UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TERAMO Facoltà di Scienze della Comunicazione Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione Anno Accademico 2013/14 Comunicazione Teatrale prof. Fabrizio Deriu ----------------------- IL MATERIALE VERBALE NELLO SPETTACOLO (elaborato a partire da: - B. Tomasevskij, Teoria della letteratura, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 211-221; ed. orig. 1928) - A. Cascetta, L. Peja (a cura di), Ingresso a teatro, Firenze, Le Lettere, 2003) La parola, ovvero il linguaggio verbale, è uno degli elementi costitutivi di un racconto espresso in una delle possibili forme spettacolari (teatro, film, fiction televisiva, ecc.). Nel caso di quel genere di spettacolo convenzionalmente identificato nella storia della cultura occidentale come “teatro” la componente verbale è l’elemento che, a scapito degli altri, ha avuto la ventura di conservarsi nel tempo, al di là dell’accadere dello spettacolo (la performance) grazie alla tecnologia della scrittura. Per questo motivo a lungo negli studi teatrali il testo è stato considerato il materiale essenziale del teatro, e perciò a lungo gli studi teatrali sono stati considerati soltanto come un ramo degli studi letterari. Ma lo spettacolo è fatto artistico ben diverso dalla letteratura (se non altro perché vi entra in gioco una pluralità di materie espressive, che interagiscono l’una con l’altra). Tuttavia, una volta affidato al supporto scritturale, il materiale verbale proveniente dal teatro può essere considerato come “letteratura drammatica”. La caratteristica fondamentale della letteratura drammatica sta nel fatto che deve prestarsi all’interpretazione scenica, trattandosi di parola destinata alla recitazione nello spettacolo teatrale, e non alla lettura. Ne deriva la chiara impossibilità di uno studio delle opere e dei testi drammatici del tutto separato da quello delle condizioni della loro concreta realizzazione teatrale. Da qui la costante dipendenza delle sue forme da quelle della messa in scena: leggendo un testo teatrale occorre sempre immaginare la situazione scenica e le numerose esigenze poste dalla trasposizione del materiale verbale in elemento dell’azione (movimenti dei personaggi, uso dello spazio, tempi, ritmi, pause, ecc.). Può essere dunque assai utile distinguere testo drammatico e testo drammaturgico. Con testo drammatico (spesso abbreviato in TD, o più precisamente TLD: testo letterario drammatico) si intende il materiale verbale di un’opera drammatica così come si presenta sulla carta (o su un diverso supporto scritturale: oggi, ad esempio, lo schermo del computer), con una sua relativa autonomia “letteraria”. Il testo drammaturgico designa invece il materiale verbale elaborato per l’esecuzione scenica, integrato cioè ad un piano di azioni (qualcosa di non lontano, ma non del tutto coincidente con ciò che si chiama comunemente regìa). Il testo drammatico corrisponde in qualche modo a quella cosa spesso chiamata, nel gergo teatrale, copione (che è un oggetto materiale); il testo drammaturgico rappresenta invece, piuttosto, una partitura, uno schema di azioni (una dimensione meno materiale del copione, ma che implica un “saper fare” da parte dell’attore); per identificare questa dimensione, che è costitutiva di ogni spettacolo teatrale, si può fare ricorso alla nozione di script (nella terminologia cinematografica anglosassone il vocabolo significa “sceneggiatura” e “copione”, ma in un senso per così dire più attivo che implica appunto il “piano di azioni” connesso alle parole da recitare). La messa in scena dello spettacolo è costituita dalla recitazione degli attori e dall’organizzazione dello spazio scenico (gli arredi, lo scenario, gli elementi della scenografia). La recitazione è fatta di discorsi e di azioni o movimenti. I discorsi recitati in scena si dividono in monologhi e dialoghi. Monologo si chiama il discorso di un attore in assenza degli altri personaggi, cioè un discorso non diretto a nessuno. Nella prassi teatrale, però, si chiama così anche un discorso ampio e coerente, pur se pronunciato in presenza di altre persone e diretto a qualcuno. In questi monologhi si hanno effusioni di sentimenti, narrazioni, sermoni sentenziosi ecc. Il dialogo è uno scambio di parole fra due attori: esso contiene domande e risposte, discussioni ecc. Mentre il monologo con destinatario (cioè pronunciato in presenza di altri personaggi) in qualche misura fa sempre astrazione dalla personalità dell'ascoltatore ed è in genere diretto non a una, ma a piu persone, il dialogo si basa sullo scontro diretto fra due interlocutori. Il concetto di dialogo si estende anche alla conversazione incrociata, di tre o piu persone, tipica del dramma piu recente. Nel vecchio dramma era coltivato in prevalenza il dialogo puro, e cioè, appunto, la conversazione fra due persone. I discorsi più o meno brevi degli interlocutori, che costituiscono il dialogo, si chiamano repliche. Una replica estesa confina già col monologo, poiché un discorso senza interruzioni presuppone un ascoltatore passivo, che ascolta solamente, e la struttura del discorso si avvicina a quella del monologo, cioè del discorso in cui il tema viene sviluppato in modo autonomo, e non attraverso l'incrociarsi dei motivi proposti dagli interlocutori che prendono parte al dialogo. I dialoghi sono accompagnati dalla recitazione, cioè da determinati movimenti. Ogni volta che si profferisce un discorso, questo è accompagnato dalla mimica, cioè da un certo giuoco dei muscoli facciali, in armonia (o in contrasto) col contenuto emotivo di ciò che si declama. La mimica del volto è accompagnata dalla gestualità, vale a dire dal movimento delle mani, del capo, di tutto il corpo, in corrispondenza di analoghi momenti emotivi del discorso. Questa mimica espressiva può essere talora un equivalente (un sostituto) del discorso: ad esempio, determinati movimenti del capo e delle braccia possono esprimere, senza bisogno di parole, affermazione, negazione, consenso, disaccordo, moti dell'animo e cosi via. Si può costruire un'intera rappresentazione teatrale sulla sola mimica (pantomima). Il testo drammatico di un'opera di questo tipo può essere composto completato dalle didascalie, indicazioni sceniche che suggeriscono al direttore dello spettacolo (il regista) e/o agli attori quali mezzi scenici ed espressivi vadano impiegati nella realizzazione dello spettacolo e nella recitazione degli attori. Fra le didascalie, bisogna appunto distinguere quelle relative allo scenario e all'ambientazione, e quelle che riguardano la recitazione e suggeriscono le azioni, i gesti e la mimica dei singoli personaggi. In molti testi drammatici, e spesso in interi generi o nella produzione letteraria teatrale di intere epoche, non vi sono didascalie esplicite (ad esempio nei testi conservatici dalla tradizione relativi alle tragedie greche). Colui che legge il testo è perciò invitato a cogliere quelle che si possono definire didascalie implicite, ovvero indicazioni relative alle azioni da associare a quelle parole, che sono in qualche modo contenute o nascoste nelle parole stesse pronunciate dai personaggi. Queste indicazioni possono riguardare le intonazioni della battuta, la prosodia, il ritmo dell’eloquio, così come la mimica, la gestualità, il ritmo e il “tono” dei movimenti nello spazio scenico, ecc. Nell'interesse della rappresentazione è necessaria una partizione del materiale. Nel teatro moderno (quello che ricomincia la sua storia nel Rinascimento e giunge sino ai nostri giorni) le grandi parti dell'opera drammatica sono generalmente chiamate atti. L'atto è la parte dell'opera che viene recitata sulla scena senza interruzione, senza soluzione di continuità. Gli atti sono separati da pause nello spettacolo: gli intervalli. La divisione in atti è dovuta a diversi motivi. In primo luogo, l'atto è un'unità che trova un limite in un fatto psicologico: la capacità di concentrazione dello spettatore. Un atto che duri circa 30-40 minuti soddisfa più o meno questa condizione. Può poi esserci la necessità tecnica di una pausa nello spettacolo, ad esempio per cambiare la scena o per consentire agli attori di cambiare il costume. Ma vi sono anche, anzi soprattutto, considerazioni tematiche: ogni atto contiene un'unità tematica più o meno conclusa. A seconda di determinate esigenze drammaturgiche l’atto può essere suddiviso in parti, che allora si chiamano quadri o scene. Non esiste un confine netto, sostanziale, fra "quadri" e "atti”; la differenza è puramente tecnica e varia di genere in genere e di epoca in epoca (di solito, l'intervallo fra i quadri è breve, e gli spettatori non si allontanano dai loro posti). All'interno dell’atto, si ha in ogni caso una suddivisione basata sulle entrate e sulle uscite del personaggi. La parte in cui i personaggi in scena non cambiano si chiama presenza (ma a volte, ad esempio in Goldoni, anche scena: questo termine ha dunque un duplice significato, che talora equivale a presenza, talvolta a quadro). Le presenze si dividono in battute.