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Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Identità culturale in Sardegna fra diritto e religione
Pietro Paolo Onida, Università di Sassari
Premessa
Desidero anzitutto ringraziare gli organizzatori di questo Seminario per il cortese invito.
Devo però confessare che quando una settimana fa, poco prima di partire per una missione fuori sede, mi è stato chiesto anche di presentare una mia relazione sul tema della
“identità culturale fra diritto e religione”, vista la impossibilità del Professor Francesco
Sini a portare il Suo contributo, temo di essere stato un po’ precipitoso nell’accettare.
L’affetto verso gli organizzatori del Seminario, che hanno generosamente sopravvalutato le mie capacità, ha senz’altro prevalso sulla consapevolezza dei miei limiti. Mi scuso
quindi con loro e con i presenti se molte mie osservazioni potranno sembrare molto
elementari in un contesto scientifico di specialisti della materia.
Per il mio intervento vorrei partire da un breve corsivo a firma di Roberto Deriu,
pubblicato ne La Nuova Sardegna del 22 settembre 2015. Il titolo è il seguente: “Alla
Sardegna serve la capacità di mediazione di un Gaio Cracco”. Non desidero entrare nel
merito di questo corsivo e delle soluzioni proposte anche con riferimento allo Statuto
regionale a cui l’autore fa un breve cenno. Vorrei solo osservare che il corsivo mi sembra interessante per due motivi: il primo è che il Deriu richiama la importanza del ruolo
delle città come elementi essenziali di svolgimento della politica regionale; il secondo è
che ciò che egli chiama “l’innalzamento della qualità del diritto, dell’amministrazione
pubblica” è colto attraverso un riferimento alla storia di Roma nella sua specifica dimensione regionale sarda, vale a dire attraverso la importanza del modello di Roma per
la soluzione dei problemi politici e giuridici ai quali oggi siamo chiamati a dare un nostro contributo. Su entrambi tali punti ritornerò fra breve.
Per il momento vorrei rilevare come possa forse sembrare un po’ fuori contesto il riferimento alla storia di Roma, ma coloro che hanno dedicato, come ha fatto specialmente Francesco Sini1, una certa attenzione alla influenza del diritto romano sulle istituzioni
giuridiche sarde della età medievale attraverso la recezione di tale diritto nella Carta de
Logu, sanno quanto importante sia il modello della antica Roma nel dibattito costituzionale sulle forme di governo in particolare nella dottrina settecentesca e ottocentesca. Su
tale importanza, d’altra parte, Pierangelo Catalano e Giovanni Lobrano, qui presenti,
hanno scritto pagine molto importanti, che rivelano anche una costante e inesauribile
passione civile. Ai loro studi dovrò necessariamente fare rinvio per la impostazione del
mio discorso2.
1
2
F. SINI, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea, Torino 1997.
Mi limito a citare di questi autori P. CATALANO, Tribunato e resistenza, Torino 1971; Id., Populus Romanus Quirites, Torino 1974; G. LOBRANO, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996; Id., “Per la comprensione del pensiero costituzionale di J.-J. Rousseau e del diritto
romano”, in AA.VV., Il principio della democrazia. Jean-Jacques Rousseau Du Contrat social (1762),
Atti del Seminario di Studi Sassari, 20-21 settembre 2010 (a cura di G. LOBRANO - P.P. ONIDA), pp.
39 ss.
Se oggi farò quindi riferimento a elementi importanti di una esperienza giuridica,
che in maniera riduttiva a torto si considera troppo spesso come proiettata soltanto nel
passato, non sarà certo perché affetto da quello “storicismo”, che il Nietzsche giustamente condannava nel suo celebre scritto Sull’utilità e il danno della storia per la vita
(1874). Sarà, invece, perché ritengo che in quella stessa esperienza giuridica romana vi
siano elementi utili per risolvere problemi giuridici attuali, secondo quell’insegnamento
che il grande giurista tedesco Paul Koschaker (Klagenfurt 1879 - Basilea 1951) invitava
a rispettare come condizione imprescindibile per affermare oggi l’utilità del diritto romano3. Proprio quell’uomo che soffre perché invidia il resto degli altri esseri animati, i
quali vivono invece in “modo non storico” e dimenticano il passato, di cui parla il Nietzsche, può oggi cogliere elementi importanti della propria identità nella dimensione di
una storia proiettata alla costruzione del nostro futuro.
1) Identità personale e diritto
La nozione di identità è certo una nozione multiforme per il suo contenuto e le sue funzioni anche nell’ambito della scienza giuridica. Il giurista, però, ne coglie la sua dimensione unitaria attraverso il riferimento alla nozione centrale per la giurisprudenza
dell’essere persona, e dunque in funzione di quella commisurazione del diritto, nelle
sue articolazioni specifiche della produzione, interpretazione e specialmente della applicazione, ad una autentica dimensione umana. Sotto questo profilo non è molto utile riferirsi a una “identità fluida”, per usare le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman4, al quale si devono certo studi importanti sulle nuove forme di cittadinanza. Con il
concetto di “identità fluida” si vuole oggi da più parti rinviare alla perdita dei confini
della identità sul piano culturale, religioso ed etnico. Opera meritevole se intrapresa per
richiamarci a una consapevolezza dei confini non esclusivi della identità. Eppure, proprio nel momento in cui assistiamo a un esodo biblico di persone che migrano da un
continente all’altro, destinato forse a mutare positivamente anche in termini di ricchezza
culturale la dimensione di certe identità, dibattuti come siamo fra lasciarci sopraffare da
un latente egoismo o dalla espressione di quella autentica dimensione collettiva della
propria identità di uomo che al commediografo romano Publio Terenzio Afro faceva
pronunciare nell’Heautontimorumenos (nel 165 a.C.) quel manifesto dell’umanesimo –
Homo sum, humani nihil a me alienum puto – proprio in questo momento, dicevo, il
giurista deve procedere senza tentennamenti verso una riscoperta della dimensione collettiva della identità.
Certo non intendo qui affermare che la scienza giuridica non sia interessata al concetto di identità personale, espressione questa con la quale si allude a quella immagine
che ciascuno ha di sé o se si preferisce alla percezione della propria soggettività. Siffatta
identità è alla base di molte delle più usuali articolazioni del sapere giuridico e delle categorie proprie della scienza giuridica. Basti pensare a quelle di soggettività e di capacità giuridiche e di agire. Ma tali categorie, che appaiono da tempo comunque irrimediabilmente in crisi, non sono rilevanti ai fini del mio discorso o lo sono in funzione della
considerazione della più ampia nozione di identità di un popolo. Per questa ragione, anche in considerazione del tema generale del presente Seminario che verte su una parti3
4
P. KOSCHAKER, Europa und das römische Recht, 3ª ed., München-Berlin 1958, p. 352.
Si veda di questo autore La società individualizzata, Bologna 2002, e Intervista sull’identità, Bari
2003.
2
colare forma di identità, quella del Popolo sardo, impegnato a meditare sulla riscrittura
dello Statuto, non mi interessa soffermarmi sulla cosiddetta identità personale. Mi limito
a rilevare che anche la identità personale assume, per il giurista, una sua precisa dimensione collettiva. Quando infatti si consideri che la identità personale si sostanzia
nell’ambito dei rapporti civilistici in problemi anche assai eterogenei come la “corretta
rappresentazione della propria personalità”, il “nome”, la “verità biologica”, la “libertà
di coscienza”, “il trattamento dei dati personali” e la “riservatezza”, la “autonomia individuale”, è evidente che tali aspetti attraggono l’interesse della scienza giuridica in
quanto evocano specifiche relazioni fra le persone e dunque una dimensione aperta, non
meramente individualistica della identità. D’altra parte è chiaro anche al giurista, mai
particolarmente pronto nel precorrere gli sviluppi della società in cui egli opera, che la
identità personale non sia un dato statico, immutabile, ma un fatto da considerare assieme in maniera sincronica e diacronica. Mi sembra quindi importante mettere in rilievo
che la elaborazione della identità personale è un procedimento di fondamentale interesse
anche per il giurista, in quanto attraverso di esso operano forme di inclusione o di esclusione sociale che occorre tenere nel massimo conto in una fase di scrittura del nostro
Statuto.
La elaborazione di un modello di identità (personale e collettiva) è essenziale nella
attività di produzione, interpretazione e applicazione di norme giuridiche. Tale problema si è posto in maniera non del tutto paradossale nella scienza giuridica odierna anche
per le cosiddette persone giuridiche, vale a dire per quegli enti astratti, frutto di una finzione giuridica, ai quali, sin dalla elaborazione della dottrina canonistica medievale (ad
opera inizialmente soprattutto di Sinibaldo Fieschi, divenuto Papa Innocenzo IV, dal
1243 al 1254) si è voluto dare una dimensione come “soggetti artificiali di diritto”. Ad
essi si è estesa negli ultimi decenni, secondo una linea di pensiero che non posso qui seguire, certi diritti propri delle persone fisiche, in nome di una comune identità, quali il
diritto appunto all’identità personale o al trattamento dei dati personali. Il discorso, a
voler indagare le origini di siffatto atteggiamento, ci porterebbe molto lontano. Sarei
portato a dire che oggi occorra, nella individuazione della identità, resistere a certi
orientamenti dottrinali che tentano interpretazioni riduttive dei diritti fondamentali delle
persone fisiche a favore invece della persona giuridica, sulla base di letture astoriche
dell’art. 2 della Costituzione ove è stabilito che la tutela di tali diritti avvenga «sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Non dirò quindi
una banalità, vista la pericolosa tendenza del nostro legislatore condizionato da più parti
a recepire certi modelli della legislazione anglosassone, se osservo come siano le formazioni sociali a dover essere utili all’uomo per la formazione della propria identità e
non viceversa.
2) Identità collettiva e diritto
La nozione di identità, si è detto, è una nozione complessa nell’ambito delle scienze
sociali. Insistere su tale carattere non è cosa oziosa neppure per un giurista, quando egli
voglia comprendere le dinamiche relazionali fra le persone alle quali con questa nozione
si fa comunemente riferimento. Poiché il diritto è un fenomeno relazionale – è impensabile sul piano logico e storico, nonostante qualcuno lo abbia pure azzardato, un diritto
3
alla Robinson Crusoe5 – la nozione di identità che viene particolarmente in rilievo per il
giurista è specialmente quella collettiva, che gli consente di analizzare il problema fondamentale per la scienza giuridica sin dalla esperienza romana: vale a dire il problema,
per dirla con le parole del mio maestro Giovanni Lobrano, della «concezione e il regime
(cioè la “struttura” e la “dinamica”) unitari dell’agire volontario di una pluralità di uomini»6.
La vocazione collettiva della identità è colta dai giuristi, in maniera non del tutto
consapevole, quando essi si riferiscono al brocardo ubi societas ibi ius, con cui è richiamata la relazione biunivoca tra le due componenti essenziali del fenomeno giuridico: la esistenza di una societas, da un lato, e la prescrizione di regole che governino tale
societas. In tal senso, per la scienza giuridica la nozione di identità rinvia alla relazione
tra le persone in quel processo di confronto tra ciascun individuo e l’ambiente in cui egli
opera, confronto che costituisce il primo momento fondamentale di individuazione della
propria stessa esistenza. Questo processo genera, a sua volta, anche per il giurista, un
complesso di problemi relativi alla disciplina della appartenenza della persona
all’interno del gruppo sociale in cui essa opera come parte. Problemi che il giurista deve
governare fornendo principi, concetti e norme che orientino tale appartenenza.
Vi è dunque in tale identità, meglio nella ricerca di tale identità, un aspetto concreto, corporale direi, per niente astratto, che spinge l’uomo verso una dimensione collettiva del suo stesso agire attraverso la individuazione delle qualità che egli possiede rispetto soprattutto agli altri esseri animati. Una corporalità alla quale i giuristi, specialmente i
romanisti, dovrebbero essere più attenti di quanto avvenga normalmente, poiché essa
dal piano dell’individuo assurge a carattere identificativo, direi sul piano delle categorie,
anche della dimensione collettiva dell’agire umano. È ciò che il giurista romano Pomponio (II sec. d.C.) nel distinguere le diverse tipologie di res-cose esalta con riferimento
ai gruppi, quando identifica in essi una corporalità che permane intatta nella sua identità
anche col mutare dei singoli elementi costitutivi7. In quella classificazione dei corpora
ex distantibus, dei corpi collettivi, che il giurista romano attingeva con ogni probabilità
dalla filosofia stoica, sono ricompresi a mo’ di esempio concrete strutture organizzative
di gruppo: il populus, la legio, il grex. Non dunque cose inanimate, ma corpi costituiti a
loro volta da più elementi, i quali, se sotto il profilo naturalistico sono autonomi ai fini
economico-giuridici, sono considerati dal giurista Pomponio non soluta, vale a dire suscettibili di una valutazione unitaria. È stato notato da un autorevole civilista del secolo
scorso, Salvatore Pugliatti, che gli esempi ora richiamati ricoprono gli aspetti salienti
dell’organizzazione della civitas: quella politica (populus), quella militare (legio), quella
economica (grex)8. Ma forse una tale distinzione è frutto della nostra mentalità moderna
5
Sulla questione si veda G. LO CASTRO, Il mistero del diritto, 3, L’uomo, il diritto, la giustizia, Torino 2012, pp. 111 ss.
6
G. LOBRANO, La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e rappresentanza”
e “società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana), in Diritto@Storia, 10 (2011-2012).
7
D. 41,3,30 pr. (Pomp. 30 ad Sab.): Rerum mixtura facta an usucapionem cuiusque praecedentem
interrumpit, quaeritur. tria autem genera sunt corporum, unum, quod continetur uno spiritu et Graece
¹nwmšnon vocatur, ut homo tignum lapis et similia: alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se cohaerentibus constat, quod sunhmmšnon vocatur, ut aedificium navis armarium: tertium, quod ex
distantibus constat, ut corpora plura non soluta, sed uni nomini subiecta, veluti populus legio grex. primum genus usucapione quaestionem non habet, secundum et tertium habet.
8
S. PUGLIATTI, “Riflessioni in tema di ‘universitas’”, in Congresso giuridico nazionale in memoria
di Carlo Fadda (Cagliari-Sassari 23-26 maggio 1955), Milano 1968, p. 962 nt. 23.
4
più incline a separare che ad accomunare. E in effetti, nella considerazione del giurista
Pomponio, non sarebbe difficile intravedere una logica comune che fonda la tassonomia
di quegli esseri animati – uomini e animali non umani – la cui caratteristica naturale è la
tensione verso una identità collettiva che, per usare il termine impiegato dal giurista
stesso, si esprime nella volontà a vivere gregatim. La stessa espressione di corpus ex distantibus richiama l’idea della identità come “unità risultante da diverse cose componenti”9.
3) Identità e altri esseri animati
Il senso della identità si è andato per secoli precisando in funzione del rapporto che
l’uomo creava con gli altri. Precisare l’identità dell’uomo, nella filosofia greca e nella
scienza giuridica romana, significa considerare il rapporto dell’uomo con gli dèi e con
gli altri esseri animati. Come ha osservato Mario Vegetti, rispondere alla domanda essenziale per la cultura occidentale “che cos’è un uomo?” comporta «tracciare una doppia linea di demarcazione, verso gli dèi, in alto, e in basso verso le bestie. Significa aprire uno spazio in cui l’uomo sia inscrivibile per quello che esso è specificamente, lasciando da parte le sue ambigue frequentazioni sui bordi di entrambi gli eccessi; bordi
agevolmente valicabili, almeno al principio, per genealogia ed eroismo da un lato, per
ferinità o specularità dall’altro»10.
In questa ricerca della identità, è centrale nella scienza antica il riferimento al concetto di natura, da intendere come somma delle qualità essenziali che l’uomo e gli altri
animali possiedono in quanto esseri viventi. Sulla base di tale concetto la filosofia greca
e la giurisprudenza romana elaborano una visione del diritto naturale che a sua volta influenza la concezione dell’intero sistema giuridico-religioso e che, per il tramite dei Digesta dell’Imperatore Giustiniano è ancora oggi essenziale per la scienza giuridica. In
un celebre frammento che i compilatori giustinianei pongono in apertura dei Digesta, il
giureconsulto romano Ulpiano (III sec. d.C.), riprendendo certi spunti presenti nella filosofia greca, in particolare in Pitagora e in Empedocle, considera il diritto naturale come quel diritto che la natura ha insegnato a tutti gli animali, umani e non, individuando
specifici istituti giuridici espressione di una comune identità fra tutti gli esseri animati,
quali la procreazione e la educazione della prole. Le caratteristiche fisiche ritenute proprie del solo genere umano, quali la stazione eretta, considerata come prova di una tensione dell’uomo verso il mondo degli dèi, a differenza di quanto fanno gli altri animali
che per mangiare sono costretti a restare proni verso la terra o a strisciare, il possesso
delle mani ritenuto fattore del progresso tecnico, la razionalità, anche se a onor del vero
considerata non esclusiva del solo genere umano, sono tutte qualità che per la filosofia
greca costituiscono la base per la elaborazione di una identità collettiva.
Cicerone, nel De republica 3,11,19, rammenta le dottrine di Pitagora e di Empedocle per affermare la esistenza di una unica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati: non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant. Ma è soprattutto nel De officiis
che egli rievocherà l’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati, questa
volta in una chiave societaria, a precisare l’appartenenza dell’individuo a diverse forme
9
Così B. BIONDI, “La dottrina giuridica della universitas nelle fonti romane, in BIDR, 20 (1958), pp.
8 ss.
10
M. VEGETTI, Il coltello e lo stilo, 3ª ed., Milano 1996, pp. 127 ss.
5
di società comuni agli uomini, fino ad arrivare alla società coniugale considerata talmente importante da costituire il principium urbis e il seminarium rei publicae.
Nella storia della scienza giuridica, spezzato il legame simpatetico fra l’uomo e gli
altri esseri animati, l’orientamento pitagorico, per il quale l’animale non umano è un essere meritevole di tutela, viene condannato all’oblio dall’orientamento aristotelico, per il
quale invece l’animale è considerato solo un oggetto della conoscenza. La dogmatica
stessa tende a irrigidirsi nel quadro di una dicotomia incomunicante fra l’uomo soggetto
e l’animale oggetto, in cui, in definitiva, l’unica rappresentazione possibile è quella antropocentrica in nome della quale si vorrebbe fare dell’uomo un dominatore
dell’universo. Concepire però la nostra identità di uomini nelle relazioni con gli altri esseri viventi nell’armonico rispetto per l’ambiente, di cui siamo non dominatori, come ha
osservato il Pontefice nella enciclica Laudato si’, ma custodi, significa gettare le basi di
una responsabilità verso le generazioni future in una visione dinamica della nostra stessa
identità. E in effetti lo Statuto della nostra autonomia speciale, in un contesto regionale
in cui la tradizione giuridica e religiosa ci richiama tutti alla identità collettiva di un popolo di pastori e di agricoltori, dovrà considerare i termini del rapporto con l’ambiente
come dimensione imprescindibile per il futuro.
4) Identità e popolo
Nel sistema giuridico-religioso romano, lo ha dimostrato Pierangelo Catalano, la
nozione di popolo non sta ad indicare un ente astratto come la dottrina giuridica ottocentesca ha contribuito in maniera determinante a concepire, secondo quella equivalenza
fra popolo e Stato che al grande storico e giurista della antica Roma, Theodor Mommsen, sembra legittimo porre a fondamento della sua ricostruzione del diritto pubblico
romano nel Römisches Staatsrecht, il “Diritto statuale romano”. Contro la tendenza
all’impiego della astrazione per individuare una collettività di uomini, il Catalano ha osservato con specifico riferimento alla nozione di populus Romanus Quirites che
«quest’espressione non indica affatto un ‘ente ideale’ bensì una pluralità di uomini ‘riuniti’ o ‘uniti’ (e in quanto tali populus e Quirites)»11. Molto ci sarebbe da osservare ancora a proposito della tesi di Catalano a cominciare dal suo rifiuto per la categoria di
persona giuridica, la cui “eliminazione” per l’illustre studioso, il quale in proposito riprende una tesi del Von Lübtow12, non avrebbe alcuna conseguenza negativa; per proseguire con i rilievi in tema di crisi della persona giuridica e di crisi dello Stato; e poi
ancora, in merito alla necessità di superare la distinzione corrente tra diritto pubblico e
diritto privato e la pretesa separazione fra i membri di una ‘corporazione’ e la ‘corporazione’ stessa, resa accentuata dal ricorso alla categoria di persona giuridica. Qui è importante soprattutto mettere in rilievo il salto in avanti che le tesi del Catalano consentono di fare in relazione alla identificazione della unità del gruppo nei suoi rapporti con
la pluralità di persone che lo compongono. Contro le tesi di coloro che in dottrina hanno
costruito il presupposto indimostrabile di un passaggio dalla pluralità alla unità percepibile solo attraverso il prisma deformante della astrazione (connessa all’impiego della ca11
P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p.
166.
12
U. VON LÜBTOW, “Bemerkungen zum Problem der juristischen Person”, in Studi in memoria di
Paolo Koschaker, II, Milano 1954, p. 510.
6
tegoria di persona giuridica), il Catalano oppone il valore permanente della concretezza
sul piano storico. L’opposizione astratto-concreto che ancora è presente nella tesi
dell’illustre studioso si libera da ogni involucro evoluzionistico contro le note tesi dello
Schulz sulla presunta incapacità della scienza giuridica romana alla formulazione di
concetti astratti13.
Il Lobrano, accentuando certi elementi delle tesi del Catalano in merito alla concretezza del populus, ha sostenuto di recente la necessità di sottrarsi al presupposto scientifico dominante, secondo il quale, a partire specialmente dal Savigny, la unità debba essere sempre intesa come astrazione14. Concretezza e unità non sono affatto “inconciliabili”, come mostrano i concetti di populus, di collegia e di corpora, che si presentano
come unità concrete e dunque come sintesi nuove della pluralità di uomini. Il Lobrano
ha anche posto in risalto la esistenza di due fondamentali paradigmi attraverso i quali
nel corso della storia sono state colte le differenti modalità dell’agire umano all’interno
dei gruppi sociali nella ricerca del bene comune: il paradigma, antico, della societas, e il
paradigma, medievale-moderno, della persona giuridica.
Oggi la scienza giuridica discute del grande tema della “crisi della persona giuridica”, a fronte del quale sta la “alternativa” del recupero della “società”. La crisi della
persona giuridica, che è anche crisi di una certa nozione di Stato, ha condotto la scienza
costituzionalistica a ritenere che la idea stessa di “rappresentanza” politica sia una “una
parola vuota, una categoria senza consistenza, uno pseudo-concetto”, a valorizzare
quindi la idea di una “partecipazione” attiva dei cittadini. Connessa a tale crisi vi è il rifiuto della idea stessa della “delega” rappresentativa, come ha ricordato Aldo Schiavone
in un suo libro del 2013: Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro
politica, in cui ha mostrato come oggi siano “in crisi gli elementi essenziali del … funzionamento” del concetto stesso di democrazia15. Mi limito ad osservare che, pur essendo possibile individuare contaminazioni e punti di contatto tra le soluzioni della societas
e della persona giuridica, dei quali sul piano storico e dogmatico occorre tenere conto,
questi due paradigmi dell’agire umano, come ha mostrato sempre il Lobrano, sono anche espressione di “una alterità generale tra due culture e due logiche”, la quale “si manifesta non soltanto sul piano tecnico degli istituti giuridici, in cui quelle soluzioni si sostanziano, ma anche sul piano ‘politico’ della titolarità e della gestione del potere collettivo, cui quegli istituti tendono, e sul piano ideologico della ‘visione del mondo’, ovverossia della concezione della natura degli uomini e delle loro relazioni, da cui quegli
istituti sono sottesi”16. Una alterità che con una formula un po’ troppo schematica, di cui
mi avvalgo per brevità, potremmo definire come la contrapposizione tra un modello della “ natura umana cooperativa”, connesso a una societas caratterizzata dal perseguimen13
Cfr. F. SCHULZ, I principii del diritto romano, a cura di V. ARANGIO-RUIZ, Firenze 1946, pp. 34
ss.
14
Si veda F.C. V. SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts, II. Band, Berlin 1840, del quale
il Lobrano (nel suo “La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: ‘persona giuridica e rappresentanza’ e
‘società e articolazione dell’iter di formazione della volontà’. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)” cit., cap.
4.d.) richiama il par. 86 intitolato “Iuristische Personen. – Arten”.
15
A. SCHIAVONE, Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica, Milano
2013.
16
Occorre in particolare qui tenere presente per considerare l’alterità tra le due soluzioni della societas e della persona giuridica come risulta almeno dai seguenti elementi: la connessione tra persona giuridica e concetto di rappresentanza, con la sostituzione al suo interno della volontà, in luogo della articolazione del processo di volontà che invece si realizza nella societas; la strutturazione della societas come
“unità collettiva concreta” in luogo della configurazione della persona giuridica come “unità astratta”.
7
to della utilità comune (Cic. rep. 1.49) in cui ciascuno conserva la propria libertà, secondo un rilievo sul quale insiste particolarmente Rousseau nel Contratto sociale, e il
modello della persona giuridica (con l’istituto necessariamente connesso della rappresentanza) che richiedendo la elaborazione di un soggetto altro dagli uomini rinvia invece a una “idea essenzialmente conflittuale della natura umana”.
Rousseau, nel capitolo 6 del I Libro del Contratto sociale, individua il fondamento
e la funzione del patto sociale: «“Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale
ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come
prima”. Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione».
Non è difficile leggere in queste poche righe molto di più di una semplice anticipazione
del richiamo che il filosofo farà nel libro IV a istituti propri del diritto romano17. Esse
anzitutto costituiscono una vera e propria chiave di lettura dell’intero Contrat social. E
assieme svelano il senso del richiamo che Rousseau fa non solo in tale opera, ma anche
altrove, al modello romano18. Egli, poco più avanti, sempre nel medesimo capitolo appena citato del Contratto sociale, individua e definisce la struttura essenziale del patto
sociale, chiarendo che «Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai termini seguenti: Ciascuno di noi mette in comune
la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto».
Se la analisi dei diversi istituti giuridici romani richiamati da Rousseau può servire,
ovviamente, per comprendere meglio il senso e il valore del suo richiamo al modello
romano, e quindi in generale il significato della sua stessa filosofia, è vero anche, direi
per certi aspetti a maggior ragione, il contrario: tale analisi permette, al rovescio o forse
meglio specularmente, di capire più adeguatamente anche il valore di parti essenziali del
sistema giuridico romano nel loro divenire storico. Quanto appena detto vale anzitutto
per il riferimento di Rousseau al contratto di società: la sua riflessione è condotta sulla
base della considerazione dei caratteri essenziali di quello schema contrattale proprio
della esperienza giuridica romana che permetteva ai contraenti di prefiggersi, in quanto
socii, il conseguimento della propria utilitas attraverso il raggiungimento della utilitas
comune. Rousseau pare esaminare questo aspetto fondamentale della societas, quando,
nel capitolo VI del Contrat social, mette in evidenza che gli uomini non sono in grado
di creare nuove “forze”, ma soltanto di “unire” e di “dirigere” quelle esistenti. Il filosofo
si colloca in tal modo lungo una linea di continuità con quella idea rivoluzionaria della
scienza giuridica romana – come l’ha definita Giovanni Lobrano – la quale con il contratto di societas fornisce la “soluzione antica” alla questione giuridica fondamentale
della considerazione unitaria degli atti compiuti da una pluralità di persone, contro, per
così dire, la “soluzione moderna” alla medesima questione, elaborata dalla scienza giuridica medievale e moderna attraverso la creazione della figura della persona giuridica19.
Rousseau si pone il problema della identità del legislatore quando nel capitolo VII
del Libro II dichiara che “ci vorrebbero degli dèi per dare leggi agli uomini”, ma ag17
Il punto sulla importanza del modello romano in Rousseau è ancora e direi anzitutto quello di P.
CATALANO, Tribunato e resistenza, Torino 1971, spec. pp. 4 ss.; 35 ss.; 59 ss.
18
Cfr., per questi richiami, gli studi fondamentali di A. POSTIGLIOLA, La città della ragione. Per una
storia filosofica del Settecento francese, Roma 1992, pp. 227 ss.
19
Si veda per questo schema G. LOBRANO, “Dell’homo artificialis – deus mortalis dei Moderni
comparato alla societas degli Antichi”, in AA.VV., Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per
il terzo millennio (a cura di A. LOIODICE-M. VARI), Roma 2003, pp. 161 ss.
8
giunge anche che “non è da tutti far parlare gli dèi, né essere creduto quando ci si proclama loro interprete”. Il filosofo considera quindi “il problema della migliore costituzione di uno Stato” rilevando che “vi sono dei limiti all’estensione che esso può avere,
se si vuole che non sia né troppo grande per essere ben governato, né troppo piccolo per
potersi conservare da sé”. Nel chiedersi quale popolo “sia maturo per la legislazione”,
Rousseau ritiene che in Europa vi sia con quelle caratteristiche solo il popolo corso. Alludendo alla lotta sostenuta dalla Corsica, sotto la guida di Pasquale Paoli, contro la Repubblica di Genova, egli osserva che “il valore e la costanza con cui questo valoroso
popolo ha saputo ricuperare e difendere la sua libertà meriterebbero che qualche uomo
saggio gli insegnasse a conservarla”.
La connessione fra popolo, diritto e religione nel filosofo ginevrino comporta quindi
non una qualsiasi identità, ma una identità specifica. Occorre quindi chiedersi se il popolo sardo abbia oggi questa capacità di dotarsi di una costituzione. Possiamo rispondere a questa domanda tentando di individuare concretamente due linee espressive del
nesso così rilevante fra tradizioni religiose e istituzioni politico-giuridiche in Sardegna.
La prima linea è quella del culto di San Costantino Imperatore. La seconda è quella del
culto della Madonna di Betlem. Entrambe tali linee sono inquadrabili in una prospettiva
mediterranea nella quale si svela una dialettica molto interessante sul piano giuridico tra
Oriente ed Occidente.
A proposito della prima linea, quella del culto di San Costantino Imperatore, il Lobrano ha osservato che «Le istituzioni religiose e le istituzioni politico-giuridiche nonché la loro relazione (quale si manifesta nella concezione di Dio, del popolo degli uomini con-cittadini e del rapporto complesso che tutti li lega) sono elementi tra i più caratterizzanti e, insieme, più vitali e ‘più universali’ dell’ordine civile e gentium (ovverosia del sistema dei sistemi giuridici) del Mediterraneo, che da quella relazione è innervato e che, alla sua volta, costituisce la nostra identità mediterranea. Lo studio di Costantino, imperatore romano, santo per la Chiesa ortodossa ed oggetto di un particolare culto
popolare anche nella cattolica Sardegna, è oggettivamente (e particolarmente qui,
nell’àmbito territoriale della nostra Università, ove sono i luoghi specificamente deputati al suo culto da parte del popolo sardo) chiave privilegiata di accesso alla comprensione di quelle istituzioni religiose e politico-giuridiche e della loro relazione.
Nel sistema giuridico romano-cristiano è evidente che non esiste la possibilità di
immaginare la separazione fra diritto e religione. Entro i confini del ius publicum, che
per la giurisprudenza romana come per l’Imperatore Giustiniano consiste in sacra, sacerdotes, magistratus, è possibile ricondurre il culto di San Costantino Imperatore, in
quanto esso è elemento essenziale dell’identità del popolo sardo. Il diritto passa dunque
attraverso una sua dimensione specificamente religiosa, per la quale sarebbe vano tentare di opporre quella operazione scientifica di rimozione che nel secolo scorso, ad opera
della dottrina tedesca, penso ovviamente in particolare alla nota tesi del romanista tedesco Fritz Schulz (1879-1957), parlava di Isolierung, dell’isolamento o separazione del
diritto dalla religione. In questa dimensione, lo ha notato il Catalano, si può vedere un
momento importante della “costante resistenziale sarda”, di cui ci ha parlato Giovanni
Lilliu20.
La seconda linea, il culto della Madonna di Betlem in Sardegna, ci richiama ugualmente alla identità del popolo sardo nel Mediterraneo, sempre in quella dialettica fra
20
Vedi G. LILLIU, “La costante resistenziale sarda”, in Studi Sassaresi, serie III, Anno accademico
1970-71, vol. 3, Autonomia e diritto di resistenza (Università di Sassari - Società sassarese per le scienze
giuridiche), Milano 1973, pp. 47-60.
9
Oriente e Occidente che è stata assai feconda per la storia delle istituzioni giuridiche.
Non è certo un caso il fatto che nell’ottobre del 1985, il Pontefice Giovanni Paolo II,
giunto in Sardegna per una visita pastorale21, in un discorso tenuto ai fedeli il giorno 19,
a Sassari, nella centrale Piazza d’Italia, ricordasse il ruolo essenziale della chiesa di
Santa Maria di Betlem per la devozione locale alla Madonna, Patrona della città:
2. La vostra storia, fratelli sassaresi, rivela una sua chiara identità, come cammino di un popolo che
ha lottato tenacemente lungo l’arco di molti secoli per la conquista delle proprie libertà civili e la difesa
della fede religiosa …
Segno di questo passato, ricco di vicende e soprattutto carico di fede, sono rimaste qui, nel Sassarese, le sagre popolari ispirate a motivi di grande festività religiose, e sorgono luoghi sacri di grande bellezza, che suscitano ancora oggi interesse e ammirazione. Mi piace ricordare la chiesa di S. Maria di Betlem;
quel gioiello di architettura, che ha sempre fatto parte della diocesi, l’abbazia della SS. Trinità di Saccàrgia; ed in particolare il Duomo, eretto nel cuore della città, a gloria del Patrono San Gavino e dei compagni martiri Proto e Gianuario22.
Monsignor Salvatore Isgrò, Arcivescovo di Sassari, l’anno successivo, nel 4º centenario dell’incoronazione23, con cui si celebrava il dono del diadema, da parte del Comune di Sassari alla chiesa di Santa Maria di Betlem, che era servito secoli addietro ad incoronare la statua della Madonna ivi custodita, citava le parole del Sommo Pontefice
osservando: «In questa lieta circostanza mi pare giusto rilevare il significato del riferimento preferenziale che il Santo Padre Giovanni Paolo II, parlando ai “Fratelli sassaresi” in Piazza d’Italia il 19 ottobre dello scorso anno, ha voluto fare della Chiesa di S.
Maria. “Per voi” soggiungeva il Papa, “la fede è stata forza propulsiva di civiltà e di
umanizzazione …” e concludeva “… il vostro passato divenga stimolo efficace a superare con coraggio le difficoltà del presente e sia motivo di ispirazione a costruire un migliore futuro”»24. È questa una delle tante testimonianze che attestano la devozione particolare della città di Sassari nei riguardi della Madonna di Betlem, in una dimensione
che si caratterizza per un suo rilievo religioso, giuridico e politico assieme e quindi anche per il rapporto costante nei secoli fra le autorità ecclesiastiche e politiche, in nome
di un culto che è parte fondamentale, a sua volta, della vita dell’intero Popolo sardo25.
Quando nel 1523 il Magistrato civico ordinò la costruzione della fontana detta del
Brigliadore26, all’interno del chiostro, canalizzando le acque di un ancora più antico la-
21
La visita pastorale del Pontefice interessò tutta la Sardegna e si svolse dal 18 al 20 ottobre 1985.
Il discorso tenuto Sassari dal Pontefice è riportato in T. TAGLIAFERRI, Papa Wojtyla in Sardegna,
I-IV, Cagliari 2004, pp. 154 ss.
23
L’incoronazione avvenne il 7 luglio 1586. Si veda la descrizione in A. SISCO O.F.M., Memorie, II,
manoscritto presso l’Archivio del Convento di Santa Maria, Sassari, p. 90. Sul significato politicogiuridico della incoronazione si vedano: G. SCANU O.F.M., “L’incoronazione delle immagini della Mamo
donna”, in Mater Gratiarum, Numero Unico a ricordo del 50 dell’Incoronazione della Vergine delle
Grazie, (maggio 1909-1959), p. 32; G. SIMBULA, “Motivi biblici e teologici dell’incoronazione dei simulacri della B.V. Maria”, in AA.VV., Santa Maria di Betlem nel 4º centenario dell’incoronazione 15861986, Sassari 1988, pp. 39 ss.
24
Le parole di Monsignor Salvatore Isgrò, scritte in occasione della “Presentazione della medaglia
del 400º dell’incoronazione” della Madonna, sono riprodotte nel volume commemorativo dell’evento:
AA.VV., Santa Maria di Betlem nel 4º centenario dell’incoronazione 1586-1986 cit., p. 130.
25
Un quadro generale di tale rapporto si trova in M. PORCU GAIAS, Santa Maria di Betlem a Sassari.
La chiesa e la città dal XIII secolo ai nostri giorni, Sassari 1993.
26
Dal catalano brollador, zampillo: si veda per tutti M. PORCU GAIAS, Santa Maria di Betlem a Sassari. La chiesa e la città dal XIII secolo ai nostri giorni, Sassari 1993, pp. 20 ss.
22
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scito di terreni a favore dei frati, si posero le basi per una ulteriore identificazione della
chiesa come centro della vita religiosa e politica.
Il culto mariano in Sardegna presenta punti di contatto con l’Oriente. Nel XIV secolo la chiesa di Santa Maria fu impreziosita dalla statua, ancora oggi al centro della venerazione popolare, denominata anch’essa Santa Maria di Betlem. Il racconto leggendario,
relativo al ritrovamento della statua, mette in comunicazione il culto per la Madonna di
Betlem con l’Oriente. Due francescani, ai primi del XIV secolo, in procinto di imbarcarsi per fare rientro dalla Terra Santa, ricevettero il rifiuto del capitano della nave di portare con loro anche la cassa in cui era contenuta una statua della Madonna col Bambino.
Uno dei due religiosi, allora, invocò la Madonna supplicandoLa di venire comunque
con loro. Quando i passeggeri della nave si accorsero che una barca, prodigiosamente, li
seguiva, anche se non vi era un marinaio a guidarla, il capitano diede ordine di avvicinarsi. Ogni volta che si tentava l’avvicinamento la barca però si allontanava. Anche
quando la nave con i religiosi giunse a Porto Torres la piccola barca stava lontano. Fu
allora che i religiosi pensarono di chiedere il permesso di recuperare la cassa con la Madonna ai Magistrati e ai Consoli, giunti nel porto per rendersi conto di persona
dell’evento prodigioso. E allora, di nuovo miracolosamente, fu la barca ad avvicinarsi
senza intervento umano. Aperta la cassa fu trovata la statua della Madonna, che fu quindi posta su un carro trainato dai buoi perché fosse trasportata a Sassari e collocata nella
Cattedrale. E ancora un prodigio: i buoi giunti in città nei pressi della chiesa dei francescani si fermarono, rivelando così il disegno divino che la statua, miracolosamente giunta in Sardegna e altrettanto miracolosamente recuperata, dovesse essere qui custodita.
Fu dunque portata nella chiesa e collocata in un altare ad essa dedicata27.
La leggenda è ricordata anche in un dipinto, datato 1º febbraio 1633, conservato
presso il Palazzo Ducale a Sassari, sede del Consiglio comunale, che ritrae il momento
in cui la statua, attorniata da un gruppo di frati che la consegna ai Consiglieri della città
di Sassari, giunge nella vicina Porto Torres. È il mare, quindi, che nella Isola mette in
comunicazione il popolo con il culto per la Madonna, come del resto accade anche per
la Madonna di Bonaria, a Cagliari, o per altri preziosi simboli della devozione isolana.
La diffusione in Sardegna del culto mariano non può essere letta in una dimensione
esclusivamente spirituale. La rilevanza politica e giuridica di tale culto culmina, a tacere
d’altro, nella dedica degli Statuti del Comune di Sassari al nome di Maria: «ad honorem
Sanctae Mariae Virginis»28. Ancora nel XV secolo, proprio mentre il culto della Madonna di Betlem andava identificandosi con quello della Vergine della rosa, e quindi
della salvezza operata attraverso la intercessione di Maria, abbiamo notizia che il “Magistrato civico”, incoronava con un diadema d’argento la statua della Madonna. Sono
nessi di devozione che legano la Sardegna a Roma e all’Oriente in forza di linee direttive che, come per la origine orientale del simulacro della Madonna, richiamano nei secoli momenti di una relazione politica e giuridica di cui l’Isola fu parte essenziale. Sono
dunque antichi gli elementi religiosi e giuridici della devozione del Popolo di Sassari
nei riguardi di Santa Maria di Betlem, espressa e rinsaldata il 14 agosto, quando si cele27
Sul racconto del rinvenimento della statua si vedano: F. VICO, Historia General de la Isla y Reyno
de Sardeña cit., Parte IV, cap. 33, f. 80, n. 7 (= rist. an. cit., pp. 182 ss.); E. COSTA, Sassari, II, Sassari
1959, p. 266; A. LA MARMORA, Itinerario dell’isola di Sardegna, II, Caserta 1917, rist., Nuoro 1997, p.
103; A. PIREDDA, La Madonna venerata nel territorio di Sassari, Sassari 1930, pp. 15 ss.; G. PIRAS, I
Santi venerati in Sardegna, Cagliari 1958, pp. 13 ss.; C.M. DEVILLA O.F.M., Santa Maria di Betlem, Sassari 1961, pp. 41 ss.; W. PARIS, “La Madonna di S. Maria di Betlem”, in AA.VV., Santa Maria di Betlem
nel 4º centenario dell’incoronazione 1586-1986 cit., pp. 112 ss.
28
Si veda G. PIRAS O.F.M., Storia del culto mariano in Sardegna, Cagliari 1961, pp. 42 ss.
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bra la festa, sorta attorno al 1580, che ha il suo culmine con l’arrivo dei candelieri nella
chiesa omonima. Con la processione di candelieri alti più di tre metri, i rappresentanti
dei gremi, le diverse corporazioni di mestieri, portano a spalla quelli che in origine erano ceri votivi, con cui, ieri come oggi, i cittadini sassaresi rinverdiscono la riconoscenza
filiale verso la Madonna per la cessazione della peste avvenuta secoli prima.
Lo studio del culto mariano, con particolare riferimento alle vicende della Sardegna,
offre spunti importanti per una analisi delle vicende giuridiche legate ai rapporti e alle
tensioni fra le due parti dell’Impero. Vi è anzitutto da notare che la diffusione della religione cristiana avvenne in Sardegna unitamente a forti resistenze dei culti precristiani,
con i conseguenti problemi politico-giuridici legati al controllo dell’Isola. E vi è, inoltre,
da ricordare la linea di continuità tra la Chiesa locale e quella greca29, nella quale si svelano connessioni di grande significato giuridico con le vicende dell’Impero romano
d’Oriente30. La connessione ora richiamata si rafforza poi attraverso la venerazione, attestata in Sardegna, per i Santi del calendario greco31. È su questa linea di continuità,
quindi, che un giurista può soffermarsi per analizzare, attraverso la prospettiva particolare offerta dalla storia di una chiesa quale quella di Santa Maria, il valore della connessione tra istituzioni e culto nella formazione della identità del Popolo sardo32.
L’invocazione della Madonna da parte della città, con le sue autorità ecclesiastiche
e civili, contro eventi infausti divenne sempre più frequente, come ad esempio nel caso
della tremenda siccità che colpì Sassari nel 1648, quando il Capitolo della Cattedrale
implorò la Sua protezione. Non è così poi tanto singolare, se si considera il nesso tra il
culto mariano e la sua rilevanza politica e giuridica, il fatto che la città di Sassari abbia
cercato di difendere lo speciale rapporto con la Madonna di Betlem, quando con la soppressione degli Ordini religiosi, avvenuta con legge del 29 maggio 1855, fu colpita anche la comunità dei frati minori della chiesa omonima. Le fonti registrano, a partire dal
1863, la strenua opposizione della città di Sassari, fondata sull’antico diritto di patronato, nel corso di una lite giudiziaria contro il Demanio, che, dopo la sentenza in primo
grado del 12 ottobre 1869, a favore del Comune, si sarebbe conclusa nel 1877, con la
sentenza della Corte di Appello di Roma che condannava il Comune alla restituzione
dei beni.
Le due linee espressive della connessione fra tradizioni religiose e istituzioni politico-giuridiche mostrano una identità specifica del popolo sardo. Il tema del culto è in
sintesi il tema del popolo sardo “nella sua relazione essenziale con Dio”. «Attraverso un
argomento circoscritto localmente e tematicamente» ha scritto il Lobrano, «vogliamo
affrontare, nell’ambito dei sistemi giuridici del Mediterraneo, le grandi questioni proprie
del sistema giuridico romano incentrato sul popolo e sugli Dei: la questione della collocazione istituzionale e quindi del ruolo istituzionale del popolo sardo fra diritto e religione; la questione della collocazione geopolitica e, quindi, del ruolo geopolitico del
popolo sardo fra Oriente e Occidente; la questione della collocazione storica e, quindi,
del ruolo storico del popolo sardo fra antico e moderno, fra passato e futuro. Il sistema
29
Sui rapporti tra la Sardegna e la Chiesa greca si veda F. CHERCHI PABA, La Chiesa greca in Sardegna. Cenni storici – Culti – Tradizioni, Cagliari 1963, pp. 5 ss.
30
Per un quadro di insieme su questi rapporti si veda A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e altogiudicale, 3ª rist., Sassari 1989, pp. 33 ss.; G.G. ORTU, La Sardegna dei giudici, Nuoro 2005, pp. 31 ss.
31
Cfr. P. NUVOLI, I Martiri della Sardegna, Sassari 1909, p. 36; F. CHERCHI PABA, La Chiesa greca
in Sardegna. Cenni storici – Culti – Tradizioni, Cagliari 1963, pp. 67 ss.; A.F. SPADA, Storia della Sardegna Cristiana e dei suoi Santi. Il primo Millennio, Oristano 1994, pp. 215 ss.
32
Sul valore giuridico di tale identità si veda AA.VV., Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San
Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente (a cura di F. SINI-P.P. ONIDA, Torino, 2003.
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del Diritto romano offre strumenti più che preziosi, insostituibili per la riflessione sul
popolo. Il popolo sardo dei cittadini, con i suoi sacerdoti, con i suoi magistrati, non può
che avvantaggiarsi dalla utilizzazione di strumenti romanistici per riflettere su se medesimo, per cercare di dominare, attraverso la conoscenza, la propria storia e, quindi, attraverso la volontà, il proprio futuro».
Si tratta ora di costruire, con la nostra autonomia, non una qualsiasi identità ma la
nostra identità, questa sì speciale.
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