La scoperta dell’esistenza 1. Riflessioni su Kierkegaard (1813-1855) e l’antihegelismo 2. Esistenzialismo Patrizia Manganaro Storia della Filosofia Contemporanea - PUL Il paradosso e la passione del pensiero per l’infinito Il centro dell’opera di K. è da ricercarsi nel vincolo di passione e pensiero, che spinge la ragione ad oltrepassare se stessa e i suoi limiti. Pochi hanno sentito come lui la “divina mania” della ricerca, profonda, irrinunciabile e incontentabile, e forse nessuno tra i contemporanei ha denunciato con maggior forza le sofisticazioni della dialettica hegeliana, con i suoi giochi astrattamente intellettuali. Nello stesso senso, K. può però dirsi l’opposto anche del pensiero soltanto contemplativo, inteso come il «coincidere di un centro sopra un centro» (Plotino, Enneadi VI, 9, 10), ossia come lo scomparire di ogni alterità del contemplante nella quiete del contemplato. Infatti, la fede è lotta, pathos, inquietudine. Qual è il significato di una ragione “patica”? L’uomo “serio”- La verità “seria” La scienza è vanità La verità dimora nell’inquietudine, nella coscienza vigile della propria inadeguatezza, nel rapporto eccentrico tra la propria individualità finita, patica, sofferente, e l’infinità di Dio. Ne La malattia mortale (1849), K. scrive: «La preoccupazione è il rapporto con la vita, con la realtà della personalità, e perciò cristianamente parlando, la serietà, l’elevatezza indifferente della scienza, dal punto di vista cristiano, lungi dall’essere più seria, è uno scherzo, anzi è vanità». Perciò è una semplificazione interpretare la sua filosofia come un’abdicazione del pensiero e/o il suo risolversi nella fede. La sua consistenza più salda risiede invece nella ricerca di una verità che edifica. Una verità “seria”. Perché la verità “seria” non è “oggettiva”? Quale rapporto tra razionale, irrazionale, pre-razionale, extrarazionale, sopra-razionale per pensare la trascendenza? La verità “sofferente” del Cristianesimo In una nota del Diario del 1847 si legge: «Tutta la confusione dei tempi moderni consiste nell’aver abolito l’abisso immenso della differenza qualitativa tra Dio e l’uomo». Ristabilire questa differenza e viverla nella concretezza dell’esperienza religiosa significa per K. recuperare il senso autentico dell’uomo, la verità della sua finitezza. Come già per Pascal, anche per K. l’uomo non si comprende, né si salva, se non entro la verità sofferente del Cristianesimo. Nella sua polemica antispeculativa, il punto di vista mantenuto è quello della comprensione della vita interiore quale metodo di un comportamento lucido verso l’esistenza: la propria esistenza individuale, singolare. Il filosofo “speculativo” finisce con l’alienarsi dalla propria individualità esistente Hegel si è avventurato in uno sforzo grandioso, destinato però al fallimento. Il risultato della sua opera è stato per K. la prova manifesta della non traducibilità del pensiero esistenziale nel movimento dialettico dei concetti. Lo svilupparsi di questi nella totalità conclusa del sistema lascia fuori di sé, inevitabilmente, la meraviglia e il rischio, il paradosso e l’impegno dell’esistenza come riflessione interiore, in prospettiva singolare e temporale. Nel processo dialettico, il filosofo finisce con l’alienarsi dalla propria individualità di esistente, è caricatura di se stesso, contraffazione di quanto c’è di singolare,di qualitativo, di umano nella sua personalità. Il sistema è la maschera comica di un “povero uomo esistente”, travagliato dalla miseria della sua vita. Il “Conosci te stesso” come giornale intimo ■ ■ ■ ■ ■ Colui che ha preteso di collocarsi nel/dal punto di vista di Dio, ha finito col dimenticarsi di se medesimo. Hegel vuole parlare in nome dell’Assoluto, ma si lascia sfuggire l’oggetto proprio e reale che può essere effettivamente dato: l’esistente individuale. Il destino della filosofia sistematica è l’alienazione dalle condizioni reali del pensatore soggettivo e insieme il suo isolamento da un rapporto diretto con le cose e il mondo. K. non entra nel merito del sistema e delle sue giustificazioni interne; la prospettiva dalla quale lo giudica non è tanto quella della sua verità o falsità, quanto della sua non importanza e non incisività ai fini di un comportamento lucido, consapevole, verso l’esistenza. La filosofia è il giornale intimo dell’avventura irripetibile con la quale ciascuno decide o no la propria autenticità. Il “fatto” di essere cristiano: un’autobiografia “teologica” La riflessione autobiografica di K. si trova inscritta in un contesto di dati che trascendono la soggettività del sentimento, perché costituiscono per lui il “fatto assoluto” e perennemente contemporaneo della storia, e cioè quell’incontro dell’eternità con il tempo che è stato ed è il Cristianesimo, la Rivelazione di Dio in Cristo. Il “fatto” di essere cristiano è il dato centrale della sua propria esistenza, una qualificazione reale dell’esperienza che non ha bisogno di dimostrazioni: dell’Assoluto non si possono dare ragioni, perché la verità cristiana è piuttosto da testimoniare, conformando ad essa la propria esistenza, aderendo alla volontà di un Altro. Colui che non si mette in rapporto nel modo dell’abbandono assoluto, non si mette in rapporto con Dio. La testimonianza: quale forma di verità e di razionalità? La verità è la soggettività: il volto Che la verità sia la soggettività non è da intendersi secondo l’equivoco romantico, che la interpreta come abolizione dell’assoluto nell’arbitrio dell’individualità estetica (artista, poeta) o nella violenza della passione eroica (genio). Piuttosto, l’assoluto è la vicenda individuale religiosamente assunta, è il rapporto del Singolo, in quanto “uomo comune”, con Dio (non in quanto uomo in generale o individuo della “specie umana”, ma semplicemente ed essenzialmente: il volto). Nel suo porsi di fronte a Dio, il Singolo non può fingere, né mascherarsi, né ingannare: il Cristianesimo è la verità “dalla parte di Dio”, e non “dalla parte dell’uomo”, cioè esige una spoliazione radicale di ogni segno della grandezza umana, una riduzione dell’anima alla disponibilità assoluta, un ritorno della coscienza alla semplicità originaria. Una verità “dalla parte di Dio” è una verità “seria”, senza maschera. Sconfinamento della filosofia nella teologia? Il sacrificio della ragione La verità come privazione La serietà dell’uomo religioso «Per nuotare, ci si spoglia nudi: per aspirare alla verità, bisogna spogliarsi in un senso più intimo, bisogna svestirsi di un vestimento molto più interiore di pensieri, di idee, di egoismo e cose simili, prima di poter diventare nudi abbastanza». (K., Diario) Il Diario di K. non è il libro segreto di un’anima solitaria e sentimentale, ma la storia lucida della “prova” del Cristianesimo nella vita di un uomo. Il suo valore sta nel vincere la tentazione romantica ed estetica con la serietà dell’uomo religioso, che si pone di fronte a Dio e si confessa, volto a Volto. «Se dopo la mia morte si volesse pubblicare il mio Diario, si potrebbe mettere questo titolo: “Libro del giudice”». Testimonianza e confessione In una nota dell’aprile 1849 del Diario, K. riconosce di essere ìmpari e inadeguato al compito di testimoniare la verità: «Non avendo le forze di lasciarmi uccidere per la verità, diventerò un poeta e un pensatore; sono nato per questo, ma in rapporto al Cristianesimo e all’ideale di essere cristiano. Posso forse fare qualche sacrificio nelle cose piccole, ma essenzialmente mi rapporto a testimoniare la verità umilmente, cioè confessando che nel senso più rigoroso io non sono un testimone della verità. Questa confessione è per me la pura verità, ma il fatto che è la verità produce in me un dolore che è proprio la situazione del poeta rispetto all’opera, così come lo è quella di un pensatore. K., Diario (segue) Come nel canto di un poeta risuona il sospiro del suo amore infelice, così in tutto il mio entusiastico discorso sull’ideale cristiano, risuona il sospiro: “Ahimè, io non lo sono; io non sono che un poeta e un pensatore cristiano”». Confessione e testimonianza: la verità “tragica” del cristiano Dizionario Filosofico - Esistenzialismo Esistenzialismo. Indirizzo filosofico contemporaneo che assume a proprio tema specifico l’esistenza come modo di essere caratteristico dell’uomo, e la rivendica contro ogni riduzione dell’esistente a “cosa” (a possibile “oggetto” di trattazione scientifico-oggettiva) e contro ogni inclusione del singolo negli schemi di filosofie totalizzanti, quale fu eminentemente l’idealismo hegeliano; contro Hegel per l’appunto si esercitò la polemica di Kierkegaard, il cui pensiero fu ripreso dai più significativi esponenti della filosofia esistenziale del Novecento. Nel quadro della ripresa di Kierkegaard nel Novecento, e del crescente interesse per una filosofia dell’esistenza (Existenzphilosophie), la tematizzazione dell’esistenza Esistenzialismo (segue) ha trovato un importante approfondimento in K. Jaspers e, almeno sino a “Essere e tempo” (1927), in M. Heidegger. Più generica e soltanto in parte dipendente dall’Existenzphilosophie tedesca, è la tematizzazione dell’esistenzialismo filosofico e letterario nella Francia degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento (J.P. Sartre e G. Marcel). L’eredità di Kierkegaard. Ciò che definisce inizialmente l’esistenzialismo è proprio la ripresa del pensiero di K. Nella sua polemica contro ogni filosofia accademica e totalizzante, egli avanzava l’esigenza di accentuare l’esistenza, cioè di abbandonare ogni pretesa speculativa, “colpo d’occhio” esterno e disinteressato sul mondo, partendo invece dalla concretezza della situazione Esistenzialismo (segue) ontologica di ogni singolo e quindi anche del pensatore stesso. I motivi fondamentali ripresi nel Novecento sono: la problematicità dell’esistenza, il pathos della scelta, l’aut-aut, l’angoscia, la disperazione, la finitudine. L’accentuazione dell’esistenza in K. è finalizzata a un discorso religioso e comporta alcune conseguenze teoretiche, esplicitate nella Postilla conclusiva non scientifica del 1846: se l’esistenza non è mai oggetto esterno, passibile di una considerazione disinteressata, ma è invece il nostro modo d’essere, il filosofo che voglia partire dall’esistenza si trova in una sorta di coinvolgimento ontologico: il tema del suo discorso e la situazione dalla quale questo è affrontato coincidono, ovvero egli è messo direttamente in questione, nella questione che lui stesso pone. Per tale motivo, l’unica categoria che Esistenzialismo (segue) può approcciare il tema dell’esistenza è quella della possibilità. Nella Germania del primo dopoguerra si assiste a una rinascita dell’interesse per K., in particolare da parte della teologia (K. Barth, Lettera ai romani, 1919). I motivi più propriamente filosofici di K. rivivono in Jaspers (Filosofia, 1923), che tra gli esistenzialisti è il più vicino al filosofo danese. Jaspers sottolinea sino alle estreme conseguenze il carattere sfuggente dell’esistenza come tema filosofico: l’esistenza è, e rimane, l’immediatezza inoggettivabile e irriducibile del singolo, trascenderla risulta impossibile e la sola cifra nella quale la trascendenza si rivela è lo scacco che l’uomo subisce nel tentativo di raggiungerla. Esistenzialismo (segue) L’esistenzialismo tra ontologia e umanismo. L’esistenzialismo del ‘900 non è solo una ripresa di temi kierkegaardiani: esso ha il suo testo fondamentale in “Essere e tempo” di Heidegger, in cui sono presenti altre ascendenze filosofiche (lo storicismo di Dilthey e la fenomenologia di Husserl). Il problema dell’essere, in quanto problema posto da un ente determinato, cioè dall’uomo o esserci (Da-sein), presuppone secondo Heidegger l’analisi preliminare del modo d’essere di quell’ente che noi stessi siamo, ossia dell’esistenza. Ci si trova così in una situazione “circolare” piuttosto simile a quella esperita da Kierkegaard, con la differenza, però, che qui il circolo del coinvolgimento ontologico non è solo interno al singolo esistente, giacché entra in gioco come Esistenzialismo (segue) momento determinante un altro termine, l’essere, e ciò già indica la direzione che prenderà il pensiero di Heidegger dopo l’analitica esistenziale, da lui intesa d’altronde soltanto come propedeutica per la ripresa, nella contemporaneità, del problema dell’essere. Tuttavia, proprio la lettura esistenzialistica di “Essere e tempo” come filosofia della radicale finitudine dell’uomo e dell’assunzione di questa finitudine in “lucida angoscia” ha fornito, non senza equivoci teoretici, il tono all’esistenzialismo vero e proprio, in particolare a quello di J.-P. Sartre, che torna ad alcuni elementi dell’umanismo e del soggettivismo di tipo cartesiano ed hegeliano. A tale fraintendimento Heidegger controbatte con la “Lettera sull’umanismo del 1947”, ribadendo il discorso ontologico quale unica alternativa al razionalismo metafisico.