SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE Roberta Sassatelli Comunicazione Significato etimologico: mettere in comune Communis, communitas (cum munis – dono, obbligazione) E’ IMPOSSIBILE NON COMUNICARE Watzlawick 1967 DEFINIZIONE: La comunicazione è l’emissione, in contesti sociali specifici, di un messaggio codificato secondo regole socialmente riconosciute e rivolto a riceventi. 1 Il frame (cornice) (Bateson, Goffman) è una sorta di messaggio meta-comunicativo che poniamo intorno ad una comunicazione per capire cosa sta succedendo; ma eventi/messaggi possono essere re-incorniciati continuamente e cambiare senso. Las Meninas, Velàzques 2 C’è sempre la possibilità di ambiguità (Esempio: guardarsi nello specchio/guardare lo specchio). 3 Trasformazioni lecite (gioco che viene condivisa) e trasformazione illecita (sottaciute, note solo a chi le opera). 4 BARAK OBAMA in visita ad un centro culturale mussulmano durante la campagna elettorale presidenziale 5 Double-bind (Bateson 1972): paradossale dove il messaggio contradditorio Ceci n’est pas un pipe Magritte 6 comunicazione è intimamente IL PROCESSO COMUNICATIVO ESPERIENZA STRATIFICATA Bansky 7 E’ UNA Funzioni della comunicazione (Jakobson 1966) Espressiva o emotiva - possibilità dell’emittente di esprimere emozioni Conativa – effetti della comunicazione sul ricevente Poetica – organizzazione e struttura interna del messaggio Referenziale – definizione, indicazione del contesto (p.es. qui, lì, ecc) Fatica – attivazione di un canale (stabilire, mantenere, chiudere una comunicazione, p.es. “pronto”) Metalinguistica voglio dire è …) stabilire il codice (p.es. quello che 8 Video Doggy Fitness, Nagi Noda, 2004 9 Cos’è l’umorismo? 10 E la (stereo)tipizzazione? 11 L’altra faccia della stereotipizzazione 12 Gli usi “seri”dei reframings: la satira sociale, l’arte e la sociologia visuale 13 14 T IL DIAMANTE CULTURALE DELLA COMUNICAZIONE (adattato da Griswold) Contesto Canali Emittente CODICE Encoding Messaggio 15 Canali Ricevente Decoding Il comunicare come processo circolare Mani che disegnano, Escher 16 LE DIVERSE FORME DEL COMUNICARE COMUNICAZIONE E STRUTTURA SPAZIO/TEMPORALE SPAZIO CO-PRESENZA A DISTANZA TEMPO CONDIVISO DIFFERITO CONVERSAZIONE TEATRO INTERNET LETTERA Questi diversi mezzi o canali si caratterizzano per un diverso coinvolgimento del a) corpo e degli b) oggetti. Sono fondati su diverse strutture spaziotemporali e consentono la costituzione di diverse temporalità e spazialità comunicative 17 18 MEZZI (o canali) CORPO COMUNICAZIONE INTERPERSONALE LINGUAGGIO VERBALE Comunicazione interpersonale (codici: linguistici, paralinguistici, cinesici, prossemici, aptici) OGGETTI COMUNICAZIONE EMBLEMATICA Culture del gusto (codici: stili, gusti, sotto-culture, culture amatoriali) LINGUA SCRITTA (calligrafia) ELETTRONICI RADIO, TELEFONO, TV INFORMATICI COMUNICAZIONE MEDIATA EMAIL, WEB (emoticon) Industria culturale, produzione e ricezione (Modello di Hirsch) 19 20 21 22 COMUNICAZIONE INTERPERSONALE Il corpo e la comunicazione Da un lato, nella modernità il corpo si è trasformato in uno strumento di lavoro, un'utilità, una funzione. Dall'altro, però, il corpo continua a operare come segno per ogni soggetto che intenda dimostrare di essere in possesso di sé, civilizzato, o comunque apprezzabile altrimenti. La sottolineatura della funzione simbolica degli atteggiamenti corporei è stata cruciale per lo sviluppo degli approcci microsociologici all'identità individuale ed è evidente, in particolare, nell'opera di Erving Goffman. Secondo Goffman, man mano che la vulnerabilità degli individui nelle relazioni faccia a faccia è divenuta cerimoniale e localmente specifica, si è sviluppato un linguaggio corporeo via via più sottile. Segni corporei sempre più sofisticati indicano sia "status sociali diffusi" che il "carattere" individuale, cioè il "concetto di sé", la "normalità" o "anormalità" dell'attore. In quanto linguaggio parla del soggetto al di là delle sue intenzioni, e in quanto "corpo" non è mai silenzioso: "sebbene un individuo possa smettere di parlare, egli non può smettere di comunicare attraverso il linguaggio del corpo, deve dire o la cosa giusta o la cosa sbagliata. Non può dire nulla. Come quelle di Elias, le tesi di Goffman implicano che con la modernità gli atteggiamenti estetici ed emotivi che gli individui esprimono nei confronti delle funzioni naturali sono mutati. Più di recente, l'antropologia ha mostrato che le percezioni dello sporco e della pulizia variano con le culture e con i tempi e che, all'interno di ogni cultura, esse servono per rimarcare le distinzioni sociali. Mary Douglas, in particolare, ha sostenuto che, in quanto sistema di "simboli naturali", il corpo dell'individuo funge da metafora delle vulnerabilità e delle ansie del corpo politico e rende visibili i valori, le distinzioni e le lotte della comunità. Se ciò che sta dentro e fuori del corpo fornisce un linguaggio per discutere di ciò che sta dentro e fuori del sociale, sarebbe un errore ritenere che il confinamento della pulizia e della purezza al campo scientifico dell'"igienico" segni una rottura con il moralismo precedente. In realtà la moralità dei codici corporei è ancora ben sottolineata della potenza dell'AIDS come metafora di decadimento morale. 23 PRODUZIONE E RICEZIONE CULTURALE COMUNICAZIONE MEDIATA Gli oggetti culturali - dalle varie forme d’arte, agli spettacoli, agli oggetti di uso comune – non sono semplicemente prodotti “naturali” di qualche contesto sociale, né semplicemente dei prodotti collettivi (alla Durkheim); al contrario sono prodotti sociali, creati e distribuiti, ricevuti ed utilizzati da una pluralità di persone e organizzazioni secondo modalità culturali specifiche e spesso altamente differenziate. PRODUZIONE Nelle società occidentali contemporanee, l’industria culturale e mediatica ha avuto un intenso sviluppo che è stato al centro dell’attenzione prevalentemente critica di una parte importante della sociologia del novecento. In particolare, nel primissimo secondo dopoguerra, la scuola di Francoforte ha analizzato gli effetti sociali e culturali dello sviluppo dell’“industria culturale” - concependo quest’ultima come un sistema a sé stante funzionalmente destinato alla produzione e al trasferimento di significati al mondo della vita quotidiana I francofortesi stigmatizzano la nascita di una cultura di massa in cui sfumano le differenze tra alta e bassa cultura. Nel loro celebre lavoro La dialettica dell’illuminismo, Max Horkheimer e Theodor Adorno (1947) sostengono che mentre la prima si riduce alla seconda, le arti e le altre "manifestazioni dello spirito" si adeguano alla logica forse civilizzatrice ma omologante del mercato. I prodotti dell’industria culturale avrebbero cioè due caratteristiche fondamentali: sarebbero da un lato “omogenei”, sempre uguali sotto un’apparenza di varietà, e dall’altro “prevedibili”. Riprendendo anche l’idea weberiana secondo cui la società moderna è caratterizzata dal progressivo affermarsi della razionalità strumentale in base alla quale tutto può essere soppesato e trattato come un oggetto calcolabile incluse le persone e i loro bisogni, Horkheimer e Adorno sostengono che il mondo culturale è sempre più “amministrato” e che le persone non vengono più considerate in quanto tali ma come elementi funzionali al sistema. In questa ottica gli imperativi produttivi orientano e determinano le pratiche di ricezione e consumo dei soggetti. Inoltre, 24 per poter attirare il pubblico più vasto possibile, le forme simboliche dell’industria culturale sono sempre più orientate ad un minimo comune denominatore semplice e conformista. Così, chi inizia a vedere un film può immaginarsi abbastanza presto come andrà a finire e chi ascolta musica “leggera” abitualmente sa bene cosa aspettarsi dopo le prime note e può persino sentirsi gratificato quando scopre di aver avuto ragione. Nel suo celebre saggio sulla musica popular o “leggera” Adorno (1941) sostiene che la musica prodotta dell’industria culturale è standardizzata, promuove un ascolto passivo e opera come un “cemento sociale” capace di riprodurre le forme di potere dominanti. La musica, prodotta come merce per essere venduta ad un pubblico più vasto possibile e quindi indifferenziato, perde le sue qualità artistiche, diviene un prodotto commerciale non autentico e pre-digerito che promuove passività ed escapismo mascherando il proprio carattere pseudo-individualizzato. La sociologia della ricezione in quest’ottica si riduce ad una critica della fruizione mediatica, che vede i significati tratti dai prodotti culturali di massa come determinati dal processo produttivo. Il pubblico è omogeneo, passivo e a-critico. L’accentuazione della passività del pubblico, visto come un’entità omogenea e sradicata dal contesto sociale, trova il proprio apice negli anni settanta nella teorizzazione post-modernista (Baudrillard; Jameson). Baudrillard arriverà alla conclusione il pubblico si ritrova impotente nei confronti dell’industria culturale: rimane così solo un mondo di “segni auto-referenziali” fondato sulla ricorrente generazione di differenze simulate, una “iperrealtà”, che si colloca al di là della distinzione tra reale e immaginario (Baudrillard 1981). I media ed il vertiginoso moltiplicarsi delle merci sono dunque i veicoli attraverso cui si crea un mondo simulato e iperreale nel quale l'individuo non è più un attore sociale, un soggetto che agisce operando distinzioni simboliche e attribuendo senso alle proprie azioni, un fruitore di messaggi e prodotti culturali, ma uno spettatore passivo e anomico, un mero ricettore di sensazioni, anzi a fronte del quadro, insieme omogeneo e sfuggente, tratteggiato dai messaggi mediatici, il pubblico non è solo passivo ma anche sempre più apatico e indifferente. Il pessimismo post-modernista, così come la visione monolitica dell’industria culturale offerta dalla scuola di Francoforte sono stati ampiamente criticati, anche se l’idea di industria culturale rimane importante nella ricerca sociale contemporanea (Hesmondhalgh 2002). Tra i modelli più utilizzati troviamo quello di Paul Hirsh (1972) sul “sistema della produzione culturale” che mette l’accento sulla differenziazione interna al sistema di produzione culturale, sul legame delle industrie produttive vere e proprie (editori, case discografiche, di produzione cinematografica) sia con i “creativi” (gli autori, gli artisti) che 25 con il “pubblico”, grazie al lavoro di importanti gatekeepers o gestori di confini (i talent scouts da un parte, e gli intermediari culturali o mediali dall’altra - dai disk-jockey ai recensori di libri). L’industria culturale si avvale nel complesso di due circuiti di feed-back: quello che viene dai media (recensioni per esempio) e quello che viene dalle vendite (del prodotto culturale specifico o del merchandising ad esso connesso). Hirsch ha messo a punto questo modello per studiare i prodotti culturali di massa (dischi, libri, film) che condividono alcune caratteristiche, innanzi tutto l’incertezza della domanda, in secondo luogo l’uso di tecnologie relativamente economiche, in terzo luogo l’eccedenza di aspiranti creatori culturali. L’industria si trova proprio in questo caso a dover regolare e confezionare l’innovazione culturale, e quindi a trasformare la creatività in prodotti prevedibili. Questo modello ha il merito di sottolineare la complessità interna al sistema di produzione, i diversi orientamenti ed interessi che la compongono, le molte mediazioni tra produzione e ricezione, e non da ultimo, il ruolo attivo della ricezione stessa. Altri studi recenti sulla produzione della cultura si sono mossi essenzialmente in questa direzione considerando l’interattività che esiste tra pubblici e industrie culturali (cfr. Crane, Di Maggio, Griswold, Peterson). Diversi studi hanno poi messo in luce l’esistenza di mercati paralleli e coesistenti – p.es. Greenfeld (1989) ha mostrano che in Israele esistono due mondi dell’arte paralleli, quella concettuale ed astratta (alimentata da burocrati ed intellettuali facoltosi che acquistano per i musei) e quella dell’arte figurativa (alimentato dalla borghesia ricca e dalle gallerie che la riforniscono). RICEZIONE Il modello di Hirsh assegna uno spazio maggiore al pubblico e un ruolo più attivo alla ricezione, anche se non indaga espressamente il processo di ricezione. Proprio la sociologia della ricezione, ha invece avuto grande impulso negli ultimi tre decenni. Molti autori hanno infatti sottolineato che non è possibile capire né la cultura contemporanea né i mezzi di comunicazione moderna senza mettere a fuoco gli usi e le gratificazioni, o più in generale, il processo di ricezione situato, frammentato, diseguale – dei messaggi e dei prodotti culturali (p.es. Crane 1992; Moores 1998; Morley l999). La sociologia della ricezione contemporanea parte dall’idea che la ricezione di un oggetto culturale, i significati che i pubblici traggono da essi, non sono fermamente e necessariamente inscritti nell’oggetto stesso (come invece voleva l’approccio testuale o semiotico strutturale). In effetti, nonostante tutte le strategie messe in campo dalla maggior 26 aziende che operano nel sistema dell’industria culturale, vi sono forti margini di incertezza: gli editori non sanno produrre solo best-sellers. Il successo finale (in termini di vendite e di influenza culturale) di un prodotto culturale dipende dal suo pubblico, dai ricevitori culturali che ne ricavano determinati significati. Certo il significato di un oggetto culturale può essere – e di fatto è – inizialmente suggerito dall’industria culturale, ma i riceventi hanno per certi versi l’ultima parola – e questa parola viene a sua volta espressa sulla base di esperienze condivise e sociali. Il significato degli oggetti culturali non è infatti nemmeno interamente soggetto ai capricci individuali. Gli attributi delle persone, le loro posizioni nella struttura sociale per esempio, condizionano sia i loro gusti, sia le loro interpretazioni. Per questo la sociologia contemporanea parla di “pubblici” e non di “pubblico”: perché questo plurale sottolinea in realtà che il pubblico è composto di molti gruppi tra loro diversi dal punto di vista dei media e dei generi che preferiscono o per la loro specifica posizione culturale e sociale che fornisce loro diverse ottiche interpretative (Moores 1993). In particolare, muovendo da prospettive diverse, numerosi autori hanno sottolineato che è necessario superare la concezione monolitica del potere che caratterizza le tesi della teoria critica francofortese e, soprattutto, concepire la ricezione come una pratica attiva, creativa e persino sovversiva. E’ sicuramente vero che esiste una notevole sproporzione tra le risorse investite dalle industrie culturali per controllare il mercato e quelle investite dai singoli consumatori di messaggi e prodotti culturali. Tuttavia, i pubblici sono "armati" di una serie di pratiche consuetudinarie per la gestione dell'ignoto che permettono loro di opporsi, forse non con pieno successo, ma almeno attivamente alle strategie dei produttori. Anzi, per dirla con lo storico e teorico sociale Michel de Certeau (1984), i lettori di libri, andando alla deriva nelle pagine, dovendosi arrangiar con quel che c’è, trovano il modo di utilizzare i testi in modi personali, a volte sovversivi. Radicalizzando l’idea di Umberto Eco che considera il leggere come una “co-produzione” e una “cooperazione interpretative” tra lettore e scrittore (1967) e con l’enfasi di Stanley Fish [1980] che iscrive il lettore all’interno di “comunità interpretative” che orientano la produzione di significato, De Certeau si oppone alla semiotica strutturale di Barthes che considerava le pratiche di lettura come l’attualizzazione da parte del lettore dei significati intesi dal testo. Più in generale, i pubblici, muovendosi come dei bricoleurs negli interstizi lasciati a loro disposizione dalla cultura di consumo, “assimilano” i beni, non necessariamente nel senso che essi diventano simili a ciò che consumano, ma anche nel senso che li rendono rende simili a se stesso, appropriano e riappropriano i prodotti, e per fare questo usano spesso delle “tattiche” dei 27 “modi ingegnosi con cui i deboli usano i forti, e quindi forniscono una dimensione politica alle pratiche quotidiane” (Ibidem: trad. it. 166 e 14). Anche se siamo lontanissimi dal modello del pubblico o del consumatore sovrano, le pratiche di ricezione possono configurarsi come forme, ancorché inconsapevoli, di resistenza. Non sempre però le pratiche di ricezione vanno nella direzione della resistenza. Smussando l’idea di resistenza, nel suo saggio encoding/decoding Stuart Hall (1980) ha proposto considerare il processo di ricezione come un processo di decodifica che può prendere essenzialmente tre direzioni: la decodifica dominante (che si attua secondo le intenzioni dell’emittente in base a una cultura egemonica di dominio consensuale espressa dalla codifica dei media, il contenuto dell’interpretazione è quindi omologo alla codifica egemonica che riproduce il punto di vista di una ristretta elite dominante); la decodifica negoziale (che si ha quando si accetta il quadro di riferimento generale proposto dai media, ma lo si modifica in alcuni suoi particolari a seconda delle proprie esigenze, gusti e conoscenze pregresse); la decodifica oppositiva (dove pur avendo compreso il testo mediale la decodifica si compie mediante codici opposti a quelli dell’emittente, sovvertendone i significati in modo deliberato). E’ soprattutto quest’ultimo tipo di decodifica – che può essere tipico di alcune sottoculture giovanili studiate dalla scuola di Birmingham – che si configura come una vera produzione di significati, un consumo produttivo, grazie al quale vengono veicolate nuove forme simboliche. 28 CULTURA MATERIALE, GUSTI NESSO TRA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE E COMUNICAZIONE MEDIATA I pubblici sono definiti da gusti e da schemi cognitivi differenti. Il ruolo dei gusti e il loro rapporto con la struttura sociale è stato messo in luce p. es. da Pierre Bourdieu, che ne La distinction (1979) ha tracciato una mappa dei rapporti tra capitale economico, capitale culturale e gusti mostrando che nella Francia del secondo dopoguerra le differenze di gusto (nella musica e nella cucina per esempio) erano riportabili a posizioni sociali differenti: realizzandosi in specifici stili di consumo riproducevano distinzioni gerarchiche consolidate. Per esempio, in chiara opposizione alle classi subordinate dotate di scarso capitale culturale ed economico, le frazioni dominate della classe dominante (ovvero coloro che hanno un alto capitale culturale e un discreto capitale economico) preferivano Le monde ad un quotidiano popolare, la cucina cinese anziché i picnic, andare a festival di musica d’avanguardia anziché ascoltare la musica leggera tradizionale, la pop-art di Warhol anziché il virtuosismo degli impressionisti. Più in generale, lo studioso francese riporta l'"estetica kantiana", tipicamente caratterizzata da una contemplazione distanziata e formale che privilegia la mente e trascende l'immediatezza dell'esperienza e del corpo alla prospettiva o habitus dei raggruppamenti sociali superiori e la contrappone all'"estetica della cultura popolare" che, con la sua preferenza per l'immediatezza, il piacere, la sensualità ed il concreto, è invece tipica dei raggruppamenti inferiori. La validità generale dell’analisi della segmentazione del pubblico condotta da Bourdieu è stata criticata da nuove ricerche empiriche che hanno tentato di saggiarne la robustezza (Bennett et alii 1999; Lamont 1992). In particolare, comparando gli orientamenti nei confronti del consumo e del denaro della classe media americana e di quella francese, Michèle Lamont (1992) ha sostenuto che Bourdieu dimentica l’importanza delle diverse tradizioni nazionali nel fornire ed organizzare un repertorio culturale: i confini culturali che sono tracciati sulla base dell’educazione, del cosmopolitismo, della raffinatezza sono assai più deboli e meno definiti negli Stati Uniti che in Francia. E non si tratta di una semplice variazione sullo stesso tema: se negli Stati Uniti l’egualitarismo culturale rafforza l’anti-intellettualismo e favorisce una cultura più aperta, in 29 Francia il basso livello di mobilità geografica limita gli atteggiamenti materialisti. La ricerca di Lamont contraddice l’immagine gerarchica del gusto offerta da Bourdieu. Come abbiamo visto, Bourdieu assume che la differenziazione dei gusti e la possibilità di segnare le differenze dei consumi porti inevitabilmente alla gerarchizzazione di queste stesse differenze, e questo perché parte dall’idea che i significati vengono strutturati gli uni in relazione agli altri all’interno di campi finiti, stabili e tendenzialmente coerenti. Lamont sottolinea invece che le società contemporanee sono dinamiche, che i diversi campi di potere, incluso quelli del gusto e delle preferenze di consumo sono aperti e instabili, e soprattutto si intersecano in modi sempre più complessi con altri campi, non da ultimo quello delle comunicazioni di massa, rendendo le distinzioni culturali assai più instabili, sfumate e sfaccettate. Molti oggetti culturali oggi - dai programmi televisivi più popolari ai romanzi polizieschi per esempio - attraversano i confini di classe, genere, etnia. Per questo Gans (1974) ha proposto di denominare i pubblici di qualunque oggetto culturale “culture del gusto” (taste cultures) senza presumere nulla sulle loro caratteristiche sociali o demografiche. In realtà, se può essere utile partire dalla condivisione di un consumo culturale (basti pensare all’importante ruolo delle sottoculture dei fans per alcuni generi popolari come la fantascienza, cfr. Jenkins), una grande quantità di ricerche confermano la realtà della stratificazione del gusto, ma evidenziano anche la sua specificità culturale, il suo non essere direttamente e unicamente connessa alla posizione di classe, e in generale il suo complicarsi e diluirsi: Oggi, l’analisi del gusto dovrebbe dunque partire anche dalla pressione per la convivenza di molti gusti "adeguati" e dalla difficoltà di stabilire definitivamente le connotazioni del "buon" gusto in quanto tale. Gli studi sul consumatore onnivoro inaugurati da Richard Peterson mostrano, per esempio, che, per beni diversi come il cibo o la musica, si stanno sviluppando strategie di consumo che anziché realizzarsi in un solo genere, stile o gusto si realizzano nella mescolanza di forme e prodotti diversi, nella varietà, nella diversità dei generi (Peterson 1992; Peterson e Kern 1996; van Eijck 2000; Warde et alii 1999). Lo stile onnivoro dà valore alla varietà in quanto tale, riconducendo la raffinatezza e la sofisticazione culturale all’esperienza della maggior varietà possibile di cose. Questa strategia fornisce innanzi tutto la possibilità di scegliere tra le diverse merci sul mercato laddove l’infinitesimale differenziazione delle opzioni rende particolarmente difficile formulare degli stili esteticamente coerenti. Essa inoltre consente di “tenersi al passo” con il numero più ampio possibile di gruppi sociali, accrescendo così le proprie chances di essere riconosciuti come persone esteticamente competenti e di buon gusto. In questa situazione le classi lavoratrici 30 sono svantaggiate culturalmente non perché siano escluse dalla cultura “alta”, ma perché le loro pratiche di consumo culturale sono, nel complesso, assai più ristrette come hanno rilevato alcune recente ricerche (Bennett et alii 1999). Questi studi mostrano molto bene l’ambivalenza della ricezione in termini di gerarchie culturali: se l’apertura alla varietà apre anche spazi niente affatto scontati di tolleranza e scambio culturale, il controllo della varietà funziona come una strategia di formazione del capitale simbolico che può riprodurre le differenze sociali. In effetti, Bernard Lahire proprio nel caso della Francia [2004], ha mostrato che gli individui più eclettici mantengono in larga misura un senso di gerarchie nelle loro pratiche così diverse mediante una forma di distinzione riflessiva. Consumano ogni tipo di oggetto culturale, ma discriminano con chi, dove e come consumare diversi oggetti culturali: in particolare tendono a preferire i generi ‘alti’ per le situazioni pubbliche e a lasciare i generi ‘popolari’ per il privato. Fessibilità, trasferibilità e onnicomprensività – e non esclusione – caratterizza oggi le competenze culturali dei gruppi favoriti. In forte contrasto con questo una delle tipiche manifestazioni di deprivazione degli abitanti dei ghetti è che, nonostante essi spesso creino una propria sottocultura originale e possano comprendere e negoziare il complesso sistema di significati in cui vivono, le loro competenze culturali non sono trasferibili all’esterno (Wilson 1987, The truly disadvantaged). FRAMES Non solo i gusti e le culture del gusto (più o meno svincolate da altre determinanti sociali) strutturano la ricezione. Come ricorda Griswold (2005) un postulato di base dell’approccio sociologico alla ricezione proposto da Zerubavel nei suo lavoro sui Social Mindscapes (1997) è che tra la mente astratta (il cervello delle neuro-scienze) e la mente individuale (della psicoanalisi) vi sia una “mente sociale” ovvero una prospettiva cognitiva di gruppo formata dalla comunicazione interpersonale che “evidenzia la nostra diversità cognitiva in quanto membri di diverse comunità di pensiero”. Come membri di categorie sociali e gruppi specifici prestiamo attenzione ad alcuni significati e non ad altri, ci emozioniamo rispetto ad alcuni contenuti simbolici e non ad altri: p.es. siamo più o meno attenti per esempio alla discriminazione di genere, ai pregiudizi religiosi, alle differenze di etnia e leggiamo i prodotti culturali sulla base di queste griglie di rilevanza. Questa nozione traduce in chiave sociologica l’idea proposta dal critico letterario tedesco Hans Robert Jauss (1987): secondo Jauss quando un lettore prende in 31 mano un libro non si relazione con esso come se fosse un recipiente vuoto che attende di essere riempito dal suo contento, ma colloca tale contenuto in un “orizzonte di aspettative” plasmato dalla sua precedente esperienza letteraria, culturale e sociale. Un lettore interpreta un testo sulla base di come questo si adatta alle sue aspettative o le mette in discussione, e costruendo il significato del testo egli finisce per modificare il suo proprio orizzonte di aspettative in un processo in continuo divenire. Griswold (1987) ha ripreso a sua volta questa impostazione per mostrare che in tre nazioni diverse, pubblici simili, leggevano lo stesso testo in modo diverso: The Castle of My skin di George Lamming veniva letto o come una storia sulle trasformazioni dell’identità (india occidentale); o come una storia sul diventare adulti (Inghilterra) o come una storia sui conflitti di razza (USA). Liebes e Katz (1990) hanno studiato diversi pubblici televisivi della Sit Com americana Dallas, in Israele e America. La loro ricerca ha evidenziato che gli ebrei di origine marocchina emigrati in Israele interpretavano Dallas come un’opera sui legami famigliari, e sulle difficoltà della vita famigliare; gli emigrati dalla Russia la vedevano come una dura e puntuale critica del capitalismo; gli ebrei nati in Israele così come il gruppo di controllo a Los Angeles tendevano a vedere Dallas con occhi molto meno ‘moralistici’, come un semplice spettacolo d’intrattenimento che non rifletteva una realtà sociale. GOFFMAN E IL FRAME (CORNICE) Goffman pensa alla realtà non come ad una qualità intrinseca degli oggetti e delle situazioni che si impongono a noi, bensì sostiene che gli oggetti, così come le scene di vita quotidiana e gli attori che ne fanno parte, ci appaiono reali solo attraverso e a partire da una prospettiva, o meglio una "cornice" (frame). In altri termini non esiste per noi una realtà che non sia anche senso, non sia cioè una definizione - più o meno complessa - di ciò che sta accadendo, inclusa, al limite, una definizione puramente negativa. Ciascuna cornice è dunque un "contesto di comprensione" e "di riferimento", un insieme di "premesse organizzazionali - sostenute sia nella mente che nell'attività", che orienta le nostre percezioni all'interno di tale contesto. I soggetti si muovono tra e dentro molte cornici diverse, ciascuna delle quali permette e impone di identificare quello che li circonda in modo differente. Le cornici non sono tutte eguali, però. Ne esistono alcune che Goffman denomina "primarie", 32 ovvero di fondo in quanto sottendono a tutte le successive possibili reinterpretazioni e costituiscono la prima fondamentale scansione di ciò che per noi è reale. Nelle società occidentali moderne ci sono due ampie prospettive di base, quella naturale e quella sociale: noi crediamo cioè che "il mondo possa essere interamente percepito nei termini o di eventi naurali o di azioni guidate e che ogni cosa possa essere agevolmente collocata nell'una o nell'altra categoria". Tutte le cornici che i soggetti utilizzeranno nella propria vita possono quindi essere allocate all'uno o all'altro polo. Le cornici "naturali" identificano fatti che vengono interamente attribuiti a determinanti naturali, si tratta di "avvenimenti considerati come non diretti, non orientati, non animati, non guidati, 'puramente fisici'"; le cornici "sociali" invece forniscono quadri di riferimento "per eventi che incorporano la volontà, lo scopo e lo sforzo di controllo di una intelligenza" che compie "azioni guidate", le quali a loro volta assoggettano chi le compie a standards sociali quali l'onestà, l'efficienza, il buon gusto, ecc. Una differenza cruciale tra cornici naturali e sociali è dunque il ruolo assegnato all'essere umano: nel primo caso i soggetti no godono di attributi che li differenziano dagli altri elementi della scena, sono oggetti interamente determinati, privi di volontà e quindi non morali; nel secondo essi figurano come attori in senso proprio, moralmente e legalmente responsabili. Nelle cornici naturali quindi il corpo in qualche modo precede il soggetto, lo definisce, lo determina, in quelle sociali il corpo è governato dal soggetto, è un segno che può essere manipolato; nel primo caso il soggetto non è responsabile del proprio corpo, nel secondo ne è il custode. Nella vita quotidiana noi ci rivolgiamo agli altri utilizzando sia prospettive naturali - come quando siamo disposti a perdonare l'amico che non viene al cinema perchè è raffreddato - sia sociali - come quando invece ci arriabbiamo con questo stesso amico perchè dubitiamo dei suoi frequenti raffreddori -, e, come l'esempio mostra bene, possiamo passare da una all'altra a seconda della situazione e della nostra esperienza. Natura e cultura sono quindi due prospettive primarie, che continuamente mescoliamo nella quotidianità, la cui articolazione - sia storica che interazionale - ha particolare rilevanza per la comprensione del modo in cui noi percepiamo e governiamo il nostro corpo. Per meglio spiegare il continuo intrecciarsi di queste due prospettive Goffman stesso ci porta ad esempio proprio il diverso modo di guardare il corpo, in particolare nel contesto medico dove "tradizionalmente, i dottori pensano di ottenere due tipi di informazioni dal paziente, segni e sintomi, i primi mediante indicatori biologici oggettivi, i secondi mediante rapporti soggettivi". (Da R. Sassatelli, Giovani, Vecchi, Uomini, Donne, 2002). 33 Sesso, genere, sessualità Il caso di Agnese e del transessualismo (da R. Sassatelli, Corpi Ibridi, Aut, Aut, 2006) Se, come sosteneva Mary Douglas (1966), “impuro” è ciò che si situa tra le classificazioni della cultura, i corpi ibridi, che mescolano razze e generi diversi, sono un oggetto potente sia di repulsione che di fascinazione. Come lo sguardo coloniale ha investito il corpo del “mulatto” o del “meticcio” di desideri contraddittori che finivano per eliderne l’umanità (Young 1995), così lo sguardo medico e borghese, quanto meno dall’Ottocento in avanti, ha riservato ai corpi “tra i generi” – gli omosessuali, gli ermafroditi – uno sguardo normalizzatore che era allo stesso tempo ossessionato e disgustato dalla loro “diversità” (Foucault 1976). Lo sguardo normalizzatore doveva catalogare, distinguere i “tipi” di persone tra i sessi/generi per poi reinserirle in categorie che, funzionando da eccezioni, non stravolgessero la natura assoluta dell’opposizione binaria maschio/femmina e il predominio dell’eterosessualità coniugale. Per questo loro stare sui confini, e per le pressioni a rientrare nelle classificazioni della cultura cui sono soggette, le persone che si trovano tra i sessi – i travestiti (chi adotta abbigliamenti dell’altro sesso), i transessuali (coloro che cambiano sesso in età adulta spesso con l’aiuto di terapia ormonale e chirurgica) e gli ermafroditi (chi nasce con caratteristiche sessuali miste) – sono state indicate come altrettante figure che in qualche modo rendono visibile quei segni tipicamente dati per scontati sui quali si costruiscono le differenze tra maschilità e femminilità. Il primo saggio in cui l’esperienza di passing di una transessuale viene usata per rivelare l’ordine di genere nelle nostre società è indubbiamente quello che Harold Garfinkel ha incluso nel suo celebre Studies in Ethnomethodology (1967). Lavorando in stretta collaborazione con l’importante psichiatra Robert Stoller, Garfinkel ricostruisce le esperienze di Agnes, una giovane transessuale californiana che sul finire degli anni cinquanta fu tra le prime a sottoporsi a un’operazione chirurgica che implicava l’amputazione del pene e la costruzione, al suo posto, di una vagina. Distaccandosi dal paradigma biologista, in questo saggio non si cercano le cause del transessualismo dentro ai soggetti, in una loro supposta normalità o anormalità biologica o psicologica, bensì si tenta di fornire un quadro dei presupposti culturali in base ai quali vengono organizzate e negoziate le richieste e i bisogni di Agnes, il suo diritto e l’opportunità medica di 34 effettuare un’operazione di cambiamento di sesso. Più in generale, i racconti di Agnes sono un’occasione per tratteggiare un quadro molto esplicito dei principi in base ai quali vengono ordinariamente legittimate le identità sessuali.1 La storia di Agnes narrata da Garfinkel ci offre la possibilità di fornire una lettura dell’ordine di genere che anticipa molte delle intuizioni del pensiero femminista contemporaneo: il genere appare come un performativo, un “fare” che viene stabilizzato nella vita quotidiana in base a retoriche e pratiche con cui i soggetti confermano continuamente di essere “veri” uomini e “vere” donne.2 In effetti, se il genere è comunemente concepito come un dato essenziale, una fedele rappresentazione di ciò che il soggetto è nel profondo (anche e soprattutto in riferimento a diversi dati medici – anatomici, endocrinologici e fisiologici), Garfinkel e l’etnometodologia, anche grazie al contributo di Candace West e di Don Zimmerman, hanno spostato l’accento “da istanze interne all’individuo” ad “arene interazionali e, in ultima analisi, istituzionali” (West e Zimmerman 1987: 126; cfr. anche Kessler e McKenna 1978).3 È in quest’ottica che le esperienze di Agnes consentono di prendere in esame ciò che viene dato per scontato nell’ordine e nelle dinamiche di genere, in relazione soprattutto all’orientamento sessuale e al sesso. Garfinkel stesso, riflettendo recentemente sul proprio lavoro, ha del resto definito il saggio su Agnes “essenzialmente uno studio su un caso di passing sessuale” sullo sfondo di un interesse più generale per il passing come “luogo privilegiato” per studiare la “produzione dei fatti sociali”.4 La figura del transessualefunziona, in certa misura, come quella dello straniero di Schutz: dovendo esercitare una grande dose di abilità e 1 È oggi disponibile una certa letteratura critica sul questo lavoro di Garfinkel; molti dei contributi sono di taglio femminista (cfr. Denzin 1990; Rogers 1992) e sottolineano che l’autore non ha problematizzato a sufficienza la propria identità di genere. Per una discussione critica, cfr. Sassatelli (2000). 2 Questo saggio viene spesso usato per illustrare la prospettiva etnometodologica e in particolare l’idea che sia attraverso pratiche di spiegazione “incarnate” che i soggetti creano continuamente la realtà sociale. In chiave etnometodologica, le identità – anche quelle che appaiono più stabili e immutabili, come le identità sessuali e di genere – sono concepite come continue, concertate e situate realizzazioni pratiche (Garfinkel 1967; cfr. Heritage 1984). In opposizione al volontarismo parsonsiano, e proseguendo una tradizione inaugurata da Wright Mills (1940), l’identità viene quindi pensata a partire dal vocabolario e dalle pratiche mediante le quali gli attori mostrano e ascrivono varie qualità soggettive a se stessi e agli altri. 3 Per una panoramica sulle teorie e gli studi di genere, attenta anche alle questioni relative alla sessualità e al sesso, cfr. Piccone Stella e Saraceno, a cura di, (1996) e Connell (2002). Per alcuni contributi sulle nuove identità sessuali e di genere anche nel nostro paese, cfr. Leccardi, a cura di, (2002). 4 Comunicazione personale, 19 aprile 2004, Pacific Palisades. A questo proposito è interessante notare che il termine è stato usato inizialmente ed essenzialmente per riferirsi al passing razziale, un vero e proprio tropo della letteratura afro-americana di inizio secolo, epitomizzato dal celebre romanzo di J.W. Johnson The Authobiography of an Ex- 35 premeditazione per cavarsela in situazioni per lei nuove, Agnes “era consapevolmente in grado di insegnare ai normali in che modo essi possano fare apparire lo status sessuale negli scenari ordinari come un fatto ovvio, familiare, riconoscibile, naturale e serio” (Garfinkel 2000: 119). Agnes è allo stesso tempo uguale e diversa: uguale perché agisce come tutti all’interno delle maglie di rilevanze che consolidano la femminilità (e la mascolinità); diversa perché è assai più consapevole di stare facendo proprio questo. Così se per la maggioranza delle persone adulte il genere e la sessualità sono per lo più risorse ordinarie per portare a termine altre faccende – e “impressioni essenziali” che vengono veicolate mentre si sta facendo qualcos’altro (cfr. Goffman 1976) – per una transessuale come Agnes la realizzazione della competenza di genere è e tende a rimanere, così sottolinea Garfinkel, un problema costante. Agnes, infatti, come le altre persone studiate dall’equipe di Los Angeles, sottoscrive una visione dicotomica dei sessi, includendo se stessa in essa. Proprio per questo è avvertita dei rischi di degradazione che corre, sia nella vita quotidiana, sia nella sua lotta per il cambiamento di sesso. Il suo comportamento è allora spesso simile a un gioco strategico: gestisce le informazioni su di sé, rinnegando ogni possibile esperienza maschile e sottolineando gli aspetti della propria biografia che la avvicinano alle donne; narra di un “sentirsi diversa” e “femmina” sin dalla più tenera infanzia, una donna intrappolata in un corpo maschile, pronta a venir fuori non appena le fosse concesso; si aggrappa alle insegne fisiche della propria femminilità, in particolare a quelle più distintive ed eroticizzabili come il seno, sostenendone la naturalità biologica, e a questo scopo nega ripetutamente di aver assunto estrogeni durante l’adolescenza per modificare il proprio corpo. Le sue narrazioni, così come le possiamo dedurre dalla rielaborazione garfinkeliana sono spesso anticipatorie, tentano insomma di risolvere in anticipo le difficoltà e le ambiguità interpretative in cui i suoi interlocutori possono incorrere, tendenzialmente minimizzando i momenti di tensione. Ciò non significa però che Agnes stia letteralmente interpretando una parte, che sia in altri termini distaccata o strumentale nel gestire le impressioni su se stessa, il proprio corpo, la propria identità di genere: più consapevole delle routines che realizzano l’identità sessuale di quanto non sia la maggioranza delle persone, anche Agnes è immersa nelle convezioni sociali. Essa impara continuamente a essere donna e mette tutta se stessa nell’utilizzare ogni possibile occasione per capire in che modo è “opportuno”, “giusto”, Coloured Man; cfr. Portelli (2004) e più in generale Sollors (1997). 36 “naturale” che una donna si comporti. Il transessualismo permette di mettere a fuoco lo spazio che esiste tra il genere e il sesso ed è quindi un fenomeno di grande rilevanza per la teoria del genere contemporanea. Anche per questo, considerate dal punto di vista della teoria del genere, le osservazioni di Garfinkel sono in parte in linea, come suggerito, con quelle sviluppate dalla teoria femminista post-strutturalista, fortemente influenzata sia dalla filosofia del linguaggio wittgensteiniana sia dal decostruzionismo foucaultiano. Se il femminismo tradizionale operava in base a una distinzione tra sesso e genere che iscriveva il sesso in una differenza biologica destoricizzata, a partire dagli anni ottanta il femminismo ha cominciato a sostenere che il sesso biologico è ovvio solo in apparenza. Il genere viene così visto da questa variante della teoria del femminismo post-strutturalista non come la rappresentazione culturale di un dato biologico, ma come quel processo culturale che produce nel corpo la possibilità di realizzarsi in due sessi distinti. Questa influente corrente femminista riprende, spesso senza accorgersene, temi anticipati dall’etnometodologia sull’identità sessuale, innanzitutto scartando le nozioni espressive della femminilità e, poi, decostruendo il sistema di segni attraverso il quale l’identità femminile è stata connessa all’eterosessualità, occupandosi a questo scopo di pratiche e identità divergenti dalla norma.5 Judith Butler, per esempio, afferma, proprio come Garfinkel, che il genere è un performativo, un insieme di azioni considerate indicative di un’identità di fondo (1990; 1993). A differenza di Garfinkel però – e in sintonia con la nozione di potere simbolico proposta da Pierre Bourdieu6 – Butler asserisce che il genere possiede una “forza compulsiva” derivante dal fatto che le persone scambiano le azioni con l’essenza: il suo effetto è dissimulatorio, e cioè quello di favorire certi tipi di comportamento nascondendo il fatto che non c’è alcun dato biologico essenziale a cui far riferimento come punto di partenza. La femminista statunitense sottolinea che le morfologie maschili e femminili in base alle quali vengono naturalizzate le differenze di genere sono sempre delle costruzioni ideali rispetto alle quali tutti ci sentiamo, in qualche modo, inadeguati data la variabilità delle dotazioni fisiche umane. Ecco 5 Nelle parole di Judith Butler (1994: 24), il genere è una “istituzione normativa che tenta di regolare quelle espressioni della sessualità che contrastano con i confini normativi di genere, allora è uno degli strumenti attraverso cui avviene la regolazione della sessualità. La minaccia dell’omosessualità perciò prende la forma di una minaccia alla maschilità costituita e alla femminilità costituita”. 6 Bourdieu discute espressamente la dimensione del genere in riferimento alla sua teoria più generale in uno dei suoi ultimi lavori, dove fa riferimento anche al lavoro di Butler, ma riprende in gran parte i primi lavori fortemente 37 quindi che vi è sempre la possibilità di essere altro dall’ideale, possibilità che è spesso rappresentata come fallimento e deviazione, ma che può anche essere abbracciata dai soggetti in modo sovversivo, beffardo e ironico. L’ironia, impersonata dalla figura del travestito, viene presentata come un espediente importante di rovesciamento dell’ordine di genere. I travestiti svolgono infatti, secondo Butler, una potente funzione esemplificativa che assume caratteri eversivi: mostrano che la femminilità e la maschilità sono innanzitutto interpretazioni, ovvero modi di porsi e di fare basati sull’imitazione e l’apprendimento, piuttosto che delle essenze immutabili iscritte alla nascita e una volta per tutte nel corpo. In quest’ottica, Butler considera che i diversi contesti sociali offrono regole locali che consolidano il genere attraverso ripetizioni ritualistiche ed enfatizza la reiterazione delle azioni piuttosto che i significati, ma accentua anche e soprattutto le possibilità di sovversione, sostenendo che, in quanto “pratica discorsiva ininterrotta”, il genere “rimane aperto all’intervento e alla re-interpretazione”. La teoria del genere post-strutturalista compie quindi un passo che Garfinkel non aveva voluto realizzare. L’indifferenza etnometodologica – il voler studiare le giustificazioni degli attori “ovunque si trovino e da chiunque siano prodotte, astenendosi da ogni giudizio sulla loro adeguatezza, sul loro valore, importanza, necessità, praticità, successo o consequenzialità” (Garfinkel e Sacks 1970: 339) – non si sposa facilmente con quella politica del corpo, del genere e della sessualità che, con sfumature diverse, è la cifra del pensiero femminista, anche nella sua declinazione post-strutturalista e queer.7 Il femminismo post-strutturalista ha invece tratto ispirazione dall’importante lavoro di Michel Foucault (1976; 1984) sulla storia della sessualità e dalla sua sottolineatura del ruolo disciplinare svolto dalla scienza medica nella costruzione e trasformazione delle identità sessuali. Attento soprattutto alle identità omosessuali, Foucault ha tuttavia offerto alcuni spunti anche per considerare la questione dell’assegnazione alla categoria sessuale, curando la pubblicazione in versione integrale dei mémoires di Herculine Barbin, una persona vissuta nella Francia dell’Ottocento, riconosciuta femmina alla nascita e che, poi, alla soglia dell’età adulta e in seguito a una serie di esami dei genitali, era stata dichiarata uomo e influenzati dallo strutturalismo francese, cfr. Bourdieu (1998). 7 La storiografia femminista in particolare ha documentato l’implicazione della rappresentazione medica (tipicamente maschile) del corpo femminile nella riproduzione delle dicotomie e disuguaglianze di genere (Hubbard 1990; Jacobus et alii 1990; Jordanova 1989). Più in generale sulla rappresentazione del genere cfr. De Lauretis (1987). Per una rassegna 38 costretta a vivere come tale, abbandonando ogni sembianza femminile nonostante non solo la sua biografia ma anche la sua anatomia mista (Foucault, a cura di, 1978). Attraverso la storia di Herculine trae forza la teoria foucaultiana secondo cui la percezione stessa del sesso presume un discorso regolatorio (medico) che si sviluppa nel corso degli eventi storici, contrassegna i corpi in modo diverso e, nella modernità, si incarna nella medicina.8 Nell’Ottocento, proprio nel momento in cui si stabilizza una teoria medica dicotomica, le persone di sesso intermedio – i cosiddetti ermafroditi, conosciuti fin dall’antichità – sono divenuti l’oggetto di sforzi classificatori poderosi e di una varietà di interventi medici volti essenzialmente a eliminare l’ibridismo che essi incarnavano. Oggi, all’anatomia patologica si è affiancata la psichiatria e l’endocrinologia, complicando – senza peraltro, come vedremo, soppiantare – il genitalismo.9 Ai giorni nostri il corpo è visto sempre di più come un dato plastico anche per quanto riguarda l’identità sessuale: si sono consolidati percorsi di trasformazione chirurgica molto concreti, di cui – e qui sta l’ironia – sono diventati i beneficiari (o le vittime) sia i bambini nati con caratteristiche sessuali miste, sia gli adulti che cercano un ri-assegnamento di sesso. L’accesso a questi percorsi, però, differisce marcatamente, e per i bambini nati come Herculine con caratteristiche sessuali miste spesso non vi è scelta; per soggetti adulti che vogliono passare da un sesso all’altro come Agnes esso è definito più in base alla capacità dei soggetti di mostrarsi capaci di sostenere “psicologicamente” la nuova identità sessuale, che non in base a una perizia sulle proprie caratteristiche genitali, endocrinologiche o fisiologiche. La plasticità del corpo viene quindi declinata in modi differenti, cui continua però a corrispondere una visione normativa fortemente dicotomica, e come vedremo eterosessualizzata, dei caratteri di genere e delle morfologie sessuali. sulle questioni della politica del corpo, cfr. Sassatelli (1999). 8 Sulla costruzione sociale del sesso in prospettiva storica, cfr. soprattutto Laqueur (1990). Cfr. anche Domurat Dreger (1998) per una discussione critica del modo in cui il caso di Herculine fu trattato dalla scienza medica ottocentesca. 9 Più in generale, è interessante notare le assonanze e le dissonanze tra Foucault e Garfinkel: entrambi sono preoccupati delle condizioni di possibilità localmente realizzate che fanno sì che alcune spiegazioni siano accettate come “vere”, il primo però ne tenta una genealogia in relazione a tecnologie di potere e di soggettività, il secondo si preoccupa del dettaglio etnografico cercando di evitare di indicare apertamente dei risvolti critico-politici. Per maggiori spunti su questo confronto, cfr. McHoul (1986). 39