Università degli Studi di Catania Facoltà di Giurisprudenza Umberto Carabelli e Vito Leccese L’attuazione delle direttive sull’orario di lavoro tra vincoli comunitari e costituzionali WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” N. 38/2004 2004 © Umberto Carabelli e Vito Leccese Facoltà di Scienze politiche e Facoltà di Giurisprudenza – Università di Bari [email protected] - [email protected] ISSN – 1594-817X Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Massimo D’Antona” Via Crociferi, 81 – 95124 Catania (Italy) Tel: + + 39 095 230464 – Fax: + +39 095 313145 [email protected] www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/presentazione 1 L’attuazione delle direttive sull’orario di lavoro tra vincoli comunitari e costituzionali* Umberto Carabelli e Vito Leccese Università di Bari 1. Il d.lgs. n. 66 del 2003: un approdo definitivo o solo transitorio nella marcia per il recepimento delle direttive comunitarie in materia di orario di lavoro?..................................................... 2 1.1 Sui profili di contrasto tra la nuova disciplina interna e la regolamentazione comunitaria ............................................. 3 1.2 Segue. La questione della clausola di non regresso ............ 8 2. Sui problemi di legittimità costituzionale della nuova disciplina16 2.1. Sul potenziale contrasto con l’art. 36, co. 2°, Cost...........18 2.2. Sul potenziale contrasto con l’art. 36, co. 3°, Cost...........27 2.3. Sul potenziale contrasto con l’art. 76 Cost. .....................31 2.4. Sul potenziale contrasto con l’art. 39, Cost. ....................33 * Il saggio è destinato agli Scritti in Memoria di Salvatore Hernandez WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 2 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE 1. Il d.lgs. n. 66 del 2003: un approdo definitivo o solo transitorio nella marcia per il recepimento delle direttive comunitarie in materia di orario di lavoro? È forse ancora presto per dire se la lunga marcia verso l’attuazione della normativa comunitaria in materia di orario di lavoro si sia o meno conclusa in modo definitivo con l’emanazione del d.lgs. n. 66/1993, con cui - in virtù della delega conferita ad opera della l. n. 39/2002 (Legge comunitaria 2001) - è stata data «organica» trasposizione alla direttiva n. 93/104/Ce (come modificata dalla direttiva n. 2000/34/Ce), ora «codificata» con la direttiva n. 2003/88/Ce del 4 novembre 2003, la quale entrerà in vigore il 2 agosto 2004. Questo, probabilmente, è da ritenere il convincimento del Governo in carica, pur se va segnalato, da un lato, che entro un anno dall’entrata in vigore del decreto si svolgerà una verifica - tra il Ministro del lavoro (nonché quello della Funzione pubblica, per quanto attiene ai pubblici dipendenti) e le organizzazioni datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative - la quale avrà ad oggetto lo «stato di attuazione» della nuova disciplina nella contrattazione collettiva1; dall’altro, che - ai sensi della legge delega - entro il medesimo termine il Governo potrà emanare decreti integrativi e correttivi2. Inoltre, un intervento nella materia sarà comunque necessario per dare attuazione ad altre direttive - la n. 1999/63/Ce (orario di lavoro della gente di mare) e n. 2000/79/Ce (orario di lavoro del personale di volo nell’aviazione civile) - il cui recepimento, nonostante la delega contenuta nell’art. 22 della l. n. 39/2002, non è stato realizzato con il d.lgs. n. 663, tanto che, a tal fine, è stata disposta una nuova delega ad opera della l. n. 306/2003 (Legge comunitaria 2003). Di certo, non si può dire che quel convincimento sia del tutto condiviso in dottrina: già in alcuni dei primi commenti al decreto, infatti, non si è mancato di rilevare la presenza di profili di contrasto della nuova normativa sull’orario con quella comunitaria, che evidentemente, ove effettivamente esistenti, potrebbero implicare rilevanti effetti sul piano tanto del diritto comunitario che del diritto interno. Ed è specificamente da questi profili che è opportuno partire, dedicando ad essi la prima parte di questo studio. 1 2 3 Art. 19, co. 1°, d.lgs. n. 66. Art. 1, co. 4°, l. n. 39/2002. Cfr. art. 2, co. 1°, d.lgs. n. 66. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 3 1.1 Sui profili di contrasto tra la nuova disciplina interna e la regolamentazione comunitaria In realtà, che il provvedimento attuativo della direttiva potesse manifestare problemi di contrasto con la normativa da questa dettata era forse prevedibile, in quanto, nel corso della tortuosa strada seguita per giungere ad esso, erano stati segnalati da più parti i rischi di potenziali conflitti tra la normativa interna di attuazione che si andava delineando e quella comunitaria. A questo riguardo merita di essere ricordato che, ai sensi della legge delega, la normativa delegata avrebbe dovuto attenersi, da un lato, a taluni principi e criteri direttivi di carattere generale valevoli per tutte le deleghe legislative in essa previste, tra i quali venivano espressamente richiamati «quelli contenuti nelle direttive da attuare» (v. l’esordio dell’art. 2, co. 1°, l. n. 39/2003, alla cui lett. f) si specificava, altresì, che il Governo avrebbe dovuto assicurare «in ogni caso» la piena conformità della disciplina delegata con le «prescrizioni delle direttive medesime»); dall’altro, anche ad ulteriori e più specifici principi e criteri direttivi, tra cui, in particolare, «la recezione dei criteri di attuazione di cui all’Avviso comune sottoscritto dalle parti sociali il 2.11.1997» (art. 22). Tale Avviso comune costituiva, com’è noto, un’intesa intersindacale non dotata di efficacia normativa4 (e probabilmente nemmeno obbligatoria), con cui le parti firmatarie (Confindustria e Cgil, Cisl e Uil) avevano inviato al Governo un messaggio comune, chiaro e formale sui contenuti della futura legge sull’orario da loro suggeriti. Ciò in coerenza sia con l’impegno, assunto dal Governo stesso nel Patto trilaterale per il lavoro del settembre 1996, di recepire appunto la direttiva «secondo quanto stabilito nella [futura] intesa tra le parti sociali», sia con quanto previsto, più in generale, dal successivo Patto sociale trilaterale per lo sviluppo e per l’occupazione del 1998, in cui era stato espressamente convenuto che «le intese tra le parti sociali costituiscono lo strumento prioritario affinché Governo e Parlamento adempiano agli obblighi comunitari, soprattutto in riferimento alle direttive che siano state emanate a seguito del dialogo sociale». 4 V., tra i tanti, PICCININI, FERRARI, Orario di lavoro ed esperienza sindacale, in Arg. dir. lav., 1998, 407; ICHINO, Il tempo di lavoro nell’Unione europea. direttiva comunitaria e tendenze degli ordinamenti nazionali, in Riv. it. dir. lav., 1998, I, 164; FERRANTE, Nuova disciplina dell’orario di lavoro, in Napoli M. (a cura di), Il «Pacchetto Treu». Commentario sistematico alla l. 196/1997, in Nuove leggi civ. comm., 1998, 1312; VALLEBONA, Lavoro straordinario e disoccupazione, in Dir. lav., 1999, I, 56; LECCESE, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale della persona, durata della prestazione e rapporto tra le fonti, Cacucci, Bari, 2001, 424; in senso diverso, SUPPIEJ, in SUPPIEJ, DE CRISTOFARO, CESTER, Diritto del lavoro. Il rapporto individuale, Cedam, Padova, 1998, 80 s. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 4 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE Ebbene, nei confronti dei contenuti dell’intesa intersindacale, da varie parti era stata ipotizzata la violazione di alcune norme della direttiva n. 93/104, evidenziandosi specialmente, da un lato, la mancata previsione, da parte dello stesso Avviso comune, di un limite massimo di durata settimanale della prestazione di lavoro - a fronte del limite di 48 ore previsto dalla normativa comunitaria, quantunque quale limite medio da calcolarsi su archi di tempo variabili (v. infra, par. 2.1) - e dall’altro l’arretramento di tutele che, sotto vari profili, la stessa intesa sanciva rispetto alla legislazione interna all’epoca vigente (la quale, invero, era già adeguata alle prescrizioni comunitarie sotto molti aspetti, per i quali non sarebbe stato dunque necessario nessun ritocco), e ciò in contrasto con il principio di non regresso previsto dalla medesima direttiva all’art. 18, par. 3 (ora art. 23, dir. n. 2003/88). Tale arretramento si manifestava con evidenza, in particolare, soprattutto nella proposta abrogazione di tutte «le disposizioni di legge che quantificano la durata massima normale della giornata di lavoro» e di quelle «sulla durata massima giornaliera e settimanale dello straordinario» (laddove è evidente che la salvezza delle disposizioni contrattuali vigenti, contestualmente richiesta dall’Avviso comune, non era di per sé sufficiente a soddisfare il vincolo comunitario di non regresso, data la notoria limitata efficacia soggettiva del contratto collettivo nel nostro ordinamento)5. Da alcuni autori (tra cui chi scrive) era stata così segnalata la necessità che, nonostante il rinvio effettuato dalla legge delega ai criteri di attuazione di cui all’Avviso comune, il Governo ovviasse accuratamente ai menzionati contrasti, attraverso un’accorta ed equilibrata normativa delegata di recezione che, nel rispetto del ruolo delle parti sociali, risultasse per quanto possibile conforme ai contenuti dell’intesa, ma che, al tempo stesso, li integrasse, o anche correggesse, ove richiesto dall’ineludibile esigenza di privilegiare i principi e criteri direttivi derivanti dalla disciplina comunitaria, tra cui il predetto principio di non regresso6 (ma sul punto si tornerà nel par. 1.2). In realtà, nonostante l’impegno profuso dal Governo nel cercare di evitare conflitti tra la normativa interna e quella comunitaria, con l’accantonamento o superamento delle previsioni dell’Avviso comune in 5 Per i vari profili, v. ICHINO, Il tempo di lavoro nell’Unione europea..., 166; LECCESE, L’orario di lavoro..., spec. 222 ss. e 424 ss.; ALLAMPRESE, Riduzione e flessibilità del tempo di lavoro. Quadro normativo e poteri individuali, Kluwer Ipsoa, Milano, 2003, 175 ss. 6 CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva e autonomia individuale nella disciplina dell’orario di lavoro in Italia, Rapporto sull’Italia presentato al Séminaire de recherche européen: Leçons d’une réduction de la durée du travail, Bordeaux, 5-6 dicembre 2002, in www. unicz.it/lavoro, par. 3.3. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 5 odor di violazione della direttiva (in particolare mediante l’introduzione, nell’art. 4 del decreto, del limite mobile delle 48 ore), la dottrina, già dai primi commenti del d.lgs. n. 66, ha comunque ritenuto - come s’è accennato - di poter individuare ulteriori profili di contrasto con la direttiva. Tra questi si possono segnalare, quanto meno e senza pretesa di esaustività, i seguenti: a) quanto alla disciplina dei lavoratori mobili7, va sottolineato che il decreto, all’art. 17, co. 6°, prevede la loro esclusione dalle tutele di cui agli artt. 7, 8, 9 e 138. Ebbene, la direttiva9, pur consentendo una simile esclusione, richiede che gli Stati membri adottino in ogni caso (fatte salve talune ipotesi tassativamente escluse dalla medesima direttiva10) «le misure necessarie per garantire che tali lavoratori mobili abbiano diritto a un riposo adeguato»11, cioè a quei «periodi di riposo regolari [...] lunghi e continui» che consentano di evitare che i lavoratori «a causa della stanchezza della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione del lavoro, causino lesioni a sé stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine»12. Al contrario, il legislatore delegato, pur introducendo la nozione di riposo adeguato13, ha omesso del tutto di prevedere che esso debba essere comunque garantito ai lavoratori mobili, limitandosi al mero (e ben più generico) richiamo del necessario rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori14. Anche se si potrebbe riconoscere che proprio 7 La cui definizione è contenuta nell’art. 1, co. 2°, lett. h) del d.lgs. n. 66. Si tratta delle disposizioni in materia di riposo giornaliero, pause, riposo settimanale e durata del lavoro notturno. 9 Cfr. art. 17-bis, dir. n. 93/104, introdotto dalla dir. n. 2000/34. 10 Le uniche eccezioni ammesse dall’art. 17-bis, par. 2, sono quelle relative alle circostanze previste dall’art. 17, par. 2, punto 2.2 della direttiva, che si riferisce ai casi di cui all’art. 5, par. 4, dir. 89/391/Ce (il quale prevede, a sua volta, che gli Stati membri possono escludere o diminuire la «responsabilità dei datori di lavoro per fatti dovuti a circostanze loro estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi eccezionali, le conseguenze dei quali sarebbero state comunque inevitabili, malgrado la diligenza osservata»), nonché ai casi di incidente o di rischio di incidente imminente. 11 Art. 17-bis cit., par. 2. 12 La definizione è contenuta nel n. 9 dell’art. 2, dir. n. 104, anch’esso introdotto dalla dir. n. 34. 13 V. l’art. 1, co. 2°, lett. l), d.lgs. n. 66, che ripropone pedissequamente la definizione comunitaria riportata in testo. 14 V., ancora, l’art. 17, co. 6°, d.lgs. n. 66. In proposito v. LECCESE, La nuova disciplina dell’orario di lavoro (d.lgs. n. 66/2003), in CURZIO (a cura di), Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, Cacucci, Bari, 2004, 218; RICCI G., Le deroghe alla disciplina in materia di riposo giornaliero, diritto alla pausa, lavoro notturno e durata ‘media’ della prestazione di lavoro, in LECCESE (a cura di), La riforma dell’orario di lavoro (titolo provvisorio), IPSOA, Milano, di prossima pubblicazione, par. VIII. 8 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 6 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE l’introduzione nel testo del d.lgs. della suddetta nozione di riposo adeguato possa consentire, pur in mancanza di un esplicito richiamo della medesima nel corpo del decreto, di effettuare un’interpretazione adeguatrice al dato comunitario, attribuendo uno specifico contenuto ai predetti più generici principi di tutela della sicurezza e della salute del lavoratore; b) per quanto attiene alla tutela dei lavoratori turnisti, la direttiva stabilisce che per costoro devono essere previste specifiche misure atte a garantire che anch’essi, al pari dei lavoratori notturni, beneficino «di un livello di protezione in materia di sicurezza e salute adattato alla natura del loro lavoro» e di «servizi o mezzi appropriati di prevenzione e protezione [...] equivalenti a quelli applicabili agli altri lavoratori e [...] disponibili in ogni momento»15. Nel decreto delegato, invece, una specifica disciplina in materia è limitata ai soli lavoratori notturni, mentre la definizione di «lavoro a turni» e di «lavoratore a turni»16 finisce per essere rilevante soprattutto al fine di stabilire l’ambito di operatività delle deroghe ammesse dal decreto, come già dalla direttiva17, rispetto al riposo settimanale18 e al riposo giornaliero19; c) in tema di durata massima della prestazione, l’art. 4, co. 1°, del decreto, nel rimettere ai contratti collettivi di lavoro il compito di fissare «la durata massima settimanale dell’orario di lavoro», viola l’art. 6, n. 1, della direttiva n. 93/104 (ora art. 6, lett. a), direttiva n. 2003/88), il 15 Art. 12, nn. 1 e 2, dir. n. 104. Art. 1, co. 2°, lett. f) e g), d.lgs. n. 66. 17 Art. 17, par. 2.3. 18 Art. 9, co. 2°, lett. a), d.lgs. n. 66. 19 Art. 17, co. 3°, lett. a) del medesimo decreto. Il tenore letterale di questa disposizione e di quella citata alla nota precedente contribuisce invece ad escludere un ulteriore profilo di violazione della direttiva, altrimenti derivante dalla definizione di «lavoro a turni» contenuta nel decreto. Ai sensi del citato art. 1, co. 2°, lett. f), infatti, tale lavoro consiste in «qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro anche (corsivo nostro) a squadre in base al quale dei lavoratori siano successivamente occupati negli stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso il ritmo rotativo, che può essere di tipo continuo o discontinuo, e il quale comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro a ore differenti su un periodo determinato di giorni o di settimane». Ebbene, con l’introduzione del termine «anche», assente nella corrispondente definizione contenuta nella direttiva (v. l’art. 2, par. 2, n. 5), si sarebbe determinato un ampliamento - contrastante con la direttiva medesima della sfera d’operatività delle deroghe menzionate in testo, se non fosse che - proprio nei citati artt. 9, co. 2°, lett. a) e 17, co. 3°, lett. a) del decreto - si prevede, quale ipotesi legittimante la deroga, solo quella in cui il lavoratore turnista «cambi squadra e non possa usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di quello della squadra successiva, di periodi di riposo» giornaliero ovvero settimanale. Insomma, lo specifico riferimento al cambio di squadra rende irrilevante, ai fini dell’applicazione delle deroghe, la previsione più ‘ampia’ dell’art. 1 (per poter cambiare squadra, infatti, il lavoratore turnista deve essere impegnato, appunto, a squadre!), alla quale è quindi difficile trovare una spiegazione. 16 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 7 quale stabilisce che gli Stati membri debbano provvedere affinché, in funzione degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, «la durata settimanale del lavoro sia limitata mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative oppure contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali» (corsivo nostro). Ebbene, com’è noto, la limitata efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune scaturente dalla mancata attuazione dell’art. 39, co. 2° ss., Cost. e dal principio di libertà sindacale (anche negativa) sancito dall’art. 39, co. 1°, Cost., impedisce al nostro legislatore ordinario di attribuire a quei contratti il compito di dare attuazione alle disposizioni di una direttiva, come pure è consentito dall’art. 137 del Trattato, oltre che dall’art. 18, par. 1, lett. a), dir. n. 93/104, ma a condizione che lo Stato membro adotti «le misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti da detta direttiva»20. A meno che non si voglia sostenere che, per la particolare natura del rinvio in questione alla contrattazione collettiva svolta da soggetti particolarmente qualificati (per effetto dell’art. 1, co. 2°, lett. m), d.lgs. n. 66, i contratti collettivi richiamati dall’art. 4, co. 1°, sono quelli stipulati «da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative»), ovvero per qualche altra caratteristica propria dei contratti collettivi investiti dal rinvio legislativo in questione, ovvero ancora per una pretesa proprietà intrinseca, di fondamento comunitario, dei contratti collettivi che, su rinvio della legge, danno attuazione alle norme di una direttiva comunitaria, ci si trovi dinnanzi a contratti collettivi che, senza violare l’art. 39 Cost. (prima e seconda parte), sarebbero in grado di esprimere un’efficacia generale. Tesi, queste, che chi scrive ritiene di non poter condividere, come si preciserà più avanti nella trattazione21; d) con riferimento a talune ipotesi derogatorie, il legislatore delegato ha omesso di imporre il rispetto delle ‘clausole di salvaguardia’ volute dalla direttiva. In primo luogo, l’eventuale elevazione da quattro a sei o, addirittura, a dodici mesi, ad opera dei contratti collettivi, del periodo di riferimento entro cui vanno rispettate, come media, le 48 ore complessive di lavoro settimanale (art. 4, co. 2°-4°, su cui si tornerà infra, par. 2.1), 20 D’altronde, quanto previsto dal Patto per l’occupazione del 1998, sopra richiamato, costituisce una soluzione ‘compromissoria’, politicamente ragionevole e soprattutto giuridicamente compatibile con l’assenza di un regime giuridico dei contratti collettivi in grado di assicurare loro efficacia generale. 21 Sia peraltro consentito rinviare, sin d’ora, a CARABELLI, LECCESE, Il sofferto rapporto tra legge e autonomia collettiva: spunti di riflessione dalla nuova disciplina dell’orario di lavoro (titolo provvisorio), di prossima pubblicazione in Dir. lav. rel. ind., 2004, nonché a LECCESE, L’orario di lavoro..., 421 ss. (con specifico riferimento all’efficacia soggettiva dei contratti collettivi che diano eventualmente attuazione a direttive comunitarie). WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 8 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE non è espressamente condizionata alla concessione di «periodi equivalenti di riposo compensativo» né è subordinata, per i casi eccezionali in cui tale concessione non sia possibile per motivi oggettivi, alla «condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata» (in tal senso dispone, invece, l’art. 17, par. 3, co. 3°, della direttiva con riferimento a tutte le deroghe introdotte dalla contrattazione collettiva); il decreto, infatti, impone il rispetto di tali condizioni solo con riferimento all’ipotesi in cui l’elevazione del periodo di riferimento sia disposta, nel limite di sei mesi, con d.m. (cfr. il combinato disposto dell’art. 17, co. 2° e co. 4°, il quale reca le suddette clausole di salvaguardia). Analogamente, con riferimento alle deroghe ed eccezioni alla disciplina dei riposi settimanali (art. 9, d.lgs., di cui si dirà anche infra, par. 2.2), il decreto impone espressamente il rispetto delle clausole di salvaguardia in questione solo con riferimento ai casi in cui tali deroghe siano introdotte dai contratti collettivi ai sensi dell’art. 9, co. 2°, lett. d) (il quale rinvia all’art. 17, co. 4°, cit.) e non anche con riferimento alle eccezioni già contemplate dalle lett. a), b) e c), del medesimo art. 9, co. 2°. Al contrario, la direttiva comunitaria imporrebbe il rispetto delle predette clausole anche nelle ipotesi derogatorie contemplate in tali lettere22; e) quanto alla individuazione dei livelli negoziali competenti a derogare alle disposizioni di legge, l’art. 13, co. 1°, d.lgs., nell’autorizzare inequivocabilmente anche i contratti «aziendali» ad individuare un periodo di riferimento più ampio (rispetto alle 24 ore), entro il quale calcolare come media il limite complessivo di durata del lavoro notturno (8 ore), si pone in contrasto con l’art. 16, n. 3, della dir. n. 93/104, il quale si riferisce espressamente ai soli «contratti collettivi o accordi conclusi a livello nazionale o regionale»23. 1.2 Segue. La questione della clausola di non regresso Ma, soprattutto, si staglia ancora all’orizzonte il principale sospetto di conflitto tra normativa interna e comunitaria cui si è sopra accennato, e cioè quello relativo all’arretramento del livello generale di protezione dei lavoratori garantito dalle disposizioni di legge precedenti, operato, sotto vari profili regolativi, dalla disciplina introdotta dal d.lgs. n. 66, in contrasto con quanto previsto dalla ricordata clausola di non regresso. La questione si presenta assai più complessa e delicata rispetto a quelle 22 V. l’art. 17, par. 2, dir. n. 104, nel combinato disposto con l’art. 17, parr. 2.1, lett. e), e 2.3. 23 In senso analogo FORTUNATO, Commento all’art. 13, in CESTER, MATTAROLO, TREMOLADA (a cura di), La nuova disciplina dell’orario di lavoro, Giuffrè, Milano, 2003, 403 s. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 9 segnalate nel precedente paragrafo, in quanto, come si comprende, tocca aspetti più generali, anche di carattere teorico, del rapporto tra le fonti comunitarie e tra queste e le fonti interne. A questo riguardo si deve ancora ribadire, in via preliminare, che la presenza di arretramenti di tutela determinati dalla nuova disciplina interna e, di conseguenza, di un potenziale conflitto tra questa e la clausola di non regresso non desta troppa sorpresa, oltre che per quanto osservato in relazione all’Avviso comune, anche per altri motivi. Sin dall’ufficiale presentazione del Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia (il documento del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, diffuso nell’ottobre 2001), il Governo in carica aveva manifestato con chiarezza il progetto di sfruttare l’occasione della trasposizione della direttiva sull’orario di lavoro al fine di dettare una disciplina legale più flessibile in materia. Nel Libro bianco, infatti, dopo aver ricordato la condanna della Corte di giustizia nei confronti dell’Italia24, il Governo aveva dichiarato l’intenzione di porre rimedio alla «persistente inottemperanza degli obblighi comunitari, soprattutto in considerazione del fatto che già il 12 novembre 1997 le parti sociali [avevano] raggiunto un’intesa che avrebbe dovuto favorire una tempestiva e completa trasposizione», constatando come il mancato recepimento della direttiva europea stesse «dando luogo a non pochi problemi interpretativi (si pensi alla questione della esistenza o meno nel nostro ordinamento di un unico limite settimanale alla durata normale dell’orario di lavoro ovvero di due limiti concorrenti, uno giornaliero e l’altro settimanale)». Il documento governativo aveva così precisato che «l’implementazione della direttiva [avrebbe consentito] in particolare di superare definitivamente alcune interpretazioni, tese a sminuire la riforma dell’orario di lavoro delineata nell’art. 13 della l. n. 196/1997, che ancora oggi vorrebbero subordinare la possibilità di modulare l’orario di lavoro su base settimanale, mensile o annuale al vincolo delle otto ore di lavoro giornaliere come orario di lavoro normale»25. Insomma, per dirla con chiarezza, era subito parso evidente come il Governo, a parte la palese strumentalità del riferimento alla mancata trasposizione della direttiva come causa di «problemi interpretativi» del dato normativo interno, fosse particolarmente ansioso - in coerenza con le più generali linee di politica legislativa trasfuse nel predetto Libro 24 Corte Giust. Com. eur., 9 marzo 2000, causa C-386/98, Commissione c. Repubblica italiana, in Raccolta, 2000, I, 1277 ss. 25 I virgolettati sono tratti dal citato Libro bianco, ma riproducono - quasi testualmente - le osservazioni di BIAGI, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro (relazione presentata al Comitato scientifico di Confidustria, Roma, 18 aprile 2001), in Riv. it. dir. lav., 2001, I, 278. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 10 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE bianco - di sviluppare un intervento di tipo sostanzialmente ‘deregolativo’ rispetto alla vigente normativa in materia, in quanto appunto attuativo, in sede di recepimento della direttiva, di un arretramento delle tutele legali; a tal fine, quindi, il Governo medesimo si è mostrato ampiamente disposto anche a rischiare una successiva conflittualità giudiziaria, pur di cogliere l’occasione per rendere la gestione del personale ancor più flessibile sul piano dei tempi di lavoro. D’altronde, non si può non tenere conto che nei fatti quell’ansia non confliggeva, per quanto sopra detto, con la posizione a suo tempo assunta non solo dalle associazioni datoriali, ma anche dai maggiori sindacati dei lavoratori, i quali, nel siglare il predetto Avviso comune, avevano, tra l’altro, implicitamente dimostrato di condividere o quanto meno accettare la prospettiva dell’arretramento di tutele. Il che contribuisce a spiegare la ragione per cui è parso conveniente ‘riscoprire’ un’intesa partorita in un contesto politico e di relazioni sindacali ben diverso da quello attuale26. In buona sostanza, le esigenze di flessibilità, che nella direttiva sull’orario risultavano avere un’incidenza accessoria rispetto alla finalità precipua di tutela della salute (tenuto conto della sua base giuridica costituita, com’è noto, dal vecchio art. 118A del Trattato istitutivo della Comunità europea, nel testo vigente all’epoca della sua approvazione), sono così divenute obiettivo prioritario tanto nell’intesa intersindacale del 1997, quanto nel d.lgs. n. 66 del 2003, senza che né le parti sociali, né il legislatore delegato abbiano tenuto conto della ratio dell’intervento comunitario ma, soprattutto, senza che abbiano ponderato con attenzione il valore ed il significato della clausola di non regresso, di cui all’art. 18, par. 3, della direttiva n. 93/104/Ce (ora art. 23 della direttiva 2003/88/Ce). Su questo specifico aspetto conviene soffermarsi brevemente, sottolineando che la predetta clausola - della cui vincolatività giuridica non si può certo dubitare27 - non pone certamente un obbligo di stand still in capo ai singoli Stati membri, se non altro in virtù del fatto che la stessa disposizione comunitaria fa espressamente salvo il diritto di questi ultimi di «fissare, alla luce dell’evoluzione della situazione, disposizioni legislative, regolamentari, amministrative e convenzionali diverse nel campo dell’orario di lavoro, a condizione che i requisiti minimi previsti dalla presente direttiva siano rispettati». Tuttavia è altrettanto vero ed innegabile che siffatta clausola mira ad evitare proprio che la 26 Cfr., da ultimi, CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva..., par. 3.2; LECCESE, L’orario di lavoro..., 189 s. 27 Cfr. infatti, sulla vincolatività di tali clausole, Corte cost. n. 45/2000. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 11 trasposizione della direttiva costituisca paravento per il peggioramento delle tutele interne già vigenti: la sua attuazione, precisa, infatti, la norma comunitaria, non può costituire «una giustificazione per il regresso del livello generale di protezione»28. Ciò non è, d’altronde, in contrasto con lo stesso Trattato, il quale, dopo aver stabilito, all’art. 136, par. 1, che «la Comunità e gli Stati membri» hanno, tra gli altri, come obiettivo fondamentale «il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro parificazione nel progresso», prevede poi, all’art. 137, par. 5 (par. 4, secondo trattino, in seguito alle modifiche introdotte dal Trattato di Nizza) che «le disposizioni adottate a norma del presente articolo non ostano a che uno Stato membro mantenga e stabilisca misure, compatibili con il presente Trattato, che prevedano una maggiore protezione»: una disposizione dalla doppia anima, dato che la diretta previsione di una mera facoltà (e non di un obbligo) degli Stati membri di conservare precedenti misure (oltre che di introdurne di nuove) più protettive se, da un lato, sancisce indubbiamente la derogabilità in melius della normativa comunitaria da parte di quella interna, dall’altro implicitamente non esclude, appunto, che un siffatto peggioramento regolativo possa talora verificarsi29. Ebbene, soffermandoci a riflettere sul rapporto che esiste tra le due parti dell’art. 18, par. 3, va sottolineato anzitutto che, in ragione dell’ambigua e generica costruzione linguistica della disposizione, si deve ritenere che al singolo Stato sia consentito prevedere una regressione della normativa di tutela in materia di orario, nel rispetto ovviamente di quella minimale imposta dalla medesima direttiva, tanto in una legge futura, successiva a quella di recezione della stessa, quanto nell’immediato, e cioè già nel provvedimento con cui si dà, appunto, formale e manifesta attuazione ad essa. Ciò detto, peraltro, va pure rilevato che la presenza del vincolo costituito dalla «evoluzione della situazione», nonché lo stesso utilizzo della parola «giustificazione», impongono indubbiamente allo stesso Stato membro una sorta di ‘obbligo di motivazione’, ovvero una chiara esplicitazione delle ragioni economiche e sociali che inducono ad una simile modifica, sì da rendere evidente che si tratta, appunto, di una precisa scelta politica legata al mutamento dello status quo30. Si potrebbe affermare, al riguardo, che siffatta clausola 28 LECCESE, L’orario di lavoro..., 199 ss. Cfr. già CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva..., par. 3.3. 30 Nel senso che, se l’attuazione della direttiva «non costituisce una giustificazione per il regresso», mentre l’«evoluzione della situazione» potrebbe consentire di fissare diverse discipline nel campo dell’orario di lavoro, pare consequenziale ritenere che tale evoluzione debba essere esplicitata con chiarezza, affinché essa sia, appunto, in grado di giustificare il regresso... Anche per questa ragione, dunque, non si condivide la lettura di DONDI, Clausole 29 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 12 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE pone in capo al singolo Stato membro un obbligo a rendere trasparenti le dinamiche regolative riguardanti materie che incidono tanto sulla concorrenza che sul miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (tramite la ‘parificazione nel progresso’), assumendosi senza infingimenti la responsabilità politica delle proprie scelte di peggioramento della disciplina interna nei confronti della comunità internazionale (oltre che, evidentemente, nei confronti alla pubblica opinione interna). Ulteriori problemi sollevati dalla clausola di non regresso sono quello dell’ambito entro cui essa deve ritenersi operante, nonché quello del ‘metro’ da adottare per la verifica della sussistenza effettiva di tale regressione di tutele (da cui deriverebbe in capo allo Stato membro il vincolo di esplicitare l’evoluzione della situazione che ne avrebbe giustificato l’adozione). Riguardo a questi aspetti, l’art. 18, par. 3, della direttiva n. 104, da un lato, fa riferimento al «campo dell’orario di lavoro», mentre, dall’altro, parla di «regresso del livello generale di protezione». Sotto il primo profilo va detto che, nonostante il riferimento letterale al solo ‘orario di lavoro’, non possono certamente ritenersi esclusi dall’ambito di riferimento della clausola altri istituti quali le ferie, le pause, i riposi giornalieri e settimanali: basti all’uopo considerare che il titolo della direttiva dichiara che essa concerne «taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro», nonostante in realtà la disciplina da essa dettata riguardi tutti gli istituti predetti. Anche in ragione della coincidenza di espressioni deve dunque ritenersi che la clausola riguarda integralmente la stessa materia disciplinata dalla direttiva. Più complessa è la questione del se, per valutare la sussistenza o meno di una regressione di tutele nella normativa emanata dal legislatore interno, in coincidenza con (o anche dopo) la recezione della direttiva, si debba effettuare un confronto puntuale tra le singole disposizioni della nuova e della vecchia normativa, ovvero se l’intervento regolativo dello Stato nella materia in questione debba essere confrontato con la preesistente disciplina in termini complessivi, globali. Il problema ricorda, a ben vedere, quello del conflitto tra la regolazione del contratto collettivo e quella del contratto individuale; problema rispetto al quale, come si ricorderà, si sono per lungo tempo confrontate le tesi del cumulo e, cioè, di non regresso nelle direttive comunitarie in tema di protezione sociale: quali condizionamenti per l’ordinamento giuslavoristico nazionale (di prossima pubblicazione in Sudi in onore di Mattia Persiani), par. 5, il quale nega che dalle disposizioni di questo tipo possa derivare un siffatto obbligo di motivazione. Ma per approfondimenti relativi alla necessità della ‘giustificazione’, che invero trova conferme anche in una lettura evolutiva delle norme del Trattato, sia consentito un rinvio a CARABELLI, LECCESE, Parere sulle clausole di non regresso (titolo provvisorio), di prossima pubblicazione in Dir. lav. rel. ind., 2004. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 13 della sommatoria dei singoli trattamenti di miglior favore per il lavoratore (la quale evidentemente propende per una valutazione di tipo puntuale) e quella del conglobamento, secondo cui si dovrebbe applicare il trattamento che nel complesso risultasse più favorevole31 (tesi che propende, invece, per una valutazione di tipo globale). Ad avviso di chi scrive non deve trarre in inganno la formulazione generica della disposizione comunitaria, nel senso che il riferimento al «livello generale di protezione» non può indurre alla automatica adozione della seconda soluzione32, sulla base di una superficiale sopravvalutazione del mero dato letterale: ad essa può essere opposta l’insuperabile obiezione dell’impossibilità di confrontare regolazioni attinenti ad istituti radicalmente differenti quali l’orario di lavoro diurno e notturno, le pause, i riposi giornalieri, i riposi settimanali e le ferie, poiché si tratterebbe di una comparazione paradossale in quanto fatta «ponendo nel calderone cose e situazioni diversissime»33, quantunque tutte attinenti in linea generale alla disciplina del tempo di lavoro. Per contro si deve, nello stesso tempo, riconoscere che la predetta espressione esclude una comparazione ‘pignola’ ed analitica tra le tante specifiche norme che disciplinano i vari, singoli aspetti di quegli istituti, la quale farebbe perdere di vista, appunto, la necessità di muoversi nella prospettiva di una protezione di carattere generale. Ecco perché la soluzione da accogliere, compatibile con il dettato normativo (ma altresì dettata dalla logica e, perché no, dal buon senso), sembra debba essere, in un certo senso, analoga a quella avanzata da una parte della dottrina e giurisprudenza rispetto al menzionato problema del rapporto tra contratto collettivo ed individuale: la comparazione dei trattamenti regolativi va fatta istituto per istituto, dato che soltanto rispetto a ciascuno di essi è possibile misurare l’eventuale arretramento di tutele. E poiché deve aversi riguardo, appunto, al «livello generale di protezione», il confronto non potrà essere effettuato con riferimento a ogni singolo aspetto, anche minore o secondario, della regolamentazione di quell’istituto, ma dovrà implicare una valutazione complessiva della vecchia e nuova disciplina di esso, mirando a verificare che non vi sia arretramento in relazione all’essenza della tutela: il confronto, in altre 31 GIUGNI, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2001, 138 s.; GHEZZI, ROMAGNOLI, Il diritto sindacale, Zanichelli, Bologna, 2001, 154 s.; PERA, PAPALEONI, Diritto del Lavoro, Cedam, Padova, 2003, 166 s. 32 Per la soluzione del conglobamento, ma con riferimento alle clausole di non regresso in generale, opta invece DELFINO, Il principio di non regresso nelle direttive in materia di politica sociale, in Dir. lav. rel. ind., 2002, 507 ss. 33 PERA, PAPALEONI, Diritto del Lavoro... , 167. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 14 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE parole, dovrà essere effettuato con riguardo a quelle parti della disciplina dell’istituto che hanno valore essenziale e caratterizzante34. Orbene, tirando le somme di quanto sopra argomentato sul piano comunitario, e rapportandolo alla realtà italiana, va segnalato anzitutto che, tenuto conto del meccanismo istituzionale ideato per il recepimento delle direttive (le cosiddette leggi comunitarie)35, il Parlamento avrebbe potuto senz’altro delegare il Governo a recepire la direttiva, impegnandolo, sulla base di esplicite valutazioni politiche e nel perseguimento di particolari ed espressi obiettivi economico-sociali, a modificare anche in modo peggiorativo la preesistente disciplina. Sennonché, alla luce dei principi e criteri direttivi dettati nella legge n. 39/2002, ciò non pare essere avvenuto nel caso di specie. Nella legge delega, infatti, non è possibile rinvenire nessun riferimento esplicito ad una «evoluzione della situazione». Né a tal fine può essere invocato il riferimento, in essa contenuto, alla «recezione dei criteri di attuazione» indicati dall’Avviso comune: infatti, a parte quanto sopra detto in merito ai profili di contrasto di quest’ultimo con la direttiva, neppure in esso vi è un’esplicita valutazione circa la necessità di un regresso delle tutele in e considerazione di avvenuti cambiamenti economico-sociali36; certamente, per quanto sin qui argomentato, tale valutazione non può essere dedotta dal mero fatto della stipulazione di quell’intesa sindacale con quei contenuti peggiorativi. Ciò detto, e passando alla verifica relativa alla esistenza o meno nella nuova disciplina sull’orario di lavoro introdotta nel nostro Paese dal d.lgs. n. 66 di profili di arretramento di tutela, nel senso sopra specificato, si può sostenere che esso si rivela soprattutto in relazione alla disciplina dell’orario di lavoro e, specificamente, in rapporto alla durata della prestazione di lavoro. Ove si consideri l’importanza che, nella prospettiva della tutela della salute - rilevante sul piano tanto della disciplina comunitaria che di quella costituzionale (v. infra, par. 2.1) acquisiscono i profili della durata massima sia assoluta che relativa dell’orario di lavoro, pare evidente, infatti, che la loro disciplina non può che costituire un elemento essenziale della comparazione dei trattamenti nuovi e pregressi cui è chiamato l’interprete. In effetti, tale arretramento si manifesta con evidenza quanto meno con riferimento: 34 CARABELLI, Intervento programmato al Seminario del Cesri-Luiss, su La riforma del lavoro a termine, Roma, 22 ottobre 2001, in www.unicz.it/lavoro. 35 Metodo peraltro non certo insostituibile: cfr. DONDI, Clausole di non regresso..., par. 5. 36 V. anche, in senso adesivo, CORSO I., Commento all’art. 3, in CESTER, MATTAROLO, TREMOLADA (a cura di), La nuova disciplina dell’orario di lavoro, Giuffrè, Milano, 2003, 150. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 15 - all’assenza di un limite legale al lavoro straordinario giornaliero e settimanale, prima fissato, rispettivamente, in 2 e 12 ore; - all’assenza di limiti assoluti (e cioè assolutamente non superabili, se non per cause di forza maggiore o per ragioni di sicurezza) di durata giornaliera e settimanale dell’orario di lavoro, in precedenza fissati, rispettivamente, in 10 ore (pari alla somma delle 8 ore di orario normale e delle 2 ore di straordinario) e in 52 ore (pari alla somma delle 40 ore di orario normale e delle 12 di straordinario); durata, quest’ultima, che poteva essere temporaneamente superata sia in caso di ricorso al lavoro straordinario (pur se solo per un massimo di nove settimane consecutive), sia in caso di ricorso a moduli multiperiodali d’orario, fatta sempre salva - in entrambe le ipotesi - la necessità di rispettare il limite delle 60 ore settimanali (pari alla proiezione del predetto limite giornaliero su sei giorni, stante l’irrinunziabile diritto al riposo settimanale di cui all’art. 36, co. 3°, Cost.)37. Riguardo a questo secondo aspetto vanno effettuate alcune considerazioni. 37 Per l’individuazione di tutti questi limiti nella legislazione pregressa, anche sulla base di una lettura adeguatrice della medesima alla previsione di cui all’art. 36, co. 2°, Cost., e sulla sopravvivenza del limite normale giornaliero anche dopo l’intervento dell’art 13, co. 1°, L. n. 196/1997, v. LECCESE, L’orario di lavoro..., spec. 268 ss., 284 ss., 354 ss., 361 ss., 404 ss.; ma v. già CARABELLI, Il lavoro straordinario: disciplina legale e regolamentazione contrattuale dei settori chimico e metalmeccanico a confronto, in Riv. giur. lav., I, 549 ss. In questa sede ci si limita ad osservare come gli argomenti proposti in quei luoghi sono ignorati o non paiono adeguatamente considerati da chi, nel porre giustamente il problema del regresso di tutele a seguito del d.lgs. n. 66, ha però ritenuto che tale regresso non sussista poiché un autonomo limite normale (e quindi, aggiungiamo noi, assoluto) alla prestazione giornaliera o non è mai esistito o è stato abrogato dal citato art. 13, co. 1° (TIRABOSCHI, RUSSO A., Prime osservazioni sull’attuazione della direttiva n. 93/104/Ce, in Guida lav., 2003, n. 17, 19 ss.; in senso dubitativo si erano invece espressi i medesimi autori, prima però che gli estensori del decreto legislativo mettessero mano all’attuazione della delega: v. RUSSO A., TIRABOSCHI, La durata massima della giornata lavorativa: la contrattazione come strumento di flessibilità, in Contratti e contrattazione, 2002, n. 2, 83), ovvero, pur esistente ed ancora in vigore fino al d.lgs. n. 66, non potesse operare in presenza di alcune modalità d’organizzazione dell’orario, come ad esempio l’uso congiunto di straordinario e multiperiodale (BOLEGO, Orientamenti giurisprudenziali in tema di lavoro straordinario, in Dir. lav. mer., 2003, 444 s. e 448 s.). È ovvio, quindi, che ove si ritenessero invece sussistenti, nella pregressa disciplina, i limiti di cui si è detto (per la giurisprudenza più recente, v. Cass., 4 dicembre 2000, n. 15419, in Riv. giur. lav., 2001, II, 539 ss.; cfr. anche Cass., 5 gennaio 2001, n. 89, ivi, 561, s.m.; Cass. 16 gennaio 2001, n. 512, in Notiziario giurisprudenza lav., 2001, 288 ss.; Trib. Pisa 13 febbraio 2001, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 74 ss.), il regresso di tutele sarebbe innegabile. Per la sussistenza del regresso, specie con riferimento al limite complessivo giornaliero, si esprimono, tra gli altri, ALLAMPRESE, Profili di incompatibilità dello schema di decreto legislativo (di attuazione della direttiva n. 93/104 in materia di orario di lavoro, come modificata dalla direttiva n. 2000/34) con la direttiva di riferimento, in www.cgil.it/giuridico, 2003; CORSO I., Commento all’art. 3..., 149. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 16 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE Anzitutto, dal d.lgs. n. 66 parrebbe derivare, sia pure in via indiretta, attraverso la previsione del diritto al riposo giornaliero di 11 ore consecutive ogni 24 ore (art. 7), un limite massimo assoluto della durata giornaliera della prestazione pari a 13 ore e, conseguentemente, un limite assoluto settimanale di 78 ore (o meglio, come osservato da alcuni autori38, di 77 ore, una volta detratti i 60 minuti corrispondenti a 6 pause giornaliere di 10 minuti: cfr. art. 8) Sennonché, è quasi superfluo rilevare che tali limiti risultano comunque superiori a quelli previgenti e, pertanto, implicano certamente un peggioramento rispetto alla tutela assicurata dalla passata disciplina. Inoltre, da una più attenta lettura risulta chiaro che essi non sono stati affatto configurati come limiti assoluti, bensì flessibili, poiché, come meglio si dirà più avanti, il decreto consente - ferme restando le clausole di salvaguardia previste dall’art. 17, co. 4° (ai prestatori vanno «accordati periodi equivalenti di riposo compensativo», ovvero, in casi eccezionali in cui ciò non sia possibile, «una protezione appropriata») - l’introduzione, per via contrattuale o amministrativa, di deroghe sia incondizionate che condizionate39, in merito alla fruizione tanto del riposo giornaliero40, quanto della giornata di riposo settimanale41. Dall’esercizio di tale facoltà di deroga (che, si noti, ai sensi dell’art. 17 può riguardare anche le pause), potrà quindi derivare un ulteriore arretramento delle tutele. Né, certamente, a sostegno della non violazione della clausola di non regresso potrebbe essere invocato l’art. 4, co. 1°, del d.lgs. n. 66, il quale, come accennato, prevede che «i contratti collettivi stabiliscono la durata massima settimanale dell’orario di lavoro». Indipendentemente da quanto già osservato in merito a questa disposizione, pare evidente che un arretramento di tutele deriverebbe comunque dalla possibilità di fissazione, per via contrattuale, di tetti più elevati di quelli previsti dalla precedente normativa legale. 2. Sui problemi di legittimità costituzionale della nuova disciplina Quanto detto in merito al possibile conflitto di varie disposizioni del d. lgs. n. 66 con la direttiva comunitaria non esaurisce, peraltro, i motivi di una certa fragilità tecnico-giuridica della nuova disciplina dell’orario di 38 Cfr., tra gli altri, FRANCI, L’orario di lavoro e le modalità della prestazione. La nuova disciplina del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in Lav prev. oggi, 2003, 806; CORSO I., Commento all’art. 3..., 148. 39 LECCESE, L’orario di lavoro..., 187 ss.; RICCI G., Le deroghe... 40 Art. 17, co. 1°, 2° e 3°; ma sul punto v. meglio infra, par. 2.1. 41 Cfr. art. 9, co. 2°, lett. d), e co. 5°. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 17 lavoro, posto che non mancano altri aspetti di essa che sollevano numerose perplessità, questa volta sul piano della conformità a vari principi sanciti dalla Costituzione. In effetti, per quanto si è fin qui argomentato, i profili di contrasto del d.lgs. n. 66 con la normativa comunitaria costituiscono senza dubbio uno degli aspetti di maggiore evidenza della vicenda attuativa della direttiva, anche in ragione della particolare enfasi che sin dall’origine si è riposta sulla questione della ridefinizione delle regole nazionali in materia di orario di lavoro, sull’onda del dibattito politico che si è sviluppato nel corso di larga parte degli anni ’90 in molti Paesi europei. Sarebbe peraltro prova di leggerezza, ed anzi di scarso rigore scientifico, rimuovere o trascurare gli importanti profili di contrasto del provvedimento delegato di cui si discute con la Carta costituzionale. Un aspetto, questo, di non minore importanza dell’altro, tenuto conto, questa volta, del valore che, tanto nel dibattito politico-sindacale, quanto in quello scientifico, si intende attribuire (almeno a parole …) al riconoscimento della centrale importanza, soprattutto in una fase di transizione quale quella che stiamo attraversando, dei diritti fondamentali ed alla necessità di assicurare ad essi un’adeguata tutela in ragione del loro rilievo costituzionale. E’ dunque in virtù di questo presupposto che a tale aspetto - a sua volta estremamente articolato e composito - sarà dedicata la seconda parte di questo contributo. Anche da questo punto di vista si deve ricordare che, già prima dell’attuazione della delega, non era mancata la segnalazione, da vari autori, che alcune norme delineate nell’Avviso comune, ed oggi presenti nel decreto, pur se conformi con la normativa comunitaria di carattere sostanziale (e dunque a prescindere dalla clausola di non regresso), potessero comunque confliggere con alcuni principi costituzionali dettati in materia di durata della prestazione, la cui diretta connessione con la tutela di diritti fondamentali della persona ne rendeva comunque indispensabile il rispetto42. Ma, evidentemente, quella preoccupazione non è stata tenuta in gran conto da parte del Governo, il quale ha preferito chiudere una volta per tutte una partita rimasta in piedi per troppo tempo, secondo la nuova prospettiva delineata con chiarezza, come si è visto, nel Libro bianco. Probabilmente si è confidato soprattutto nel rinvio della legge al contratto collettivo e, dunque, nella possibilità per 42 Infatti, anche ove si accettasse la generale prospettiva della prevalenza dell’ordinamento comunitario rispetto a quello interno, è largamente condivisa la tesi che esclude la soccombenza di quest’ultimo nei casi in cui siano in ballo, appunto, diritti fondamentali: v. LECCESE, L’orario di lavoro..., 227 s., anche per gli argomenti che conducono a ritenere che nel caso di specie - non è neppure ipotizzabile un contrasto tra le nostre pertinenti previsioni costituzionali e i principi comunitari. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 18 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE le parti sociali di ritrovare autonomamente, per via negoziale, nuovi equilibri di sistema attraverso integrazioni alla disciplina contenuta nel decreto (ma anche, e soprattutto, attraverso deroghe ad essa; possibilità, quest’ultima, invero auspicata davvero fortemente dal legislatore delegato, fino al punto… da minacciare l’esautoramento dell’autonomia collettiva in caso di mancato raggiungimento di un accordo, con riappropriazione del potere regolativo derogatorio in capo alla fonte secondaria43); quasi che - ma si tratterebbe di pretesa non certo fondata - il placet del legislatore e il compromesso collettivo fossero ritenuti di per se stessi in grado di scongiurare i contrasti con la Costituzione. Il fatto è che i problemi di costituzionalità non sembrano né pochi né di minor peso rispetto a quelli, sopra esaminati, relativi alla conformità del Decreto n. 66 con la normativa comunitaria. Se ne possono distinguere almeno tre gruppi riguardanti, rispettivamente, il potenziale contrasto: - anzitutto, come già accennato, di alcune previsioni del decreto con quanto stabilito dall’art. 36, co. 2° e 3°, Cost, in tema non soltanto di orario di lavoro ma anche di riposo settimanale44; - di alcune disposizioni del decreto con i limiti derivanti da principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega n. 39/2002 ai sensi dell’art. 76 Cost.; - delle varie norme che, nell’ambito del decreto, rinviano alla contrattazione collettiva con l’art. 39 Cost., tenuto conto, da un lato, delle differenti caratteristiche strutturali, funzionali e di contenuto di ciascuna di esse, dall’altro, dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e, dall’altro ancora, del contributo della Corte costituzionale in materia di contrattazione collettiva. Esaminiamo questi problemi separatamente. 2.1. Sul potenziale contrasto con l’art. 36, co. 2°, Cost. In relazione al primo gruppo, occorre sviluppare due differenti discorsi relativi, rispettivamente, alla durata massima assoluta dell’orario giornaliero di lavoro ed al riposo settimanale. 43 V. art. 17, co. 2° e 3°; ma cfr. anche art. 9, co. 5°. Ciò si spiega tenendo presente (come già segnalato in precedenza) che il decreto proprio in quanto destinato a dare «attuazione organica» alla direttiva n. 93/104, le cui norme spaziano dall’orario di lavoro diurno e notturno, alle pause, ai riposi giornalieri e settimanali, alle ferie - detta, in realtà, non una disciplina del mero orario di lavoro, bensì una ‘disciplina organica’ del tempo di lavoro e di non lavoro (cfr. DEL PUNTA, La riforma dell’orario di lavoro, in Dir. e pratica lav., 2003, n. 22, Inserto, IV), posto che oggetto di regolazione sono non soltanto l’orario diurno e notturno, ma altresì, appunto, le pause, i riposi giornalieri e settimanali e le ferie. 44 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 19 Quanto all’orario di lavoro, chi scrive ha più volte ribadito con forza come il vincolo sancito dall’art. 36, co. 2°, Cost., relativo alla fissazione per legge del limite assoluto di durata giornaliera della prestazione, debba essere ‘preso sul serio’, in quanto derivante direttamente dall’esigenza di tutela del diritto costituzionale alla salute di cui all’art. 32 Cost., e non possa essere invece sminuito - come è stato fatto da una parte della dottrina45 - a mera opzione interpretativa, alternativa rispetto a quella, rivendicata come altrettanto legittima, secondo la quale il limite massimo giornaliero potrebbe essere dal legislatore fissato, senza lesione del principio costituzionale, anche soltanto quale media settimanale. A questo riguardo, va detto in primo luogo che quest’ultima scelta interpretativa è di per sé assai debole dal punto di vista tecnico-giuridico: l’art. 36, co. 2°, parla, infatti, di «durata massima della giornata» e non di «durata media massima della giornata», né di «durata massima della settimana», e non si capisce affatto perché, a fronte di un diritto costituzionale indistricabilmente connesso, dal punto di vista funzionale, alla tutela di un diritto fondamentale della persona, dovrebbe ammettersi un’interpretazione che ne riduca il grado di resistenza46, per di più attraverso una forzatura del dato letterale47. In secondo luogo, come già argomentato altrove (senza che, per il vero, sino ad oggi sia stata fornita alcuna fondata obiezione), la tesi della media settimanale si fonda sull’obiettivo - ispirato da una precisa scelta di politica del diritto, a sua volta derivante da una chiara opzione ‘ideologica’ sugli sviluppi del mercato del lavoro48 - di dare spazio alle nuove esigenze di flessibilità espresse dalle trasformazioni dei processi produttivi, ritenute meritevoli di tutela privilegiata anche nella prospettiva di un allargamento della base occupazionale. Orbene, non si può non sottolineare ancora una volta come - al di là del controverso problema dell’adeguatezza del mezzo 45 ICHINO, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II (Estensione temporale della prestazione lavorativa subordinata e relative forme speciali di organizzazione), Giuffrè, Milano, 1985, 280; DE LUCA TAMAJO, Il tempo nel rapporto di lavoro (relazione alle giornate di studio di diritto del lavoro organizzate dall’Aidlass, Genova, 4-5 aprile 1986), in Dir. lav. rel. ind., 1986, 447 s.; SALIMBENI, Estensione e collocazione temporale del lavoro straordinario nell’ambito di una nuova concezione dell’orario di lavoro, in Dir. lav., 1988, I, 495; TIRABOSCHI, Brevi riflessioni in tema di durata massima della giornata normale di lavoro (nota a Trib. Firenze 24.6.1989), in Riv. it. dir. lav., 1990, II, 181 s. 46 V., anche per lo sviluppo argomentativo, LECCESE, L’orario di lavoro..., 44 ss. e 53 ss. 47 Come condivisibilmente osservato già da ASSANTI, Corso di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 1993, 397. 48 CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, Relazione al XIV Congresso dell’Aidlass, Teramo-Silvi Marina, 30 maggio-1° giugno 2003, par. 1 (in corso di pubblicazione in Dir. lav. rel. ind., 2004). WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 20 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE (flessibilità) al fine (occupazione)49 - siffatta esigenza, di cui pur si potrebbe riconoscere un fondamento negli artt. 41 e 4 Cost., manifesta indiscutibilmente una secondaria rilevanza costituzionale rispetto al valore primario rappresentato dalla protezione della salute del singolo lavoratore e debba, pertanto, necessariamente soccombere nel conflitto con quest’ultimo, non solo nell’attività di legiferazione, ma anche nell’attività interpretativa che dottrina e giurisprudenza sono chiamate a svolgere nell’ordinamento. Infine, si deve tener presente che - come si è già avuto modo di accennare - nella disciplina introdotta dal d.lgs. n. 66 anche il limite settimanale di durata complessiva (orario normale più straordinario) della prestazione, quantificato dall’art. 4, co. 2°, in 48 ore (in conformità con l’art. 6, n. 2, della direttiva n. 93/104, ora art. 6, lett. b), direttiva n. 2003/88) non è configurato come assoluto, ma come media quadrimestrale, ovvero, grazie alle possibilità di deroga previste dal legislatore delegato: 1) come media semestrale e finanche annuale, se così voluto dai contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative, che peraltro nel secondo caso devono specificarne le «ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro»50, ovvero 2) come media solo semestrale se, in mancanza di disciplina collettiva, così abbia disposto, con riferimento a particolari attività, servizi o specifici eventi, un decreto del Ministro del lavoro, adottato su richiesta delle organizzazioni sindacali di categoria, comparativamente più rappresentative51. Insomma, benché apparentemente rigido, in quanto non superabile mai come valore medio, il limite delle 48 ore non esprime, proprio per questo, un valore assoluto con riferimento alla singola settimana; esso, pertanto, risulta inidoneo a soddisfare - anche a voler per assurdo adottare l’inammissibile prospettiva sopra criticata - l’esigenza garantista sottesa all’art. 36, co. 2°, di cui si è detto. Sgombrato il campo da questo primo gruppo di riflessioni critiche, si deve ora ricordare quanto osservato in precedenza trattando della 49 Su cui si v., criticamente, almeno GAROFALO M.G., Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 1999, 24 ss., SPEZIALE, La nuova legge sul lavoro a termine, in Dir. lav. rel. ind., 2001, 361 ss. e, tra gli economisti, COSTABILE, Aspetti economici del Libro Bianco del Ministero del Lavoro, in Studi economici, 2002, n. 77, 107 ss.; v. anche - con specifico riferimento alla flessibilizzazione degli orari di lavoro - GALLINO, Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino, 1998, 28 ss. 50 Art. 4, co. 3°. 51 Art. 17, co. 2°. La deroga per via amministrativa deve comunque rispettare il già esaminato limite di cui all’art. 17, co. 4°, mentre tale limite non opera, stranamente, nei confronti delle deroghe introdotte per via contrattuale; ma sul punto ci si è già soffermati in precedenza. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 21 prospettiva dell’arretramento di tutele, e cioè che, secondo alcuni autori, il d.lgs. n. 66, nell’assicurare, in conformità con la normativa comunitaria, il diritto individuale ad un riposo giornaliero di 11 ore ogni 24 (art. 7), avrebbe per tale via altresì fissato una durata massima assoluta della giornata lavorativa pari a 13 ore (e di conseguenza una durata settimanale di 78 ore, al lordo delle pause giornaliere previste dall’art. 8). In tal senso, il legislatore delegato, dettando un limite, per così dire, polifunzionale, non si sarebbe sottratto al compito affidatogli dall’art. 36, co. 2°, Cost., sia pure in modo indiretto52. Al riguardo va invero osservato, anzitutto, che la previsione di un periodo minimo di riposo di 11 ore, calcolato su un arco temporale mobile di 24, assolve ad una funzione confluente con, ma ben diversa da, quella svolta dalla fissazione di una durata massima assoluta della prestazione giornaliera: basti pensare che, mentre quest’ultima intende evitare un eccessivo prolungamento dell’orario nella singola giornata (cioè dalle 0,00 alle 24,00), il primo, invece, vuole evitare che, pur nel rispetto dei limiti giornalieri, due prestazioni (che possono essere collocate anche in due giornate diverse) risultino eccessivamente ravvicinate (si tratta, quindi, di un limite distanziale). Si potrebbe insomma affermare che il limite di durata giornaliera è volto direttamente ad impedire che nell’arco della giornata lavorativa venga addossato al prestatore un soverchio carico di lavoro dannoso per la sua salute, nonché, di fatto e indirettamente - e a condizione che le prestazioni svolte in due diverse giornate non siano contigue o, addirittura, consecutive - a consentire il recupero delle energie psico-fisiche (c.d. tempo di ricarica fisio-psicologica) (oltre che a garantire uno spazio di tempo libero, di non lavoro, utile allo svolgimento della vita sociale). Laddove il limite distanziale mira - in modo del tutto reciproco - ad assicurare direttamente che tra due prestazioni intercorra un intervallo sufficiente a consentire al lavoratore un’adeguata ricarica fisio-psicologica (e ad assicurare uno spazio di tempo libero), ma anche, di fatto e indirettamente - e a condizione che la sua durata sia sufficientemente lunga - ad impedire l’eccessivo carico giornaliero di lavoro. In tale prospettiva emergono, a ben vedere, due profili di tutela della salute del lavoratore derivanti l’uno dalla garanzia costituzionale, l’altro da quella comunitaria, che di certo non si escludono, bensì si integrano perfettamente tra loro, in una moderna e dinamica prospettiva 52 Per una decisa critica alla tesi (tra l’altro sostenuta nella relazione governativa di accompagnamento allo schema di d.lgs.) secondo cui la riserva di legge di cui all’art. 36 «verrebbe realizzata con una norma indiretta con una tecnica a contrariis», v. sin d’ora SANDULLI P., Orario di lavoro. Sez. I) Il quadro generale di riferimento, di prossima pubblicazione in Enc. giur.Treccani, par. 4b. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 22 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE coerente con i dati delle scienze bio-mediche; ma che pure vanno mantenuti concettualmente ben distinti anche dal punto di vista giuridico, soprattutto in virtù del fatto che ciascuno di tali profili deve essere disciplinato in modo da assicurare non una tutela quale che sia, ma una tutela reale ed effettiva. Di ciò, del resto, ha dimostrato di essere ben consapevole, in altra occasione, il legislatore comunitario, il quale, nella direttiva n. 94/33 del 22 giugno 1994, relativa alla protezione dei giovani sul lavoro, ha stabilito entrambi i tipi di limite con riferimento al lavoro dei bambini e degli adolescenti53. Alla luce di quanto appena argomentato, se non si può negare il presupposto fattuale da cui muove chi afferma la polifunzionalità del limite contenuto nell’art. 7, e cioè la presenza, nell’attuale legislazione ordinaria, di un tetto di 13 ore di lavoro complessivamente erogabili da ciascun lavoratore nella singola giornata, va pur detto che da questa osservazione derivano rilevanti questioni di costituzionalità, relative, da un lato, alla stessa quantificazione di questo tetto e, dall’altro, alla mancata configurazione di quel limite e, conseguentemente, del tetto che ne deriva, come assoluto e intangibile. a) In merito alla prima questione, va rammentato che tale tetto è stato dichiarato a buona ragione, da un autore solitamente non incline a ideologismi, foriero di una dimensione temporale del lavoro ‘apocalittica’54; ed in effetti - al di là di quanto sopra osservato in merito alla differenza concettuale e funzionale tra limite di durata ed intervallo, e di quanto si dirà tra breve in relazione alla natura comunque non assoluta del tetto giornaliero ricavato dall’art. 7 - un tetto di 13 ore giornaliere (e 78 settimanali) appare comunque devastante ed intrinsecamente esposto ad un giudizio di non conformità a Costituzione, in quanto inidoneo a soddisfare le finalità di tutela della salute del lavoratore perseguite dagli artt. 32 e 36, co. 2°, Cost.55, se non altro, e a dir poco, a causa della sua configurazione quale limite costante, universale ed indiscriminato (quasi che le trasformazioni tecnico-organizzative ci avessero regalato un mondo del lavoro caratterizzato, in modo assolutamente uniforme, da un’idilliaca dimensione lavorativa in cui il lavoro non affatica né stressa). Altro è poi il profilo relativo al potenziale esito di una pronuncia della Corte che eventualmente ritenga il quantum della durata massima 53 LECCESE, L’orario di lavoro..., 218 ss. (anche per la sottolineatura di quanto risulti ‘improbabile’ la soddisfazione delle diverse istanze protettive di cui si discute con un’unica disposizione polifunzionale); CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva..., par. 3.3. 54 DELL’OLIO, Orario giornaliero, settimanale, multiperiodale, in Arg. dir. lav., 1998, 377. 55 Cfr. LECCESE, L’orario di lavoro..., 133 ss. (anche per le ragioni che inducono ad affermare la sindacabilità da parte della Corte costituzionale delle soglie massime giornaliere fissate dalla legge), nonché 215 ss. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 23 giornaliera di lavoro, fissato indirettamente e di fatto dalla nuova disciplina, come inidoneo a garantire l’an della tutela voluta dall’art. 36, co. 2°, Cost. Dando per presupposto che il giudice delle leggi non possa sostituirsi al legislatore ordinario nella determinazione del (diverso) tetto legale giornaliero idoneo a realizzare l’equo contemperamento tra quegli interessi56, possono qui essere solo indicate talune soluzioni, che vanno dalla mera pronuncia monitoria volta a sollecitare un nuovo intervento del legislatore, alla dichiarazione secca di incostituzionalità della norma che fissa il nuovo limite, nella parte in cui consente la protrazione della prestazione giornaliera sino a 13 ore57. Val la pena, inoltre, di segnalare che l’intervento della Corte sulla materia potrebbe anche avvenire, in una diversa ed ancor più incisiva prospettiva, con una sentenza interpretativa di rigetto, nella misura in cui essa, attraverso l’interpretazione sistematica dell’art. 1, co. 1° (e, per conseguenza, dell’art. 19, co. 2°), effettuata alla luce della direttiva e della legge delega, giungesse addirittura a ritenere tuttora in vigore le previsioni specificamente volte a quantificare la durata massima giornaliera della prestazione, in quanto non incluse nei diretti scopi della direttiva e, dunque, nemmeno del decreto legislativo che vi ha dato attuazione, in virtù del fatto che oggetto della delega era appunto, come si è più sopra precisato, il recepimento della direttiva medesima. In particolare, sulla base di questa premessa, si dovrebbe ritenere che i «profili» di disciplina - tra cui quello in questione - non espressamente regolati dalla direttiva, risultando esclusi dalla «materia disciplinata dal decreto», non sarebbero stati colpiti dall’effetto abrogativo di cui all’art. 19, co. 2°58; e siffatta soluzione, a ben vedere, avrebbe il merito di scongiurare in radice, i segnalati rischi di violazione del principio costituzionale di cui all’art. 36, co. 2°. b) Venendo, poi, alla seconda questione di incostituzionalità connessa con la supposta polifunzionalità del limite stabilito dall’art. 7 del decreto, va rammentato che questo limite non ha comunque un valore assoluto ed intangibile. Infatti, fermo restando quanto stabilito dall’art. 56 Cfr. CARABELLI, LECCESE, Orario di lavoro: limiti legali e poteri della contrattazione collettiva, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 17, 1995, 72. 57 In tal caso ed in attesa di un nuovo intervento della legge, si potrebbe aprire la strada, già percorsa dalla Corte con riferimento, soprattutto, ai lavori discontinui o di semplice attesa o custodia, per la quantificazione giudiziale del limite, benché inevitabilmente, in tal caso, con riferimento al caso concreto: cfr. Corte cost. n. 99/1971 e n. 255/1976 (ord.). 58 Per la possibilità che venga avanzata una simile ipotesi interpretativa, v. LECCESE, La nuova disciplina..., 196 s. In effetti, la sopravvivenza di un limite giornaliero dopo il d.lgs. n. 66 è stata ipotizzata da VICECONTE (La nuova organizzazione dell’orario di lavoro, in Lavoro e prev. oggi, 2003, 1146 ss.) ed espressamente negata da SANDULLI P. (Orario di lavoro..., par. 4b). WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 24 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE 17, co. 4°, il decreto consente l’introduzione di deroghe anche in merito alla fruizione del riposo giornaliero, ad opera della contrattazione collettiva, senza alcuna condizione59, ovvero, in mancanza di disciplina questa volta collettiva, da parte della fonte secondaria60, condizionatamente alla sussistenza di uno tra i molti casi predeterminati dalla legge (quantunque non sempre in modo tassativo61). Da ciò deriva, inevitabilmente, che ogni deroga convenzionale o introdotta con d.m. alla durata minima del riposo consecutivo su di un arco temporale mobile di 24 ore (di per sé conforme alla direttiva e alla stessa prescrizione costituzionale) inciderà, in senso espansivo, anche sul tetto giornaliero delle 13 ore (e potenzialmente, su quello settimanale di 78 ore). Ma allora, proprio per questo, non si può non riconoscere l’esistenza di un ulteriore profilo di incostituzionalità, attinente alla violazione, da parte dei commi dal primo al terzo dell’art. 17, della riserva di legge di cui all’art. 36, co. 2°, Cost., nella misura in cui - quantunque, ancora una volta, in via indiretta - attribuiscono a soggetti diversi dal legislatore il potere di modificare verso l’alto - e senza altro limite se non quello derivante dal citato art. 17, co. 4° - il tetto giornaliero di 13 ore di lavoro. A questo riguardo chi scrive ha sostenuto più volte, sin da tempi non sospetti, che la riserva stabilita dall’art. 36, co. 2°, Cost., deve essere inevitabilmente intesa come riserva assoluta, che impedisce al legislatore (cioè, alla legge formale ovvero, come nel caso di specie, agli atti ad essa equiparati, quali i decreti legislativi) di riversare su altre fonti la funzione che la Costituzione gli attribuisce, e non come riserva relativa, che in quanto tale ammetterebbe il rinvio a fonti diverse62. In questa sede basti rammentare che la suddetta soluzione si impone non solo osservando la lettera della disposizione costituzionale (elemento, questo, ritenuto normalmente di per sé insufficiente a distinguere tra riserve relative e assolute), ma soprattutto considerando la sua ratio (limitazione della durata massima della giornata lavorativa in funzione di tutela della salute del lavoratore), nonché analizzando l’ambito di estensione materiale della riserva in essa sancita, il quale risulta incompatibile con un rinvio ad altri della competenza a disciplinare l’oggetto riservato. Come noto, infatti, laddove si versi in un’ipotesi di 59 Art. 17, co. 1°. Art. 17, co. 2° e 3°. 61 Cfr., in particolare, art. 17, co. 2°, lett. c). 62 Sia dunque consentito rinviare a quelle sedi per le argomentazioni relative: CARABELLI, Il lavoro straordinario..., CARABELLI, LECCESE, Orario di lavoro..., e, soprattutto, LECCESE, L’orario di lavoro..., spec. 83 ss. (nonché 63, per i necessari rinvii in merito al dibattito sull’ammissibilità di decreti legge e/o di leggi di delegazione e, quindi, di decreti legislativi in materia riservata). 60 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 25 riserva relativa, il legislatore deve comunque individuare quantomeno i principi fondamentali o generali della disciplina, con una completezza tale da circoscrivere sufficientemente la discrezionalità di quanti siano chiamati ad intervenire su profili rientranti nella materia coperta da riserva (recte, nel suo specifico oggetto), non potendosi limitare ad un mero rinvio in bianco alla fonte subordinata; ed al riguardo si è parlato di indispensabile individuazione, ad opera della legge, delle scelte caratterizzanti, ovvero dei principi generali, ovvero, ancora, delle direttive e dei criteri-base cui tale fonte deve attenersi63. Sennonché, l’ambito di estensione materiale della riserva sancita dall’art. 36, co. 2°, Cost., copre un aspetto circoscritto, compatto e puntuale (tetto giornaliero d’orario) di una materia più ampia o complessa, rispetto al quale non è neppure tecnicamente possibile individuare elementi dello schema regolativo in relazione ai quali il legislatore si possa limitare ad operare le scelte caratterizzanti, ovvero a dettare i principi fondamentali di disciplina, cui eventuali altre fonti si debbano attenere: di qui l’impossibilità di ammettere la possibilità che il legislatore chiami tali fonti a stabilire la durata massima della giornata di lavoro. Ebbene, l’accettazione di questa soluzione interpretativa renderebbe, con evidenza immediata, incostituzionali le disposizioni in esame. Va detto, peraltro, che anche a voler ipotizzare la possibilità di intendere la riserva in questione in senso ‘debole’, e cioè come riserva relativa, la disciplina in esame solleverebbe comunque dubbi di legittimità costituzionale64. Infatti, per quanto appena riferito in linea generale, in merito ai contenuti minimi di una legge che contempli l’intervento di altri soggetti in una materia coperta da riserva (quantunque, in ipotesi, relativa), è evidente che, nel caso di specie, i summenzionati principi, scelte o direttive avrebbero dovuto vertere, in primo luogo, sulla determinazione del nuovo - e più ridotto - limite minimo di riposo consecutivo e, conseguentemente (id est: indirettamente), del nuovo - e più elevato - tetto massimo assoluto del lavoro giornaliero; in secondo luogo, sulle ipotesi e/o condizioni legittimanti la deroga, cioè - in definitiva - legittimanti il passaggio da un regime generale ad un diverso, e ancor meno protettivo, regime. Sennonché, in merito al primo aspetto, è evidente come il rinvio che ci occupa non contenga alcuna indicazione utile a limitare la discrezionalità delle altre fonti nell’opera di fissazione del quantum di quel nuovo limite minimo e, quindi, di quel nuovo tetto massimo (cosa che del 63 64 V., per i necessari rinvii alla dottrina sul punto, LECCESE, L’orario di lavoro..., 73 ss. Cfr. anche DEL PUNTA, La riforma dell’orario..., XIV s. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 26 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE resto, per quanto sopra argomentato, neppure sarebbe stata possibile, vista la puntualità dell’oggetto riservato); anzi, nel rinvio in questione non è nemmeno sancito l’obbligo per la fonte secondaria o per la contrattazione collettiva di procedere ad una tale fissazione. Né, in senso contrario, sarebbe invocabile l’art. 17, co. 4°, del d.lgs. Questa norma persino alla luce dell’interpretazione rigorosa fornita dalla Corte di giustizia della corrispondente previsione comunitaria - incide solo sul momento in cui devono essere concessi i riposi compensativi, imponendo che essi siano «immediatamente successivi all’orario di lavoro che sono intesi a compensare» e, quindi, che la riduzione del riposo sia compensata mediante la concessione di «un numero di ore consecutive corrispondenti alla riduzione praticata e di cui il lavoratore deve beneficiare prima di cominciare il periodo di lavoro seguente», salvo che ciò non sia possibile per ragioni oggettive, cioè in «circostanze del tutto eccezionali» (nelle quali occorre comunque assicurare una protezione appropriata)65. Com’è evidente, la norma in questione non incide invece, in senso limitativo, sull’entità di quella riduzione (cioè sull’entità della contrazione del riposo) e, quindi, non è idonea, di per sé, a porre un limite alla dilatazione del tempo di lavoro nella singola giornata: il suo rispetto, insomma, non è idoneo ad evitare la lesione - sul punto - del precetto posto dall’art. 36, co. 2°, Cost. Per quanto attiene al secondo aspetto, poi, è già stato rimarcato come l’intervento derogatorio della contrattazione collettiva non sia stato sottoposto ad alcuna limitazione tipologica (invece presente, come si è detto, per l’ipotesi in cui la deroga sia introdotta con d.m.): in questo caso, quindi, manca anche la determinazione legislativa di condizioni, esigenze o caratteristiche idonee a scongiurare l’esercizio arbitrario della funzione attribuita con il rinvio. La verità, in definitiva, è che il legislatore delegato non ha affatto considerato, nell’effettuare le sue scelte, la specifica previsione costituzionale in materia di durata giornaliera, ponendosi come unico obiettivo (invero, solo in parte raggiunto: supra, par. 1.1) quello di rispettare le diverse prescrizioni poste dalla direttiva (eccettuata comunque, come qui più volte ribadito, quella relativa al non regresso), con ciò esponendo la nuova disciplina all’inevitabile contrasto con quella previsione. Ed è appena il caso di osservare che un simile problema non si sarebbe affatto posto se il legislatore delegato avesse compiuto una diversa scelta (peraltro imposta anche dalla necessità del rispetto della 65 V. Corte Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, Norbert Jaeger contro Landeshaupstadt Kiel, in Guida lav., 2003, n. 38, 11 (spec. parr. 94 ss., da cui sono tratti i virgolettati). WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 27 clausola di non regresso e dai contenuti della delega, nonché seguita anche in altri paesi comunitari, nei quali pure manca una disposizione costituzionale quale l’art. 36, co. 2° Cost.), consistente nella conservazione di un autonomo ed adeguato limite all’orario giornaliero massimo assoluto, cui affiancare il diritto al riposo minimo consecutivo su un arco temporale mobile di 24 ore. 2.2. Sul potenziale contrasto con l’art. 36, co. 3°, Cost. Il secondo potenziale contrasto con il dettato costituzionale si riscontra, come si è detto, in relazione alla disciplina contenuta nell’art. 9, d.lgs. n. 66, sul riposo settimanale. Al riguardo, l’art. 9, co. 1°, sancisce che «il lavoratore ha diritto, ogni sette giorni, a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza della domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero di cui all’art. 7»; una previsione questa, nella quale, come è stato ben rilevato da un autore66, sono contenute varie statuizioni di differente portata, e precisamente le seguenti: il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore ogni sette giorni lavorativi; le 24 ore di riposo devono essere consecutive; il riposo deve essere di regola goduto nella giornata di domenica; le 24 ore di riposo settimanale si devono cumulare con le 11 ore di riposo giornaliero di cui all’art. 7. A fronte di questa disposizione, il co. 2° dello stesso art. 9, con una formulazione invero contorta, dispone, da un lato, che «fanno eccezione alla disposizione di cui al comma 1» alcune situazioni tassativamente individuate (cambio squadra nel lavoro a turni, attività di lavoro frazionato, personale del settore dei trasporti ferroviari addetto ad attività discontinue, a servizi a bordo dei treni e ad attività connesse con gli orari del trasporto ferroviario che assicurano continuità e regolarità del traffico: lett. a), b) e c)) e, dall’altro, che i contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative, possono «stabilire previsioni diverse» (lett. d)), quantunque nel rispetto di quanto previsto dal co. 4° dell’art. 1767. Tanto l’incipit del co. 2°, quanto il dettato della stessa lett. d), per il loro tono generico, paiono dunque consentire deroghe a tutte le statuizioni legali del comma 1°; e d’altronde tali deroghe sarebbero tutte ammesse dall’art. 17, par. 2.3 e par. 2.1., lett. e) della direttiva n. 93/10468. 66 GAROFALO D., Il D.Lgs. n. 66/2003 sull’orario di lavoro e la disciplina previgente: un raccordo problematico, in Lavoro giur., 2003, 1013. 67 Ma al riguardo v. supra, nel par. 1.1, quanto già detto in merito alla mancata introduzione di questo limite anche per le ipotesi direttamente individuate dalle lett. a), b) e c) dell’art. 9, co. 2°. 68 Cfr. LECCESE, La nuova disciplina..., 222 ss. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 28 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE Il co. 3° dell’art. 9 individua, poi, varie attività per le quali è consentito fissare il predetto riposo in un giorno differente dalla domenica; ed ancora, il co. 4° dello stesso art. 9, fa salve le norme speciali che consentono la fruizione del riposo in giorno diverso dalla domenica, ma anche «le deroghe previste dalla l. 22 febbraio 1934, n. 370», le quali riguardano, a loro volta, tanto il riposo domenicale quanto altri profili della disciplina del riposo settimanale: basti pensare ai casi di parziale esclusione della tutela69, alla riduzione del riposo, alla possibilità di frazionarlo o sospenderlo, al raggruppamento di più giornate di riposo70. Infine, un richiamo merita anche l’esplicita esclusione del personale mobile dall’applicazione dell’art. 9, per effetto dell’art. 17, co. 6°, benché sia fatto salvo il «rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori» (ma anche dell’inadeguatezza di questa previsione rispetto alle clausole di salvaguardia previste dalla direttiva, si è detto supra, par. 1.1). A fronte di questa a dir poco contorta e non lineare disciplina, numerosi sono i profili di contrasto con l’art. 36, co. 3°, Cost., che emergono anche alla luce della pluriennale giurisprudenza della Corte costituzionale in materia. A questo riguardo va precisato anzitutto che la Corte - dopo aver sancito che il diritto costituzionale al riposo settimanale spetta, in modo irrinunciabile ed insopprimibile, a tutti i lavoratori71 - è intervenuta in passato più volte a giudicare della legittimità di disposizioni che, in deroga al principio del riposo di 24 ore ogni sette giorni, stabilivano una periodicità diversa. E tutte le volte essa ne ha affermato (almeno in linea di principio ed indipendentemente dalla dichiarazione di incostituzionalità o meno della disposizione sottoposta al suo giudizio), con analoghe motivazioni, la compatibilità con l’art. 36, co. 3°, Cost., pur delineando alcuni essenziali principi che devono evidentemente essere rispettati dal legislatore ordinario, nonché dall’interprete nella sua attività esegetica. In effetti, in una prima sentenza la Corte ha posto la condizione che siffatta differente periodicità sia ragionevolmente imposta dalle esigenze della produzione nell’industria, nel commercio, nei trasporti, nell’agricoltura ecc., derivanti «dalla grande varietà di regimi di lavoro» ovvero connesse «alle varie specie di attività lavorative caratterizzate da peculiari circostanze». La stessa Corte ha peraltro precisato che, in ogni caso, è necessario che la diversa periodicità sia ristretta «ai casi di 69 70 71 Cfr. spec. art. 1, co. 2°, l. n. 370 e, su tale norma, Corte cost. n. 76/1962 e n. 23/1982. Cfr. LECCESE, La nuova disciplina..., 226 s. Corte cost. n. 76/1962 e, incidenter tantum, Corte cost. nn. 146/1971 e 101/1975. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 29 evidente necessità a tutela di altri interessi apprezzabili» e che, nel ciclo di lavoro di un certo periodo di tempo, rimanga comunque ferma la media di ventiquattro ore di riposo dopo sei giornate lavorative (risultando di conseguenza illegittime le previsioni che non soddisfano quest’ultimo requisito, poiché consentono - a causa della loro imprecisione e vaghezza - la concentrazione dei riposi)72. In una successiva pronuncia, continuando lungo questa traccia, la Corte, da un lato, ha ribadito che la deroga può essere consentita a condizione che si tratti di casi di necessità a tutela di altri apprezzabili interessi e che non venga snaturato od eluso il rapporto - nel complesso - di un giorno di riposo e sei di lavoro; dall’altro, ha ancora confermato che non debbano essere superati i limiti di ragionevolezza rispetto sia alle esigenze particolari della specialità del lavoro, sia - e trattasi di un significativo sviluppo della precedente pronuncia - rispetto alla tutela degli interessi del lavoratore soprattutto per quanto riguarda la salute dello stesso73. Infine, in una sentenza successiva, la Corte, nel richiamare le proprie precedenti pronunce, ha ancora una volta sottolineato che peculiari forme di periodicità possono essere previste in ragione della diversa qualità e varietà di tipi di lavoro, al fine di soddisfare altri apprezzabili interessi; al tempo stesso, nel confermare l’esigenza che non vengano superati i predetti limiti di ragionevolezza (a tutela tanto della specialità del lavoro che della salute del lavoratore), ha peraltro affermato - ed in ciò è rinvenibile un nuovo e significativo elemento nel ragionamento della Corte - che deve trattarsi di «situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale»74 (corsivo nostro). Viceversa, la stessa Corte costituzionale non ha ammesso nessuna deroga alla regola della consecutività delle 24 ore di riposo, affermando che quest’ultima costituisce elemento essenziale del riposo settimanale75, né tanto meno alla regola del non riassorbimento, o non sovrapponibilità, totale o parziale del riposo giornaliero da parte di quello settimanale76. Orbene, pare evidente che occorra trarre le dovute conseguenze da questa articolata elaborazione sul piano dell’interpretazione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 66, nonché - per effetto del richiamo di cui al suo art. 9, co. 4° - nella l. n. 370 del 1934, segnalando anzitutto che nessun lavoratore può essere privato del diritto costituzionale al riposo settimanale. È dunque anzitutto in radicale contrasto con l’art. 36, co. 3°, 72 Corte cost. n. 150/1967. Corte cost. n. 146/1971, previsioni che consentivano il 74 Corte cost. n. 101/1975. 75 Corte cost. n. 23/1982, nel 76 Corte cost. n. 102/1976 ed 73 anch’essa contenente una declaratoria d’incostituzionalità di raggruppamento arbitrario e irrazionale dei riposi. richiamare le proprie pronunce nn. 150/1967 e 102/1976. ancora Corte cost. n. 23/1982. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 30 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE Cost. la previsione di cui all’art. 17, co. 6°, del d.lgs. n. 66, con la quale si stabilisce l’inapplicabilità dell’art. 9 al personale mobile (sia pure, come s’è detto, «nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori»), nella misura in cui tale inapplicabilità possa essere interpretata come esclusione di questi lavoratori dal diritto al riposo settimanale; e siffatta interpretazione va riferita - come, in verità, occorreva già fare prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 66, sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale - anche a tutti i lavoratori che ai sensi dell’art. 1, co. 2°, l. n. 370, erano esclusi dall’applicazione della precedente disciplina. Per altro verso, data l’indifferenza dell’art. 36, co. 3°, Cost., in merito alla coincidenza del riposo settimanale con la domenica, nessun problema di legittimità costituzionale pongono l’art. 9, co. 2°, 3° e 4°, del d.lgs. n. 66, nonché le altre disposizioni della l. n. 340 che consentono, per determinati lavoratori e attività, di derogare al principio, sancito nel co. 1° dell’art. 9, della coincidenza del riposo settimanale con la giornata della domenica. Ciò detto, va segnalato che le altre previsioni dell’art. 9, co. 1° oltre che dare attuazione all’art. 5 della direttiva n. 93/104 (nel quale, val la pena segnalarlo, l’originario richiamo al riposo domenicale è stato successivamente soppresso dalla direttiva n. 2000/34) - riprendono anche garanzie sancite dall’art. 36, co. 3°, come interpretato dalla Corte costituzionale. Di qui la necessità di verificare se le deroghe consentite dall’art. 9, co. 2°, d.lgs. n. 66, nonché dalla l. n. 370 (in quanto richiamata, come s’è detto, dal co. 4° del medesimo art. 9) siano tuttavia suscettibili o meno di contrastare con il dettato costituzionale. Per ciò che attiene alle deroghe già previste dalla legge del 1934, ci si può qui limitare ad accennare che la loro sopravvivenza determina la riproposizione dei dubbi di costituzionalità già sollevati, nel tempo, dalla dottrina con riferimento a tutti i casi in cui le vecchie disposizioni prevedevano una mera riduzione del riposo, senza recuperi successivi, ovvero il suo frazionamento77. Per ciò che attiene, invece, alle nuove previsioni del d.lgs., si deve ritenere che, al fine di scongiurarne l’illegittimità costituzionale, l’art. 9, co. 2°, vada interpretato nel senso che non è comunque consentita la compressione, da un lato, del diritto a 24 ore consecutive di riposo e, 77 Si v., in particolare, VENTURA, Il riposo settimanale: questioni recenti e recentissime di interpretazione e di costituzionalità, in Riv. giur. lav., 1968, I, 67 ss.; TREU, Commento all’art. 36, in BRANCA Giu. (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti economici, tomo I, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1979, 128 s.; ICHINO, L’orario di lavoro e i riposi. Artt. 2107-2109, in SCHLESINGER (diretto da), Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè, Milano, 1987, 160; GALLI, I riposi settimanali e infrasettimanali, in Dir. lav., 1987, I, 546 ss. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 31 dall’altro, del diritto al non riassorbimento del riposo giornaliero da parte di quello settimanale; e ciò vale sia per le tre ipotesi legalmente nominate dall’art. 9, co. 2°, lett. a), b) e c), sia per quelle ulteriori individuabili da parte della contrattazione collettiva, autorizzata dalla lett. d)78. Per quanto attiene, invece, alla periodicità settimanale del riposo di 24 ore, il discorso è più complesso poiché, leggendo attentamente le considerazioni della Corte costituzionale sopra riportate, sembra di scorgere un progressivo irrigidimento del Giudice delle leggi nell’ammettere una deroga a tale principio; ciò in virtù della crescente considerazione dell’esigenza di tutela degli interessi del lavoratore, in particolare della sua salute (nonché, si potrebbe - forse dovrebbe aggiungere, della sua dimensione socio-ricreativa, secondo quanto argomentato, seppure in altro contesto, dalla stessa Corte costituzionale79), ma anche, ed anzi soprattutto, in ragione del richiamo alla necessità che le deroghe al principio di periodicità rispondano ad una logica di eccezionalità80. Della giurisprudenza costituzionale in questa materia, sopra brevemente riepilogata, dovrà dunque certamente tenere conto la contrattazione collettiva (il cui intervento non pone problemi di legittimità, mancando una riserva di legge nell’art. 36, co. 3° Cost.81), la quale potrà operare, in forza dell’art. 9, co. 2°, lett. d), soltanto, appunto, nel rispetto dei confini, tendenzialmente sempre più rigorosi, posti dalla Corte. Quanto invece alle tre ipotesi tipizzate dal decreto al comma 2°, lett. a), b) e c), mentre non sembrano sorgere dubbi in relazione all’ipotesi sub c (dove è implicato l’effettivo godimento della libertà costituzionale di circolazione di cui all’art. 16, Cost.), qualche perplessità potrebbe forse sorgere in relazione alle ipotesi sub a e b, una volta che si desse rilievo alle affermazioni della Corte relative, da un lato, alle esigenze di tutela degli interessi del lavoratore, dall’altro alla natura eccezionale del regime derogatorio. 2.3. Sul potenziale contrasto con l’art. 76 Cost. Il terzo profilo di contrasto del d.lgs. n. 66 con la normativa costituzionale riguarda la violazione dell’art. 76 Cost. 78 E d’altronde, si potrebbe dire che, almeno per ciò che attiene al riassorbimento del riposo giornaliero in quello settimanale, il legislatore abbia implicitamente inteso soddisfare i principi derivanti dall’elaborazione della giurisprudenza costituzionale, in quanto non ha utilizzato la possibilità derogatoria offerta sul punto, in presenza di condizioni giustificatrici oggettive, tecniche o di organizzazione del lavoro, dall’art. 5, par. 3, della dir. n. 104. 79 Corte cost. n. 23/1982. 80 Corte cost. n. 101/1975. 81 Cfr. ancora Corte cost. n. 146/1971. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 32 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE A questo riguardo, si è già detto in apertura che la Legge comunitaria 2001 (l. 1° marzo 2002, n. 39), nel fissare taluni principi e criteri direttivi di carattere generale valevoli per tutte le deleghe legislative in essa previste, aveva indicato «quelli contenuti nelle direttive da attuare»82, impegnando altresì il legislatore delegato ad assicurare, in ogni caso, che la disciplina da esso disposta fosse «pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive» da attuare83. Non è neppure il caso di soffermarsi in questa sede sulla scarsa precisione di siffatta identificazione dei principi e criteri direttivi richiesti dall’art. 76 Cost., laddove si pensi che molte direttive in materia sociale non si limitano ad imporre contenuti minimi per le discipline nazionali, ma offrono al legislatore interno una vasta gamma di opzioni regolative (talora, per così dire, polarizzate tra loro ed alcune delle quali persino foriere - ove prescelte - di un arretramento delle tutele già in vigore nei singoli Stati membri), prospettando una discrezionalità che, almeno nell’ambito dell’ordinamento italiano, è riservata alla legge del Parlamento e non potrebbe essere ‘trasferita’ al Governo sic et simpliciter, cioè rimessa tramite delega ad esso in assenza di specifici criteri direttivi che ne dirigano (cioè guidino e limitino) le scelte84; e ciò per quanto ampia possa essere, in genere, la portata che si intenda attribuire al concetto di «principi e criteri direttivi» di cui all’art. 76 Cost.85. Quel che qui più importa rilevare, piuttosto, è che il diretto richiamo delle direttive da attuare, ai fini dell’individuazione dei principi e criteri direttivi da valere per il legislatore delegato, implica che la violazione da parte della normativa attuativa dei vincoli e limiti posti dalla direttiva n. 93/104, oltre a rilevare, come si è visto (v. supra, parr. 2 e 2.1), in termini di inottemperanza agli obblighi comunitari, si pone altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché costituisce violazione anche della legge delega. Ciò vale, naturalmente, pure per il principio di non regresso sancito dall’art. 18, par. 3, il quale deve essere sicuramente annoverato, 82 Art. 2, co. 1°. Art. 2, co. 1°, lett. f). 84 Si pensi, ad esempio, all’art. 1, dir. n. 75/129 (ed ora art. 1, dir. n. 98/59), ed alla scelta da esso consentita - ai fini della determinazione del campo di applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi - in materia di periodo di riferimento, numero di licenziamenti e dimensioni occupazionali; scelta che, non a caso, è stata fatta in Italia con legge del Parlamento (art. 24, l. n. 223/1991). 85 Su cui cfr., da ultimo, SPEZIALE, Il contratto commerciale di somministrazione di lavoro. Commento all’art. 20 del d.lgs. n. 276 del 2003, di prossima pubblicazione in GRAGNOLI, PERULLI (a cura di), La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali. Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Cedam, Padova, 2004, par. 3. 83 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 33 in assenza di una specifica e motivata esclusione, tra i principi e criteri direttivi deducibili dalla direttiva n. 93/10486. 2.4. Sul potenziale contrasto con l’art. 39, Cost. 2.4.1. Le tipologie di rinvio contenute nel d.lgs. n. 66 alla contrattazione collettiva Seguendo una prassi ormai ampiamente praticata dalla legislazione lavoristica dell’ultimo periodo, il legislatore delegato ha largheggiato in rinvii alla contrattazione collettiva, anche se essi - come avvenuto con maggiore evidenza, in epoca più recente, in tema di part-time87 e di mercato del lavoro88 - manifestano differenti caratteristiche strutturali e funzionali, oltre che di contenuto. Di conseguenza, nonostante la suggestione unificante indotta dall’art. 1, co. 2°, lett. m), il quale fornisce una definizione generale di «contratti collettivi di lavoro» (si tratta dei «contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative») da valere - salvo la presenza di alcuni rinvii a contratti collettivi stipulati da soggetti differenti e/o a specifici livelli89 - in tutti i casi in cui il decreto rinvii ad essi90, ci si trova in realtà di fronte a tipologie differenziate del rapporto tra fonte legale e contratto collettivo, di modo che è indispensabile raggrupparli a seconda delle relative uniformità. 86 LECCESE, L’orario di lavoro..., 427; CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva..., par. 3.3. 87 Si v. l’analisi di PINTO, Lavoro part-time e mediazione sindacale: la devoluzione di funzioni normative al contratto collettivo, in Dir. lav. rel. ind., 2002, 275 ss. 88 V., in proposito, la schematizzazione di CARINCI F., Una svolta fra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo, in MISCIONE, RICCI M. (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, vol. I del Commentario al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, coordinato da CARINCI F., Ipsoa, Milano, 2004, L ss. 89 Cfr. spec. art. 17, co. 1°, e art. 18, co. 2°. 90 In proposito è bene chiarire che la generica formulazione della citata lett. m), pur nella sua indubbia ambiguità (che ha già dato luogo a differenti interpretazioni), induce comunque a ritenere che il legislatore delegato abbia inteso ricomprendere tutti i livelli contrattuali, da quello interconfederale a quello aziendale, passando per quello nazionale e per quello territoriale; soluzione interpretativa, questa, che consente anche di fornire adeguata spiegazione alla presenza nel decreto di disposizioni che, come accennato in testo, operando in via d’eccezione rispetto alla norma generale, stabiliscono specificamente il livello competente. Per argomenti più analitici a sostegno di questa interpretazione e per i necessari rinvii alla dottrina conforme e contraria, sia consentito rinviare a CARABELLI, LECCESE, Il sofferto rapporto .... WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 34 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE a) Ad una prima tipologia sono riconducibili i rinvii che attribuiscono al contratto collettivo una funzione derogatoria in senso migliorativo dei trattamenti previsti dalla legge. Tra essi si segnalano quelli di cui: - all’art. 1, co. 2°, lett. e), n. 2 (nella parte in cui, ai fini della qualificazione di lavoratore notturno, al contratto collettivo viene riconosciuta la possibilità di stabilire condizioni di miglior favore rispetto al limite degli ottanta giorni lavorativi di cui allo stesso n. 2, ovvero rispetto al limite delle tre ore di cui al n. 1 della medesima lett. e); ma questa stessa disposizione, come si vedrà tra breve consente anche deroghe peggiorative); - all’art. 3, co. 2°, prima parte (ove si consente ai contratti collettivi di stabilire, ai soli fini contrattuali, una durata settimanale normale dell’orario di lavoro inferiore rispetto a quella legale, fissata, in 40 ore, dal co. 1° del medesimo art. 3); - all’art 4, co. 1° (dove i contratti collettivi sono, in sostanza, ‘invitati’ a fissare un limite inferiore alle 78 ore ricavabili dall’art. 7, di cui si è detto supra, par. 2.1); - all’art. 5, co. 3° (che prevede che i contratti collettivi possano ridurre il numero delle ore annuali di straordinario rispetto alle 250 previste dalla stessa disposizione - ma, come si dirà, essi potrebbero anche innalzare tale limite), e 4° (il quale prevede, invece, che il contratto collettivo possa ridurre il numero delle ipotesi ivi indicate, nelle quali lo straordinario è sempre e comunque ammesso - ma, come si dirà, esso potrebbe anche individuare ipotesi aggiuntive) (è da segnalare che, in relazione tanto alla diminuzione del limite delle 250 ore, quanto alla riduzione del numero delle ipotesi non vincolate, l’intervento del contratto è oggettivamente migliorativo, in quanto espone il lavoratore ad un minore carico lavorativo, pur se soggettivamente il singolo lavoratore potrebbe essere invece interessato, per motivi economici, a svolgere lo straordinario91); - all’art. 5, co. 5° (che prevede l’intervento del contratto collettivo ai fini della fissazione delle maggiorazioni retributive dello straordinario, ovvero, in aggiunta o in alternativa ad esse, dei riposi compensativi); - all’art. 8, co. 1° (in materia di durata delle pause, dove peraltro il contratto collettivo può introdurre deroghe non soltanto migliorative, ma anche peggiorative rispetto a quanto previsto dallo stesso art. 8, co. 2°); - all’art. 8, co. 3° (nella misura in cui si prevede che i contratti collettivi possano stabilire la remunerazione, o comunque il computo come lavoro effettivo dei periodi ivi indicati); 91 Cfr. CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva..., par. 4.2. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 35 - all’art. 10, co. 1° (dove, in tema di ferie annuali, si prevede che i contratti collettivi possano fissare un periodo superiore a quattro settimane); - all’art. 13, co. 2° (che riconosce ai contratti collettivi la possibilità di stabilire riduzioni dell’orario di lavoro o trattamenti indennitari per i lavoratori notturni); - all’art. 15, co. 2°, seconda parte (nel quale si prevede che il contratto collettivo possa stabilire soluzioni più favorevoli al lavoratore rispetto al licenziamento, in caso di inidoneità del lavoratore alla prestazione di lavoro notturno e di inesistenza o indisponibilità di altre mansioni equivalenti); - all’art 16, co. 1° (il quale riconosce ai contratti collettivi la possibilità di prevedere condizioni di miglior favore rispetto alle ipotesi, ivi individuate, di esclusione dai limiti della durata dell’orario normale settimanale); - all’art. 18, co. 2° (relativo all’orario di lavoro dei lavoratori a bordo di navi da pesca marittima, il quale consente ai «contratti nazionali di categoria» di derogare in melius alla previsione contenuta nello stesso comma in tema di durata media dell’orario di lavoro; ma, come si dirà tra breve, la deroga ivi consentita può essere anche peggiorativa). b) Una seconda tipologia è poi costituita dai rinvii che consentono al contratto collettivo di svolgere una funzione derogatoria diversa ed ulteriore rispetto a quella migliorativa, sopra descritta. Si tratta, come noto, di un modello di rapporti tra legge ed autonomia collettiva sviluppatosi soprattutto nell’ultimo ventennio, secondo il quale ai contratti collettivi è consentito, a seconda dei casi, di introdurre direttamente trattamenti peggiorativi (a latere laboratoris) o comunque difformi rispetto a quelli previsti dalla legge (una funzione derogatoria che potremmo definire di tipo ‘regolativo’); di stabilire l’eliminazione o il temperamento di vincoli legali gravanti sul datore di lavoro, con conseguente riconoscimento in capo al medesimo di posizioni soggettive (eventualmente anche condizionate, ma comunque) più vantaggiose, soprattutto in tema di flessibilità (una funzione derogatoria, questa, che ha per effetto l’attribuzione al datore di lavoro di poteri o facoltà e che, per rapporto all’altra, potremmo definire di tipo ‘deregolativo’); di trasformare un limite legale da inderogabile in derogabile dalle parti individuali, pure se, eventualmente, nel rispetto di determinati limiti e/o condizioni (una funzione, questa, che potremmo forse meglio definire come ‘derogabilizzatrice’ - ovvero, con termine meno pregnante, ma più armonico, ‘quasi-derogatoria’ - proprio per evidenziare che la deroga costituisce una conseguenza non necessaria, ma solo eventuale WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 36 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE dell’intervento collettivo, dipendendo essa poi dalla volontà delle parti individuali92)93. Tra i principali rinvii contenuti nel d.lgs. n. 66 riconducibili a questa ampia tipologia possono essere annoverati quelli di cui: - all’art. 1, co. 2°, lett. e), n. 2 (nella parte in cui, ai fini della qualificazione di lavoratore notturno, al contratto collettivo viene riconosciuta la possibilità di stabilire condizioni peggiorative - oltre che, come s’è detto, migliorative - rispetto al limite degli ottanta giorni lavorativi di cui allo stesso n. 2); - all’art. 3, co. 2°, seconda parte (ove si consente ai contratti collettivi di prevedere la distribuzione multiperiodale - su base, al massimo, annua - dell’orario di lavoro settimanale di 40 ore stabilito dal co. 1° del medesimo art. 3); - all’art. 4, co. 4° (in base al quale i contratti collettivi possono estendere a 6 o anche a 12 mesi l’ambito temporale entro cui calcolare la media delle 48 ore ogni sette giorni, di cui al co. 2°; nel caso, peraltro, di 92 Del contratto collettivo oggetto di questo tipo di rinvii, con specifico riferimento alle tipologie flessibili di lavoro subordinato, si è tra l’altro detto che esso produrrebbe un ‘terzo effetto’ - diverso da quelli normativo e obbligatorio - e cioè un effetto ‘costitutivo’ della legittimazione negoziale individuale (D’ANTONA, Contrattazione collettiva e autonomia individuale nei rapporti di lavoro atipici, in Dir. lav rel. ind., 1990, spec. 554 ss.; v. anche ROCCELLA, Contrattazione collettiva, azione sindacale, problemi di regolazione del mercato del lavoro, in Lav. dir., 2000, 351 ss. e, da ultimo, VOZA, La destrutturazione del tempo di lavoro: part-time, lavoro intermittente e lavoro ripartito, in CURZIO (a cura di), Lavoro e diritti..., 238 s.). 93 La distinzione tra questi differenti rinvii ad una contrattazione collettiva di tipo derogatorio è effettuata con finalità meramente classificatorie, dal momento che, in assenza di precisazione del legislatore, il rinvio potrebbe anche implicare il possibile esercizio da parte del contratto collettivo di una qualsiasi delle funzioni suddette. Si pensi ad esempio all’accordo che istituisce l’organizzazione multiperiodale dell’orario normale settimanale, il quale si presenta come un intervento contrattuale (autorizzato, come si dirà nel testo, dall’art. 3, co. 2°) volto a derogare il limite legale delle 40 ore di orario normale settimanale, in quanto, attraverso la sua trasformazione in limite medio su base plurisettimanale (entro l’arco temporale massimo di un anno), ne consente il superamento, seppure a condizione di un successivo recupero compensativo. Orbene, si può osservare che, sulla base del rinvio generico sancito dalla norma, il contratto collettivo potrebbe appunto derogando al predetto limite - disciplinare direttamente la nuova distribuzione multiperiodale (nel qual caso esso svolgerebbe una funzione derogatoria di tipo regolativo, poiché sostituirebbe al limite legale delle 40 ore settimanali di orario normale una organizzazione multiperiodale predeterminata e vincolante); ovvero potrebbe attribuire al datore il potere di distribuire l’orario di lavoro anche su base multiperiodale, con settimane di orario normale superiore alle 40 ore (nel qual caso si sarebbe in presenza di un contratto collettivo con funzione derogatoria di tipo deregolativo); ed infine potrebbe perfino limitarsi a prevedere la possibilità del ricorso ad una distribuzione multiperiodale dell’orario del singolo lavoratore, previo accordo tra le parti del rapporto individuale (nel qual caso non sarebbe un contratto in se stesso derogatorio, bensì un contratto idoneo a trasformare il limite legale inderogabile in derogabile dall’accordo delle parti). WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 37 estensione a 12 mesi, essi sono gravati dell’onere di individuare le «ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro»); - all’art. 5, co. 3° (dove, in relazione allo straordinario, si prevede che la disciplina collettiva possa eliminare il vincolo del preventivo accordo delle parti, ovvero aumentare il limite delle 250 ore) e co. 4° (dove i contratti vengono autorizzati ad aumentare il numero delle ipotesi in cui lo straordinario è sempre e comunque ammesso) (è da segnalare, specularmene a quanto sopra osservato, che in relazione tanto all’aumento del limite delle 250 ore, quanto all’aumento delle ipotesi non vincolate, l’intervento del contratto è oggettivamente peggiorativo, in quanto espone il lavoratore ad un maggiore carico lavorativo, pur se soggettivamente il singolo lavoratore potrebbe essere invece interessato, per motivi economici, a svolgere lo straordinario94); - all’art. 8, co. 1° (in materia di durata delle pause, dove peraltro il contratto collettivo, come s’è detto, può introdurre deroghe, oltre che peggiorative, anche migliorative rispetto a quanto previsto dallo stesso art. 8, co. 2°); - all’art. 9, co. 2°, lett. d) (in materia di riposi settimanali, dove peraltro il contratto collettivo soggiace al vincolo di cui all’art. 17, co. 4°); - all’art. 10, co. 3° (nella misura in cui si tratta di accordi che ‘accedono’ a quelli di cui all’art. 3, co. 2°, onde si prospettano come parte integrante della deroga ivi contemplata); - all’art. 13, co. 1° (dove si prevede che i «contratti collettivi, anche aziendali», possano definire un periodo di riferimento più ampio su cui calcolare il limite medio di 8 ore giornaliere di lavoro notturno); - all’art. 17, co. 1° (il quale consente che, «mediante contratti o accordi collettivi conclusi a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro firmatarie dei contratti collettivi nazionali di lavoro o, conformemente alle regole fissate nelle medesime intese, mediante contratti collettivi o accordi conclusi al secondo livello di contrattazione», si possano derogare le previsioni del decreto in materia di riposo giornaliero, di pause, di modalità organizzative e di durata del lavoro notturno; è evidente che si tratti di deroghe peggiorative, se si considera che esse sono sottoposte alla clausola di salvaguardia prevista dell’art. 17, co. 4°, su cui ci si è soffermati supra); - all’art. 18, co. 2° (posto che la deroga ivi prevista può essere anche in pejus: v. supra). 94 Cfr. ancora CARABELLI, LECCESE, Legge, autonomia collettiva..., par. 4.2. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 38 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE c) Ad una terza tipologia di rinvii, possono essere poi essere ricondotte le disposizioni del d.lgs. n. 66 che prevedono la possibilità per i contratti collettivi di intervenire a limitare - nell’an, nel quantum o nel quomodo - poteri datoriali che altrimenti, in mancanza di contratto, sarebbero esercitabili dal datore stesso senza limiti o, al massimo, nel rispetto di altri limiti e condizioni previsti dalla legge (tali contratti sono stati di solito definiti gestionali). Per maggiore chiarezza, si deve sottolineare che nell’ambito di questo gruppo di rinvii intendiamo collocare quelli in cui l’intervento del contratto collettivo sia previsto come ulteriormente vincolativo rispetto ai limiti e condizioni previsti dalla legge; laddove, qualora al contratto collettivo fosse consentito di (eliminare, ma soprattutto) modificare (e quindi sostituire) limiti e condizioni legali, si rientrerebbe nella categoria dei rinvii del secondo tipo, cioè di quelli che abbiamo definito come aventi funzione derogatoria, di tipo ‘regolativo’ o ‘deregolativo’, ovvero ‘quasi-derogatoria’95. I rinvii del d.lgs. n. 66 appartenenti alla tipologia di cui ora ci si occupa sono quelli contenuti: - nell’art. 5, co. 2° (nella misura in cui le «modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario» siano intese, come pare corretto, dato il tono letterale della disposizione, come tali, e dunque come condizioni contrattuali che rendono più gravoso il potere del datore di lavoro di ricorrere allo straordinario - da esercitarsi comunque nell’ambito dei limiti di cui agli artt. 4 e 7, nonché di quelli derivanti dallo stesso art. 5, co. 3°, 4° e 5°); - nell’art. 11, co. 2° (ferma restando la facoltà, ormai riconosciuta al datore di lavoro, di richiedere lavoro notturno, la previsione da parte dei contratti collettivi di requisiti soggettivi in presenza dei quali i lavoratori non possono esservi adibiti costituisce un intervento limitativo di un potere datoriale altrimenti non vincolato dalla legge); - nell’art. 12, co. 1° (infatti, posto che i contratti possono stabilire criteri e modalità con cui deve svolgersi la consultazione con le r.s.a. o con le organizzazioni territoriali dei lavoratori, essi sono in grado di imporre ‘complicazioni’ all’esercizio di un potere del datore, seppure 95 In tal senso si possono, dunque, qui confermare le perplessità da varie parti sollevate (CARABELLI, Rapporto conclusivo su I licenziamenti collettivi, in Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, Atti delle giornate di studio Aidlass, Foggia, 25-26 maggio 2001, Giuffrè, Milano, 2002, 357 ss., ed ivi ulteriori riferimenti; da ultimo, NATULLO, La contrattazione «gestionale»: distinzioni reali ed apparenti dal contratto «normativo», in SANTUCCI, ZOPPOLI L. (a cura di), Contratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, 2a ed., 2004, 54 ss.) nei confronti della nota sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994, relativa all’art. 5, co. 1°, l. n. 223 del 1991 - in tema di collocamento in mobilità dei lavoratori - in base alla quale, com’è noto, l’accordo con il quale vengano individuati criteri di scelta diversi da quelli definiti dalla stessa disposizione, apparterrebbe alla categoria degli ‘accordi gestionali’. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 39 questo parrebbe già vincolato ad effettuare comunque detta consultazione). - dall’art. 14, co. 4° (dove, stabilendosi che la contrattazione collettiva possa «prevedere modalità e specifiche misure di prevenzione relativamente alle prestazioni di lavoro notturno di particolari categorie di lavoratori», quali i sieropositivi e i tossicodipendenti, si pongono le basi per un’ulteriore limitazione del potere datoriale); - nell’art. 15, co. 2°, seconda parte (ove si prevede che in caso di sopraggiunta inidoneità del lavoratore al lavoro notturno e di inesistenza o indisponibilità di mansioni diurne equivalenti cui adibirlo - ipotesi nelle quali vi sarebbe spazio per l’esercizio del potere di recesso - la contrattazione collettiva possa individuare concrete «soluzioni» alternative). d) Un’ultima tipologia di rinvii presente nel d.lgs. n. 66 è, infine, riconducibile a quella categoria di rinvii legislativi che attribuiscono espressamente al contratto collettivo il compito di colmare uno spazio lasciato vuoto (o semi-vuoto…) dalla norma di legge, e più precisamente di integrare la (e quindi dare contenuto alla) norma (quanto ad es. a nozioni, quantità, etc.); ovvero di specificare (e quindi esplicitare) limiti o condizioni che la legge stessa individua in generale, ma dei quali non detta gli (o, quanto meno, alcuni degli) elementi connotativi. A questa tipologia di rinvii possono essere ricondotti quelli che, nell’ambito del d.lgs. n. 66, sono previsti: - dall’art. 4, co. 5° (il quale, vincolando comunque il datore di lavoro a comunicare alla DPL - Settore ispezione del lavoro il superamento, con lavoro straordinario, delle 48 ore di lavoro settimanale, stabilisce che la contrattazione collettiva possa determinare «le modalità per adempiere al predetto obbligo di comunicazione»); - dall’art. 8, co. 1° (in materia di modalità di godimento delle pause); - dall’art. 14, co. 1° (secondo il quale ai contratti collettivi, oltre che alla legge, è affidato il compito di fissare disposizioni in tema di «controlli preventivi e periodici adeguati al rischio cui il lavoratore è esposto» nel caso di lavoro notturno); - dall’art. 15, co. 2°, prima parte (che chiama la contrattazione collettiva a definire le modalità di applicazione della norma di cui allo stesso art. 15, co. 1°, relativa alla sopraggiunta inidoneità del lavoratore al lavoro notturno ed alle sue conseguenze). 2.4.2 I problemi dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi oggetto di rinvio e della selezione dei soggetti stipulanti WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 40 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE Al termine di questa classificazione, si deve osservare che la ricca ed articolata gamma di rinvii contenuti nel d.lgs. n. 66 (come del resto di tutti quelli sparsi nei più recenti provvedimenti legislativi) ripropone inevitabilmente i complessi problemi relativi al potenziale contrasto tra le norme che li contemplano e l’art. 39 Cost., tanto nella parte fondante la libertà sindacale (co. 1°), quanto in quella disciplinante la contrattazione collettiva erga omnes (co. 4°). Rinviando ad altra occasione per una più ampia trattazione di questi aspetti96, in questa sede sia consentito solo sottolineare che, ad avviso di chi scrive, in mancanza di attuazione della normativa costituzionale di cui all’art. 39, co. 2°, ss., al legislatore è precluso adottare soluzioni differenti per il raggiungimento dell’obiettivo dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi: ogni soluzione alternativa è destinata ad infrangersi contro il ‘muro’ della libertà sindacale (tanto positiva che negativa) di cui all’art. 39, co. 1°, Cost., posto che, nella logica del disegno costituzionale, il suo ‘scavalcamento’ è consentito soltanto attraverso la strada di cui ai co. 2° e ss. Tale limite deriva direttamente da una chiara e rigorosa pronuncia della Corte Costituzionale del 196297, la cui vincolatività per l’interprete è tuttora assolutamente stringente. Non si possono dunque condividere le (numerose e varie) tesi volte a dimostrare la conciliabilità con la suddetta normativa costituzionale di una supposta efficacia generalizzata dei contratti previsti, volta a volta, da talune o da tutte le tipologie di rinvio, nessuna delle quali per il vero, è in grado di sovvertire la fondatezza delle argomentazioni addotte dal Giudice delle leggi98. Di conseguenza, si deve altresì ritenere che l’ordinamento, in virtù del principio di libertà sindacale di cui all’art. 39, co. 1°, Cost., consente oggi esclusivamente l’efficacia civilistica inter partes del contratto collettivo99, 96 CARABELLI, LECCESE, Il sofferto rapporto.... Corte cost. n. 106/1962, nonché Corte cost. n. 309/1997. 98 Per una critica alle predette tesi v. già VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in Dir. lav. rel. ind., 1997, 381 ss. e BELLOCCHI, Libertà e pluralismo sindacale, Cedam, Padova, 1998, 116 ss. Sulla questione e per ulteriori richiami alla riflessione dottrinaria in materia, v. CARABELLI, LECCESE, Il sofferto rapporto..., anche per alcune precisazioni relative alla possibilità o meno di giungere ad esiti diversi con riferimento a due peculiari ipotesi (relative allo sciopero nei servizi essenziali e alla contrattazione collettiva per il lavoro pubblico) nelle quali si registra l’interferenza, con l’art. 39, di altre norme costituzionali (artt. 40 e 97), nonché per una specifica critica alle tesi secondo cui l’impedimento costituzionale all’estensione legislativa dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune non sarebbe operante qualora si tratti di recepire direttive comunitarie (su quest’ultima questione v. già LECCESE, L’orario di lavoro..., 421 ss.). 99 Si segnala che il problema potrebbe forse assumere configurazione in parte differente ove si ritenesse - come ormai da più parti sostenuto (SANTORO PASSARELLI G., Sulla libertà sindacale dell’imprenditore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 170 ss.; GIUGNI, Commento 97 WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 41 quali che ne siano i soggetti stipulanti e quali che siano i tipi di rinvio che il legislatore abbia adottato (salvo, beninteso, il ricorso ai numerosi - ma frequentemente inadeguati - escamotages elaborati ormai da lungo tempo da dottrina e giurisprudenza al fine, appunto, di ovviare in qualche modo alla mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost.100). Se ciò è vero, al fine di sottrarre al contrasto con l’art. 39 Cost. i rinvii operati dal d.lgs. n. 66 ai contratti collettivi stipulati da soggetti selezionati (tra cui, specificamente, quelli definiti dall’art. 1, co. 2°, lett. m)), si dovrà ritenere che, alla luce della ‘elementare’ constatazione dell’efficacia soggettiva meramente privatistica di qualsivoglia contratto collettivo di diritto comune, ad essi non potranno che attribuirsi, volta a volta, solo le seguenti connotazioni. 1) In taluni casi essi risultano, a ben vedere, del tutto privi di valore precettivo. Si tratta dei rinvii relativi ad un intervento contrattuale in funzione migliorativa della norma legale (ipotesi sub lett. a del precedente paragrafo), ovvero in funzione di delimitazione dei poteri datoriali (ipotesi sub c). Ed infatti, per quanto attiene ai rinvii del primo tipo, si può rilevare come essi (una volta esclusa, per quanto appena detto, la loro incidenza sull’efficacia soggettiva dei contratti collettivi) risultino sostanzialmente superflui (o al massimo indicativi di una sollecitazione del legislatore)101, all’art. 39 Cost., in BRANCA Giu. (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti economici, tomo I, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1979, 270 ss.; CARABELLI, Libertà e immunità del sindacato, Jovene, Napoli, 1986, 133 s., nt. 79; da ultimo, VOZA, Interessi collettivi, diritto sindacale e dipendenza economica, Cacucci, Bari, 2004 (in corso di stampa), cap. IV, par. 5; per ulteriori riferimenti, anche alla dottrina di segno contrario, v. altresì, oltre a quest’ultimo contributo, BALDUCCI, Il sindacato, tomo I (L’organizzazione sindacale), Utet, Torino, 1984, 146 ss.), ma comunque non riconosciuto dalla Corte costituzionale (come desumibile sin dalle pronunce in materia di serrata: cfr. Corte cost. n. 29/1960 e n. 141/1967) - che la libertà organizzativa dei datori di lavoro vada ricondotta non all’art. 39, co. 1°, Cost., bensì agli artt. 18, co. 1°, e 41, co. 1°, Cost.: il che parrebbe consentire interventi legislativi che contemplassero meccanismi di estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi a latere datoris, senza ledere la libertà sindacale (negativa) dei lavoratori (nel senso di assicurare loro la volontarietà dell’assoggettamento al regolamento negoziale). Ma, evidentemente, la questione richiederebbe adeguati approfondimenti, che non è possibile effettuare in questa sede. 100 V., per tutti, VALLEBONA, Autonomia collettiva..., spec. 408 e 415 ss.; LUNARDON, Efficacia soggettiva del contratto collettivo e democrazia sindacale, Giappichelli, Torino, 1999, 161 ss. e 233 ss.; RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, 63 ss. 101 Per un simile giudizio su clausole di tal fatta in materia di part-time, v. già PINTO, Lavoro part-time..., 278 e 281 s., ove tali rinvii vengono definiti ‘impropri’ (in senso adesivo, VOZA, La destrutturazione .... 238); cfr. anche CARINCI F., Una svolta..., LIII, con riferimento ad alcuni rinvii contenuti nel d.lgs. n. 276/1993. In questa sede si deve però osservare che non può essere esclusa l’eventualità che da alcuni rinvii ad una contrattazione collettiva in funzione, latu senso, migliorativa possano WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 42 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE data la prerogativa, derivante dalla libertà sindacale costituzionalmente riconosciuta (art. 39, co. 1°) e spettante a qualsivoglia sindacato indipendentemente dalla sua ‘rappresentatività’, di contrattare condizioni di lavoro più vantaggiose (nel senso che apprestino una maggior tutela al lavoratore) rispetto a quelle previste non soltanto da altri precedenti contratti collettivi, ma anche da norme di legge (salvo che queste non siano inderogabili in melius102)103. Le stesse considerazioni possono, peraltro, essere estese anche alla seconda tipologia menzionata. I contratti ad essa appartenenti condividono, infatti, con quelli del primo tipo il fatto di potersi considerare migliorativi - anche se in senso lato - delle posizioni del lavoratore. A parte, ovviamente, i casi in cui essi fissino limiti di carattere sostanziale ai poteri datoriali (come ad es. nel caso di cui all’art. 11, co. 2°, di cui si è detto), anche quando le loro clausole siano chiamate a prevedere, quali ‘complicazioni’ dell’esercizio del potere datoriale, vincoli di tipo soltanto procedurale (di solito al fine di assicurare il coinvolgimento del sindacato in processi gestionali), esse rispondono comunque ad una logica di tutela anche del singolo prestatore di lavoro, e dunque si presentano sostanzialmente valutabili come trattamenti di miglior favore. Proprio per tale loro caratterizzazione, dunque, si può sostenere che anche questi rinvii (esclusa, ancora una volta, la loro incidenza sull’efficacia soggettiva dei contratti collettivi) risultano superflui, non potendosi dubitare che la previsione contrattuale di clausole volte a porre limiti a poteri datoriali, altrimenti in grado di esplicarsi in piena libertà (o, come detto, nel derivare anche specifici effetti legali (esclusa ovviamente l’efficacia erga omnes), come accade, ad esempio, nel caso dei rinvii contenuti negli artt. 53, co. 2°, e 59, co. 2°, d.lgs. n. 276/2003, dove si stabilisce che il contratto collettivo possa prevedere il computo degli apprendisti o dei lavoratori assunti con contratto di inserimento ai fini «dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti». Orbene, mentre per l’incidenza di un siffatto intervento negoziale sull’applicazione di discipline contrattuali vale quanto appena detto (superfluità del rinvio), per quando riguarda invece la sua incidenza sull’applicazione di normative di legge, varrà quanto si preciserà in testo, sub lett. b. 102 Ipotesi, quest’ultima, della cui legittimità costituzionale si è peraltro discusso, com’è noto, in passato (cfr., per tutti, RICCI M., Autonomia collettiva e giustizia costituzionale, Cacucci, Bari, 1999, 337ss., 372 ss., 420 ss. e 427 ss; RUSCIANO, Contratto collettivo..., 163 ss.; GIUGNI, Diritto sindacale..., 174 ss.). 103 Sia consentito ribadire, peraltro, che ove si ritenga che anche le norme che contengono simili rinvii (‘impropri’) svolgano appieno il loro ruolo regolativo e selettivo precludendo, quindi, il pieno esercizio della libertà contrattuale da parte di soggetti collettivi che non rivestano le caratteristiche in esse indicate, bisognerebbe altresì ammettere che le medesime norme si pongono certamente in contrasto con l’art. 39, co. 1°, Cost. (sulla questione v., più ampiamente, PINTO, Lavoro part-time..., 285 s.; CARABELLI, LECCESE, Il sofferto rapporto...; v. anche BELLOMO, Durata massima dell’orario di lavoro, in LECCESE (a cura di), La riforma dell’orario..., par. III). WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 43 rispetto dei soli vincoli di legge), rientri tra le funzioni che la contrattazione collettiva è in grado di svolgere in forza dell’art. 39, co. 1°, Cost., da qualunque sindacato essa sia svolta104. 2) In altri casi - si tratta, questa volta, di quelli elencati nelle lettere b e d del precedente paragrafo - i rinvii selettivi contenuti nel d.lgs. risultano finalizzati a riconoscere ai contratti collettivi una funzione derogatoria (in termini sia di fissazione di trattamenti peggiorativi, o comunque diversi rispetto a quelli fissati dalla legge, sia di eliminazione o temperamento di limiti legali posti in capo al datore di lavoro, sia infine di liberazione da vincoli di legge dell’autonomia individuale), oppure integrativa o specificativa della norma legale; ed in questa prospettiva la selezione dei soggetti stipulanti è, evidentemente, espressione di una scelta politica del legislatore sul piano dell’affidabilità dei contraenti cui vengono riconosciute tali specifiche prerogative in rapporto alla disciplina legale. In altre parole, si può affermare che in questi casi il rinvio legislativo intende attribuire ai soggetti selezionati il potere di produrre, attraverso il contratto, l’effetto (derogatorio, integrativo, specificativo) consentito dalla legge; ma ciò, sia ben chiaro, senza alcuna incidenza sul piano dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo, per le motivazioni di cui si è detto: anche in questo caso, insomma, l’effetto voluto non potrà che prodursi secondo i principi del diritto privato (fatto sempre salvo, naturalmente, il ricorso agli escamotages cui si è accennato). Concludendo, si è ben consapevoli di come la lettura qui proposta si muova in controtendenza rispetto all’atteggiamento - sia del legislatore, sia di parte della dottrina e della giurisprudenza - che negli ultimi anni ha dominato la scena della nostra disciplina, volto a riporre progressivamente nel dimenticatoio il limite scaturente dalla norma costituzionale, sia pure per la comprensibile (ma comunque pretesa) aspirazione di conferire efficienza al sistema di relazioni sindacali e 104 Riguardo a questo tipo di contratti è tuttavia da segnalare una peculiarità dal punto di vista dell’efficacia soggettiva. Una volta che se ne riconosca l’applicabilità al datore di lavoro (il che, si badi bene, va da sé nel caso di contratti aziendali), il lavoratore non iscritto non potrebbe sottrarsi all’esercizio del potere secondo le modalità e/o i limiti definiti dal contratto, in quanto tali modalità e limiti possono comunque essere configurati come legittimi modi di esercizio del potere stesso che derivano da una ‘scelta’ del datore di lavoro tra quelle astrattamente praticabili. Il contratto collettivo, in altri termini, risulta un mero elemento ‘interno’ al processo decisionale datoriale, onde a rigore di termini non si pone neppure, nei loro confronti, un problema di efficacia soggettiva del contratto collettivo, ma di mera soggezione dei medesimi ad un esercizio legittimo del potere datoriale (cfr. anche BELLOCCHI, Libertà e pluralismo..., 202). Si tralascia, in questa sede il problema del se i contratti di questo tipo contengano clausole anche o solo di tipo obbligatorio e cioè che definiscano vincoli anche o solo tra le parti stipulanti. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 44 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE politiche. Ci si riferisce, evidentemente, al formale coinvolgimento ad ampio raggio dell’autonomia collettiva in attività ‘para-legislative’ ed alla sempre più frequente tendenza del dibattito scientifico ad assecondare tale vicenda con interpretazioni, invero sempre più sofisticate, di sostegno all’efficacia generale dei contratti collettivi oggetto dei variegati tipi di rinvio legale. Sulle ragioni di questa esperienza sono stati versati ormai fiumi di inchiostro105. Ciò che più preme considerare in questa sede, peraltro, è che, al di là della sostanziale rimozione del vincolo costituzionale, l’evoluzione legislativa in questione ha comportato il passaggio dalle prime forme di rinvio generico ai contratti collettivi non qualificati dal punto di vista dei soggetti, alle successive ipotesi di rinvio ai contratti stipulati dai sindacati dapprima meramente ‘rappresentativi’, successivamente ‘più rappresentativi’ o ‘maggiormente rappresentativi’, fino a ridiscendere poi verso le più recenti forme di rinvio fondato su una valutazione comparativa di rappresentatività, dapprima nel senso estensivo di cui alla l. n. 196 del 1997 e del d.lgs. n. 368 del 2001 (in cui si rinviene la formula del contratto collettivo sottoscritto «dai sindacati comparativamente più rappresentativi»), e poi nel senso limitativo di cui alla l. n. 30 e ai d.lgs. nn. 66 e 276 del 2003 (in cui la formula del contratto collettivo sottoscritto «dai sindacati comparativamente più rappresentativi» è stata - anche se non univocamente - sostituita da quella del contratto collettivo stipulato «da organizzazioni sindacali [...] comparativamente più rappresentative»106). Ebbene, appare innegabile che in questa evoluzione si può in realtà riscontrare l’intento del legislatore di addivenire ad una progressiva restrizione dei soggetti qualificati come idonei e sufficienti alla stipula dei contratti collettivi oggetto dei rinvii legislativi. E siffatto graduale impoverimento del fronte soggettivo, che ha raggiunto il suo apice con l’ultimo passaggio legislativo107, rende ormai, ad avviso di chi scrive, 105 Per una un’articolata disamina v., per tutti e tra i più recenti, RUSCIANO, Contratto collettivo..., sez. IV, 149 ss., nonché, con particolare riferimento ai più recenti sviluppi (o involuzioni) delle prassi concertative, BELLARDI, Dalla concertazione al dialogo sociale: scelte politiche e nuove regole, di prossima pubblicazione in Lav. dir. e negli Scritti in onore di Giorgio Ghezzi. 106 Nel d.lgs. n. 66, in particolare, la formula è utilizzata nell’art. 1, co. 2, lett. m), ma non nell’art. 17, co. 1°, il quale parla invece di «contratti collettivi o accordi conclusi tra le organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro [...]» (corsivi nostri). 107 L’obiettivo della scelta consacrata in tale passaggio, infatti, consiste proprio nello ‘sterilizzare’ (PINTO, Lavoro e nuove regole. Dal Libro bianco al decreto legislativo 276/2003, Ediesse, Roma, 2004, 196) o, meglio ancora, ‘neutralizzare’ l’eventuale dissenso di un sindacato comparativamente più rappresentativo - anche se, in teoria, quest’ultimo fosse, WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 L’ATTUAZIONE DELLE DIRETTIVE SULL’ORARIO DI LAVORO TRA VINCOLI COMUNITARI E COSTITUZIONALI 45 ancora più insostenibile la deformazione prodotta dalla tecnica dei rinvii a partire dalla legislazione della crisi, poiché esso infligge un vulnus alla forte valenza democratica che dovrebbe avere il processo negoziale, nella misura in cui si pretende di riconoscere effetti generali all’attività contrattuale svolta da tali soggetti108. E’ per questo che un ritorno rigoroso al diritto privato, quanto all’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, ci appare, alla fine, in grado di costituire un baluardo difensivo contro il processo degenerativo in atto, che può oltretutto stimolare un nuovo vigore nella riflessione intorno all’attuazione dell’art. 39 Cost. o comunque intorno all’esigenza di rimettere in agenda la questione della regolamentazione del sistema di contrattazione collettiva e di rappresentanza sindacale, secondo canoni che restituiscano in pieno valore al principio di democrazia sindacale fondato sulla volontà della maggioranza dei lavoratori. Un illustre collega, alcuni anni or sono ed in altro contesto, affermò, con una frase rimasta famosa, che «il trentanovismo è nelle cose»109; anche chi in passato ha pensato ottimisticamente che si potesse fare a per caso, il più forte ed il più numeroso in termini assoluti del sistema di relazioni sindacali di riferimento - rispetto ad una decisione condivisa da altri sindacati che pure, a loro volta, possono essere considerati comparativamente più rappresentativi, così riconoscendo, ai fini del rinvio legale, il rilievo giuridico di accordi stipulati solo da questi ultimi. In proposito va invero osservato come l’idea secondo cui la formula di meno recente conio, fondata sulla preposizione articolata «dai», imponga - diversamente da quella fondata sull’utilizzo della preposizione «da» - l’intervento di tutti i sindacati comparativamente più rappresentativi derivi, in realtà, da una sorta di presunzione legata alle vicende politico-sindacali degli ultimi mesi, più che da un rigoroso ragionamento giuridico: un’attenta analisi esegetica della prima espressione non potrebbe escludere affatto la possibilità di un contratto stipulato solo da alcuni sindacati comparativamente più rappresentativi (ROCCELLA, Contrattazione collettiva..., 355 s.; PINTO, Lavoro part-time..., 302, nt. 67; v. anche, ma con specifico riferimento alla formula utilizzata nell’art. 23, l. n. 56/1987, BIAGI, Il Patto Milano Lavoro: un’intesa pilota, in Dir. rel. ind., 2000, n. 2, 132 s.). Ma che l’intenzione del legislatore più recente sia stata, appunto, quella di scongiurare l’eventuale impasse derivante dal rifiuto di uno dei sindacati comparativamente più rappresentativi e di favorire comunque la stipulazione di un accordo anche solo da parte di alcuni di essi è esplicitamente dichiarato nella relazione di accompagnamento all’originario testo del disegno di legge n. 848 (che, approvato dal Consiglio dei ministri il 15 novembre 2001, ha dato poi origine alla legge delega n. 30), nel quale, peraltro, si adottava un’espressione priva anche della particella ‘più’ (su questi aspetti v. BELLAVISTA, Le prospettive dell’autonomia collettiva dopo il d.lgs. n. 276/2003, in www.cgil.it/giuridico, 2003, par. 2; v. anche PINTO, Lavoro part-time..., 302), e comunque appare con la massima evidenza anche dallo stesso mutamento del dato letterale, nonché proprio dalle vicende politico-sindacali dell’ultimo periodo (ma su tutti questi aspetti sia consentito un ulteriore rinvio a CARABELLI, LECCESE, Il sofferto rapporto...). 108 Cfr., in senso analogo, RUSCIANO, Contratto collettivo..., 165. 109 PERA, Il trentanovismo è nelle cose, in Pol. dir., 1985, 503 ss. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004 46 UMBERTO CARABELLI – VITO LECCESE meno di affrontare di petto il problema dell’erga omnes e del predetto principio di democrazia ritrova oggi, in quell’affermazione, un motivo di ripensamento critico delle scelte degli anni più recenti. WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" 38/2004