Attilio Mangano - `68 e immaginario

Attilio Mangano
68’ e immaginario una parola chiave?
Il quarantennale del 68 ha consentito a molti studiosi una messa a punto e un bilancio delle “
interpretazioni” in grado di misurarsi con una serie di modelli teorici complessi ed elaborati in
cui ricerca storica e antropologia culturale si intrecciano . L’ evento, le sue origini, il suo
retroterra, la durata, le culture, i soggetti sono stati chiamati in causa per il carattere di
spartiacque del 68 stesso nella storia novecentesca. La stessa parola d’ordine della “
immaginazione al potere” chiama in causa il rapporto fra la pratica dell’immaginazione sociale
e l’insieme delle teorie dell’ immagine, il cosiddetto immaginario ( già Luisa Passerini aveva
notato che il termine, di origine francese, non è presente nel linguaggio inglese, forse non è un
caso). L’occasione di un seminario all’università di Venezia ha consentito dunque una direzione
di ricerca particolare.
L’immaginario come parola-chiave - Uno statuto teorico “ novecentesco”- il simbolico e
l’immaginario coincidono?- La questione del “ paradigma”- La doppia lettura- Il movimento
come soggetto
L’immaginario come parola chiave
La crescente diffusione di convegni e seminari sul quarantennale del 68 rende difficile e quasi
impossibile distinguere fra gestione mediatica di un grande tema, suo uso politico, occasione di
verifica e messa a punto storico-critica. Se ne è parlato e se ne continua a parlare tanto- quasi una
resa dei conti finale per dire che è una storia finita e che lascia dietro di sé rovine e luoghi
comuni- che chi si volesse sottrarre a questa retorica obbligata rischierebbe quasi sempre di
essere catalogato in partenza fra i nostalgici irrecuperabili o gli estremisti pericolosi e i terroristi.
L'occasione di questo seminario può consentire invece di misurarsi con i problemi interpretativi e
metodologici emersi dalla ricerca storica.
Forse il modo migliore per farlo rimane quello di misurarsi con un tipo di immagine di fondo che
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ne condensa simbolicamente la portata, vale a dire la parola d'ordine della " immaginazione al
potere", il celebre slogan emerso nel Maggio Francese, una sorta di parola-chiave per
decodificare l'evento e consegnarlo alla memoria storica.
Si tratta infatti di una di quelle parole-chiave che aprono da subito una molteplicità di
connessioni:
1) nel confronto con le altre rivoluzioni del passato, politiche e sociali, ponendo il problema di
sapere se si tratta di una rivolta di strada o di una rivoluzione diversa e non catalogabile
2)nel confronto con le filosofie politiche del secolo, con le teorie " realistiche" del potere o con la
traduzione utopica del potere buono e diverso
3) nel confronto con la produzione artistica e le sue avanguardie ,dal surrealismo in avanti, con
esaltazione di una rottura espressiva che deriva pur sempre dal grande luogo romantico dell'arte
come azione massima di libertà creativa
4) nel confronto con le forme della comunicazione di massa contemporanea, col cinema, col
fumetto, con la televisione, come espressione di una cultura alternativa che presuppone una
rivoluzione e delle forme stesse .
Se accettiamo di lavorare con questa parola-chiave credo che sia possibile individuare nel nuovo
concetto di immaginario l’ anello di congiunzione, concetto nuovo che precede e accompagna il
‘68 stesso emergendo verso la metà del XX secolo nelle scienze umane e nelle scienze sociali,
nella filosofia e nella psicoanalisi, nella sociologia e nell'antropologia, nella ricerca storica e nella
teoria politica , spesso in modo non consapevole, per approssimazioni e rimandi, in rapporto al
grande tema (durkheimiano) della rappresentazione o meglio dell’autorappresentazione. Come
fare a riconoscere e individuare i processi mentali e di simbolizzazione sociale che sorgono in
una fase storica e in un contesto specifico? Come si intreccia il mondo reale con la sua
rappresentazione?
Si può provare a fare, io ci ho provato a suo tempo, la storia novecentesca del concetto di
immaginario, c'è un interscambio dei diversi saperi: la teoria freudiana del fantasma, la proposta
husserliana della lettura fenomenologica, il passaggio dal concetto di rappresentazione collettiva
ai "topoi" del dibattito sociologico, lo studio antropologico dei simboli, il mondo immaginario
degli artisti, gli studi di Edgar Morin sul cinema come luogo dell'uomo immaginario, il legame
implicito fra le teorie della rappresentanza in politica, il concetto di sovranità e la sua
derivazione teologica ( si pensi alla celebre formula "morto il re, viva il re"), infine il famoso
dualismo di immaginario e simbolico in Lacan e la sua scuola. Il campo dell'immaginario non
nasce certo durante il maggio francese , quello che si viene esplicitando è il nesso fra teorie della
rappresentanza e teorie della rappresentazione il 68 è la stagione che rivela come questa storia
sotterranea di come una società si riconosca nelle sue rappresentazioni o infine smetta di
riconoscerle e ne fondi di nuove sia entrata finalmente all'ordine del giorno.
Riepiloghiamo. Lo slogan del maggio francese 1968 sull'immaginazione al potere sintetizza
molto bene il tipo di svolta e di rottura che la cultura del 68 introduce col suo richiamo all'utopia,
al sogno sociale, alla forza creativa dell'immaginazione. Se è tuttavia vero che il tema
dell'immaginario è anche un modo per girare attorno al classico problema della legittimazione
del potere e della natura del suo stesso simbolismo sociale, non è fuori luogo osservare - come ha
fatto ad esempio Bronislaw Baczko - che in fin de conti l'immaginazione è sempre stata al potere,
o - per meglio dire - che ogni potere ha un suo immaginario. Quel che cambia o che viene
comunque rimesso in discussione, grazie al 68, è però "una certa tradizione intellettuale", ovvero
quel miscuglio potente di economicismo, funzionalismo, determinismo, che prevale nelle scienze
umane e sociale, un vero e proprio riduttivismo dell'interpretazione, il rifiuto di riconoscere le
funzioni multiple dell'immaginario e di comprendere la sua dimensione espansiva e complessa :
l'immaginario sembra essere sempre l’aggettivo di qualcosa, di un mondo, di un polo, di un
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oggetto, è un reale meno reale, deformato, subordinato al principio di realtà. Il punto del
contendere è dunque questo: dilatando la dimensione del possibile, esaltando l'invenzione e,la
fantasia della creazione, moltiplicando le connessioni del reale stesso, l'immaginario sfida sempre
la spiegazione causale dell' ultima istanza che tutto spiega e da cui tutto dipende.
L''immaginario acquista una sua legittimazione di fondo entrando a pieno titolo fra i nuovi
concetti mentre il suo stesso statuto teorico si viene affinando.
In campo psicanalitico fa discutere la distinzione sviluppata da Jacques Lacan tra immaginario e
simbolico. Il primo è legato alla cosiddetta "fase dello specchio", in cui il bambino coglie nello
specchio l'immagine totale di sé ma costruisce in tal modo un falso io-immaginario, distinto dal
soggetto reale, andando incontro a una sorta di scacco continuo rispetto alla sua vera storia, che si
costruisce a livello del simbolico. Questa condizione di impossibile trasparenza e immediatezza
spinge Lacan a una ennesima svalutazione dell'immaginario (il primato del simbolico è
paragonabile, sotto certi aspetti, alla falsa immediatezza della coscienza "tradeunionista"
rispetto alla coscienza politica di classe in Lenin, in cui la coscienza immediata – ancora
"interna" al rapporto di produzione capitalistico- è impossibilitata a divenire coscienza globale).
L'immaginario è coscienza parziale, bloccata dalla rappresentazione che lo specchio restituisce.
Ma al tempo stesso immaginario e simbolico procedono insieme, l'uno richiama l'altro o ne ha
comunque bisogno.
Uno statuto teorico “ novecentesco”
Lo statuto teorico dell'immaginario è costretto a "fare i conti" con la psicanalisi da un lato e col
marxismo dall'altro, come si impegna a fare Cornelius Castoriadis nel corso degli anni sessanta e
dei primi anni settanta: Castoriadis infatti è un ex militante trotzkista che partecipa all'esperienza
del gruppo "Socialisme ou Barbarie" e va sottoponendo a critica( insieme a Claude Lefort,
allievo di Maurice Merleau-Ponty) il marxismo rivoluzionario stesso sottoponendo a critica la sua
incapacità di riconoscere l'autonomia dell'immaginario, che viene ancora e sempre - in quanto
rappresentazione identificato con l'ideologia e ridotto a "falsa coscienza". Certo Marx si mostra in
più occasioni consapevole dello spessore specifico dell'immaginario, egli sa che l'Apollo di Delfo
è stato nella vita dei Greci " una potenza reale", così del resto la sua teoria del feticismo della
merce può essere riconosciuta come un tentativo di approccio all'immaginario, e quando parla del
ricordo delle generazioni passate che agisce come un fantasma più potente degli uomini in carne
e ossa, ma alla fine questo momento del non-economico e della sovrastruttura torna a essere solo
un fatto illusorio. Si tratta di riconoscere invece all'immaginario un ruolo attivo e creativo
(Castoriadis parla di immaginario radicale ponendo la distinzione tra la fase istituente-creativa
dell' immaginazione sociale e quella istituita, che torna a sovrapporsi alla società). Convogliando
i suoi studi nel volume "L'istituzione immaginaria della società" (1975), egli produce una prima
sistematizzazione d'insieme, ogni società ha un suo immaginario ed esso è insieme il risultato
consolidato delle rappresentazioni e delle credenze che si istituzionalizzano e il momento di
costruzione sociale dei significati Quando esplode il movimento del ‘68 e sui muri di Parigi si
esalta " l'immaginazione al potere" sembra proprio che il riconoscimento della creatività della
funzione immaginativa sia arrivato al suo culmine.
E' con questa esplosione dell’immaginario che il 68 inaugura la sua rottura culturale e la sua
resa dei conti, impegnando la ricerca a fare i conti col tema , per certi versi classico, della
rappresentazione sociale e a reinterrogarsi sulla domanda di fondo : cosa tiene insieme una
società? cosa la spinge invece al mutamento? I sociologi che si occupano delle modalità di
formazione e di riproduzione delle immagini della società si dividono tra un modo quasi neutro e
descrittivo di concepire la rappresentazione come un dato e un modo che definirei invece “ tutto
politico” di presupporre che l'antagonismo sociale dia luogo a rappresentazioni altrettanto
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antagoniste. Il passo avanti decisivo è formulato in quegli anni dagli studi di Berger e Luckmann
con l'opera La realtà come costruzione sociale: c'è un processo di apprendimento, la realtà sociale
è quella che i soggetti stessi producono e riproducono in primo luogo "istituzionalizzando" le
azioni ripetute, che vengono apprese come azioni tipiche, di natura oggettiva; sono gli schemi
dell' interazionismo simbolico di una psicologia sociale cognitivista, per cui la rappresentazione è
un prodotto dell'attività mentale, che ri-costruisce e dà un significato alla realtà, a partire dalle
informazioni che il soggetto ha e da quelle che ha ricavato dall'esperienza e dal contesto
ambientale. Tramite gli stufi di S. Moscovici il concetto di rappresentazione sociale si viene
qualificando come un sistema di conoscenze empiriche e di valori, una costellazione di
significati e di relazioni.
Non è questa la sede per discutere dell'insieme delle teorie sociologiche dagli anni settanta in
poi, vale la pena però collegare storicamente la sessantottina esplosione dell'immaginario con la
diffusione dello stesso concetto e problema da quel momento in poi, una parola d'ordine, una
moda culturale in un certo senso Dopo gli anni settanta l'uso e l'abuso del termine stesso di
immaginario diviene fortemente massificato, se ne appropriano stampa e mass media, si parla di
immaginario artistico e di immaginario poetico, di immaginario cinematografico e di
immaginario architettonico, la musica leggera è presentata come veicolo e riproduzione
dell'immaginario di un 'epoca. Naturalmente in questo insieme di sfondamenti c'è un limite, il
ricorso insomma a un uso molteplice ma al tempo stesso generico, che riguarda la memoria
storica e i sogni, le mentalità diffuse, i luoghi comuni, le tradizioni popolari, etc. Ma come non
riconoscere che questa sorta di trionfo di schemi e stili derivabili grosso modo dall'antropologia
culturale aiuta a sbarazzarsi di formule standardizzate come ideologia e visione del mondo- con
quel tanto di normativo che sembra appartenere per statuto al loro codice- e reintroduce al tempo
stesso una sorta di riscoperta di ciò che non trovava parole per essere "spiegato", un superamento
del campo dei soli concetti , un riconoscimento di saperi fondati su rappresentazioni e simboli,
emozioni e sentimenti, flussi di immagini appunto?
Rispetto a una riduzione del sapere sociale a concetti e segni, a spiegazioni-interpretazioni da
parte di una teoria che li comprende e li classifica, a un positivismo classificatorio che tutto
spiega per il suo rapporto funzionale tra le parti, al vecchio errore della tradizione
intellettualistica in cui ogni pensiero viene ricondotto a un sistema di idee di cui fa parte e al
determinismo che spiega una cosa con la causa che ne ha determinato l'esistenza, la scoperta
dell'immaginario torna a essere scoperta di ciò che non si spiega e non si riduce eppure esiste,
dell' imprevisto, dell'altro, dell'invisibile, etc. "Se il concetto è segno, l'immagine è simbolo.
Questa è la vera differenza da custodire contro la svalutazione delle immagini " vaghe e
imprecise" a favore dei concetti " rigorosi": Nell' " imprecisione" dell'immagine si nasconde la
potenza del simbolico da cui è escluso il concetto che, proprio per la sua precisione, è
immediatamente sottratto a qualsiasi fluttuazione di significati" ( U. Galimberti)
Il simbolico e l’immaginario coincidono?
Va precisato subito che non è una ricaduta in schemi mistici, esoterici etc. Non si tratta tanto di
recuperare una tradizione che vorrebbe riconoscere nel simbolo il significato indicibile e
invisibile perché in ogni rinvio all'arcano inaccessibile e al mistero si ripropone di fatto il sapere
superiore di qualcuno che sa, vede, indovina, secondo una logica " iniziatica". Si tratta più
semplicemente di sbarazzarsi dell'equivalenza tra immagine e illusione. L'immagine è produttrice
di senso essa stessa. Come osserva Castoriadis occorre chiedersi perché al centro di un
immaginario troviamo " sempre qualcosa di irriducibile al funzionale. Un qualcosa che è come
un'attribuzione primordiale di senso al mondo ed a se stessa da parte della società".
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La lunga trama di svalutazione dell'immagine ha accompagnato il processo di affermazione del
pensiero moderno con la certezza di possesso del dato reale e ha sistemato il campo delle
rappresentazioni nel limbo del non reale, non chiaro ,non certo, non razionale. Il processo di
secolarizzazione ha eliminato ogni trascendenza come immagine illusoria e falsa credenza, la
desacralizzazione ha rigettato nel sacro, di cui sbarazzarsi, anche il bisogno di oltrepassare la
realtà e la domanda di senso. Ma in realtà il mito e la religione non vivono di immagini in quanto
luoghi dell'illusione e dell'inganno, esse si nutrono di un immaginario che opera come un codice
di significati e questo codice - il campo delle rappresentazioni umane- riproduce il molteplice,
continua a operare, si sottrae alla riduzione binaria di vero e falso. E per quanto possa sembrare
in prima istanza che mito, religione e politica appartengano a campi diversi e quest'ultima,
scienza dei rapporti reali ( di forza, di potere), disponga di uno statuto "realistico" che può essere
opposto a quello delle immagini "illusorie", è possibile riconoscere il luogo di incontro e di
scambio, il processo di simbolizzazione." Forse che tutta la mitologia dello Stato- ha scritto
Bronislaw Baczko- non si radica in quella lontana eredità di rappresentazioni del potere che si
esprime in emblemi e leggende,immagini e concetti?"
Proprio per queste ragioni, al di là della moda recente di usare in modo multiplo e perfino
convenzionale il termine di immaginario, non va commesso un errore analogo facendo
dell'immaginario il luogo di ogni scibile e abusandone in modo generico e indifferenziato. Si fa
più pressante la domanda di una sintesi teorica. Mito, religione e politica sono tre modalità di
esistenza sociale dell'immaginario, ne costituiscono anzi - ha scritto Pierre Ansart - la dimensione
preliminare, vale a dire " l'immanenza dei significati alla pratica sociale e l'esigenza della
fondazione e dell'interiorizzazione di una struttura significante ai fini della pratica di un'attività
comune".
In che senso si può riconoscere dunque che l'immaginario si viene ponendo come il nuovo
paradigma della fine del XX secolo? E' chiaro in questo caso il riferimento alla famosa
riflessione di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche che maturano quando il vecchio paradigma, che
unificava la comunità degli scienziati ,comincia a scricchiolare e ad entrare in crisi. Ogni volta
che l'immaginario è emerso come problema in uno specifico campo esso ha suggerito da un lato
l'urgenza di un nuovo statuto teorico e dall'altro quali sinonimi comprendesse o quale
costellazione di concetti instaurasse. Sicché è in un certo senso relativamente più semplice, prima
ancora di definire cos'è l'immaginario, sottolineare cosa esso non è, ricordare insomma i modi
diversi di ridurne la portata riconducendolo a modelli interpretativi più sicuri.
Ci sono in sintesi tre interpretazioni dell'immaginario che danno luogo allo stesso tipo di
errore:
- l'interpretazione dell'immaginario come ideologia illusoria, riflesso, falsa coscienza
- l'interpretazione dell'immaginario come sistema di rappresentazione falso o ingannevole, in ogni
caso da demistificare, attraverso la sua riduzione a concetto o a segno
- l 'interpretazione dell'immaginario come mito-rito, riproduzione di un sistema di credenze,
fenomeno sociale di moda o fenomeno di tradizione popolare.
Quel che è sbagliato o che "non funziona" in queste tre interpretazioni è proprio la sua
riduzione a qualcos'altro, il fatto che esso non si spieghi in sé; l'immaginario-ideologia è un modo
di manipolazione delle masse da parte del potere, una sorta di propaganda, una grande narrazione
addomesticante; l'immaginario-segno va ricondotto al codice di significati, il che è ovvio, per
smascherarne il messaggio; l'immaginario-credenza collettiva è a sua volta un rito del
passato,una memoria, una sopravvivenza.
La questione del “ paradigma”
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Si tratti di un sistema ideologico, di un codice di significati, di un comportamento collettivo
rituale, in ogni caso l'immaginario esisterebbe in funzione del suo rivelarsi come illusorio
anziché del suo essere una rappresentazione autonoma. Se esso infatti partecipa alla costruzione
delle immagini del mondo in cui la gente si riconosce, alla mobilitazione di energie cui la gente
concorre perché finalizzate, alla regolazione dei comportamenti in quanto fattore di
stabilizzazione,l'immaginario ha una funzione attiva e non è solo una rappresentazione a
comando, un fantasma nato per sviare e portare fuori strada. Valgono a tale proposito i rilievi che
la scuola francese del Mauss ( movimento antiutilitarista delle scienze sociali) e gli studi di Alain
Caillè in particolare hanno mosso al funzionalismo sociologico, all'utilitarismo, al
convenzionalismo, alla spiegazione di una cosa tramite un'altra: la rappresentazione di una cosa
non è la cosa con un di più che la spiega, occorre riprendere la grande lezione di Marcel Mauss
del fatto sociale totale. Ma occorre anche fare i conti una volta per tutte con il dualismo di
immagine e realtà di tutta una tradizione di pensiero, riconoscendo alla psiche la sua funzione
creativa di forme ." l'Immaginario di cui parlo non è immagine di. E 'creazione incessante ed
essenzialmente indeterminata (sociale-storica e psichica) di figure-forme-immagini, a partire da
cui soltanto si può parlare di "qualche cosa" (C. Castoriadis)
Parlare di immaginario e/o di immaginario sociale significa riferirsi allo stesso oggetto teorico e
può configurarsi come ingenua una qualche lettura che poggiasse la sua distinzione separando un
campo di rappresentazioni "senza storia" , archetipale, e uno del tutto e solamente storico-sociale,
anche se nei fatti le diverse scuole e correnti operano come se questa separazione esistesse
davvero o comunque presupponendola. Se si riconosce (ma forse è questo il vero luogo del
discrimine, la creatività, rispetto a presupposte leggi eterne) come fondamento ultimo di
individuo e società la creatività, intesa come capacità di creare forme e figure che non esistevano
precedentemente e si ammette che sia le società che tutti i prodotti del soggetto psichico e
dell'individuo sociale sono creazioni immaginarie ,non ha valore separare le strutture
antropologiche dell'immaginario e le rappresentazioni collettive di una società. Facciamo nostra
insomma la tesi di fondo di Castoriadis, quella per cui "l'istituzione della società è ogni volta
istituzione di un magma di significati immaginari che possiamo e dobbiamo chiamare mondo dei
significati" trova un suo punto di convergenza con il riconoscimento dell'azione stessa del
fantasma sociale sviluppato da B. Baczko, secondo cui l'immaginazione sociale è quella attività
immaginaria orientata al sociale che produce immagini di noi stessi, degli altri e della società
"considerata come un tutto unico".
Da un lato dunque l'immaginario sociale può essere individuato come un insieme di fantasmi,
relativi alla coesione o alla disgregazione di una società, alla sua stabilità e ai suoi conflitti ,
dall'altro esso opera come modalità peculiare della riproduzione sociale che si nutre di uno
scambio continuo, lo scambio tra i fantasmi e il reale.
Baczko riconosce una doppia funzione nell'immaginario, quella di essere veicolo di
stabilizzazione e quella di consentire una prefigurazione del sociale, quella di rappresentare il
mondo e quella di oltrepassarlo creando il mondo possibile. "L'immaginazione sociale svolge un
ruolo di stabilizzazione - essa contribuisce alla legittimazione di un potere o all'elaborazione di
un consenso sociale che richiedono simboli e miti, modelli dominanti di comportamento, sistemi
di valori e di divieti. essa opera nella comprensione della vita sociale come nel mascheramento
dei suoi meccanismi: elemento regolatore e stabilizzatore, l'immaginazione sociale è tuttavia
anche la facoltà che consente di non considerare i modi di sociabilità esistenti come definitivi e
come i soli possibili, ma di ideare altre forme e altri modelli" . Può servire il richiamo alla
metafora del fiume e del bacino ( proposta da Durand, studioso "junghiano" dell'immaginario):
si tratta di pensare all'intreccio e allo scambio di correnti e però anche al loro disaggregarsi e
ricompattarsi, al manifestarsi non prevedibile dell' evento- caldo ( a fasi di "accelerazione" nella
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formazione delle rappresentazioni del sociale) e a fasi in cui la corrente del fiume rallenta,
sembra stagnare. Non è forse possibile classificare questi percorsi caldi e freddi come dei cicli
che si ripetono, delle "leggi" di movimento con una periodicità particolare ma è invece possibile
identificare uno scenario e un'azione ovvero l'intervento stesso del fantasma sociale. In quanto
luogo della legittimazione politica e della stabilizzazione il fantasma sociale entra sulla scena
come fantasmatizzazione del potere, in quanto luogo dell'instabile e della crisi, del mutamento e
della rottura,il fantasma sociale entra sulla scena come immaginazione/altra, possibilità stessa
dell'immaginazione di dar luogo all'altro e di riconoscerlo.
In quanto teatralizzazione della partecipazione sociale nel suo rapporto di identificazione col
potere lo spettacolo- rappresentazione è il luogo in cui il potere è stregato-stregante, in grado cioè
di dar luogo a una identità per appartenenza e fusione. Come rappresentazione del conflitto e
irruzione del sogno sociale come attore il fantasma sociale riemerge invece come evento
(nascita, morte.)
Spero che questa insistenza sulla questione dell'immaginario come chiave di lettura e questione di
metodo non sia recepita come una sorta di filosofia della storia. Siamo partiti dalla formula
dell'immaginazione al potere per rilevare questo tratto comune e quindi sottoporlo al problema
di una lettura storica del nesso fra evento globale e storie nazionali . Ricordo a questo proposito
gli spunti proposti da Benci nella sua introduzione al seminario quando parla del Maggio come
di un qualcosa che è al tempo stesso evento storico francese e appartenenza della generazione
del ’68.
La doppia lettura
Proprio questa doppia lettura e sovrapposizione introduce un aspetto rilevante vale a dire la
transnazionalità e relativa simultaneità delle proteste giovanili e operaie nel sessantotto. La
mondializzazione della contestazione, la mobilitazione diffusa, l’assoluta eterogeneità dei
“sistemi” colpiti da brevi o lunghi, comunque intensi conflitti sociali non cessa di suscitare
domande, dubbi, interpretazioni. Non vi sono difatti solamente paesi a capitalismo – più o meno avanzato (ovviamente pensiamo oltre che agli Stati Uniti a Italia e Francia) ad essere investiti
dalla piena. Ci sono paesi del blocco sovietico (Cecoslovacchia e Polonia), europei autoritari
(Spagna), in via di sviluppo e “decentrati” (Brasile e Argentina), non allineati (Jugoslavia),
asiatici (Giappone e Corea).
La grande contrapposizione rimane comunque quella di una protesta che unisce l’Est e l’Ovest
come testimonia l’arcinota coversazione (anch’essa registrata in uno degli anniversari del ’68) tra
Adam Michnick e Daniel Cohn Bendit. In questa il primo confessa come si sentisse
“rappresentato” dal secondo nonostante le differenze profondissime delle due “società” in cui si
trovavano a vivere. E questo da un lato conferma un retroterra comune che potremmo chiamare
generazionale, dall’altro fa riflettere sulla società dello spettacolo che innalza “l’ebreo tedesco” a
anti-De Gaulle e star antagonista e “l’ebreo polacco” a semplice spettatore dell’ “avvenimento”.
Cosa è stato dunque ad alimentare un simile aspro conflitto sociale? Un virus sconosciuto, uno
spirito emulativo, che cosa? Non c’è solo una “rivolta anticapitalista” (Illuminati) o una rivolta
tout court della “gioventù” in omaggio ad un sentimento generalizzato di distacco con i padri.
Vi sono perciò influenze altre, numerose, determinanti e che colpiscono l’immaginario di un
“movimento” che esiste soprattutto nell’autopercezione dei singoli.
E qui c’è un primo snodo del nostro percorso odierno. Ovverosia come un immaginario
fortemente caratterizzato dalla “visione del mondo esterno” porta con sé la formazione di
un’identità politica. Lo vedremo nel caso francese, che senza dubbio ha “nutrito” di suggestioni,
miti, immagini il movimento europeo ed italiano in particolare. Sarà stimolante in questo senso il
confronto con la realtà italiana e gli analoghi meccanismi di formazione della coscienza politica
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di un movimento durato più a lungo e lungo varie “periferie” (Mangano).
Il soggetto di questo intervento, ma del sessantotto in senso più ampio, sono notoriamente i
giovani. Attenzione. Non tanto e non solo gli studenti, ma i “giovani”. Che vanno all’Università,
ma anche che lavorano in fabbrica, che sono nelle comunità cattoliche come nelle leghe
cooperative, come anche nei movimenti della nuova sinistra e della nuova destra. Chi sono questi
giovani? Che “ponte” esiste tra i giovani che parlano francese e quelli che invece con varie
inflessioni dialettali, l’italiano? Esistono forme di condivisione ideale che non derivino da
incontri e frequentazioni? Ci sono, in altri termini, le condizioni per definirli parte integrante di
una “generazione”? L’allergia ai confini, o la nuova geografia mentale di questo spicchio
anagrafico (Ortoleva) è qualche cosa di consistente, reale. Ma è sufficiente per andare al di là di
ciò che è la coetaneità (Sofri)? Un’identità che travalica frontiere e classi – altro aspetto che
vorremo chiarire – come si forma quindi? Oltre all’immaginario che ci fa percepire all’interno di
una generazione, cosa forma una comune visione della vita? La transitorietà dell’essere giovane
finisce inevitabilmente con il cozzare con i mutamenti che il tempo e la vita impongono. Tuttavia
ciò non toglie che quanto vissuto in età post-adolescenziale viene portato con sé per tutta la vita.
Se è vero che tutti abbiamo ancora intatti i nostri vent’anni come i trenta, i quaranta e così via
perché fanno parte di un vissuto che resta dentro noi stessi, rimane qualcosa sulla sabbia (per
riprendere uno slogan del Maggio) dell’autentica rivoluzione negli “stili di vita” della
generazione del ’68?
Una lettura abbastanza condivisa “concede” al sessantotto la patente di rivoluzione riuscita
limitatamente proprio agli stili di vita. Un bagaglio lessicale, musicale ed iconografico “nuovo”
che porta con sé mutamenti profondi del modo di vivere, creando una netta discontinuità con il
passato. Che sia una rottura o una liberazione (vera, presunta, autopercepita?) è proprio il caso
delle donne a dircelo.
Credo mantenga ancora oggi una sua validità la tesi che accomuna l’evento 68 . il suo aspetto
globale, a una rivoluzione di tipo nuovo, non politica o sociale ma culturale, anche se sono
consapevole che essa finisce col porre più problemi di quanto si possa supporre . Come altrettanti
può porne leggere oggi, in piena epoca di globalizzazione, il 68 come un anticipo sui tempi,
primo manifestarsi della globalizzazione stessa. Il fascino della tesi che accomuna il 1848 e il
1968 come due rivoluzioni che hanno entrambe perso ed hanno però entrambe cambiato il mondo
sta proprio in ciò che suggerisce come linee di ricerca di questo cambiamento. Ciò che, si dice
spèsso, accomuna i vari 68 su scala intercontinentale è la nascita di un soggetto nuovo della
politica, il movimento, che era ed è cosa diversa dai tradizionali movimenti di massa,
fiancheggiatori e compagni di strada dei partiti storici della sinistra, sul modello dei "Fronti
popolari". Portatore di una rivoluzione non politica di presa del potere e di una rivoluzione non
sociale di rovesciamento del modo di produzione , una rivoluzione dunque "culturale" in senso
ampio, antropologico. Credo che la definizione migliore che ne condensa i termini sia quella
formulata allora dalla Anna Arendt, la nascita una felicità pubblica, perché essa riassume bene la
fusione etico- antropologica fra politica e vita individuando nello spazio pubblico il luogo
dell'irruzione. E credo che se proprio si vuole anche ricorrere a un qualche slogan di allora che
condensi a sua volta la spiegazione d'insieme, esso non sia solo la famosa parola d'ordine
dell'immaginazione al potere (che pure indica un varco peculiare, un punto di svolta) ma quella
per cui il personale è politico. Essa infatti rivela una ambivalenza profonda che va riconosciuta
dichiarando al tempo stesso la fine della politica tradizionale (il suo spostarsi altrove) ed un
nuovo eccesso di politicizzazione, una logica per cui “tutto è politica” e solo la politica
smaschera il mondo. Nel primo significato dello slogan si consuma un rovesciamento, la politica
non è la dimensione della lotta per il potere o meglio essa si estende ai ruoli e ai corpi, è
riproduzione di micropoteri. Nel secondo significato si torna invece a una forma di
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universalizzazione dei saperi tramite il politico stesso. Se il lato positivo sembrò essere l'aver
investito non più lo Stato e il Parlamento ma il "privato", non più la produzione sociale ma la
"riproduzione" della società attraverso la riproduzione dei ruoli, dei meccanismi autoritari di
potere, del modello patriarcale di famiglia ecc, la scoperta insomma che si può e si deve "partire
da sé", porre il soggetto al centro della società stessa, il lato negativo e paradossale fu a sua volta
una sorta di iperpoliticizzazione della vita, strappata alla sua quotidianità e messa a nudo come
rapporto di potere.
Tutto è politica, dunque. Comincia da qui una sorta di ambivalenza, la sessualità, la famiglia, il
corpo, i sentimenti, sono rivelatori di meccanismi di dominio, ma questa nuova politicizzazione
della vita rischia in permanenza una caduta nell'ideologia. In realtà quando questo campo di
analisi delle politiche della soggettività si traduce in una rivendicazione di nuovi diritti (come
avvenne per il referendum sul divorzio e per la questione dell'aborto) la politicità della vita
diviene analisi concreta di bisogni e diseguaglianze, ricerca del soggetto debole e privo di suoi
diritti. Ma poco per volta appare chiaro che si tratta di nuovi settori da aggiungere alla politica
tradizionale: la salute dei corpi, la malattia, il diritto alla vita; non più o non tanto una rivoluzione
culturale, ma una estensione delle politiche del welfare. Mentre i nuovi studiosi arrivano a
spiegare che stiamo per entrare in un campo particolare che investe appunto il dominio e la sua
estensione. Con la definizione di biopolitica siamo dentro il nuovo orizzonte. Il dominio adesso
plasma i corpi nel loro nascere e riprodursi, nelle regole della ricerca del piacere, nell'investire
non più o non tanto il cittadino ma l'insieme dei corpi all'interno di una disciplina interiorizzata.
La politica è dunque il controllo disciplinare della stessa nuda vita. Quello che agli inizi degli
anni ottanta appariva ancora come una forma di politicizzazione in più, traducibile in
rivendicazione di diritti, rivela un orizzonte destinato a cambiare la dimensione stessa della
politica. Il "ritorno del privato" diviene a sua volta processo globale di politicizzazione.
Accanto e fuori alla politica classica e a quella tradizionale, con i suoi dualismi stato-società
civile, riforma-rivoluzione, progetto generale e istanza particolare, strategia e tattica, si compie
uno spostamento che è insieme ideologico e linguistico, dai massimi sistemi alle forme
molecolari della vita, dalla riforma concreta per via legislativa alle pratiche individuali e di
gruppo.
Anche lo slogan dell'immaginazione al potere presenta una sua ambivalenza. La sua
interpretazione più nota è quella che ne sottolinea la caratteristica del rilancio dell'utopia e del
“vogliamo tutto" come espressione ingenua e liberatrice. Ma non se ne capirebbe la portata di
fondo se non si cogliesse invece nel richiamo all'esplodere dell'immaginario una dimensione di
riepilogo novecentesco delle avanguardie artistiche e insieme un nuovo spazio possibile della
comunicazione, il rapporto con una modalità creativa della comunicazione resa possibile da
cinema, tv e mass media,che troverà venti anni dopo con la diffusione della rete Internet il suo
percorso di uso insieme soggettivo e di massa.
Si obietterà che in questo modo si fa del 68 non più una stagione di nuove lotte, di rivolta
giovanile, di irruzione dei movimenti come nuovi soggetti con tutto il suo bagaglio di estremismi
e utopie ma una svolta e una corrente culturale di cui riconoscere la consistenza negli effetti
posteriori, che però non sono di quella stagione ma solo una conseguenza ulteriore. La legittimità
dell'obiezione non impedisce tuttavia di cogliere appunto il punto di svolta, la nascita di una
cultura del soggetto e di una dichiarazione di una serie di “luoghi del post” che si rivelano a
partire da quella stagione: post-industriale, post moderno, post comunismo, ovvero una
dichiarazione di crisi dei modelli e dei saperi novecenteschi e l'aprirsi di una transizione, lo
spazio del “post” designa infatti solo lo stato di crisi e non una cultura organica, il passaggio a
qualcosa di altro ma non la sua affermazione consolidata. In questo senso la cultura del 68
esprime l'indicazione di una rottura che permane.
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Il “ movimento” come soggetto
Un problema ulteriore che si presenta sotto il profilo storico e anche sotto quello del modello
interpretativo è quello del passaggio per così dire dal movimento ai movimenti, dal singolare al
plurale ,al decentrarsi dei soggetti. Si tratta di un processo di crisi del movimento stesso o di una
sua metamorfosi, che va individuata a partire non tanto da uno schema che identifica il”
movimento” come un soggetto collettivo quanto appunto come emergere di soggetti al plurale,
accomunati da quella spinta alla " presa della parola" (De Certeau) ma portatori essi stessi di
una specifica differenza, problema che emerse subito con il movimento femminista. C'è stato chi
ha fatto l'elenco dei vari e tanti movimenti sorti dopo il 68, dall'ecologismo ai movimenti
identitari, dal volontariato alla ricerca di un tempo alternativo, dalla controcultura ai centri
sociali. Qui naturalmente i percorsi riguardano anche le storie nazionali e locali, il movimento è
dunque insieme singolare e plurale, differenziato e altrettanto spesso riconducibili a istanze,
pratiche e valori accomunabili. La storia dei movimenti dal 68 in poi deve dunque unire e
articolare questi due aspetti.
Per un certo periodo ha prevalso, a partire dal riconoscimento del carattere ciclico dei movimenti
stessi, del loro irrompere, fiorire, scomparire, un tipo di lettura che chiamava in causa i processi
di istituzionalizzazione, a partire dal famoso schema suggerito da Francesco Alberoni che in
quegli anni andava consegnando al “movimento”stesso due suoi grandi testi-chiave, Statu
nascenti (Il Mulino, 1968) e Movimento e istituzioni (Il Mulino, 1977), che furono spesso
coniugati insieme mescolando altri schemi, compreso quello di Castoriadis sulla dialettica tra la
fase dell’ “Istituente” e quella dell' "istituito". Colpiva inoltre l'analogia fra la teoria
alberoniana dell’innamoramento come"stato di fusione" riguardante la vita dei sentimenti e la
teoria dell’istituzionalizzazione dei movimenti e dei sentimenti. L’innamoramento sta al
movimento come l’amore sta all’istituzione. Perché un movimento entra in crisi e si trasforma in
altro? La logica della sua istituzionalizzazione è un processo obbligato?
Una recente risposta diversa è stata proposta da Paul Bermann che ha da un lato paragonato
questa sorta di "processo in due tempi" dal sogno integrale della rivoluzione a una trasformazione
dei protagonisti stessi nella lunga durata prendendo come esempio per un confronto la storia
delle sinistre americane dagli anni quaranta ai decenni successivi, passaggio da un ideale di
"rivoluzione proletaria prettamente anarchica” a una idea di “liberazione personale, sia in una
prospettiva eminentemente sessuale, sia in una dimensione di avanguardia poetica, sia in altri
modi troppo vaghi per essere definiti
Berman vede questo passaggio di fase nella storia dei gruppi e dei circoli rivoluzionari degli anni
quaranta come un primo momento esemplare che ritroviamo anche dopo. "A distanza di una
ventina d’anni lo stesso genere di evoluzione – dal sogno della rivoluzione sociale più ortodossa
al movimento di liberazione della persona – si verificò, su scala enormemente più ampia,
nell’ambito dei movimenti studenteschi della Nuova Sinistra in Europa Occidentale e negli Stati
Uniti e, in certa misura, anche altrove. La progressione fu dalla rivoluzione socialista al
femminismo, al movimento di liberazione gay e riguardò anche altre componenti del radicalismo
successivo alla Nuova Sinistra, col passaggio da una visione di sinistra “originaria”, tipo quella di
Winston, alla liberazione personale, da Goldstein a Julia, per restare nell’universo di 1984”
Orwellismi e americanismi
Il fascino di questa chiave di lettura proposta a suo modo come un paradigma, il modello del
passaggio “da Goldstein a Julia” (Bermann si rifà a un modello interpretativo che parte dal
famoso romanzo di Orwell, 1984) non deriva dalla possibilità di intenderla e applicarla come una
specie di legge della storia, ma dal suo stesso riscontro empirico. Non è il passaggio dal
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movimento alla sua istituzionalizzazione,nel senso "alberoniano", né quello che potremmo
chiamare il passaggio dall’illusione al disincanto, dall’idealismo al realismo, dalla fase offensiva
al ripiegamento, processi ed episodi con caratteristiche riscontrabili in altri momenti storici. È
semmai quello che è stato chiamato il passaggio dal Movimento-soggetto collettivo ai movimenti
differenziati, da una ideologia globale alla crisi delle ideologie, dalla rivoluzione proletaria alle
liberazioni dei soggetti, un processo niente affatto “regressivo” (imborghesimento, “tradimento”,
svolta a destra, soggettivismo estremo) come pure alcuni lo intendono lamentando la svolta da
una originaria purezza alla grezza impurità dei soggetti e del loro “desiderio”, da una classicità
ortodossa del rapporto con la verità a un implicito o esplicito “revisionismo”. Certo che qui
occorre procedere ad analisi differenziate di tipo nettamente e principalmente storico politico,
come del resto occorre una distinzione netta e articolata fra il movimento in senso generale e la
storia delle organizzazioni politiche della nuova sinistra, che già a metà degli anni settanta
conoscono la loro prima crisi di fondo e che hanno conosciuto in seguito una storia sempre più
identificata con le organizzazioni neo comuniste cosiddette antagoniste.
Altro punto ancora, l’accusa di nichilismo, edonismo, individualismo (Vedi Alain de Benoist e le
tesi della nuova destra). Il grande errore è stato credere che, colpendo i valori tradizionali, si
potesse lottar meglio contro la logica del capitale. Significava non vedere che quei valori, come i
residui delle strutture sociali organiche, erano l’ultimo ostacolo per l’espansione planetaria di tale
logica. Il sociologo Jacques Julliard ha osservato giustamente che i militanti del maggio ’68,
quando denunciavano i valori tradizionali, «non si accorgevano che tali valori (onore, solidarietà,
eroismo) erano quasi alla lettera gli stessi del socialismo, e che sopprimendoli, s’apriva la strada
al trionfo dei valori borghesi: individualismo, calcolo razionale, efficacia».
Ma c’è stato anche un altro maggio ’68, edonista e individualista. Lungi dall’esaltare una
disciplina rivoluzionaria, i suoi fautori volevano che fosse «proibito proibire» e che fosse
normale «godere liberamente». Prestissimo hanno capito che, facendo la rivoluzione o mettendosi
al «servizio del popolo», non avrebbero soddisfatto i loro desideri. Hanno invece compreso subito
che ci sarebbero riusciti in una società liberale permissiva. Dunque aderirono con naturalezza al
capitalismo liberale, con vantaggi materiali e finanziari per molti di loro. Insediati oggi negli stati
maggiori politici, nelle grandi imprese, nei grandi gruppi editoriali e mediatici, hanno
praticamente rinnegato tutto, salvo il settarismo, dell’impegno giovanile. Chi voleva fare la
«lunga marcia» attraverso le istituzioni ha finito per accomodarvisi. Aderenti all’ideologia dei
diritti dell’uomo e alla società mercantile, questi rinnegati si proclamano ora «antirazzisti» per far
meglio dimenticare che non hanno più niente da dire contro il capitalismo. Lo spirito «bo-bo»
(«borghese-bohême», cioè liberal-libertario) trionfa ormai ovunque, mentre il pensiero critico è
più che mai emarginato. In questo senso non esagera chi dice che la destra liberale ha banalizzato
lo spirito «edonista» e «anti-autoritario» del maggio ’68.
Intanto il mondo è cambiato. Negli anni Sessanta, l’economia era florida e il proletariato scopriva
il consumo di massa. Gli studenti ignoravano l’Aids e la paura della disoccupazione, e la
questione immigrazione non si poneva. Tutto sembrava possibile. Oggi l’avvenire pare chiuso. I
giovani non sognano più rivoluzioni. Vogliono un lavoro, una casa e una famiglia, come tutti. Ma
nello stesso tempo vivono nella precarietà e si chiedono soprattutto se troveranno lavoro, dopo gli
studi.
Nel 1968 i jeans non erano una divisa per gli studenti e gli slogan «rivoluzionari» sui muri non
avevano errori d’ortografia! Sulle barricate si evocavano modelli invecchiati (la Comune del
1871, i consigli operai del 1917, la guerra civile spagnola del 1936) o esotici (la rivoluzione
culturale maoista), ma almeno si militava per qualcos’altro che il vantaggio personale. Oggi le
rivendicazioni sociali hanno solo un carattere particolare: ogni categoria si limita a reclamare
salari più alti e migliori condizioni di lavoro. «Due, tre, molti Vietnam!», «Incendiare la
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pianura», «Hasta la victoria siempre!»: ciò non fa più battere i cuori. Nessuno si batte più per la
classe operaia nel suo insieme.
Il sociologo Albert O. Hirschman diceva che la storia alterna periodi di passioni a periodi di
interessi. La storia del maggio ’68 è quella d’una passione dissoltasi negli interessi.
Attilio Mangano
Bibliografia dei testi di riferimento citati:
Edgar Morin, Il cinema o l'uomo immaginario,Feltrinelli, Milano, 1982
Bronislaw Baczko, L'utopia, immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell'età
dell'Illuminismo, Einaudi, Torino, 1979
Cornelius Castoriadis, L'institution imaginaire de la societè, Seuil, Paris, 1975
Claude Lefort, La Breche, Paris, Fayard, 1968
S. Moscovici, A la recerche de la gauche perdu, Calman-Levy, 1994
Pierre Ansart, La sociologia di Proudhon,Il saggiatore, Milano, 1972
Alain Caillè, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino
1998
Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario, Dedalo, Bari, 1972
Antonio Benci, Il 68 è finito nella rete, Centro docum Pistoia, 2009.
Daniel Cohn Bendit, L'estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo, Einaudi, Torino,
1969
Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma
1998
Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo, Sellerio,Palermo, 1995
Anna Arendt, Sulla Rivoluzione,, Edizioni di Comunità, Milano, 1965
Michel De Certeau, L'invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Milano, 2010
Francesco Alberoni. Innamoramento e amore, Garzanti, Milano, 1979
Paul Bermann ). Terror and Liberalism. W W Norton & Company, 2003
Alain de Benoist, Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, 1981
Albert O. Hirschman The Passions and the Interests: Political Arguments For Capitalism Before
Its Triumph, Princeton University,1977
I - Edizione Storia & Storici
Marzo 2012
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