di azioni proprie può giustificarsi ai sensi del
quarto considerando della direttiva n. 2006/68/CE7
2. Assistenza finanziaria
Interessanti novità si profilano rispetto al tassativo divieto di anticipare fondi,
accordare prestiti o fornire garanzie per l’acquisizione delle proprie azioni da parte di un
terzo.
Il divieto, contenuto nel previgente art. 23 della direttiva n. 77/91/CEE, era stato
recepito nell’art. 2358 c.c.. Con l’obiettivo di “rafforzare la flessibilità con riguardo ai
cambiamenti della struttura proprietaria”8 agli Stati membri viene data facoltà di
autorizzare le società per azioni a concedere un’assistenza finanziaria per l’acquisizione
delle loro azioni da parte di un terzo, nei limiti delle riserve distribuibili, subordinandola
a garanzie per tutelare gli interessi sia degli azionisti che dei terzi.
L’art. 23 della Seconda direttiva, nel testo modificato dalla direttiva n.
2006/68/CE, prevede ora che gli Stati membri possano permettere l’assistenza
finanziaria per l’acquisizione delle proprie azioni, subordinatamente a determinate
condizioni:
− responsabilità dell’organo di amministrazione o di direzione;
− condizioni di mercato eque in relazione agli interessi e alle garanzie;
6
Si veda in proposito le osservazioni di Confindustria sullo schema di decreto legislativo.
“Reagire rapidamente agli sviluppi del mercato che incidono sul prezzo delle loro azioni”.
8
Quinto considerando della direttiva n. 2006/68/CE.
7
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
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PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE
− valutazione del merito di credito;
− autorizzazione dell’assemblea, che delibera con la maggioranza di due terzi
dei voti rappresentati, ovvero con la maggioranza semplice se è presente
almeno la metà del capitale sociale;
− relazione dell’organo amministrativo che illustra le ragioni e l’interesse per
l’operazione, le condizioni, i rischi per la liquidità e la solvibilità, nonché il
prezzo di acquisto delle azioni;
− l’importo complessivo delle somme date in prestito non può comportare una
riduzione dell’attivo netto al di sotto dell’importo del capitale sottoscritto e
versato, oltre le riserve non distribuibili;
− deve essere iscritta al passivo del bilancio una riserva indisponibile pari
all’importo complessivo dell’assistenza finanziaria;
− l’acquisto di azioni proprie della società da parte del terzo che usufruisce di
assistenza finanziaria, ovvero la sottoscrizione di un aumento di capitale, deve
avvenire ad un giusto prezzo.
E’ stato, inoltre, inserito l’art. 23 bis, a norma del quale, qualora singoli membri
dell’organo amministrativo della società partecipante o della società controllante, o terzi
che agiscono per conto di detti membri, siano parti dell’operazione, gli Stati membri
assicurano tramite garanzie adeguate che l’operazione non sia contraria al “migliore
interesse della società”.
La legge delega ha prescritto di consentire l’assistenza finanziaria alle condizioni
indicate dalla direttiva, mantenendo le condizioni più favorevoli per favorire l’acquisto
da parte di dipendenti della società o di quelli di società controllanti o controllate.
Il recepimento della direttiva n. 2006/68/CE avviene nel decreto legislativo, con
sostanziale modificazione dell’art. 2358 c.c.: ciò che fino ad oggi è oggetto di divieto
assoluto, diviene possibile nel rispetto di specifiche condizioni.
Le maggioranze richieste dalla direttiva per la deliberazione assembleare9 sono
state tradotte dal legislatore affidando la competenza all’assemblea straordinaria, in
coerenza, afferma la relazione ministeriale, con quanto operato negli altri casi di rinvio
all’art. 40. A ben vedere, negli altri casi si tratta di modifiche del capitale sociale,
mentre qui si tratta di “autorizzazione dell’assemblea all’operazione” e quindi la
materia avrebbe potuto essere di competenza dell’assemblea ordinaria, pur con
maggioranze rinforzate.
Gli obblighi informativi della relazione degli amministratori (art. 2358 terzo
comma) sono puntualmente desunti dalla direttiva comunitaria. In assenza di specifici
criteri dettati dalla legge delega, sarà compito di successive norme regolamentari,
ovvero di comportamento, nonché della prassi dare contenuto alle nozioni di
“condizioni eque di mercato” e “merito di credito”.
9
Art. 40 della direttiva n. 77/91/CEE
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
66
PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE
Fin da ora è opportuno ricordare che il Collegio Sindacale, nell’ambito dei poteri
di vigilanza sul rispetto dei principi di corretta amministrazione (art. 2403 c.c.) sarà
chiamato ad esercitare il controllo di competenza, sebbene non sia espressamente
richiesto il rilascio di un parere all’assemblea.
3. Giusto prezzo
Il legislatore della novella ha ritenuto che, per il caso di assistenza finanziaria
utilizzata dal terzo per sottoscrivere azioni di nuova emissione, non fosse necessaria
un’apposita previsione. Infatti, in tale ipotesi, l’aumento di capitale presupporrebbe
l’esclusione del diritto di opzione, e l’art. 2441 c.c. sembra offrire adeguate cautele sulla
determinazione del prezzo di emissione per l’aumento di capitale con esclusione del
diritto di opzione.
Invece, per l’ipotesi di acquisto di azioni proprie detenute dalla società (art. 2358
quarto comma), per la determinazione del giusto prezzo il legislatore ha adottato come
parametro di riferimento il prezzo di mercato, per le società quotate o diffuse, mentre,
per le società chiuse, ha fatto riferimento ai “criteri di cui all’art. 2437 ter secondo
comma” e, quindi, la determinazione da parte degli amministratori “tenuto conto della
consistenza patrimoniale delle società e delle sue prospettive reddituali, nonché
dell’eventuale valore di mercato delle azioni”. Non è previsto che gli altri azionisti
possano contestare il valore individuato dagli amministratori e chiedere che il valore sia
determinato tramite una relazione giurata di un esperto.
Le nuove disposizioni, in linea con quanto prescritto dalla legge delega, fanno
salva la disciplina della fusione con indebitamento, problematica affine per l’analogia
della situazione. L’art. 2501 bis c.c. era stato infatti introdotto dal legislatore della
riforma del diritto societario, per eliminare ogni dubbio di legittimità dalle operazioni di
leveraged buy out destinate ad una fusione tra la casa madre e l’incorporante, indebitata
per acquisire la target company.
Si evidenzia che, nella fusione ex art. 2501 bis, un esperto esterno attesta la
ragionevolezza delle indicazioni contenute nel progetto di fusione in merito alle risorse
finanziarie previste per il soddisfacimento delle obbligazioni delle società risultante
dalla fusione, il cui patrimonio viene a costituire garanzia generica di detti debiti.
Alla stessa stregua, sarebbe stato opportuno che, nelle società chiuse, ove manca
un “prezzo di mercato” delle azioni acquistate o sottoscritte da chi usufruisce
dell’assistenza finanziaria delle società, per la verifica del “giusto prezzo” richiamato
dalla direttiva, venisse affiancata all’organo amministrativo la relazione di un esperto
esterno.
4. Parti correlate
In attuazione dell’art. 23 bis della direttiva, richiamato anche dalla legge delega,
l’art. 2358, quinto comma c.c., disciplina il caso specifico in cui l’assistenza finanziaria
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
67
PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE
coinvolga parti correlate, prevedendo che “gli Stati membri assicurano, tramite
adeguate garanzie, che l’operazione non sia contraria al miglior interesse della
società”.
La locuzione usata dal legislatore comunitario è stata volta in senso positivo,
indicando che l’operazione “realizza al meglio l’interesse della società”, richiamando,
con riferimento alle garanzie adeguate quanto previsto dall’art. 2391 bis c.c. in merito
alle “operazioni con parti correlate”. Tuttavia tale norma si riferisce alle società che
fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, mentre nulla è detto per le società
chiuse, che pur non dovranno rimanere prive delle garanzie adeguate richieste dalla
direttiva.
5. Azioni proprie in garanzia
In sede di consultazione sulla bozza di decreto era emersa10 l’opportunità di
modificare l’attuale sesto comma dell’art. 2358 c.c. relativo al divieto di accettare azioni
proprie in garanzia neppure per tramite di società fiduciarie, o per interposta persona.
Infatti l’art. 24 della Seconda direttiva equipara l’accettazione delle azioni proprie
in garanzia all’acquisto di azioni proprie ed all’assistenza finanziaria per l’acquisto di
azioni proprie, rendendo quindi possibile l’accettazione di tale garanzia, negli stessi
limiti e alle medesime condizioni. Il legislatore ha invece ritenuto di non modificare tale
divieto, in quanto, come recita la relazione ministeriale “non sembrano derivarne
sostanziali vantaggi in ordine alla finalità di favorire cambiamenti della struttura
proprietaria, alla quale sono preordinate le semplificazioni secondo il quinto
considerando della direttiva”.
A parere di chi scrive, si potrebbe trattare pur sempre della stessa fattispecie, con
una tempistica ed una consequenzialità diversa. In un caso, il potenziale nuovo socio
chiede ed ottiene un finanziamento od una garanzia per finanziare l’acquisto o la
sottoscrizione delle azioni della società. Nell’altra ipotesi, il socio, già titolare di un
pacchetto azionario, lo offre in garanzia (in assenza di altra garanzia) per ottenere un
finanziamento per l’acquisizione di un ulteriore pacchetto azionario.
6. Riduzione del capitale sociale
La direttiva n. 2006/68/CE prevede che “al fine di potenziare la tutela
standardizzata dei creditori in tutti gli Stati membri, a determinate condizioni, i
creditori dovrebbero potere ricorrere al giudice o all’autorità amministrativa quando
vi sia pericolo di pregiudizio dei loro diritti a seguito della riduzione del capitale di una
società per azioni”11.
10
11
Si vedano le osservazioni di Confindustria al documento di consultazione.
Sesto considerando della direttiva n. 2006/68/CE.
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
68
PANORAMA LEGISLATIVO
ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE
Nello specifico la tutela dei creditori si attua mediante la previsione che “i
creditori possano rivolgersi all’autorità amministrativa o giudiziaria competente per
ottenere adeguate tutele, a condizione che possano dimostrare che la riduzione del
capitale pregiudica i loro diritti e che la società non ha fornito adeguate garanzie”12.
Il legislatore italiano non ha previsto alcuna norma di attuazione della previsione
citata, avendo ritenuto che l’art. 2445 c.c. sia già in linea con le disposizioni
comunitarie.
Pertanto l’art. 2445 viene unicamente modificato per il necessario coordinamento
con il nuovo testo dell’art. 2357, in tema di eliminazione del limite del 10% del capitale
sociale per gli acquisti di azioni proprie da parte delle società chiuse.
12
Art. 32 par. 1 della Seconda direttiva come modificato dalla direttiva n. 2006/68/CE.
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 22/2008
69
RELAZIONI A CONVEGNI
VIZI DEL CONSENSO, PATOLOGIA ED
IMPUGNATIVA DEI PATTI DI
FAMIGLIA. CENNI SULLA
CONCILIAZIONE OBBLIGATORIA*
Il lavoro prende in esame l’istituto del patto di famiglia, introdotto con la legge 14
febbraio 2006, n. 55, nel codice civile, in cui è disciplinato da sette nuovi articoli
(dall’art. 768 bis all’art. 768 octies). Lo studio analizza più specificamente i profili di
impugnazione del patto di famiglia; vengono quindi trattati alcuni dei più rilevanti
aspetti in cui ciascuno dei vizi del consenso, o della volontà, potrebbe configurarsi nel
particolare contesto proprio dell’atto pubblico, con il quale deve essere stipulato, a
pena di nullità, il contratto denominato patto di famiglia. Lo studio si sofferma, quindi,
sul termine dell’anno per l’esercizio dell’azione, evidenziandone fra l’altro le analogie
con l’identico termine stabilito dall’art. 184, comma 2° cod. civ., per l’azione di
annullamento degli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge, nella comunione
legale dei beni. Si passa poi all’esame dell’impugnazione prevista dall’art. 768 sexies
da parte dei legittimari sopravvenuti dopo la conclusione del patto di famiglia. Si
conclude infine con cenni sul tentativo di conciliazione stabilito dall’art. 768 octies, con
riferimento alle possibilità che tale tentativo di conciliazione possa costituire un
efficace strumento di deflazione del contenzioso sul patto di famiglia.
di DARIO POTO
1. Premessa
La norma cardine del mio discorso è data dall’art. 768 quinquies, secondo la
quale “Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e
seguenti. L’azione si prescrive nel termine di un anno”.
I primi commenti in sede dottrinaria alla legge n. 55/2006 hanno sottolineato
come la previsione per cui il patto di famiglia possa essere impugnato dai partecipanti ai
sensi degli articoli 1427 e ss. del codice civile (cioè per i canonici vizi del consenso:
errore, violenza e dolo; cui aggiungerei l’incapacità), si riveli scontata e forse
*
Relazione tenuta il 13 maggio 2006 in occasione della giornata di studio organizzata dal
Consiglio notarile dei distretti riuniti di Torino e Pinerolo presso il Palazzo di Giustizia di
Torino.
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
70
RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
pleonastica, in quanto nessuno potrebbe dubitare che le norme sui vizi della formazione
del contratto siano applicabili anche al patto di famiglia.
Si è poi espressa perplessità sul disposto di cui all’art. 768sexies, comma 2°, là
dove fa ritenere che costituisca ragione di impugnazione del patto, ai sensi dell’art.
768quinquies, la mancata liquidazione dei legittimari non partecipanti al patto stesso,
come se il realizzarsi di tale mancata compensazione costituisse un vizio del consenso.
Andiamo con ordine.
Dal legislatore il patto di famiglia è espressamente qualificato come “contratto”,
anche se poi viene denominato “patto”. Non si tratta quindi di una convenzione,
sebbene il termine “convenzione” sia quello più frequentemente adoperato in ambito di
diritto di famiglia e delle successioni (per il primo, il diritto di famiglia, basti ricordare
le convenzioni matrimoniali di cui agli articoli da 159 a 166bis cod. civ.; per le seconde,
la materia delle successioni, sarà sufficiente il richiamo all’art. 458 [quello, appunto,
modificato dalla legge n. 55/2006], per il quale “è nulla ogni convenzione con cui
taluno dispone della propria successione.”).
Per tale negozio giuridico o contratto è prescritta, a pena di nullità, la forma
dell’atto pubblico (art. 768ter), la nozione del quale si ricava dall’art. 2699 cod. civ.,
che lo definisce come “il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o
da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede dove l’atto è
formato”.
Come è noto, il valore di atto pubblico deriva dalla circostanza che un pubblico
ufficiale, come tale autorizzato e competente, accerta fino a que
rela di falso che le parti hanno reso le dichiarazioni riferite sul documento
scritto.
(Si discute se l’atto pubblico contenente il patto di famiglia debba essere
stipulato in presenza di testimoni. La norma tace sul punto.
Si può allora istituire un parallelo con le convenzioni matrimoniali, per le quali è
pure stabilita soltanto la forma dell’atto pubblico, a pena di nullità [cfr. l’art. 162 cod.
civ.], e in ordine alle quali però si è da tempo consolidato un indirizzo interpretativo
favorevole alla presenza di due testimoni alla sua stipulazione. Detto indirizzo ha in
seguito trovato conferma mediante la c.d. semplificazione amministrativa, ossia in virtù
della legge 28 novembre 2005, n. 246, il cui art. 12, modificando l’art. 48 della legge
notarile n. 89 del 1913, ha introdotto la necessità della presenza di due testimoni, oltre
che nei casi previsti dalla legge, per un certo numero di altri atti, fra cui “gli atti di
donazione e le convenzioni matrimoniali”.
Ora, se è vero che il patto di famiglia non può essere identificato con una
donazione, e non costituisce certamente una convenzione matrimoniale [il coniuge
infatti partecipa al patto di famiglia non in quanto coniuge, ma in quanto legittimario], è
però opinione altrettanto condivisa che il patto di famiglia integri un atto di liberalità, un
atto inter vivos, quantunque non donativo. Talché, ragioni di coerenza sistematica nel
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
trattare istituti per molti aspetti simili, non meno che le stesse ragioni per le quali si è
voluto tutelare l’atto al punto tale da rivestirlo della forma solenne, rendono quanto mai
opportuna la presenza di due testimoni al suo perfezionarsi. Testimoni, va da sé, di cui
deve essere fatta espressa menzione in principio dell’atto.)
Il patto di famiglia è dunque un contratto, il quale, oltre che rappresentare una
eccezione al divieto dei patti successori sancito dall’art. 458, al cui testo ora è premesso
l’inciso “Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768bis e seguenti”, deroga alle
norme in tema di collazione e di azione di riduzione delle donazioni. E poiché tale
deroga è a norme imperative di legge, si spiega il fatto che debba essere interpretata in
senso restrittivo e, in base all’art. 14 delle preleggi, è inidonea all’applicazione
analogica.
Ma questo vuol dire anche un’altra cosa: che essa si sottrae pure alla disciplina
generale dei contratti.
Al patto di famiglia non è prevista, infatti, l’applicabilità della disciplina sulla
risoluzione del contratto, sulla rescissione, sulla simulazione; ne è consentita
unicamente (art. 768 quinquies) l’impugnazione ai fini dell’annullabilità per vizi del
consenso, ai sensi dell’art. 1427 cod. civ..
Insomma, con il patto di famiglia il legislatore ha inteso “blindare” la possibilità
di trasmettere per atto inter vivos l’azienda o le partecipazione societarie (la
governance) dell’impresa, al discendente –figlio o nipote ex filio- che sia dotato di
maggiori attitudini imprenditoriali, e tale “blindatura” non poteva che avvenire con
espresse deroghe, da un lato, al regime successorio e, da un altro lato, alla disciplina
generale dei contratti; oltre che con il ricorso al meccanismo delle A.D.R..
Non sembra perciò si possa parlare di norma inutile, a proposito della previsione
dell’annullamento per vizi della volontà, trovando essa la sua ragion d’essere proprio in
quanto si è appena visto a proposito della eccezionalità del tipo contrattuale introdotto
nell’ordinamento mediante il patto di famiglia.
Parlare di vizi del consenso in relazione al patto di famiglia significa
innanzitutto toccare il tema della eventuale coesistenza di tali elementi soggettivi con
due aspetti peculiari alla dimensione formale del contratto stipulato per rogito notarile.
i) Un primo aspetto è quello che attiene alla specifica efficacia probatoria
dell’atto pubblico. Che è una efficacia probatoria privilegiata, nel senso, già accennato e
ben noto, per cui esso –come dispone l’art. 2700 cod. civ.- fa piena prova fino a querela
di falso, ma limitatamente agli atti compiuti dal pubblico ufficiale e ai fatti che questi
attesti essere avvenuti alla sua presenza (laddove, all’opposto, l’atto pubblico non prova
la veridicità ed esattezza delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale dalle parti,
dichiarazioni le quali, pertanto, possono essere contrastate con tutti i mezzi di prova
consentiti dalla legge, senza che occorra proporre querela di falso).
Ne consegue che la querela di falso è necessaria tutte le volte in cui si voglia
impugnare la verità intrinseca di un atto, rogato da un notaio con le richieste formalità,
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
per contestare l’attestazione del pubblico ufficiale sulle dichiarazioni che gli sono state
rese, quando si intenda dimostrare non già che esista una divergenza fra la volontà
(negoziale) e la sua manifestazione al notaio, ma che esiste una divergenza tra le
dichiarazioni resegli dalle parti con il manifestare la loro volontà affinché fosse attestata
nell’atto pubblico, e le dichiarazioni -per contro- concretamente documentate.
Tutte le volte, viceversa, in cui si intenda sostenere che quanto risulta dall’atto
pubblico, pur corrispondendo alle dichiarazioni rese al notaio al momento della stipula
dell’atto pubblico, non corrisponde alla comune volontà delle parti o alla volontà di una
delle parti, si è del tutto fuori dall’istituto della querela di falso, e la fattispecie rientra,
nel primo caso, nell’ambito della disciplina della simulazione, e, nel secondo caso,
nell’ambito dei vizi del consenso.
E’ quindi possibile provare con ogni mezzo la non conformità al vero del
cosiddetto “intrinseco” del documento, ad esempio il prezzo indicato nell’atto,
l’eventuale simulazione, il carattere scherzoso della dichiarazione o la presenza –per
quel che qui interessa- di vizi del volere.
ii) Un secondo aspetto che connota in maniera particolare il documento notarile
tipico è quello per cui esso è rappresentativo del fatto consistente nella dichiarazione di
parte.
Si deve distinguere in proposito la categoria del fatto rappresentativo
(documento) da quella del fatto rappresentato (dichiarazione negoziale).
Ad essa corrisponde sul piano soggettivo la distinzione tra autore del documento
–che può considerarsi soltanto il notaio- e autore della dichiarazione negoziale –che
invece è soltanto la parte.
Ora, nel procedimento di formazione del documento, e nella ricezione quindi
dell’atto negoziale, il notaio non compie una operazione meramente passiva, essendo
viceversa suo compito quello di indagare la volontà delle parti, come testualmente
dispone l’art. 47 ultimo capoverso della legge notarile.
L’attività interpretativa si rivolge, certo, in confronto della espressione esteriore
della dichiarazione, non nei confronti di una volontà rimasta di fatto interiore. Ma non è
affatto in contrasto con tale ovvia considerazione vedere nella volontà l’oggetto finale
dell’indagine interpretativa da parte del notaio.
Pertanto, a questi compete di interpretare il contegno e le dichiarazioni delle
parti, al fine di cogliere esattamente il loro intento pratico; intento che, una volta
inquadrato puntualmente nella causa negoziale che gli è propria, egli deve tradurre in
termini tecnici adeguati, ossia tali da meritare quella tutela giuridica che sia pienamente
1
rispondente alle aspettative degli interessati.
1
E. BETTI, Interpretazione dell’atto notarile, in Riv. notariato, 1960, 1 ss.
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
2. L’errore
Posta la puntualizzazione che precede, una pur sintetica trattazione
sull’applicabilità dei vizi del consenso al patto di famiglia deve prendere in esame, in
primo luogo, il caso dell’errore-motivo.
Io qui ne farò menzione per sommi capi, dando naturalmente per scontata la
conoscenza dei principi che si ricavano in materia dalle dottrine generali del diritto
civile.
Intanto il patto di famiglia, presupponendo che il beneficiario o i beneficiari
dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie siano legittimari del
disponente, integra un contratto che, dal lato soggettivo, è da considerarsi come
contratto plurilaterale “intuitu personae”.
Si è in presenza di un contratto di tal genere quando l’identità o le qualità
personali di uno dei contraenti sono determinanti del consenso dell’altro o degli altri
contraenti. In tal caso, la volontà considerata dalla legge è quella volta a concludere il
patto di famiglia con le tali persone, diversamente dal caso in cui la volontà fosse volta
comunque a concludere il tale contratto, essendo indifferente la persona dei contraenti.
Ora, potrebbe ben ipotizzarsi un errore sulla persona dell’uno o dell’altro dei
diversi soggetti partecipanti all’atto. Penso al caso di una cessione aziendale ad un
figlio, o nipote, delle cui qualità soggettive di imprenditore il cedente fosse convinto,
mentre invece lo stesso fosse stato appena dichiarato fallito.
E’ forse più verosimile che un errore essenziale e riconoscibile si annidi nel
contratto successivo e collegato al patto [o meglio: integrativo del primo]: cfr. art. 768
quater, 3° comma, perché a tale contratto successivo è prevista la partecipazione anche
di soggetti che vanno a sostituire coloro che furono parte del patto originario.
In questa situazione non solo la persona fisica del legittimario ha importanza, ma
essa è addirittura determinante del consenso, in quanto non si sarebbe concluso il
contratto con quella persona, se non si fosse caduti in errore sulla sua identità o sulla sua
qualità personale di legittimario.
L’errore rientra qui nella previsione di cui all’art. 1429, n. 2, cod. civ..
L’identità della persona è essenziale, il più delle volte, nelle donazioni. A
maggior ragione lo è qui, in cui la legittimazione al patto e al contratto successivo in
tanto sussiste, in quanto si sia dotati della specifica condizione personale, appunto, di
legittimario del soggetto disponente.2
2
F. GALGANO, Il negozio giuridico, Milano, 2002, distingue opportunamente fra contratto
personale e contratto intuitu personae. Il contratto è personale quando siffatto carattere riveste la
stessa alternativa se concludere o non concludere il contratto; si è in presenza di un contratto
intuitu personae, invece, quando l’identità o le qualità personali di uno dei contraenti sono
determinati del consenso dell’altro o degli altri contraenti.
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
Naturalmente, l’errore deve essere riconoscibile da parte degli altri partecipanti
al contratto
Un altro caso di errore essenziale, nella specie, può essere quello che cade sul
bene-azienda oggetto della cessione al discendente- beneficiario. Si può ipotizzare, ad
esempio, che al momento del trasferimento l’azienda non versasse in condizioni di
buona salute economico-finanziaria, bensì in stato di crisi; e questo magari quando
invece il cedente avesse promesso (ancorché implicitamente) la floridezza della struttura
aziendale, ovvero quando un determinato livello di operatività e di qualità della stessa
fossero dati per presupposti dalle parti.
In tal caso si avrebbe un errore per mancanza di qualità, tale da essere
ricompreso anch’esso nel dettato dell’art. 1429, n. 2 (o anche rientrare nell’errore
sull’oggetto, pure previsto alternativamente dalla norma in parola).
Ma è più facile che l’errore possa cadere in punto ad una possibile, elevata
sperequazione tra il valore dell’azienda, da un lato, e quello , da un altro lato, degli
importi in denaro o dei beni attribuiti in natura agli altri partecipanti non assegnatari.
Con la conseguenza che, per errore, il disponente creda essere il valore
dell’azienda di gran lunga superiore a quello effettivo, così danneggiando,
inconsapevolmente, l’assegnatario dell’azienda stessa rispetto agli altri legittimari;
oppure che, per errore, il disponente la consideri dotata di un pregio inferiore rispetto a
quello reale, così avvantaggiando gli altri legittimari, che per ottenere beni o denaro
corrispondenti alle loro quote di legittima si vedrebbero locupletati di una maggior
quantità di beni o di denaro.
Ora, è vero che l’errore sul valore in sé viene considerato, in linea di principio,
come irrilevante dalla giurisprudenza. L’errore sul valore –si dice infatti- non riguarda
la qualità della cosa, ma la convenienza economica del contratto: ed è chiaro che non ci
si possa rivolgere al giudice per porre rimedio ad un cattivo affare.
E’ altrettanto vero, però, che nel caso della cennata notevole sperequazione nei
valori economici dell’azienda, ovvero delle partecipazioni societarie attribuiti al
discendente beneficiario, in rapporto alla liquidazione in denaro o con assegnazione in
natura ai semplici legittimari, tale sperequazione può facilmente ridondare in errore
sulla qualità. Specie tenuto conto di quanto appena detto a proposito dello squilibrio
economico fra l’azienda ceduta e le compensazioni, per cui, in caso di ritenuta non
rilevanza di un siffatto errore, verrebbe pregiudicata, a sua volta, la consistenza stessa
delle quote ereditarie che sono riservate in base agli artt. 536 e seguenti cod. civ. ai
legittimari.
Ed è un dato testuale non sottovalutabile quello per cui la legge esige che l’entità
della somma pagata sia esattamente corrispondente al valore delle quote previste dagli
articoli 536 e seguenti.
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
A tale proposito un peculiare caso di errore sulla qualità del bene, che potrebbe
formare oggetto della liquidazione in natura, e che in altra fattispecie contrattuale è stato
ritenuto come essenziale perché determinante del consenso, è quello relativo alla
alienazione di un terreno nella erronea convinzione si trattasse di suolo agricolo,
anziché edificabile.
Con una importante pronuncia diretta a comporre un precedente contrasto di
giurisprudenza, la Corte di Cassazione, a Sezioni unite (è la sentenza n. 5900, del 1°
luglio 19973), ha stabilito: a) che è configurabile un errore, invalidante il contratto di
compravendita di un terreno, nel caso di vendita di tale terreno nella falsa convinzione
della sua natura rustica, anziché edificatoria; b) che sussiste errore essenziale anche nel
caso in cui il venditore abbia ignorato che al fondo, sebbene non edificabile al momento
della stipulazione del contratto, era stata tuttavia attribuita natura edificatoria dal piano
regolatore (o da una sua variante), già adottato dal consiglio comunale, ma ancora in
corso di approvazione da parte della giunta comunale.
I passaggi logici su cui si regge tale decisione sono i seguenti: i) l’errore in un
contratto sul valore dell’immobile non è essenziale ai fini dell’annullamento del
contratto stesso; ii) non è per contro errore sul valore, ma sulla natura ovvero sulla
qualità del terreno l’errore per il quale i contraenti abbiano ritenuto agricolo o con
destinazione a scopi pubblici un fondo che era, invece, edificabile; iii) quello
considerato è un errore di fatto e non di diritto, perché cade sulla inesatta conoscenza
dell’edificabilità del suolo; iv) l’errore sulla natura del terreno sussiste anche se lo
strumento urbanistico che ne preveda l’edificabilità (e quindi il mutamento di
destinazione, da fondo agricolo a suolo edificabile) sia stato soltanto adottato, e manchi
ancora la sua approvazione definitiva; v) l’essenzialità dell’errore è data dal fatto che un
terreno avente il requisito dell’edificabilità per lo strumento urbanistico anche solo
adottato costituisce, secondo il comune apprezzamento, un bene di qualità diversa e una
entità economicamente distinta dal bene che di tale requisito sia privo; vi) per la
rilevanza dell’errore, come causa di annullamento del contratto, occorre, oltre alla
essenzialità, la sua riconoscibilità, la quale presuppone che una persona di normale
diligenza avrebbe potuto rilevarlo, in relazione alle circostanze del contratto e alla
qualità dei contraenti.
La fattispecie sembra si possa trasporre nell’ambito del patto di famiglia.
In detto ambito, è logico ritenere che all’azione di annullamento di una cessione
–realizzata al fine di liquidare la quota ereditaria ad un legittimario- di un fondo
edificabile nella falsa convinzione (essenziale e riconoscibile) che si tratti di terreno
agricolo, sia legittimato il soggetto cedente, e ciò stante l’evidente minor valore di
mercato che, per effetto di tale suo errore, egli ha inevitabilmente attribuito
all’immobile. Quindi occorrerà, per evitare l’annullabilità della cessione in oggetto,
3
La decisione è pubblicata in Giust. civ. 1997, I, p. 2424 ss. con nota di M. A.
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
ricalcolare in aumento il valore di mercato del fondo ceduto, e procedervi mediante lo
strumento della rettifica prevista dall’art. 1432 cod. civ..
3. Il dolo
Diverso è ancora il caso in cui ad indurre i contraenti del patto di famiglia in
errore sia stato, con artifici o raggiri, uno di essi, o, questi essendo consapevole, un
terzo. Il patto di famiglia sarebbe, in tal caso, annullabile per dolo, a norma dell’art.
1439 cod. civ..
Dall’errore vizio del consenso il dolo si differenzia, come noto, per la specifica
causa che ha provocato l’errore: qui, un contraente è indotto in errore dai raggiri usati
dall’altro contraente, oppure da un terzo.
In breve, l’ordinamento ci ricorda che se i raggiri sono stati determinanti del
consenso, ossia tali che, senza di essi, la parte non si sarebbe determinata a contrarre
(dolo determinante), il contratto è annullabile: art. 1439, comma 1°. Se invece, la parte
avrebbe ugualmente contrattato, ma a condizioni diverse (dolo incidente), il contratto è
valido, e l’altro contraente deve risarcire il danno sofferto: art. 1440.
Quanto al raggiro del terzo, per comportare l’annullamento del contratto, si
richiede che esso sia noto -e non semplicemente riconoscibile- al contraente che ne ha
tratto vantaggio: art. 1439, comma 2°.
Allora, una circostanza che potrebbe eventualmente venire ad incidere nel
quadro del patto di famiglia è quella del discendente che si renda beneficiario
dell’attribuzione dell’azienda munendosi di documentazione che provenga da un terzo
compiacente e che attesti, falsamente, la sua qualità di imprenditore solvibile.
Certo, gli stretti legami familiari e di parentela che intercorrono fra i soggetti del
patto di famiglia parrebbero far presumere una non sommaria conoscenza da parte di
ciascuno di essi circa l’effettiva situazione personale ed economica in cui
reciprocamente si versi.
E tuttavia, non sembra fuori dai confini della realtà l’ipotesi di chi, figlio o
nipote dell’imprenditore cedente, e magari a sua volta imprenditore in proprio,
nell’intento di creare le condizioni che inducano a trasferire l’azienda o il pacchetto di
azioni a proprio beneficio, non solo taccia intenzionalmente di avere commesso
operazioni o speculazioni gravemente sbagliate o, peggio ancora, di essere incorso in un
improvviso crollo finanziario; ma si serva finanche di falsi documenti contabili, redatti
dal compiacente responsabile della propria amministrazione aziendale, al solo scopo di
falsamente decantare le sue qualità di imprenditore abile e competente.
Non sembra escluso neppure il caso che sia magari il genitore cedente ad essere
interessato a sbarazzarsi di una impresa decotta, falsamente occultando le perdite
sociali, o il fatto che le azioni non valgano nulla. (Questa, però, mi sembra una
situazione limite, davvero in contrasto con la ratio del patto di famiglia, e con l’intento
socialmente apprezzabile di voler salvaguardare la propria azienda favorendone il
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
passaggio generazionale. Ma, ripeto, in dati contesti -specie pensando a vicende in cui
vi sia un uomo d’affari, magari debilitato o in età avanzata, il quale voglia rapidamente
disfarsi di una azienda in crisi- la possibilità di un inganno del genere da parte del
cedente non sembra aprioristicamente da escludere.)
Il più delle volte, quindi, il raggiro diretto a trarre in inganno l’altro contraente
consiste in un comportamento commissivo (come, quello, appunto, di mentirgli con il
rappresentare come veri fatti falsi od occultando fatti veri, purché la menzogna sia
idonea ad indurlo in errore).
Dagli esempi fatti prima emerge, però, anche l’eventualità che un contraente sia
indotto in errore da un contegno meramente omissivo: è il caso, che si è visto, del
discendente il quale taccia deliberatamente di aver subito un improvviso crac
finanziario, e non voglia perdere l’opportunità di mettere le mani sull’azienda del
genitore o del padre di questi.
Egli non fa nulla per occultare, agli occhi dell’ascendente, il sopraggiunto
dissesto; semplicemente si limita a tacerlo.
Nel dolo omissivo viene in gioco il dovere di informazione, come specificazione
del più generale dovere di correttezza e di buona fede.4
La reticenza è rilevante se esista un obbligo di informare la parte in errore. Ora,
in via di principio, l’obbligo di informare non fa carico ad un soggetto estraneo al
contratto, e che non sia legato ad essi da uno speciale rapporto (quale è certamente
quello della stretta consanguineità, che è uno dei presupposti del patto di famiglia).
Con la conseguenza che, almeno in linea di massima (salvo quanto si dirà subito
infra), il dolo del terzo non potrebbe essere dolo omissivo.5
Tra i contraenti, invece, il legislatore impone obblighi di lealtà, il primo dei quali
vuole che, nello svolgimento delle trattative, essi debbano comportarsi secondo buona
fede (art. 1337). E questo, a sua volta, impone un reciproco dovere di informazione sulle
circostanze che ciascuna parte può ritenere determinanti per il consenso dell’altra.
E la piena attuazione del disposto dell’art. 1337 vuole che le parti debbano
“illuminarsi a vicenda [il richiamo è a Sacco, op. loc. citati in nota] quando
concretamente scoprono l’errore altrui; e la presenza di tale dovere sarebbe sufficiente
per imputare il consenso dell’errante alla controparte, che, avendo riconosciuto
l’errore, ha taciuto” (ibidem).
Personalmente, però, credo che il patto di famiglia, per il suo speciale carattere
di contratto fiduciario, per la sua natura di atto di liberalità, e per la rigorosa
delimitazione dei soggetti a quelli legati dai più stretti vincoli familiari, esiga di
4
Dovere di correttezza e di buona fede ex art. 1337 che debbono necessariamente sussistere
anche nella formazione del contratto di donazione. Cfr. L. GARDANI CONTURSI-LISI, Delle
donazioni, in Comm. Scialoja-Branca, 1976, p. 243.
5
R. SACCO, Il dolo, in Trattato di dir. priv. diretto da Rescigno, 2002, vol. X, p. 229.
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PATTI DI FAMIGLIA
considerare come rilevante –e passibile di azione di annullamento del patto, se sia stato
determinante del consenso- pure il dolo omissivo proveniente dal terzo.
4. La violenza
Mi limiterò a ricordare che la violenza di cui si parla come vizio del consenso,
comportante l’annullabilità del contratto, è la violenza morale: ossia quella che consiste
nell’estorcere il consenso di un soggetto con la minaccia che, se non consentirà, egli
subirà un male nella persona o nei suoi beni, oppure nella persona o nei beni dei suoi
familiari (art. 1427).
Qui di particolare vi è da dire che esiste una quasi perfetta equiparazione, sotto il
profilo soggettivo, tra le persone nei cui confronti il male minacciato deve dirigersi, per
essere rilevante, e le persone coinvolte nel patto di famiglia.
Oltre che nei confronti della persona o dei beni del soggetto contraente, infatti, la
violenza morale è causa di annullamento del contratto se riguarda il coniuge, gli
ascendenti e, per quel che più direttamente qui interessa, i discendenti (figli e nipoti). In
una parola, se riguarda le persone [eccettuati gli ascendenti] cui si riferisce il patto di
famiglia.
Qualora riguardi invece i parenti in via collaterale, l’annullamento del contratto
è rimesso alla prudente valutazione del giudice, che terrà conto delle circostanze del
caso concreto (art. 1436).
Tipico il caso: “Uccideremo tua suocera” (?)
Il male minacciato, dice la legge, “deve essere di tale natura da fare impressione
sopra una persona sensata”, e il male che ne è l’oggetto deve essere “notevole”. Inoltre,
la violenza, come i raggiri del dolo, può provenire da un terzo (art. 1434). Ma qui, a
differenza che per il dolo, non occorre che la violenza del terzo sia nota al contraente il
quale (anche inconsapevolmente) ne abbia tratto vantaggio.
Rimandando alle trattazioni di carattere istituzionale sul vizio della violenza,
potrebbe qui accennarsi ad un caso che è stato prospettato con riferimento alle persone
dei legittimari –che (ripeto) sono equiparati, come vittime della violenza, al soggetto
contraente.
In dottrina, dunque, è stata prospettata l’ipotesi della minaccia di suicidio, e ci si
è chiesto se essa possa considerarsi violenza in senso proprio, almeno quando provenga
da uno dei soggetti di cui all’art. 1436 comma 1° cod. civ..
Si potrebbe pensare al caso di un figlio, il quale, per indurre il padre a cedergli
l’azienda mediante il patto di famiglia, minacci di togliersi la vita.
Vi è dibattito in proposito, Accanto a chi nega che tale minaccia integri violenza,
vi sono autori di segno opposto, i quali dicono: è vero che il suicidio non può essere
considerato fatto antigiuridico, nel senso specifico di un fatto che sia colpito da una
sanzione. E tuttavia esso, se pure sottratto alla sanzione, è munito di un fondamentale
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
carattere di antigiuridicità, che è capace di riemergere in sede di applicazione dell’art.
1436.6
5. Il termine dell’anno per l’esercizio dell’azione
Il comma 2° dell’art. 768quinquies fissa un termine particolarmente breve per la
prescrizione dell’azione di annullamento del patto di famiglia per vizio del consenso: un
anno.
Secondo taluno, addirittura è in funzione di tale specifica limitazione temporale
–un anno soltanto, in luogo del termine ordinario di cinque anni previsto per l’azione di
annullamento dall’art. 1442 cod. civ.- che sarebbe stato introdotto tutto l’art.
768quinquies.
Questa opinione va registrata senza che peraltro essa incida significativamente
nell’interpretazione dell’articolo in rassegna.
In ogni modo, è palese che l’intera disciplina legale sia ispirata a rafforzare
l’intangibilità degli accordi presi in forza del patto di famiglia: questo, avuto riguardo
alla considerazione che il patto è sottratto alle azioni di riduzione e alla collazione;
questo vale pure con riferimento alla stabilità ed incontrovertibilità del valore attribuito
a quanto assegnato anche nei confronti dei legittimari successivi; e questo vale, infine,
con riguardo alla limitazione del termine dell’impugnativa.
Il termine è in significativa sintonia con l’identico termine di un anno stabilito
dall’art. 184, comma 2°, cod. civ., per l’azione di annullamento, da parte del coniuge
che non ha prestato il consenso, dell’atto con cui l’altro coniuge abbia disposto di un
bene della comunione legale. Anche nella fattispecie dell’art. 184 il termine è
considerato come di prescrizione, andando a sostituire anche in tal caso quello
quinquennale previsto in via generale dall’art. 1442.
Il che offre il destro per una osservazione ulteriore. La giurisprudenza che si è
occupata dell’azione di annullamento di atti compiuti senza il consenso dell’altro
coniuge ha tenuto a sottolineare che la regola di cui all’art. 184 è speciale rispetto alla
regola generale di cui all’art. 1442 anche in relazione al disposto del 4° e ultimo comma
dell’art. 1442, sulla imprescrittibilità della eccezione.7
Ne consegue che non è applicabile, neppure analogicamente, alla materia della
comunione legale tra coniugi il principio quae temporalia ad agendum perpetua ad
excipiendum, recepito appunto dalla regola generale.
6
R. SACCO, op. cit., pag. 240.
In altre parole, secondo la regola generale la prescrizione riguarda l’azione, non l’eccezione;
l’annullamento non può essere domandato se sono trascorsi cinque anni, ma può essere eccepito
anche dopo che siano trascorsi se solo allora l’altra parte chieda l’esecuzione del contratto. Cfr.
GALGANO, op. cit., pag. 343.
La regola speciale di cui al patto di famiglia, invece, sembra interpretabile per la prescrizione in
entrambe le circostanze.
7
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
Se così è, a mio avviso gli stessi principi –per identità di ragioni- devono valere
nel nostro caso: per cui anche il termine per l’impugnativa del patto di famiglia di cui
all’art. 768 quinquies dovrebbe ritenersi comunque “bloccato”, tanto in via di azione
che in via di eccezione, sulla sola durata di un anno.
Rimangono, viceversa, utilizzabili –in assenza di una diversa norma speciale sul
punto- i criteri fissati dal 2° comma dell’art. 1442, secondo il quale, trattandosi di
annullabilità per vizio del consenso, il termine decorre dal momento della scoperta
dell’errore o del dolo, o dalla cessazione della violenza. Naturalmente spetta a chi
agisce l’onere di provare che la scoperta dell’errore o del dolo o la cessazione della
violenza sono successive alla conclusione del patto di famiglia.
6. L’impugnazione prevista dall’art. 768 sexies, comma 2°
Un cenno fugace all’art. 768 sexies, comma 2°, il quale prevede che
l’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione
ai sensi dell’art. 768 quinquies.
L’interpretazione di tale norma è apparsa subito problematica ai primi
commentatori.
Secondo taluno, ai vizi del consenso viene ad aggiungersi, quale causa di
annullamento del patto di famiglia, il mancato rispetto delle disposizioni di cui all’art.
768 sexies in tema di liquidazione dei diritti dei legittimari che non abbiano partecipato
al patto di famiglia.
E si è così argomentato: la norma si riferisce ai legittimari sopravvenuti dopo la
conclusione del patto di famiglia e che tali sono al momento dell’apertura della
successione (ad esempio, il coniuge sposato dopo la stipula del patto; il figlio nato
successivamente al patto). Apertasi la successione, il legittimario sopravvenuto può
chiedere all’assegnatario dell’impresa la liquidazione della quota di legittima ed il
pagamento degli interessi legali. In caso di rifiuto, può chiedere l’annullamento entro il
termine breve di un anno.
In altre parole, al fine di assicurare “la massima stabilità all’acquisto
dell’azienda”, ed “una successione non aleatoria [nell’azienda] a favore di uno o più
dei propri discendenti”, il legislatore ha limitato la possibilità di rimettere in
discussione il patto –oltre che nel caso di errore, violenza o dolo ex art. 768 quinquiesstabilendo un breve termine di prescrizione, alle seguenti condizioni:
a)
si può solo chiedere il pagamento di una somma di denaro, oltre agli
interessi legali;
b)
tale somma può essere richiesta solo dal coniuge o dagli altri legittimari,
che non hanno partecipato al patto;
c)
solo in caso di inosservanza di tale obbligo, i citati legittimari possono
impugnare il patto, entro un anno.
Questa è una delle linee di pensiero più seguite.
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
Altra opinione vuole invece che l’inciso “inosservanza delle disposizioni” non
sia equivalente ad “inadempimento di obblighi (quale sarebbe il mancato pagamento del
dovuto) e che lo stesso si riferisca invece a diversa ipotesi, al caso cioè di mancato
funzionamento del sistema previsto dal 2° comma dell’art. 768 quater di cui fa
menzione
la proposizione immediatamente precedente; mancato funzionamento dovuto a
vizi funzionali del patto, quale potrebbe essere l’imprecisione dell’aspetto valutativo.
(Quella imprecisione, di cui ho parlato sopra, quale segno di una falsa rappresentazione
della realtà per errore o dolo, oppure segno di violenza subita dal dichiarante).
7. Il tentativo di conciliazione
Da ultimo, va segnalata la disposizione dell’art. 768 octies che impone il ricorso,
in via preliminare, a uno degli organismi di conciliazione stragiudiziale previsti dall’art.
38 del d.lgs. n. 5 del 2003 (rito societario), per dirimere le controversie sul patto.
Qui mi pare sia sorto un equivoco in alcuni dei primi commenti. Si è sostenuto,
cioè, che alla luce della sentenza della Corte costituzionale 8 giugno 2005 n. 221, la
previsione ora richiamata meriti di essere interpretata non nel senso di un “dovere
preliminare”, che rischia di appesantire inutilmente la tutela, ma di mera facoltà.
L’equivoco è evidente.
La Consulta ha dichiarato illegittimo il ricorso all’arbitrato obbligatorio per
legge in quanto precludente l’accesso all’azione in giudizio. Altra cosa è invece
garantire la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla giurisdizione ordinaria.
E, come nel rito del lavoro il tentativo di conciliazione è previsto ed è anzi
diventato obbligatorio in base al d. lgs. n. 80/1998 (per cui il suo avvio –
indipendentemente dall’esito- costituisce un presupposto di procedibilità), così il
preventivo espletamento del tentativo di conciliazione nel patto di famiglia non sembra
soffrire più censure di quante non ne meriti lo stesso strumento applicato nelle cause di
lavoro. Con i possibili, positivi risvolti in termini di deflazione del contenzioso.
Sarà opportuno tuttavia vedere alla prova pratica come funzioneranno i
meccanismi conciliativi propri del rito societario.
Il tentativo di conciliazione può essere previsto anche in via convenzionale
mediante l’inserimento di una specifica clausola nell’atto pubblico contenente il patto di
famiglia. Secondo quanto stabilito dal comma 6° dell’art. 40 d. lgs. 5/2003, il
preventivo esperimento del tentativo di conciliazione stabilito dal contratto costituisce
(come nel rito del lavoro) una condizione di procedibilità dell’azione; talché la parte
può agire in giudizio anche prima della proposizione dell’istanza di conciliazione, ma il
processo deve essere temporaneamente sospeso in attesa dell’instaurazione del
procedimento di conciliazione.
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RELAZIONI A CONVEGNI
PATTI DI FAMIGLIA
Fin qui le mie osservazioni. La parola d’ora in avanti spetterà al diritto vivente e
alle sue multiformi applicazioni.
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SEGNALAZIONI
DIRITTO COMMERCIALE
SEGNALAZIONI DI DIRITTO
COMMERCIALE
LEGISLAZIONE
Conti annuali e consolidati - E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 260 del 6
novembre scorso il decreto legislativo n. 173 del 3 novembre 2008, che dispone il
recepimento della Direttiva 2006/46/CE in materia di conti annuali e consolidati.
Con il decreto in esame, il legislatore interviene per rendere conforme l’ordinamento
interno alle disposizioni della Direttiva.
INDICAZIONI INTERPRETATIVE E APPLICATIVE
OIC
Distribuibilità di utili e riserve - In data 5 novembre u.s. il Consiglio di Gestione
dell'OIC ha approvato la bozza per commenti della Guida operativa sulla disciplina
della distribuibilità di utili e riserve ai sensi del D.Lgs. 28 febbraio 2005, n° 38.
CONSOB/BANCA D’ITALIA
Accordo in materia di provvedimenti autorizzativi – In attuazione del Protocollo
d’intesa del 31 ottobre 2007 in materia di coordinamento delle funzioni di vigilanza, la
Consob e la Banca d’Italia hanno siglato il 7 novembre 2008 un accordo per il
coordinamento delle procedure per l’emanazione dei provvedimenti autorizzativi per i
quali il Testo Unico della finanza prevede il rilascio di pareri. L’accordo è finalizzato
alla riduzione degli oneri in capo agli intermediari e riguarda le autorizzazioni relative a
Sim e altre imprese di investimento, Sgr, Sicav e all’offerta in Italia di Oicr non
armonizzati.
Il testo è disponibile per la lettura sul sito: www.consob.it
ISVAP
Albo dei gruppi assicurativi – Mediante apposito comunicato del 13 novembre,
l’ISVAP ha comunicato la pubblicazione online dell’Albo dei gruppi assicurativi
italiani. Per ciascun gruppo, è data indicazione dell’impresa capogruppo, delle imprese
assicurative, riassicurative e strumentali, italiane ed estere che vi fanno parte.
L’istituzione dell’Albo era prevista dal Codice delle Assicurazioni nonché dal
Regolamento ISVAP n. 15 al fine di garantire ai terzi maggiore trasparenza in ordine
alla composizione dei gruppi assicurativi.
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SEGNALAZIONI
DIRITTO COMMERCIALE
Il
testo
è
disponibile
per
la
lettura
sul
sito:
http://www.isvap.it/isvap/imprese_jsp/PageComunicatiDetail.jsp?mostraSezione=si&ite
m_id=629110&nomeSezione=&folderName=
GIURISPRUDENZA
Società di fatto – La Cassazione, con sentenza 29 ottobre 2008, n. 25995, è intervenuta
a decidere un caso di azienda in crisi e di società di fatto costituita per cercare di
rimetterla in sesto. Dopo poco tempo, entrambe vengono dichiarate fallite. La
Cassazione ha statuito che l’autonomia strutturale della società di fatto rispetto ad una
impresa in difficoltà non può servire a negare l’estensione della procedura fallimentare
ai soci della società di fatto, siano essi finanziatori indiretti (ossia soci che hanno
prestato garanzie fideiussorie alla banca) o finanziatori diretti (ossia soci che hanno
agito come amministratori di fatto).
La sentenza è pubblicata in Diritto e Giustizi@ del 14.11.2008, La mera autonomia
della società di fatto non basta a salvare i finanziatori occulti dal fallimento.
Conflitto di interessi del socio – Il Tribunale di Bari, con sentenza 20 ottobre 2008, n.
2392, ha precisato i presupposti di applicazione dell’art. 2373 c.c. chiarendo che “non è
necessario che il contrasto riguardi una posizione personale del socio con l’interesse
della società, essendo sufficiente che esso dipenda da un confronto dell’interesse della
società con un interesse altrui, anche non dei soci, ma relativo a terzi, di cui però i soci
si fanno portatori in assemblea, o che in rappresentanza dei medesimi soci partecipano
all’assemblea della società”.
La sentenza è pubblicata in Diritto e Giustizi@ dell’8 novembre 2008, Conflitto di
interessi in società: non è necessario che il contrasto riguardi una posizione personale
del socio.
Danno morale - La Cassazione, con sentenza 2 luglio 2008, n. 18153, ha stabilito che il
danno non patrimoniale, che può conseguire alla violazione del diritto alla ragionevole
durata del processo previsto dalla legge 89/2001, va riconosciuto anche alle persone
giuridiche.
La sentenza è pubblicata in Diritto e Giustizi@ del 4 novembre 2008, Processi lumaca:
il danno morale va riconosciuto anche alle persone giuridiche.
OSSERVATORIO COMUNITARIO
Piano italiano di misure straordinarie a favore delle banche - Il 13 novembre 2008
la Commissione europea ha approvato, ai sensi delle norme in materia di aiuti di Stato
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SEGNALAZIONI
DIRITTO COMMERCIALE
contenute nel Trattato, il piano italiano di misure straordinarie e sostegno delle banche
in crisi. Le misure approvate sono quelle contenute nel decreto-legge 13 ottobre 2008, n.
157 e nella bozza del regolamento di attuazione.
Il decreto-legge n. 157 prevede:
- la concessione da parte del Ministero dell’economia e delle finanze della garanzia
dello Stato, a condizioni di mercato, sulle nuove passività emesse dalle banche italiane,
con scadenza a cinque anni;
-operazioni di scambio temporaneo di titoli di Stato con strumenti finanziari detenuti o
emessi da banche italiane, a condizioni di mercato;
-una garanzia statale per le banche a favore di terzi per l’ottenimento di prestiti di titoli
di qualità elevata a loro volta utilizzati dalle banche per ottenere rifinanziamenti
nell’Eurosistema, sempre a condizioni di mercato.
Marchi d’impresa - È stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’UE L 299 dell’8
novembre 2008 la direttiva 2008/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22
ottobre, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi
d’impresa. Essa rappresenta la versione codificata della precedente direttiva in materia,
n. 89/104/CEE del 21 dicembre 1988 del Consiglio, e delle modifiche ad essa apportate,
in particolare dalla decisione 92/10/CEE del Consiglio del 10 dicembre 1991.
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SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
SEGNALAZIONI DI DIRITTO
TRIBUTARIO
LEGISLAZIONE
Sistema creditizio - Nuove misure per il finanziamento delle banche
È in vigore dal 13 ottobre il decreto legge recante ulteriori misure urgenti volte a
facilitare il finanziamento delle banche italiane.
(D.L. 13/10/2008, n. 157, G.U. 13/10/2008, n. 240)
Principi contabili internazionali - IAS 39: dall'UE via libera alla riforma
La Commissione europea ha approvato i cambiamenti all'applicazione dello IAS 39 per
riclassificare parte degli strumenti finanziari di banche ed imprese.
(Regolamento Commissione UE 15/10/2008, n. 1004/2008, G.U.U.E. 16/10/2008, n.
L275)
Agevolazioni alle imprese - Aggiornato il tasso per le operazioni di
attualizzazione/rivalutazione
È stato pubblicato in G.U. il decreto che, con decorrenza 1° ottobre 2008, stabilisce che
il tasso da applicare per le operazioni di attualizzazione/rivalutazione ai fini della
concessione ed erogazione delle agevolazioni in favore delle imprese è pari al 6,36%.
(D.M. Ministero sviluppo economico 16/10/2008, G.U. 27/10/2008, n. 252)
GIURISPRUDENZA
Lotta all'elusione - No all'applicazione meccanica dell'abuso del diritto
La nozione di abuso del diritto può essere utilizzata nel contrasto all'elusione fiscale, ma
l'amministrazione finanziaria deve tenere presente che l'impiego di forme contrattuali o
organizzative che consentono minor carico fiscale rientra nella libertà di esercizio di
attività economica.
(Cassazione civile Sentenza 17/10/2008, n. 25374)
Accertamento - Sono prove valide la contabilità in nero e le dichiarazioni di chi la
detiene
Se la Guardia di Finanza rinviene contabilità in nero spetta al contribuente provare la
regolarità della propria posizione.
(Cassazione civile Sentenza 13/10/2008, n. 25104)
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SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
Accertamento - Nulla la cartella criptica e di difficile comprensione
La cartella di pagamento la cui lettura risulti criptica e di difficile comprensione viola i
diritti del contribuente ed è passibile di annullamento.
(Commissione tributaria provinciale Torino, Sentenza 25/09/2008, n. 42/14/08)
Agriturismo - Requisiti per il riconoscimento delle agevolazioni fiscali
L'attività di ricezione ed ospitalità è agrituristica quando esercitata da un imprenditore
agricolo, in un rapporto di connessione e complementarità con l'attività propriamente
agricola, che deve comunque restare principale rispetto all'altra.
(Cassazione civile Sentenza 02/10/2008, n. 24430)
Accertamento induttivo - Rilevano cifre e nomi nei conti in nero
La contabilità parallela, anche se incompleta, costituisce un valido elemento indiziario,
dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
(Cassazione civile Sentenza 13/10/2008, n. 25101)
Accertamento induttivo - Non può basarsi solo sulla bassa percentuale di ricarico
È illegittima l'adozione del metodo induttivo di accertamento basato unicamente sullo
scostamento della percentuale di ricarico da quella media di settore.
(Cassazione civile Ordinanza 15/10/2008, n. 25200)
Debiti tributari - Paga anche la società cancellata dal registro delle imprese
Il Fisco può esigere i pagamenti dalla società cancellata dal registro delle imprese. La
Corte di Cassazione ha affermato che l'Amministrazione finanziaria può far valere la
pretesa direttamente verso la società e notificare l'atto al soggetto che la rappresentava
prima della cancellazione. Il caso di specie riguardava una cartella di pagamento
relativa alla mancata corresponsione di una rata del condono presentato sulla base della
legge n. 413/1991 da una società nel frattempo liquidata. Secondo la Corte la sua
cancellazione dal registro delle imprese non determina l'estinzione della società se sono
ancora pendenti rapporti giuridici o contestazioni giudiziali.
(Cassazione civile Sentenza 20/10/2008, n. 25472)
Evasione fiscale - Il condono non salva gli amministratori
Gli amministratori sono punibili per evasione fiscale anche se dopo il rinvio a giudizio
si è perfezionata la procedura di condono avanzata dalla società. Lo ha stabilito la Terza
Sezione Penale della Corte di Cassazione, sottolineando che le pronunce non definitive
del giudice tributario non vincolano il giudice penale, e quelle definitive possono solo
essere prese in considerazione in dibattimento. La decisione della Commissione
tributaria circa l'ammissibilità della domanda di condono presentata dalla società va
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SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
tenuta separata dalla questione della punibilità dei singoli amministratori per condotta
illecita.
(Cassazione penale Sentenza 21/10/2008, n. 39358)
Imposte sui redditi - Base imponibile: contano anche le perdite realizzate in
diverso Stato UE
I redditi negativi relativi ad un'abitazione situata nello Stato membro di residenza
devono essere presi in considerazione ai fini della determinazione della base dei redditi
imponibili nello Stato membro di occupazione.
(Corte Giust. CE Sentenza 16/10/2008, n. C-527/06)
IVA - Imposta dovuta anche per operazioni inesistenti
Una società emittente fatture è tenuta al versamento dell'IVA in esse indicata,
indipendentemente dal fatto che l'abbia effettivamente incassata dalle acquirenti; così
come è obbligata a presentare la relativa dichiarazione annuale.
(Cassazione penale Sentenza, Sez. III, 20/10/2008, n. 39177)
INDICAZIONI INTERPRETATIVE E APPLICATIVE
IVA - Ribaltamento dei costi senza reverse charge
Il reverse charge non opera nel rapporto tra la società consortile e le società consorziate
in sede di ribaltamento dei costi e degli oneri dalla prima sostenuti nell'ambito
dell'esecuzione materiale dei lavori edili oggetto del contratto di appalto.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 10/10/2008, n. 380/E)
CFC - Tassazione per trasparenza anche se la partecipazione è indiretta
La normativa CFC opera anche se il collegamento con una società estera avviene
tramite trust non discrezionali.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 23/10/2008, n. 400/E)
CFC - Controllata svizzera con attività estero su estero
Non può disapplicarsi la disciplina CFC relativamente ai redditi conseguiti dalla società
controllata con sede in Svizzera.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 10/11/2008, n. 427/E)
Fondi pensione - Trattamento fiscale del "riscatto"
Il trattamento fiscale del riscatto della posizione individuale maturata presso il Fondo
pensione varia in base al periodo di maturazione dei montanti.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 22/10/2008, n. 399/E)
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SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
Affitto d'azienda - I valori fiscali seguono il locatario
In caso di affitto di ramo d'azienda l'affittuario si sostituisce nelle posizioni fiscali del
concedente: pertanto i valori fiscali di crediti e dei beni di magazzino trasferiti rilevano
ai fini della determinazione del suo reddito d'impresa.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 05/11/2008, n. 424/E)
Società di capitali - Cessione di partecipazioni: calcolo della plusvalenza
La S.r.l. che cede la partecipazione detenuta in una S.a.s. può determinarne il costo
fiscale secondo le modalità di calcolo previste per i redditi diversi di natura finanziaria.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 22/10/2008, n. 398/E)
Reddito d'impresa - Deducibili le erogazioni liberali alle ONLUS benefiche
Sono deducibili le erogazioni liberali effettuate a favore di ONLUS che effettuano
prestazioni erogative al Fondo speciale di solidarietà sociale.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 24/10/2008, n. 401/E)
Conferimenti - Ai fini IVA il leasing è come la proprietà
I conferimenti di immobili prevalentemente locati in fondi immobiliari chiusi sono
esclusi dal campo di applicazione IVA indipendentemente dal titolo giuridico in base al
quale sono stati acquisiti.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 20/10/2008, n. 389/E)
Immobili strumentali per natura - La cessione all'ente pubblico sconta l'IVA
ordinaria
Alla cessione di un immobile strumentale nei confronti di un ente pubblico, che non ha
acquisito tale bene nell'esercizio d'impresa, si applica l'IVA con aliquota del 20%.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 20/10/2008, n. 393/E)
Manovra d'estate - La nuova disciplina dei fondi immobiliari
L'Agenzia delle Entrate interpreta le nuove regole in materia di tassazione dei fondi
immobiliari familiari, con particolare riferimento all'aumento della ritenuta dal 12,50%
al 20%.
(Circolare Agenzia delle Entrate 03/11/2008, n. 61/E)
Redditi diversi - La costituzione del diritto di servitù genera plusvalenza
Concorre a formare la base imponibile IRPEF e costituisce plusvalenza il corrispettivo
percepito dal proprietario (da meno di 5 anni) di un fondo rustico per la costituzione
volontaria del diritto di servitù di passaggio.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 10/10/2008, n. 379/E)
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SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
Trust - Se la tassazione è per trasparenza il reddito nasce in capo ai soci
La tassazione per trasparenza di un trust presuppone che il reddito sia immediatamente e
originariamente riferibile ai beneficiari. La riferibilità immediata dei redditi ai
beneficiari esclude che vi sia discrezionalità alcuna in capo al trustee sull'eventuale
imputazione ai beneficiari stessi.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 05/11/2008, n. 425/E)
Antitrust - La deducibilità degli interessi passivi discrimina le aziende private
L'antitrust boccia il regime di deducibilità fiscale degli interessi passivi previsto dalla
finanziaria 2008.
(Segnalazione 15/10/2008, n. AS473)
Cessione d'azienda - Estinzione del dante causa: adempimenti IVA
In caso di cessione di azienda con estinzione del dante causa, il cessionario ha l'obbligo
di assolvere a tutti gli adempimenti IVA successivi alla data di cessione.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 31/10/2008, n. 417/E)
Redditi di fonte estera - Convenzione Italia-Jugoslavia
I redditi attribuiti dalla Repubblica slovena non sono soggetti ad imposta di successione
perchè non rispettano il requisito territoriale richiesto dalla legge italiana.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 31/10/2008, n. 412/
Disposizioni antielusione - Obbligo di comunicazione del realizzo di minusvalenze
Chi realizza minusvalenze di ammontare complessivo superiore ai cinque milioni di
euro a seguito di cessioni di partecipazioni costituenti immobilizzazioni finanziarie è
obbligato a darne comunicazione all'Agenzia delle Entrate, anche quando si tratta di
operazioni equiparabili.
(Risoluzione Agenzia delle Entrate 05/11/2008, n. 420/E)
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N.
22/2008
91
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