Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della

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Titolo dell'edizione originale
Der philosophische Diskurs der Moderne.
Zwolf Vorlesungen
© Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1985
Traduzione di Emilio Agazzi
(capp. I, IV, V, VI, VII, VIII, XI e XII)
e di Elena Agazzi
(II, III, IX e X, e gli excursus su Castoriadis e su Luhmann)
Ricerche bibliografiche di Walter Privitera
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Jiirgen
Habermas
Il discorso filosofico
della modernità
Dodici lezioni
Editori Laterza
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Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel luglio 1987
nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari
CL 20-2940-5
ISBN 88-420-2940-8
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per Rebecca
che mi ha avvicinato
il neostrutturalismo
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PREMESSA
La modernità - un progetto incompiuto, era il titolo di un discorso che ho avuto occasione di tenere nel settembre del 1980,
quando mi venne conferito il Premio Adorno 1• Da allora questo tema, assai discusso e ricco di sfaccettature, non mi ha più
dato pace. I suoi aspetti filosofici sono penetrati con forza ancora maggiore nella coscienza pubblica tramite la ricezione del
neostrutturalismo francese, al pari del termine di ' postmoderno ', divenuto di moda in seguito ad una pubblicazione di F.
Lyotard 2• La sfida lanciata dalla critica neostrutturalistica della
ragione costituisce perciò la prospettiva dalla quale io cerco di
ricostruire passo a passo il discorso filosofico della modernità. In
tale discorso la modernità, a partire dal tardo secolo XVIII, è
stata elevata a tema filosofico. Il discorso filosofico della modernità si incontra e si intreccia in vari modi con quello estetico.
Ho però dovuto limitare il mio tema: le presenti lezioni non
tratteranno quindi il modernismo nell'arte e nella letteratura 3 •
Dopo il mio ritorno all'Università di Francoforte, ho tenuto
lezioni su questo argomento nel semestre estivo del 1983 e in
quello invernale del 1983-84. Sono state inserite in seguito, ed
l J. Habermas, Kleine po/itische Schri!ten I-IV, Frankfurt a. M. 1981, pp.
444-64 (tr. it. parz. in « Alfabeta >>, n• 22).
2 J. F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris 1979 (tr. ted., Wien 1982;
tr. it., La condizione postmoderna, Milano 1980). Cfr. in proposito A. Honneth,
Der A[fekt gegen das Al/gemeine, in << Merkur >>, Heft 430, dic. 1984, pp. 893
sgg. (tr. it., L'avversione contro l'universale. Sulla concezione del « Postmoderno
in Lyotard », in « Marx Centouno >>, n• 4, maggio 1985, pp. 79-87); R. Rorty,
Habermas and Lyotard on Postmodernity, in << Praxis International », vol. IV,
n• l, 1984, pp. 32 sgg.; e la mia risposta; Questions and Counterquestions, in
« Praxis International », vol. IV, n• 3, 1984.
3 Cfr. in merito P. Bi.irger, Zur Kritik der idea/istischen iì.sthetik, Frankfurt
a. M. 1983; H. R. JausJ, Der /iterarische Prozess des Modernismus von Rousseau
bis Adorno, in L. v. Friedeburg- J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz
1983, Frankfurt a. M. 1983, pp. 95 sgg.; A. Wellmer, Zur Dialektik der Moderne und Postmoderne, Frankfurt a. M. 1985.
VII
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in questo senso sono fittizie, la quinta lezione, che riprende un
testo già pubblicato 4, e l'ultima, terminata soltanto in questi
giorni. Le prime quattro lezioni le avevo già tenute nel marzo
del 1983 al Collège de France di Parigi. Con le altre parti ho
tenuto discussioni, nel settembre 1984, nelle Messenger Lectures alla Cornell University (lthaca, New York). Le tesi più importanti le ho trattate anche in seminari presso il Boston College.
Dalle vivaci discussioni che in tutte queste occasioni ho potuto
condurre con colleghi e studenti, ho ricevuto più stimoli di
quanti se ne possano registrare retrospettivamente nelle note.
Un volume della Edition Suhrkamp 5, che compare contemporaneamente a questo, contiene integrazioni al discorso filosofico della modernità da un punto di vista più accentuatamente
politico.
J. H.
Frankfurt am Main, dicembre 1984
4 J, Habermas, Die Verschlingung von Mythos und Au/kliirung. Be.merkun·
gen zur Dialektik der Aufkliirung • nach einer erneuten Lektilre, in K. H. Bohrer
(a cura di), Mythos und Moderne, Frankfurt a. M. 1983, pp. 405 sgg.
s J. Habermas, Die neue Unubersichtlichkeit, Frankfurt a. M. 1985.
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1.
LA COSCIENZA TEMPORALE
DELLA MODERNITÀ
E LA SUA ESIGENZA
DI RENDERSI CONTO DI SE STESSA
I
Nella celebre Premessa alla raccolta dei suoi saggi di sociologia
della religione, Max Weber svolge quel «problema della storia
universale » cui ha dedicato l'opera scientifica di tutta la sua
vita, cioè la questione perché mai, al di fuori dell'Europa, «lo
sviluppo scientifico, quello artistico, quello statale e quello economico non imboccarono quelle vie della razionalizzazione che
sono proprie dell'Occidente» 1• Per Max Weber il rapporto interiore, ossia non contingente, fra la modernità e ciò che egli
ha chiamato il ' razionalismo occidentale ' era ancora una cosa
ovvia 2 • Egli definiva 'razionale' quel processo di disincantamento per via del quale in Europa una cultura profana è scaturita dal disfacimento delle immagini religiose del mondo. Con le
scienze sperimentali moderne, con l'autonomizzarsi delle arti,
con le teorie della morale e del diritto fondate su principi, vi
si sono costituite sfere culturali di valori che rendevano possibili
quei processi che erano necessari per studiare, ciascuno secondo
una propria normativa interiore, i problemi teoretici, estetici o
pratico-morali.
Max Weber però non ha descritto dal punto di vista della
razionalizzazione solamente la profanizzazione della cultura
occidentale, bensì anche e soprattutto lo sviluppo delle società
moderne. Le nuove strutture sociali ricevono la loro impronta
l M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, in
Gesammelte Aufsiitze zur Religionssoziologie (1920-21), vol. l, Frankfurt a. M.
1973 (tr. it., L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia della
religione, vol. l, Milano 1982, p. 12).
2 Cfr. in merito J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1981, vol. l, pp. 225 sgg. (tr. it., Teoria dell'agire comunicativo, Bologna 1986, vol. l, pp. 244 sgg.).
1
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dalla differenziazione radicale di quei due sistemi funzionalmente intrecciati fra di loro, che si sono cristallizzati intorno ai
nuclei organizzativi dell'impresa capitalistica e dell'apparato
burocratico dello Stato. Weber concepisce tale processo come
l'istituzionalizzazione di un agire economico ed amministrativo guidato dalla razionalità in vista del fine (Zweckrationalitiit). Nella misura in cui queste razionalizzazioni culturale e
sociale si sono impadronite della vita quotidiana, si sono dissolte
anche quelle tradizionali forme di vita, che nella prima modernità si differenziavano soprattutto in base alla categoria professionale. La modernizzazione del mondo della vita non è certo
determinata soltanto dalle strutture della razionalità in vista del
fine. Emil Durkheim e George H. Mead ritenevano che i mondi
della vita razionalizzati fossero modellati piuttosto da un rapporto divenuto riflessivo con tradizioni che hanno perduto la
loro naturale spontaneità; dall'universalizzazione di norme
d'azione e da una generalizzazione di valori che sciolgono l'agire
comunicativo da contesti strettamente delimitati per concedergli
spazi opzionali di maggiore ampiezza; infine, da modelli di
socializzazione che mirano ad una formazione di astratte identità egoiche e promuovono l'individuazione degli adolescenti. A
grandi tratti, questa è l'immagine della modernità, quale l'hanno
tracciata i classici della sociologia.
Oggi il tema di Max Weber si presenta sotto un'altra luce
- non meno grazie al lavoro di coloro che si richiamano a lui,
che a quello dei suoi critici. La parola ' modernizzazione ' è stata
introdotta come termine specialistico soltanto negli anni Cinquanta; da allora in poi essa contraddistingue un impianto teoretico che riprende e continua la problematica di Max Weber,
ma la tratta con i mezzi del funzionalismo sociologico. Il concetto di modernizzazione si riferisce ad un fascio di processi
cumulativi che si rafforzano a vicenda: a-lla formazione del capitale e alla mobilitazione delle risorse; allo sviluppo delle forze
produttive e all'incremento della produttività del lavoro; all'imporsi dei poteri politici centrali e alla formazione di identità
nazionali; alla estensione dei diritti di partecipazione politica,
delle forme di vita urbana, della educazione scolastica formale;
alla secolarizzazione di valori o di norme, e così via. La teoria
della modernizzazione apporta un'astrazione gravida di conseguenze al concetto weberiano della 'modernità': ossia, separa
la modernità dalle sue origini europee moderne e la schematizza
in un modello di processi sociali di sviluppo generali, prescindendo dalle determinazioni spaziali e temporali; inoltre inter2
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rompe i collegamenti interni fra la modernità e il contesto sto·
rico del razionalismo occidentale, di modo che i processi di
modernizzazione non possono più venir concepiti come razio·
nalizzazione, ossia come un'aggettivazione storica di strutture
razionali. In ciò James Coleman vede il vantaggio che il concetto
di modernizzazione, generalizzato nel senso di una teoria dell'evoluzione, non è più gravato dall'idea di un compimento della
modernità, ossia di uno stadio finale, dopo il quale dovrebbero
incominciare sviluppi « postmoderni » 3•
Senza dubbio proprio gli studi sulla modernizzazione degli
anni Cinquanta e Sessanta hanno fornito i presupposti necessari
affinché l'espressione ' postmodemo ' potesse entrare in circolazione anche fra gli scienziati sociali. L'osservatore sociologico
può infatti prender tanto più facilmente congedo da quell'orizzonte concettuale del razionalismo occidentale in cui è nata la
modernità, quanto più si pone dalla prospettiva di una modernizzazione automatica, evolutivamente autonomizzata. Ma una
volta che siano state dissolte le connessioni interne fra il con·
cetto della modernità e l'autocomprensione della modernità stessa acquisita dall'orizzonte della ragione occidentale, i processi
della modernizzazione che continuano a svolgersi per così dire
in maniera automatica possono venire relativizzati dalla prospettiva distaccata di un osservatore postmoderno. Come si esprime
Arnold Gehlen in una formula incisiva: le premesse dell'illuminismo sono morte, soltanto le sue conseguenze continuano a
svolgersi. Da questa visuale, una modernizzazione sociale che
prosegue in modo autosufficiente il suo cammino si è separata
dalle spinte di una modernità culturale che in apparenza è
divenuta obsoleta; essa attua soltanto le leggi funzionali dell'economia e dello Stato, della tecnica e della scienza, che, secondo quanto si dice, si sarebbero unite in sistema sul quale
non si può esercitare alcun influsso. L'inarrestabile accelerazione
dei processi sociali si presenta allora come il rovescio di una
civiltà ormai esaurita, passata in condizioni di ' cristallizzazione '. Appunto Gehlen qualifica come ' cristallizzata ' la civiltà
moderna, perché « le possibilità in essa insite hanno sviluppato tutte le loro risorse fondamentali. Sono state scoperte e
accettate anche tutte le contropossibilità e tutte le antitesi, di
modo che ormai diviene sempre più improbabile operare modificazioni nelle premesse [ ... ]. Se si tiene presente questa idea, si
3
Cfr. la voce Modernization, in Encyclopedia of Social Sciences, vol. X,
pp. 386 sgg.
3
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percepirà la cristallizzazione anche in un ambito tanto str_aordinariamente mosso e variopinto come è quello della pittura
moderna». Dato che «la storia delle idee è conclusa », Gehlen può constatare con sollievo « che noi siamo arrivati alla
post-istoria » 4, e consigliare, con le parole di Gottfried Benn:
« Conta sulle tue risorse». Questo commiato neoconservatore
dalla modernità non si riferisce alla sfrenata dinamica della
modernizzazione sociale, bensì all'involucro di un'autocomprensione culturale della modernità, che sembra ormai superato 5 •
Uidea della postmodernità si presenta invece in tutt'altra
forma politica, e cioè in quella anarchica, presso quei teorici i
quali non ritengono che si sia verificato uno sganciamento fra
la modernità e la razionalità. Anch'essi reclamano la fine dell'illuminismo, oltrepassano quell'orizzonte della tradizione razionale, a partire del quale un tempo la modernità europea ha compreso se stessa - e anch'essi si sistemano nella post-istoria. Ma
a differenza dal commiato neo-conservatore quello anarchico si
riferisce alla modernità nel suo complesso. Mentre sprofonda
quel continente concettuale che sorreggeva il razionalismo occidentale di Max Weber, la ragione fa conoscere il suo vero volto,
e viene smascherata come soggettività assoggettante e al contempo soggiogata, come volontà di impadronimento strumentale.
La forza sovversiva di una critica alla maniera di un Heidegger
o di un Bataille, che strappa il velo della ragione dal volto di
una pura volontà di potenza, deve al contempo far vacillare
quella gabbia d'acciaio in cui si è oggettivato socialmente lo
spirito della modernità. In questa visuale la modernizzazione
sociale non può sopravvivere alla fine della modernità culturale,
dalla quale è scaturita - essa non potrà resistere a quell' ' immemorabile ' anarchismo, nel cui segno si delinea il postmoderno.
Queste due varianti della teoria del postmoderno, comunque
si differenzino fra di loro, prendono entrambe le distanze da quel
fondamentale orizzonte concettuale in cui si è formata l'autocomprensione della modernità europea. Ambedue le teorie del postmoderno pretendono infatti di essere uscite da questo orizzonte,
di averlo lasciato dietro di sé come orizzonte di un'epoca passata. Ora il primo filosofo che abbia sviluppato un chiaro concetto della modernità è stato Hegel; se vogliamo intendere che
4 A. Gehlen, Ober kulturelle Kristallisation, in Studien zur Anthropologie
und Soziologie, Neuwied 1963, p. 321.
5 Da un saggio di H. E. Holthusen (Heimweh nach Geschichte, in << Merkur >>, no 430, dic. 1984, p. 916) ricavo che Gehlen potrebbe aver ripreso
l'espressione di ' Posthistoire ' dal compagno di fede Hendrik de Man.
4
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cosa abbia significato quell'intima relazione fra modernità e
razionalità, che fino a Max Weber era rimasta ovvia, ed oggi è
messa in questione, dobbiamo risalire ad Hegel. Dobbiamo renderei conto del concetto hegeliano della modernità, per poter
giudicare se sussista a buon diritto la pretesa di coloro che svolgono le loro analisi in base a premesse diverse. In ogni caso
non possiamo respingere a priori il sospetto che il pensiero postmoderno si arroghi una posizione trascendente, mentre rimane
in realtà vincolato a quei presupposti dell'autocomprensione
moderna, che Hegel ha messo in luce. Non possiamo escludere
fin da principio che il neoconservatorismo o l'anarchismo estetizzante facciano nuovamente le prove, in nome di un commiato
dalla modernità, di una ribellione contro di essa. Potrebbe anche
darsi che essi ammantino soltanto la loro complicità con una
veneranda tradizione del controilluminismo, spacciandola per
post- muminismo.
II
Hegel per primo usa il concetto della modernità in contesti
storici, come concetto di un'epoca: l'' età nuova' è l'' età moderna ' 6 • Il che corrisponde al contemporaneo uso linguistico
inglese e francese: modern times e temps modernes designano,
intorno al 1800, gli ultimi tre secoli allora trascorsi. La scoperta
del 'nuovo mondo', il Rinascimento e la Riforma - questi tre
grandi eventi intorno al 1500 - costituisconG la soglia epocale
fra l'età moderna e il Medio Evo. Con queste espressioni anche
Hegel circoscrive, nelle sue lezioni sulla filosofia della storia, il
mondo cristiano-germanico, che a sua volta è derivato dall'antichità greca e romana. L'articolazione ancor oggi usuale in età
moderna, medio evo ed antichità (oppure di storia moderna,
medioevale e antica, che serve per esempio a designare le
cattedre di storia) poté costituirsi soltanto dopo che le espressioni di età ' nuova ' o ' moderna ' (e di mondo ' nuovo '
o ' moderno ') avevano perduto il loro senso puramente cronologico ed assunto il significato oppositivo di un'epoca enfaticamente 'nuova'. Mentre nell'Occidente cristiano il 'tempo nuovo ' aveva preannunciato l'ancora attesa età futura del mondo,
che si sarebbe avviata soltanto con il Giorno del Giudizio
6 Per quel che segue, cfr. R. Koselleck, Vergangene Zukunft, Frankfurt a.
M. 1979 (tr. it., Futuro Passato, Genova 1986).
5
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- cosl intesa ancora nella Filosofia delle epoche del mondo
di Schelling - , il concetto profano dell'età moderna esprime
la convinzione che il futuro è già incominciato: esso si riferisce
infatti all'epoca che vive rivolta al futuro, che si è aperta al
nuovo futuro. La cesura del nuovo cominciamento si è quindi
spostata nel passato, appunto agli inizi dell'età moderna; soltanto nel corso del secolo XVIII la soglia epocale intorno al
1500 è stata retrospettivamente concepita come tale inizio. R.
Koselleck usa come test il momento in cui il nostrum aevum, il
nostro tempo, è stato ribattezzato col nome di ' nova aetas ' l'età moderna 7 •
Koselleck mostra come la coscienza storica che si esprime
nel concetto dell' ' età moderna ' o ' nuova ' ha costituito un
modo di vedere che è proprio della filosofia della storia: ossia,
la presentificazione riflessiva della propria posizione partendo
dall'orizzonte della storia nel suo complesso. Anche il collettivo
singolare 'storia' (Geschichte), che Hegel usa già come qualcosa di ovvio, è stato coniato nel XVIII secolo: « L' 'età moderna ' conferisce all'intero passato una qualità cosmico-storica
[ ... ] La diagnosi del tempo nuovo e l'analisi delle ere passate
corrispondono l'una all'altra» 8 • Vi fa riscontro la nuova esperienza del progredire e dell'accelerazione degli eventi storici, e
l'idea della contemporaneità cronologica di sviluppi storicamente
non contemporanei 9 • Si forma allora la rappresentazione della
storia come un processo unitario, che suscita problemi; e insieme si esperisce il tempo come risorsa limitata per la soluzione
dei problemi che insorgono, ossia come urgenza temporale. Lo
spirito del tempo (Zeitgeist, una delle nuove parole che ispirarono Hegel) caratterizza il presente come ·una transizione che si
consuma nella coscienza dell'accelerazione e nell'attesa della diversità del futuro:
Non è difficile a vedersi - scrive Hegel nella Prefazione alla
Fenomenologia dello spirito - come la nostra età sia un'età di
gestazione e di trapasso ad una nuova era. Lo spirito ha rotto i
ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad
oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato, e versa. in un travagliato periodo di trasformazione [ ... ]. La fatuità e la noia che
invadono ciò che ancora sussiste, l'indeterminato presentimento di
un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è
in marcia. Questo lento sbocconcellarsi [ ...] viene interrotto dal7 R. Koselleck, Neuzeit, in op. cit., p. 314.
s lvi, p. 327.
9 lvi, pp. 321 sgg.
6
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l'apparizione che, come in un lampo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo 10,
Il mondo nuovo, moderno, si distingue dall'antico in quanto
si apre al futuro; perciò il nuovo cominciamento epocale si ripete
e si perpetua in ogni momento del presente che generi da se
stesso il nuovo. Spetta quindi alla coscienza storica della modernità la delimitazione dell' ' età contemporanea ' da, quella moderna: all'interno dell'orizzonte dell'età moderna il presente
gode, in quanto storia contemporanea, di un valore posizionale
prominente. Anche Hegel intende il ' nostro tempo ' come l' ' età
contemporanea ', e data l'inizio del presente a partire dalla cesura
rappresentata dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese per
i più pensosi contemporanei del morente secolo XVIII e dell'incipiente secolo XIX. Con questa ' splendida aurora ' noi perveniamo - così pensa ancora il vecchio Hegel - « all'ultimo
stadio della storia, al nostro mondo, ai nostri giorni» 11 • Un
presente che si intende a partire dall'orizzonte dell'età moderna,
come l'attualità dell'età contemporanea, deve rieseguire come
rinnovamento continuato quella frattura che essa ha compiuto
col passato.
Concordano con tutto ciò quei concetti di movimento che,·
insieme all'espressione di età ' moderna ' o ' nuova ' nascono,
oppure acquisiscono il loro nuovo significato, valido fino ad
oggi, nel XVIII secolo: rivoluzione, progresso, emancipazione,
sviluppo, crisi, spirito del tempo, ecc. 12 • Tali espres§ioni sono
divenute anche parole-chiave della filosofia hegeliana, che chiariscono, alla luce della storia dei concetti, il problema che si
pone con la coscienza storica moderna della civiltà occidentale,
chiarito tramite il concetto oppositivo dell'' età moderna': la
modernità rion può né vuole più mutuare i propri criteri d'orientamento da modelli di un'altra epoca; essa deve attingere la sua
propria normatività da se stessa. La modernità si vede affidata
a se stessa, senza alcuna possibilità di fuga. Il che spiega la
facilità con cui la sua autocomprensione si confonde, la dinamica dei tentativi, proseguiti senza posa fino al nostro tempo,
per « rendersi conto » di se stessa. Ancora pochi anni fa H.
10 G. W. F. Hegel, Phiinomenologie des Geistes, Suhrkamp-Werkausgabe,
vol. III, pp. 18 sgg. (tr. it., Fenomenologia dello spirito, Firenze 1963, pp. 8 sg.).
11 G. W. F. Hegel, Vorlesungen iiber die Philosophie der Geschichte, Suhrkamp-Werkausgabe, vol. XII, p. 524 (tr. it., Lezioni sulla filosofia della storia,
Firenze 1963, vol. IV, p. 197).
12 R. Koselleck, Er/ahrungsraum und Erwartungshorizont, in Vergangene
Zukunft cit., pp. 349 sgg.
7
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Blumenberg si è visto costretto a difendere, con grande apparato storico, la legittimità ossia il diritto proprio dell'età moderna contro quelle costruzioni che le attribuiscono un debito culturale verso i lasciti del cristianesimo e dell'antichità: « Non è
affatto naturale che un'epoca si ponga il problema della propria
legittimità storica, esattamente come non è naturale che essa si
concepisca in genere come epoca. Per l'età moderna questo problema è latente nella pretesa di compiere e di poter compiere
una rottura radicale con la tradizione, e nel fraintendere tale
pretesa come realtà della storia, che non può mai incominciare
di nuovo fin dal fondamento» 13 • A conferma, Blumenberg adduce una dichiarazione del giovane Hegel: « A parte altri precedenti tentativi, è stato riservato soprattutto ai nostri tempi di
rivendicare in proprietà degli uomini, almeno in teoria, i tesori
che sono stati dissipati in cielo. Ma quale età avrà la forza di
far valere questo diritto e di entrarne in possesso? » 14 •
Il problema di un'autofondazione della modernità giunge alla
coscienza anzitutto nell'ambito della critica estetica, come si può
vedere quando si segua la storia concettuale dell'espressione
'moderno' 15 • Il processo di separazione dal modello dell'arte
antica è avviato all'inizio del secolo XVIII dalla celebre Querelle des Anciens et des Modernes 16 • Il partito dei moderni si
ribella contro l'autocomprensione del classicismo francese, assimilando il concetto aristotelico della perfezione a quello del
progresso, quale era stato suggerito dalla moderna scienza della
natura. I ' moderni ' mettono in questione, facendo uso di argomenti storico-critici, il senso dell'imitazione dei modelli antichi,
elaborano, contro le norme di una bellezza assoluta e apparentemente sottratta al tempo, i criteri del bello condizionato dal
tempo o relativo, e con ciò esprimono l'autocomprensione dell' Illuminismo francese, che si intende come un nuovo inizio
epocale. Benché il sostantivo ' modernitas ' (insieme alla coppia
aggettivale antinomica 'antiqui/moderni ') fosse già stato< adoperato in senso cronologico fin dalla tarda antichità, nelle lingue
europee dell'età moderna l'aggettivo 'moderno' venne sostantiH. Blumenberg, Legitimitiit der Neuzeit, Frankfurt a. M. 1966, p. 72.
G. W. F. Hegel, Die Positivitiit der christlichen Religion, Neufassung des
Anfangs, in Suhrkamp·Werkausgabe, vol. l, p. 209 (tr. it., La positività della
religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, Napoli 1972, p. 317).
15 H. U. Gumbrecht, voce Modern, in O. Brunner- W. Conze- R. Koselleck
(a cura di), Geschichtliche Grundbegrifje, vol. IV, pp. 93 sgg.
16 H. R. Jauss, Ursprung und Bedeutung der Fortschrittsidee in der 'Quereli e
des Anciens et des Modernes' in H. Kuhn- F. Wiedmann (a cura di), Die Phi/osophie und die Frage nach dem Fortschritt, Mtinchen 1964, pp. 51 sgg.
13
14
8
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vato solo assai tardi, all'incirca dalla metà del diciannovesimo
secolo, e anzitutto di nuovo nell'ambito delle belle arti. Il che
spiega perché le espressioni ' moderno ' e ' modernità ', ' modernité ', hanno mantenuto fino ad oggi un centrale significato estetico, improntato all'autocomprensione dell'arte d'avanguardia 17 •
Per Baudelaire a quel tempo l'esperienza estetica della modernità si fondeva con quella storica. Il problema dell'autofondazione si acuisce nell'esperienza fondamentale della modernità
estetica, perché qui l'orizzonte dell'esperienza del tempo si contrae nella soggettività decentrata, che si discosta dalle convenzioni quotidiane. Perciò l'opera d'arte moderna assume per
Baudelaire una posizione singolare nel punto in cui si incrociano
gli assi dell'attualità e dell'eternità: « La modernità è il transitorio, l'evanescente, l'accidentale, è la metà dell'arte, la cui altra
metà è l'eterno e l'invariabile » 18 • Il punto di riferimento della
modernità diviene ora l'attualità che consuma se stessa, e che ci
rimette l'estensione di un'età di transizione, di un'età contemporanea - della durata di parecchi decenni - costituita nel centro dell'età moderna. Il presente attuale non può più acquistare
la propria autocoscienza nemmeno dal suo opporsi ad un'epoca
ripudiata e oltrepassata, ad una figura del passato. L'attualità
può costituirsi soltanto come punto d'incrocio fra tempo ed eternità. Con questo contatto diretto fra attualità ed eternità, il
moderno non si sottrae certamente alla sua caducità, bensì alla
banalità: nella concezione di Baudelaire esso è disposto in modo
tale che il momento transitorio troverà conferma come l'autentico
passato di un presente che ancora deve venire 19 • Esso si dimostra
come ciò che un giorno sarà classico: ' classico ' è ormai il ' fulmine ' del sorgere d'un mondo nuovo, che certamente non sarà
stabile, perché con la sua stessa comparsa suggella già anche la
propria decadenza. Questa concezione del tempo, radicalizzata
ancora un'altra volta nel surrealismo, fonda l'affinità fra il moderno e la moda.
Baudelaire si ricollega al risultato della celebre controversia
17 Per quanto segue mi fondo su H. R. Jauss, Literarische Tradition und
gegenwartiges Bewusstsein der Modernitiit, in Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt a. M. 1970, pp. 11 sgg. Cfr. anche: H. R. Jauss, Der literarische
Prozess ci t., in L. v. Friedeburg- J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz
1983 cit., pp. 95 sgg.
18 Ch. Baudelaire, Der Maler des modernen Lebens, in Gesammelte Schriften, a cura di M. Bruns (Melzer), Darmstadt 1982, vol. IV, p. 286; seguo qui
H. R. Jauss, Literarische Tradition cit., pp. 50 sgg.
19 « Affinché ogni modernitas sia degna di divenire antiquitas, le si deve
togliere quella misteriosa bellezza che la vita umana inserisce involontariamente
in essa» (Ch. Baudelaire, Gesammelte Schriften cit., vol. IV, p. 288).
9
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fra gli antichi e i moderni, ma sposta in modo caratteristico i
pesi fra il bello assoluto e quello relativo: « Il bello è costituito
da un elemento eterno, immodificabile [ ... ], e da un elemento
relativo, condizionato [ ... ], che è rappresentato dal periodo,
dalla moda, dalla vita culturale, dalla passione. Senza questo
secondo elemento, che per così dire è come la glassata allettante
e scintillante che rende digeribile la torta divina, il primo
elemento sarebbe insopportabile per la natura umana» 20 • Come
critico d'arte, Baudelaire nella pittura moderna pone in rilievo
l'aspetto « della bellezza fugace, effimera, della vita attuale, il
carattere di ciò che il lettore ci ha permesso di designare come
la ' modernità ' » 21 • Baudelaire pone tra virgolette la parola ' modernità'; egli è consapevole dell'uso nuovo, terminologicamente
arbitrario, di questa parola, per via del quale l'opera autentica
è radicalmente legata al momento della sua nascita; proprio perché si consuma nell'attualità, essa può arrestare il flusso uniforme delle banalità, violare la normalità e soddisfare per l'istante
di una fuggevole connessione fra l'eterno e l'attuale l'imperitura
esigenza di bellezza.
La bellezza eterna si svela soltanto nel travestimento del
costume temporale - una caratteristica che più tardi Benjamin
rivestirà con l'espressione dell'immagine dialettica. L'opera d'arte
moderna sta sotto il segno dell'unificazione fra l'autentico e
l'effimero. Questo carattere di presente fonda anche l'affinità dell'arte con la moda, col nuovo, con l'ottica dello flaneur, del
genio e del bambino, ai quali manca la difesa che contro le
eccitazioni offrono i modi convenzionali della percezione, e che
perciò sono esposti senza alcuna protezione agli attacchi della
bellezza, degli stimoli trascendenti nascosti in ciò che vi è di
più quotidiano. Il ruolo del dandy consiste allora nel rovesciare
con fare blasé in offensiva questo tipo di extraquotidianità subìta, esibendola con mezzi provocatori 22 • Il dandy collega ciò
che è ozioso e alla moda con il piacere di stupire, senza esser
mai egli stesso stupito. È l'esperto del fuggevole diletto dell'istante, dal quale sgorga il nuovo: « Egli cerca quel qualcosa
che io mi permetto di designare come la 'modernità'; non c'è
infatti termine migliore per esprimere l'idea in questione. Per
20 lvi,
22 << A
p. 271.
21 lvi, pp. 325 sgg.
tutte è comune lo stesso carattere oppositivo e rivoluzionario;
tutte sono le rappresentanti di ciò che vi è di meglio nell'orgoglio e nella superbia umani: di quel bisogno oggi soltanto troppo raro, di combattere e distruggere la banalità>> (ivi, p. 302).
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lui si tratta di svincolare dalla moda ciò che essa può contenere
di poetico nello storico, e di eterno nel fuggevole » 23 •
Walter Benjamin riprende questo motivo per poter trovare
ancora una soluzione al compito paradossale di ricavare parametri propri dalla contingenza di una modernità divenuta assolutamente transitoria. Baudelaire si era accontentato dell'idea che
nell'autentica opera d'arte si attui l'incontro fra tempo ed eternità; Benjamin vuole invece ritradurre questa fondamentale esperienza estetica in un rapporto storico; elabora quel concetto del
'tempo-ora' (Jetztzeit), nel quale sono disseminate schegge del
tempo messianico ossia concluso, e lo fa servendosi del motivo,
divenuto per così dire sottile come il respiro, dell'imitazione,
che si può rintracciare nei fenomeni della moda: « La Rivoluzione francese s'intendeva come una Roma ritornata. Essa richiamava l'antica Roma esattamente come la moda richiama in vita
un costume d'altri tempi. La moda ha il fiuto per l'attuale, dovunque esso si muova nella selva del passato. Essa è un balzo
di tigre nel passato [ ... ]. Lo stesso balzo, sotto il cielo libero
della storia, è quello dialettico, come Marx ha concepito la
rivoluzione» 24 • Benjamin non si ribella soltanto contro la normatività presa a prestito di una concezione della storia attinta dall'imitazione di modelli; egli combatte anche contro quelle due
concezioni che, già sul terreno della concezione moderna della
storia, intercettano e neutralizzano le provocazioni del nuovo e
dell'assolutamente inatteso. Da un lato egli si volge contro l'idea
di un tempo omogeneo e vuoto, che viene riempito dall'' ottusa
fede nel progresso ' che è propria dell'evoluzionismo e della filosofia della storia, ma dall'altro lato anche contro quella neutralizzazione di tutti i criteri, praticata dallo storicismo, quando
chiude la storia nel museo e « si lascia scorrere fra le dita come
un rosàrio la successione dei fatti» 25 • Il modello è Robespierre,
che richiamandosi all'antica Roma si è procurato un corrispondente passato carico di tempo-ora, per far saltare l'inerte continuum della storia. Come egli tenta di indurre a fermarsi il
pigro corso della storia quasi con uno shock prodotto surrealisticamente, così in genere una modernità volatilizzata nell'attualità, non appena raggiunge l'autenticità di un tempo-ora, deve
lvi,.p. 284.
W. Benjamin, Vber den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften,
vol. l, 2, p. 701 (tr. it., Tesi sulla filosofia della storia, in Angelus Novus, Torino 1962, p, 80).
25 lvi, p. 82.
23
24
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attingere la sua normatività dalle immagini speculari di passati
rievocati. Questi ultimi non vengono più percepiti quali passati
per natura esemplari. Il modello baudelairiano del creatore di
mode illumina piuttosto la creatività. che contrappone l'atto del
chiaroveggente rinvenimento di tali corrispondenze all'ideale
estetico dell'imitazione di modelli classici.
Excursus sulle « Tesi di filosofia della storia »
di W alter Benjamin
Non è facile classificare la coscienza del tempo che si esprime
nelle Tesi di filosofia della storia di W alter Benjamin 26 • Innegabilmente nel concetto del ' tempo-ora ' entrano in un singolare
collegamento esperienze surrealistiche e motivi della mistica
ebraica. Quella idea che l'istante autentico di un presente innovativo interrompe il continuum della storia, ed evade dal suo
decorso omogeneo, si alimenta ad entrambe le fonti. L'illuminazione profana dello shock impone, al pari dell'unione mistica
con l'apparizione del Messia, un momento di arresto, una cristallizzazione degli eventi del momento. Qui a Benjamin non
importa soltanto l'enfatico rinnovamento di una coscienza per la
quale «ogni secondo (è) la piccola porta da cui poteva entrare
il Messia» (Tesi 18) TI. Benjamin piuttosto gira in senso opposto, intorno all'asse del tempo-ora, quel radicale orientamento
verso il futuro che è caratteristico dell'età moderna in genere,
fino al punto in cui esso viene tradotto in un ancor più radicale
orientamento verso il passato. L'attesa della novità futura si avvera unicamente con la rimemorazione di un passato represso. Il
segno di un arresto messianico degli eventi Benjamin lo concepisce come « chance rivoluzionaria nella lotta per il passato
represso » (Tesi 17) 28 •
Nel quadro delle sue ricerche di storia dei concetti, R. Koselleck ha caratterizzato la modernità, fra l'altro, tramite la crescente differenza fra ' ambito dell'esperienza' (Erfahrungsraum)
e ' orizzonte delle aspettative ' (Erwartungshorizont): « Io sostengo la tesi che nell'età moderna la differenza fra esperienza
ed aspettativa diviene sempre maggiore, e più esattamente che
l'età moderna può concepirsi come un'età nuova solamente dal
26
TI
28
lvi, I, 2 (tr. it. cit.).
lvi, p. 83.
lvi, p. 82.
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momento in cui le aspettative si sono sempre più andate allontanando da tutte le esperienze fatte in precedenza» 29 • L'orientamento verso il futuro, che è specifico dell'età moderna, si
forma soltanto nella misura in cui la modernizzazione sociale
lacera, mette in moto e svaluta quale direttiva che controlla
l'aspettativa l'ambito paleo-europeo dell'esperienza dei mondi
vitali improntati da una realtà contadina e artigiana. Il posto di
queste esperienze tramandate dalle generazioni precedenti viene
poi occupato da quell'esperienza del progresso, che conferisce
« una qualità storicamente nuova, continuamente traducibile in
senso utopico », all'orizzonte della aspettativa fino ad allora saldamente ancorato nel passato 30 •
A dire il vero Koselleck disconosce il fatto che il concetto di
progresso non è servito soltanto a rendere immanenti le speranze
escatologiche e a realizzare l'apertura utopica dell'orizzonte delle
aspettative, bensì anche a ostruire nuovamente, servendosi di
costruzioni teleologiche della storia, quella fonte di inquietudini
che è il futuro. La polemica di Benjamin contro l'appiattimento
socio-evolutivo della concezione materialistica della storia si rivolge contro questa degenerazione della coscienza moderna del
tempo, aperta al futuro. Là dove il progresso si coagula in norma
storica, viene eliminata, dal riferimento del presente al futuro,
la qualità del nuovo, l'accentuazione dell'inizio imprevedibile.
Sotto questo aspetto lo storicismo è per Benjamin soltanto un
equivalente funzionale della filosofia della storia. Lo storico che
si immedesima e che tutto comprende raduna la massa dei fatti,
cioè il corso oggettivato della storia, in una contemporaneità
ideale, per riempire in tal modo ' il tempo omogeneo e vuoto '.
Così facendo, al riferimento del presente al futuro egli toglie
ogni rilevanza per la comprensione del passato: «Al concetto
del presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo e immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo
concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto
scrive storia. Lo storicismo postula un'immagine ' eterna ' del
passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso »
(Tesi 16) 31 •
Come vedremo, la coscienza moderna del tempo, in quanto
si esprime in manifestazioni letterai-ie, si è sempre più rilassata,
e la sua vitalità dovette essere continuamente rinnovata da un
29 R. Koselleck, Er/ahrungsraum und Erwartungshorizont, in Vergangene
Zukunft cit., p. 359.
30 lvi, p. 363.
31 G. W. F. Hegel, op. cit., vol. XII, p. 524 (tr. it. cit., p. 81).
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pensiero radicalmente storico: dai Giovani hegeliani attraverso
Nietzsche e Yorck von W artenburg fino ad Heidegger. Lo stesso
impulso determina le tesi di Benjamin, che servono al rinnovamento della coscienza temporale moderna. Ma Benjamin non è
ancora soddisfatto di quella variante del pensiero storico che
fino ad allora poteva essere considerata come la più radicale.
Il pensiero radicalmente storico può essere caratterizzato dall'idea della storia effettuale. Nietzsche gli ha dato il nome di
considerazione critica della storia. Il Marx del Diciotto Brumaio
ha praticato questo tipo di pensiero storico, e lo Heidegger di
Sein und Zeit lo ha antologizzato. Nella stessa struttura coagulata nell'esistenziale della storicità si può certamente riconoscere
ancora con chiarezza che l'orizzonte aperto al futuro di aspettative determinate dal presente dirige il nostro intervento sul
passato. In quanto ci appropriamo di esperienze passate orientati verso il futuro, l'autentico presente dimostra di essere il
luogo del proseguimento di tradizioni e dell'innovazione al contempo: l'uno non è possibile senza l'altra, ed entrambi si fondono nell'oggettività di un contesto di storia effettuale.
Vi sono però diversi modi di intendere questa idea della
storia effettuale, a seconda della misura di continuità e discontinuità che si vuole assicurare o produrre: la versione conservatrice (Gadamer), quella conservatrice-rivoluzionaria (Freyer), e
quella rivoluzionaria (Korsch). Ma lo sguardo diretto al futuro
si rivolge sempre dal presente verso un passato che è connesso,
quale preistoria, con il nostro presente d'ogni volta, come dalla
catena di un destino comune. Due sono i momenti costitutivi
di questa coscienza: da un lato il nesso storico-effettuale di un
continuo succedersi di tradizioni, in cui è inserito anche l'atto
rivoluzionario; e dall'altro la predominanza dell'orizzonte delle
aspettative su un potenziale di esperienze storiche di cui ci si
deve appropriare.
Benjamin non si occupa esplicitamente di questa coscienza
storico-effettuale. Ma dal suo testo risulta che egli diffida tanto
del patrimonio dei beni culturali tramandati, che devono trasformarsi in possesso del presente, quanto dell'asimmetria del rapporto fra le attività appropriatrici di un presente orientato al
futuro e gli oggetti appropriati del passato. Perciò Benjamin si
impegna in un drastico rovesciamento del rapporto fra orizzonte
delle aspettative e ambito dell'esperienza, attribuendo a tutte le
epoche passate un orizzonte di aspettative insoddisfatte, ed al
presente orientato verso il futuro il compito di sperimentare nella
rimemorazione un passato di volta in volta corrispondente in
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modo tale che noi possiamo soddisfarne le aspettative con la
nostra debole forza messianica. In base a questo rovesciamento
possono intrecciarsi due idee: la convinzione che la continuità
del contesto tradizionale è fondata tanto dalla barbarie quanto
dalla civiltà 32 ; e l'idea che la generazione di volta in volta presente è responsabile non solo del destino delle generazioni future,
bensì anche del destino incolpevolmente sofferto dalle generazioni
passate. Questa esigenza di redimere epoche passate, che di volta
in volta indirizzano verso di noi le loro aspettazioni, rammenta
l'idea, familiare alla mistica ebraica e a quella protestante, della
responsabilità che gli uomini hanno per il destino di un Dio
che nell'atto della creazione ha rinunciato alla sua onnipotenza
in favore di una pari libertà dell'uomo. Ma queste considerazioni di storia spirituale non spiegano poi molto. Ciò che Benjamin ha in mente, è invece la veduta sommamente profana che
l'universalismo etico deve prendere sul serio anche il torto già
avvenuto e a prima vista irreversibile; che esiste una solidarietà
dei posteri con i loro antenati, con tutti coloro che sono stati
lesi dalla mano dell'uomo nella loro integrità corporea o personale; e che questa solidarietà può essere dimostrata e messa in
atto solamente dalla rimemorazione. Qui la forza liberatrice del
ricordo non deve servire, come da Hegel fino a Freud, ad estinguere il potere del passato sul presente, bensì ad estinguere un
debito del presente verso il passato: « Poiché è un'immagine
irrevocabile del passato che rischia di svanire ad ogni presente
che non si riconosca indicato in esso » (Tesi 5) 33 •
Nel contesto di questa prima lezione, il presente excursus è
inteso a mostrare come Benjamin intrecci fra di loro motivi d'origine del tutto diversa, per radicalizzare una volta di più la
coscienza storico-effettuale. Lo sganciamento dell'orizzonte delle
aspettative dal tradizionale potenziale d'esperienza rende anzitutto possibile, come ha indicato Koselleck, l'opposizione di un
tempo nuovo, che vive di proprio diritto, a quelle epoche passate, dalle quali l'età moderna si è separata. La situazione del
presente si era con ciò modificata in modo specifico nel rapporto
con il passato e con il futuro. Sotto la spinta di problemi che
premono dal futuro, un presente chiamato ad un'attività storicamente responsabile prende da un lato il sopravvento sul passato
32 << Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie. E come, in sé, non è immune dalla barbarie, non lo è
nemmeno il processo della tradizione per cui è passato dall'uno all'altro >>, Tesi 7
(tr. it. cit., p. 77).
33 G. W. F. Hegel, op. cit., vol. XX, p. 329 (tr. it. cit., p. 74).
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da acqutstre per proprio interesse; dall'altro lato un presente
divenuto del tutto transitorio si avvede di dover render contro
al futuro dei suoi interventi e delle sue omissioni. Ora, siccome
Benjamin estende ad epoche passate questa responsabilità rivolta
al futuro, la situazione si modifica ancora una volta: il rapporto
carico di tensioni con le alternative, in linea di principio tutte
aperte, del futuro, riguarda ora direttamente anche il rapporto
con un passato a sua volta agitato da aspettative. La spinta dei
problemi del futuro si moltiplica con quella del futuro passato
(e inappagato). Ma al contempo questo rovesciamento assiale
corregge l'occulto narcisismo della coscienza storico-effettuale.
Non sono più soltanto le generazioni future, ma anche quelle
passate, che mantengono un diritto verso la debole forza messianica delle generazioni presenti. La riparazione anamnestica di
un torto, di cui non si può certo far sì che non sia accaduto,
ma che per lo meno può essere virtualmente conciliato dalla
rimemorazione, avvolge il presente nel contesto comunicativo di
una solidarietà storica universale. Questa anamnesi costituisce il
contrappeso decentrante a quella pericolosa concentrazione della
responsabilità, che la coscienza moderna del tempo, rivolta unicamente verso il futuro, ha addossato ad un presente problematico, e in un certo qual senso aggrovigliato 34•
III
Hegel per primo eleva a problema filosofico quel processo di
distacco della modernità dalle suggestioni normative del passato,
che non rientrano in essa. Certamente, nel corso di una critica
della tradizione che accoglie in sé esperienze della Riforma e del
Rinascimento, e reagisce agli inizi della moderna scienza della
natura, la filosofia moderna, dalla tarda scolastica fino a Kant,
esprime già anche l'autocomprenstone della modernità. Ma soltanto alla fine del XVIII secolo il problema dell'autoaccertamento della modernità si acuisce a tal punto, che Hegel può
vederlo come problema filosofico, e precisamente come il problema fondamentale della sua filosofia. Hegel concepisce come
34 Cfr. la ricerca di H. Peukert sull'Aporie anamnestischer Solidaritiit, in H.
Peukert, Wissenschaftstheorie, Handlungstheorie, Fundamentale Theologie, Diisseldorf 1976, pp. 273 sgg., e anche la mia replica a H. Ottmann in J. Habermas,
Vorstudien und Ergiinzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1984, po. 514 sgg.
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« fonte del bisogno della filosofia ))
35 l'inquietudine derivante
dal fatto che una modernità priva di modelli deve stabilizzarsi
uscendo dalle scissioni che essa stessa ha provocato. Quando la
modernità si desta alla coscienza di se stessa, nasce un bisogno
di autoaccertamento, che Hegel intende come il bisogno di filosofia: egli infatti ritiene che la filosofia si trovi dinanzi al compito di cogliere il proprio tempo e cioè per lui l'età moderna,
nel pensiero. Hegel è convinto di non poter affatto acquisire quel
concetto che la filosofia si forma di se stessa, indipendentemente
dal concetto filosofico della modernità.
Anzitutto Hegel scopre nella soggettività il principio dell'età
moderna. Partendo da tale concetto egli spiega la superiorità del
mondo moderno e al contempo il suo carattere di epoca percorsa da crisi: esso si esperisce infatti come il mondo del progresso e al contempo dello spirito estraniato. Perciò il primo tentativo di portare al concetto la modernità nasce insieme ad una
critica della modernità.
Secondo Hegel l'età moderna è caratterizzata in generale da
una struttura dell'autorelazione, che egli chiama soggettività: « Il
principio del mondo moderno in genere è la libertà della soggettività, per cui tutti gli aspetti essenziali, che esistono nella
totalità spirituale, si sviluppano, pervenendo al loro diritto » 36 •
Hegel, quando definisce la fisionomia dell'età moderna (o del
mondo moderno), spiega la 'soggettività' con la 'libertà' e la
' riflessione ': « La grandezza del nostro tempo è che esso riconosce la libertà, la proprietà dello spirito di essere in sé presso
di sé» 37 • In questo contesto l'espressione 'soggettività' comporta soprattutto quattro connotazioni: a) individualismo: nel
mondo moderno la peculiarità infinitamente particolare fa valere le proprie pretese 38 ; b) diritto alla critica: il principio
del mondo moderno esige che ciò che ciascuno deve riconoscere si mostri a lui come un che di legittimo 39 ; c) autonomia
dell'agire: è proprio del mondo moderno che noi ci conside-
35 G. W. F. Hegel, Differenz des Fichteschen und Sche/lingschen Systems der
Philosophie, in Suhrkamp·Werkausgabe, vol. Il, p. 20.
36 G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Suhrkamp-Werkausgabe, vol. 7, p. 439 (tr. it., Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1965,
p. 361). Altra documentazione nella voce Moderne Welt, Suhrkamp-Werkausgabe,
Registerband, pp. 417 sgg.
37 G. W. F. Hegel, Vorlesungen ilber die Geschichte der Philosophie, III,
Suhrkamp-Werkausgabe, vol. 20, p. 329 (tr. it., Lezioni sulla storia della filosofia,
Firenze 1944, vol. III, 2, p. 283).
38 G. W. F. Hegel, Grundlinien cit., p. 311 (tr. it. cit., p. 153).
39 lvi, p. 485 (tr. it. cit., p. 391).
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riamo responsabili di quello che facciamo 40 ; d) infine, la filosofia idealistica stessa: Hegel considera come l'opera dell'età
moderna, che la filosofia colga l'Idea che sa se stessa 41 •
Gli eventi storici decisivi per l'attuazione del principio della
soggettività sono la Riforma, l'Illuminismo e la Rivoluzione
francese. Con Lutero la fede religiosa è divenuta riflessiva, il
mondo divino nella solitudine della soggettività si è mutato in
qualcosa di posto da noi 42 • Contro la fede nell'autorità della
predicazione e della tradizione, il protestantesimo afferma l'autorità del soggetto che attinge soltanto al proprio giudizio; l'ostia
è considerata ancora soltanto come un pezzo di pane, la reliquia
ancora soltanto come ossa 43 • In seguito la proclamazione dei
diritti dell'uomo e il Code Napoléon hanno considerato quale
fondamento sostanziale dello Stato il principio della libertà del
volere, contro il diritto storicamente constatato: « Si è ritenuto
che il diritto e l'eticità si fondino sull'attuale terreno della volontà dell'uomo, mentre prima erano imposti esteriormente soltanto come comandamento di Dio, scritto nel Vecchio e nel
Nuovo Testamento, o presente nella forma di diritto particolare
in vecchie pergamene, quali privilegi, o nei trattati» 44•
Il principio della soggettività determina inoltre le configurazioni della cultura moderna. Ciò si applica anzitutto alla scienza
oggettivante, che al contempo disincanta la natura e libera il
soggetto: « Così ci si oppose a tutti i miracoli, giacché la natura
è ormai un sistema di oggetti noti e riconosciuti, l'uomo vi si trova
come in casa propria, e soltanto là dove egli si trova come a casa
propria, è libero tramite la conoscenza della natura» 45 • I concetti
morali dell'età moderna sono improntati al riconoscimento della
libertà soggettiva degli individui: si fondano da un lato sul
diritto del singolo, di considerare valido ciò che egli deve fare;
dall'altro lato sull'esigenza che a ciascuno sia lecito perseguire
gli scopi del bene particolare solo accordandolo con il bene di
tutti gli altri. La volontà soggettiva raggiunge l'autonomia sotto
leggi universali; ma « soltanto nella volontà, in quanto sogget40 G. W. F. Hegel, Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie cit.,
l, p. 493 (tr. it. cit., vol. l, p. 3).
41 lvi, vol. III, p. 458 (tr. it. cit., vol. III, 2, p. 413).
42 G. W. F. Hegel, Vorlesungen uber die Philosophie der Religion, Suhr·
kamp-Werkausgabe, vol. XVI, p. 349 (tr. it., Lezioni sulla filosofia della religione, Bologna 1973, vol. l, p. 205).
43 G. W. F. Hegel, Vor/esungen uber die Philosophie der Geschichte, Suhr·
kamp-Werkausgabe, vol. XII, p. 522 (tr. it., Lezioni sulla filosofia della storia,
Firenze 1963, vol. IV, p, 148).
44 lbid.
45 lbid.
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tiva, può essere reale la libertà o la volontà che è in sé » 46•
L'arte moderna rivela la sua essenza nel Romanticismo; forma
e contenuto dell'arte romantica sono determinati dall'interiorità
assoluta. L'ironia divina, portata al concetto da Friedrich Schlegel, rispecchia l'esperienza che fa di sé un io decentrato, «per
il quale tutti i vincoli sono infranti, e che può vivere soltanto
nella beatitudine del godimento di se stesso » 47 • L'autorealizzazione espressiva diviene il principio di un'arte che si presenta
come forma di vita: «Ma io vivo come artista, secondo questo
principio, quando tutto il mio agire ed esternarmi [ ... ] rimane
per me soltanto un'apparenza, ed assume una forma che è interamente in mio. potere » 48 • La realtà giunge all'espressione artistica solamente nella rifrazione soggettiva dell'anima sentimentale: essa è « un puro apparire tramite l'Io ».
Nella modernità dunque tanto la vita religiosa, lo Stato e la
società, quanto la scienza, la morale e l'arte, si tramutano in
altrettante incarnazioni del principio della soggettività 49 , la cui
struttura viene colta come tale nella filosofia, e cioè come soggettività astratta nel ' Cogito ergo sum' di Descartes, e nella
forma dell'autocoscienza assoluta in Kant. Si tratta della struttura della relazione del soggetto conoscente con se stesso, che si
ripiega su di sé come oggetto, per cogliersi come in un'immagine speculare - appunto, ' speculativamente '. Alla base delle
sue tre Critiche, Kant pone proprio questo principio della filosofia della riflessione: egli insedia la ragione come quel tribunale supremo, dinanzi al quale deve giustificarsi tutto ciò che
eleva in genere una pretesa di validità.
Con l'analisi dei fondamenti della conoscenza, la Critica
della ragion pura affronta il compito di criticare l'abuso della
nostra facoltà conoscitiva, fatta su misura per i fenomeni. Al
posto del concetto sostanziale della ragione, proprio della tradiG. W. F. Hegel, Grundlinien cit., p. 204 (tr. it. cit., p. 105).
G. W. F. Hegel, Vorlesungen iiber die Asthetik, l, Suhrkamp-Werkausgabe, vol. III, p. 95.
48 lvi, p. 94.
49 Cfr. il riassunto nel par. 124 della Rechtsphi/osophie: << [ ... ] il diritto
della libertà soggettiva costituisce il punto critico e centrale della differenza tra
l'antichità e l'età moderna. Questo diritto, nella sua infinità, è stato espresso
nel Cristianesimo e costituito a universale principio reale di un nuovo atteggiamento del mondo. Ai più particolari aspetti di questo, appartengono l'amore, il
principio romantico, il fine dell'eterna beatitudine dell'individuo, ecc. - dipoi
la moralità e la coscienza, oltre le altre forme, le quali, in parte, si presteranno
in seguito come principio della società civile, e come momenti della costituzione politica, ma, in parte, si presentano nella storia in genere, e in particolare
nella storia dell'arte, della scienza e della filosofia>> (Suhrkamp-Werkausgabe,
vol. VII, p. 233 [tr. it. cit., pp. 115 sg.] ).
46
47
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zione metafisica, Kant pone il concetto di una ragione separata
nei suoi mpmenti, la cui unità ha un carattere soltanto formale.
Kant distingue dalla conscenza teoretica le facoltà della ragione
pratica e del giudizio, e colloca ciascuna di esse su fondamenti
propri. La ragione criticante, in quanto fonda la possibilità della
conoscenza oggettiva, del discernimento morale e della valutazione estetica, non soltanto si accerta delle proprie facoltà soggettive - non soltanto rende trasparente l'architettonica della
ragione, ma assume anche il ruolo di un giudice supremo nei
riguardi della cultura nel suo complesso. La filosofia separa l'una
dall'altra le sfere culturali dei valori, come dirà più tardi Emil
Lask, e cioè scienza e tecnica, diritto e morale, arte e critica
d'arte, da punti di vista esclusivamente formali - ed entro tali
limiti le legittima 50 •
Fino al termine del XVIII secolo, scienza, morale ed arte si
erano differenziate a fondo anche istituzionalmente quali ambiti
di attività nei quali venivano trattate in modo autonomo, e cioè
secondo il loro rispettivo aspetto specifico di validità, questioni
di verità, questioni di giustizia e questioni di gusto. E questa
sfera del sapere si era separata nel suo complesso da un lato
dalla sfera della fede, dall'altro lato dai rapporti sociali giuridicamente organizzati, e dalla convivenza quotidiana. In tutto
ciò noi riconosciamo esattamente quelle sfere che poi Hegel concepirà quali manifestazioni del principio della soggettività. La
riflessione trascendentale, in cui il principio della soggettività si
presenta per così dire senza veli, pretende al contempo la competenza giurisdizionale rispetto a quelle sfere; perciò Hegel vede
l'essenza del mondo moderno concentrata, come in un punto
focale, nella filosofia kantiana.
IV
Kant esprime il mondo moderno in un sistema di idee. Ma ciò
significa soltanto che nella filosofia di Kant si riflettono, come
in uno specchio, i tratti essenziali dell'epoca, senza che egli abbia
compreso la modernità come tale. Solo retrospettivamente Hegel
può considerare la filosofia kantiana come l'interpretazione decisiva che la modernità presenta di se stessa; Hegel ritiene però
di riconoscere anche ciò che in questa più riflessa espressione
dell'epoca rimane tuttavia incompreso: Kant non sente come
50 l. Kant, Kritik der reinen Vernun/t, B 779 (tr. it., Roma-Bari 19858, p. 577).
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scissioni le differenziazioni entro la ragione, le articolazioni formali all'interno della cultura, e in genere la divisione di quelle
sfere. Perciò Kant ignora il bisogno che nasce con le separazioni
strappate dal principio della soggettività. Questo bisogno si impone alla filosofia non appena la modernità si concepisce come
un'epoca storica, ossia non appena essa diviene consapevole del
suo distacco da passati esemplari e della necessità di attingere
da se stessa tutto ciò che è normativa, come un problema storico. Allora infatti si pone il problema se il principio della soggettività, e la struttura dell'autocoscienza ad essa immanente,
siano sufficienti quale fonte di orientamenti normativi - se
bastino non soltanto a ' fondare ' scienza, morale ed arte in genere, bensì anche a render stabile una formazione storica che si
è affrancata da tutti gli obblighi storici. Ora la questione è se
dalla soggettività e dall'autocoscienza si possano acquisire criteri che siano desunti dal mondo moderno e al contempo siano
adatti per orientarsi in esso; il che però vuoi anche dire: per
criticare una modernità che non è in pace con se stessa. Come
è possibile costruire dallo spirito della modernità un'interna
figura ideale, che non si limiti a riprodurre le molteplici forme
fenomeniche della modernità stessa, né le venga semplicemente
proposta dall'esterno?
Quando la questione viene posta in questi termini, la soggettività dimostra di essere un principio unilaterale. Questo principio possiede bensì l'impareggiabile forza occorrente per produrre una formazione della libertà soggettiva e della riflessione,
e per scalzare la religione, che fino ad allora si era presentata
come la potenza unificatrice per eccellenza. Ma questo stesso
principio non è abbastanza efficace per rigenerare la potenza religiosa dell'unificazione nel medium della ragione. L'orgogliosa
cultura illuministica della riflessione si è ' separata ' dalla religione, « ponendosela accanto o ponendosi accanto ad essa » 51 •
Il discredito della religione conduce ad una scissione tra fede e
sapere, che l'Illuminismo non può superare con le proprie forze.
Perciò nella Fenomenologia dello spirito esso si presenta sotto il
titolo di un « mondo dello spirito a sé estraniato » 52 : « Quanto
più prospera la cultura, quanto più molteplice diviene lo sviluppo delle manifestazioni della vita, nel quale può inserirsi la
scissione [ ... ], tanto più estranei al tutto della cultura e privi
G. W. F. Hegel, Differenz cit., Suhrkamp-Werkausgabe, vol. Il, p. 23.
G. W. F. Hegel, Phiinomenologie des Geistes cit., pp. 362 sgg. (tr. it. cit.,
vol. Il, pp. 42 sgg.).
51
52
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di significato divengono quegli sforzi della vita (un tempo elevati a religione) per rigenerarsi nell'armonia» 53 •
Questa frase proviene da uno scritto polemico contro Reinhold, il cosiddetto scritto sulla differenza del1801, nel quale Hegel
concepisce l'armonia lacerata del vivere come la sfida pratica
e il bisogno della filosofia 54 • La circostanza che la coscienza del
tempo è uscita dalla totalità, e che lo spirito si è estraniato da
se stesso, è per lui addirittura un presupposto del filosofare contemporaneo. Un altro presupposto in base al quale soltanto la
filosofia può riprendere il suo mestiere, è per Hegel quel concetto dell'Assoluto, che in un primo momento egli aveva desunto
da Schelling. Con tale concetto la filosofia può assicurarsi in
anticipo lo scopo di dimostrare che la ragione è la potenza dell'unificazione. La ragione deve appunto superare quello stato di
scissione, nel quale il principio della soggettività aveva precipitato tanto la ragione stessa quanto « l'intero sistema dei rapporti di vita ». Con la sua critica, che si rivolge direttamente
contro i sistemi filosofici di Kant e di Fichte, Hegel vuole al
contempo colpire quell'autocomprensione della modernità che
in essi si esprime. Criticando le contrapposizioni filosofiche
tra natura e spirito, sensibilità e intelletto, intelletto e ragione, ragione teoretica e ragione pratica, facoltà di giudicare
e immaginazione, io e non-io, finito e infinito, fede e sapere,
Hegel vuole rispondere alla crisi della scissione della vita stessa.
Altrimenti la critica filosofica non potrebbe sperare di soddisfare
il bisogno dal quale essa viene oggettivamente suscitata. La
critica dell'idealismo soggettivo è al contempo critica di una
modernità che solo per questa via può rendersi conto del proprio concetto, e quindi rendersi stabile di per se stessa. Ma la
critica non può e non deve servirsi di altro strumento che di
quella riflessione, che essa trova come la p_iù pura espressione
del principio dell'età moderna 55 • Se infatti la modernità deve fondarsi di per se stessa, Hegel è obbligato a svolgere il concetto
critico della modernità da una dialettica immanente allo stesso
principio dell'Illuminismo.
Vedremo in seguito come Hegel realizzerà questo program53 G. W. F. Hegel, Di[ferenz
54 « Quando dalla vita degli
cit., pp. 22 sgg.
uomini scompare la potenza dell'unificazione,
e gli opposti hanno perso la loro vivente relazione e azione reciproca, e acquistano l'indipendenza, sorge il bisogno della filosofia. t perciò un'accidentalità,
ma nella scissione data è il tentativo necessario di superare la soggettività e
l'oggettività solidificate, e di concepire l'esser divenuto del mondo intellettuale
e del mondo reale come un divenire >> (ivi, p, 22).
55 lvi, pp. 25 sgg.
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ma, e come vi si impiglierà in un dilemma. Dopo aver introdotto la dialettica dell'Illuminismo, l'impulso alla critica del
tempo, che solo l'ha messa in moto, si sarà infatti esaurito. Si
dovrà dapprima mostrare che cosa si nasconde in quel ' vestibolo
della filosofia', nel quale Hegel colloca 'i presupposti dell'Assoluto '. I motivi della filosofia dell'unificazione risalgono alle esperienze di crisi del giovane Hegel, che si celano dietro la convinzione secondo cui la ragione deve essere impiegata come
potenza riconciliatrice contro le positività di un'epoca dilaniata.
La versione mitopoetica di una riconciliazione della modernità,
che in un primo tempo Hegel condivide con Holderlin e con
Schelling, resta tuttavia ancora vincolata ai passati esemplari del
cristianesimo primitivo e dell'antichità. Solamente nel corso del
periodo di Jena Hegel si procura, con il concetto che gli è proprio del sapere assoluto, una posizione che gli consente di andare
al di là dei prodotti dell'Illuminismo - arte romantica, religione
della ragione e società borghese - senza orientarsi verso modelli
estranei. Ma con questo concetto dell'Assoluto Hegel ricade
dietro le intuizioni della sua giovinezza: egli pensa l'oltrepassamento della soggettività entro i limiti della filosofia del soggetto. Ne risulta il dilemma, che alla fine egli deve contestare
all'autocomprensione della modernità la possibilità di sottoporre
ad una critica la modernità stessa. La critica alla soggettività
dilatata a potenza assoluta si rovescia ironicamente nel rimprovero rivolto dal filosofo alla limitatezza di quei soggetti, che
non hanno ancora compreso né lui né l'andamento della storia.
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2.
IL CONCETTO HEGELIANO
DELLA MODERNIT A
I
Hegel, quando nel 1802 tratta i sistemi di Kant, di Jacobi e di
Fichte sotto l'aspetto della contrapposizione tra fede e sapere per
far saltare dall'interno la filosofia della soggettività, non procede
però in modo rigorosamente immanente. Si fonda qui tacitamente sulla sua diagnosi dell'età illuministica; soltanto tale diagnosi lo autorizza a porre i presupposti dell'Assoluto - cioè ad
impiegare la ragione (a differenza dalla filosofia della riflessione)
come potenza dell'unificazione:
La cultura ha talmente elevato l'ultimo periodo (!) al di sopra
del vecchio contrasto tra la filosofia e la religione positiva, che
questa contrapposizione di fede e sapere [ ... ] è stata trasferita
all'interno della filosofia stessa [ ... ] La questione è però se la ragione vincitrice non abbia fatto l'esperienza di quel destino, che
la forza vittoriosa delle nazioni barbariche suole subire nei riguardi
della debolezza delle nazioni colte, di mantenere cioè il sopravvento nel dominio esteriore, ma di soccombere al vinto nello spirito. La vittoria gloriosa che la ragione illuminatrice ha riportato
su ciò che essa, in base al limitato criterio della sua comprensione
religiosa, considerava _a sé contrapposto come fede, non è, a pensarci bene, nient'altro che questo: che né il positivo contro cui
essa aveva combattuto era religione, né che essa stessa, che ha
vinto, è rimasta ragione 1 •
Hegel è convinto che l'età dell'Illuminismo, culminante in
Kant e in Fichte, abbia creato nella ragione soltanto un idolo;
essa ha collocato erroneamente l'intelletto o la riflessione al
l
G. W. F. Hegel, Glauben und Wissen, in Werke cit., vol. Il, pp. 287 sgg.
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posto della ragione, e quindi ha elevato un finito ad assoluto.
L'infinito della filosofia della riflessione non è in realtà altro
che un qualcosa di razionale posto soltanto dall'intelletto, che
si esaurisce nella negazione del finito: « L'intelletto, in quanto
lo fissa [l'infinito], lo contrappone assolutamente al finito, e la
riflessione, che si era elevata a ragione, avendo superato il finito,
si è nuovamente abbassata ad intelletto, in quanto fissava il fare
della ragione nella contrapposizione; e per di più ora avanza
la pretesa di essere razionale anche in questa ricaduta» 2 • Come
certamente dimostra il discorso sbrigativo sulla ' ricaduta ', qui
Hegel insinua dò che cerca di dimostrare: dovrebbe prima
mostrare, e non semplicemente presupporre, che una ragione la
quale sia qualcosa di più che un intelletto assolutizzato, può
riunificare coattivamente quegli opposti che pure la ragione deve
scomporre discorsivamente. Ciò che Hegel esalta come presupposto di una potenza assoluta dell'unificazione, è poi costituito
non tanto da argomenti, quanto piuttosto da esperienze biografiche - cioè da quelle esperienze delle crisi contemporanee, che
egli aveva acquisito e assimilato a Tubinga, Berna e Francoforte,
per portarsele poi con sé a Jena.
Come è noto, il giovane Hegel e i suoi coetanei del Tilbinger
Stift parteggiavano per i movimenti di liberazione del loro
tempo. Vivevano direttamente nel mezzo delle tensioni dell' Illuminismo religioso, e discussero soprattutto con l'ortodossia protestante rappresentata dal teologo Gottlieb Christian Storr. Si
orientavano filosoficamente verso la filosofia kantiana della morale e della religione, e politicamente verso le idee diffuse dalla
Rivoluzione francese. L'organizzazione rigidamente regolata della vita nello Stift ebbe inoltre una funzione scatenante: « La
teologia di Storr, il regolamento dello Stift e la costituzione
dello Stato, che garantiva ad entrambi la sua protezione, sembravano alla maggior parte (degli Stiftler) che valessero bene una
rivoluzione » 3 • Nel quadro degli studi teologici che Hegel e
Schelling hanno allora praticato, questo impulso ribelle assume
la forma più moderata di un ricollegamento riformistico al cristianesimo originario. L'intenzione che essi attribuiscono a Gesù
- cioè di « introdurre la moralità nella religiosità della sua
nazione » 4 - è la loro propria intenzione. Si volgono quindi
2 G. W. F. Hegel, Di[Jerenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der
Philosophie, in Werke cit., vol. II, p. 21.
3 D. Henrich, Historische Voraussetzungen von Hegels System, in Hege/ im
Kontext, Frankfurt a. M. 1971, p. 55.
4 G. W. F. Hegel, Die Positivitiit der christlichen Re/igion, in Werke cit.,
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tanto contro il partito dell'Illuminismo quanto contro quello dell'ortodossia 5 • Entrambe le parti si servono degli strumenti storico-critici dell'esegesi biblica, anche se perseguono obiettivi
opposti - cioè quello di giustificare la religione della ragione,
come si chiama da Lessing in poi, oppure quello di difendere
contro di essa la rigorosa ortodossia luterana. L'ortodossia si
era messa sulla difensiva e doveva servirsi del metodo critico
dei suoi avversari.
La posizione di Hegel si trova a mezza strada fra questi
due fronti. Con Kant, Hegel considera la religione come « la
potenza capace di attuare e di far valere i diritti che la ragione
ha concesso » 6 • Ma l'idea di Dio può raggiungere una tale potenza solo quando la religione compenetra lo spirito e i costumi
di un popolo, quando è presente nelle istituzioni dello Stato e
nella prassi della società, quando rende sensibili il modo di pensare e gli impulsi degli uomini ai precetti della ragion pratica
e si imprime nell'animo. Soltanto come elemento della vita pubblica la religione può conferire efficacia pratica alla ragione.
Hegel si ispira a Rousseau, quando per l'autentica religione
popolare fissa tre esigenze: « I. Le sue dottrine devono essere
fondate sulla: ragione universale. Il. Fantasia, cuore e sensibilità
non ne devono risultare vuote. III. Essa deve essere tale, che
vi siano inclusi tutti i bisogni della vita, e le azioni pubbliche
della vita statale » 7 • Sono evidenti anche le risonanze del culto
della ragione dei giorni della Rivoluzione francese. In base a
queste vedute si spiega la duplice direzione d'urto degli scritti
teologici giovanili, contro l'ortodossia e contro la religione razionale, che si presentano entrambe come prodotti complementari
vol. l, p, 107 (tr. it., La positività della religione cristiana, in Scritti teologici
giovanili, Napoli 1972, p. 236).
5 Hegel vi allude con la seguente osservazione: « Il genere di trattazione
della religione cristiana che ora è in voga pone a base della propria dimostrazione la ragione e la moralità, e chiama in aiuto, allo scopo di darne una spiegazione, lo spirito delle nazioni e dei tempi. Un gruppo di nostri contemporanei, degni di molto rispetto per sapere, chiarezza di ragionamento e bontà di
intenzioni, considera questo genere di trattazione una benefica illuminazione che
guida l'umanità verso la sua meta: verità e virtù. Ma altre persone, ugualmente rispettabili per dottrina e bontà d'intenzioni, con in più l'appoggio del
pubblico potere e di una tradizione secolare, denunciano questo tipo di trattazione come un'aperta degenerazione>>, Hegel, Die Positivitiit cit., in Werke cit.,
p. 104 (tr. it. cit., p. 233, modificata). Cfr. inoltre D. Henrich, op. cit., pp. 52 sgg.
6 G. W. F. Hegel, Fragmente uber Volksreligion und Christentum, in Werke
ci t., p. 103 (tr. it., Abbozzi, nell'Appendice agli Scritti teologici giovanili cit.,
p. 511, modificata).
7 lvi, p. 33 (tr. it., Religione popolare e Cristianesimo. Frammenti, in Scritti
teologici giovanili cit., p. 50, modificata).
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e unilateralizzati di una dinamica illuministica, che d'altronde
tende ad uscir fuori dai limiti dell'Illuminismo.
Un positivismo dell'eticità, così sembra al giovane Hegel, è
il segno che contraddistingue l'epoca. Hegel definisce ' positive '
quelle religioni che si fondano unicamente sull'autorità e non
pongono il valore dell'uomo nella sua moralità 8 ; positive sono
quelle prescrizioni, secondo le quali i credenti dovrebbero potersi guadagnare la benevolenza di Dio mediante le opere invece
che mediante l'agire morale; positiva è la speranza in una ricompensa nell'aldilà, positiva è la separazione di una dottrina nelle
mani di alcuni dalla vita e dal possesso di tutti; positivo è il
distacco del sapere sacerdotale dalla credenza feticistica delle
masse, ed anche la via traversa che deve condurre all'eticità
soltanto passando per l'autorità e le azioni miracolose di una
sola persona; positive sono le assicurazioni e le minacce, che
mirano alla mera legalità dell'azione; positiva infine e soprattutto è la separazione della religione privata dalla vita pubblica.
Se tutto ciò contraddistingue la fede positiva difesa dal partito ortodosso, il partito filosofico dovrebbe avere gioco facile.
Esso insiste appunto sul principio che la religione come tale non
ha in sé nulla di positivo, ma viene autorizzata dall'universale
ragione dell'uomo, in modo tale che « ogni uomo senta e penetri il suo carattere obbligatorio, quando vi fa attenzione» 9 • Hegel
però contesta agli illuministi che la pura religione razionale rappresenta un'astrazione, non meno che la credenza feticistica;
essa è infatti incapace di interessare il cuore e di esercitare un
influsso sui sentimenti e sui bisogni. Anch'essa porta solo ad un
altro tipo di religione privata, perché è isolata dalle istituzioni
della vita pubblica e non suscita nessun entusiasmo. Solamente
se la religione della ragione si manifestasse pubblicamente in
feste e culti, se si congiungesse con dei miti, se si rivolgesse al
cuore e alla fantasia, la morale, mediata dalla religione, potrebbe
« intessersi nel contesto globale dello stato » 10 • La ragione assume forma oggettiva nella religione solo nelle condizioni della
libertà politica: la « religione popolare, che produce e nutre
grandi disposizioni d'animo, procede di pari passo con la libertà » 11 •
Perciò l'Illuminismo non è che l'altro lato dell'ortodossia.
8 lvi, p. 10 (tr. it. cit., p. 32). Il giovane Hegel usa ancora come sinonimi
le espressioni ' morale ' (M ora l) ed ' eticità ' (Sittlichkeit).
9 lvi, p. 33 (tr. it. cit., p. 31, modificata).
10 lvi, p, 77 (da un frammento che manca nella traduzione italiana citata).
11 lvi, p, 41 (tr. it. cit., p. 58, modificata).
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Come questa insiste sulla positività delle dottrine, così quello
insiste sull'oggettività dei comandamenti della ragione; entrambi
utilizzano lo stesso mezzo della critica biblica, entrambi consolidano lo stato della scissione, e sono egualmente incapaci di
fare della religione la totalità etica di un intero popolo e di
ispirare una vita alla libertà politica. La religione della ragione
prende le mosse, come quella positiva, da uno stato di contrapposizione: «da un qualcosa che noi non siamo, e che dobbiamo
essere » 12 •
Hegel critica lo stesso tipo di scissione anche nei rapporti
politici e nelle istituzioni statali del suo tempo - anzitutto a
proposito del dominio esercitato dal governo cittadino di Berna
sul Vaud, dello statuto comunale del Wtirttenberg e della costituzione del Reich tedesco 13 • Come lo spirito vivente del primo
cristianesimo si è dileguato dalla religione divenuta positiva dell'ortodossia contemporanea, così anche nella politica « le leggi
hanno perduto la loro antica vita, la vitalità presente non ha
saputo comporsi in leggi» 14 • Le forme giuridiche e politiche
irrigidite in positività sono divenute un potere estraneo. In questi anni intorno al 1800 Hegel accusa tanto la religione quanto
lo stato di essersi ridotti a qualcosa di puramente meccanico,
ad un ingranaggio, ad una macchina 15 •
Questi sono dunque i motivi contemporanei che inducono
Hegel a delineare la ragione a priori come una potenza che non
soltanto differenzia e infrange, ma anche riunifica di nuovo. Il
12 G. W. F. Hegel, Entwi1rfe i1ber Religion und Liebe, in Werke cit., vol. l,
p. 254 (tr. it., Abbozzo n. 11, Fede ed essere, in Appendice a Scritti teologici
giovanili cit., p. 534).
13 Sugli scritti politici del giovane Hegel, cfr. Werke cit., vol. l, pp. 255
sgg., 268 sgg., 428 sgg., 451 sgg. - Indubbiamente in questi scritti politici
manca ancora il pendant della critica all'Illuminismo, che com'è noto Hegel
ricupera nella Fenomenologia dello spirito, sotto il titolo La libertà assoluta e
il terrore. Anche qui essa si rivolge contro un partito filosofico che viene incontro con richieste astratte ad un vecchio regime che si trincera dietro la sua
positività. D'altra parte negli scritti politici l'esperienza delle crisi trova un'espressione ancor più eloquente, e in ogni caso più immediata, che non negli
scritti teologici. Hegel evoca addirittura la necessità del tempo, il sentimento
della contraddizione, il bisogno di cambiamento, l'impulso a infrangere i limiti:
<< L'immagine di tempi migliori, più giusti è divenuta viva nell'anima degli uomini, e un ardente desiderio, un anelito ad una condizione più pura e più libera
ha commosso tutti gli animi e ha rotto con la realtà» (Hegel, Werke cit., vol. l,
pp. 268 sgg.). Cfr. anche il mio Poscritto a G. W. F. Hegel, Politischen Schrijten,
Frankfurt a. M. 1966, pp. 343 sgg.
14 G. W. F. Hegel, Die Verfassung Deutschlands, in Werke cit., vol. l, p. 465
(tr. it., La costituzione della Germania, in Scritti politici (1798-1806), Bari 1961,
p. 15, modificata).
15 G. W. F. Hegel, Die Positivitiit cit., Neujassung des Anfangs, in Werke
cit., vol. l, p. 219 (tr. it., La positività cit., p. 221).
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principio della soggettività produce, nel conflitto fra ortodossia
e Illuminismo, una positività che provoca in ogni caso il bisogno oggettivo di superarlo. Ma prima di poter realizzare questa
dialettica dell'Illuminismo, Hegel deve mostrare come si possa
spiegare il superamento della positività in base allo stesso principio da cui pure essa dipende.
II
Nei suoi scritti giovanili Hegel opera con la forza riconciliante
di una ragione che non si può dedurre direttamente dalla soggettività.
Egli sottolinea il lato autoritario dell'autocoscienza ogni volta
che ha in mente la scissione operata dalla riflessione. I fenomeni
moderni del ' positivo ' smascherano il principio della soggettività come un principio del dominio. Così la positività della
religione contemporanea, al contempo sfidata e consolidata dall' Illuminismo, e in genere il positivismo dell'etico caratterizzano
la 'necessità del tempo'; e «nella necessità o l'uomo vien fatto
oggetto ed è oppresso, oppure deve fare della natura un oggetto
ed opprimerla » 16 • Questo carattere repressivo della ragione è
fondato in generale nella struttura dell'autorelazione, cioè della
relazione di un soggetto che si fa oggetto. Senza dubbio già il
cristianesimo aveva eliminato una parte della positività della
fede ebraica, e il protestantesimo una parte della positività della
fede cattolica; ma anche nella filosofia kantiana della morale e
della religione ritorna ancora una positività - e questa volta
come l'elemento esplicito della stessa ragione. In questo contesto
Hegel non vede il divario fra il ' selvaggio mogulo ', assoggettato
ad un cieco dominio, e il ragionevole figlio della modernità,
obbediente soltanto al suo dovere, nella differenza tra servitù e
libertà, bensì nel solo fatto che
quello ha il suo signore fuori di se stesso, mentre questo lo porta
in sé, essendone sempre servo: per il particolare (impulsi, inclinazioni, amore patologico, sensibilità o come altro si voglia chiamare),
l'universale è sempre necessariamente un elemento estraneo e oggettivo; vi rimane un'indistruttibile positività, che alla fine suscita ribellione per il fatto che il contenuto racchiuso nell'imperativo, un
16 G. W. F. Hegel, Der Geist des Christentums und sein Schicksal, in Werke
cit., vol. I, p. 318 (tr. it., Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, in Scritti
teologici giovanili cit., p. 374).
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dovere specifico, contiene in sé la contraddizione di essere limitato
e al contempo universale, e, sulla base della forma dell'universalità, avanza le più rigide pretese per la sua unilateralità 17 •
Nello stesso saggio su Lo spirito del Cristianesimo e il suo
destino, Hegel fa propria la concezione di una ragione riconciliante, che annulla il positivo non soltanto in apparenza. Come
questa ragione si faccia sentire dai soggetti quale potenza dell'unificazione, egli lo spiega ad esempio in base al modello della
pena riconosciuta come destino 18 • Ora Hegel definisce 'etica',
distinguendola da ' morale ', una condizione sociale in cui tutti
i membri ottengono giustizia e soddisfano i loro bisogni, senza
ledere gli interessi altrui. Ma un delinquente che turba questi
rapporti etici danneggiando e opprimendo un'altra vita, riconosce come un destino ostile la potenza della vitSt che il suo atto
ha estraniato. Egli deve sentire come la necessità storica di un
destino ciò che in realtà è soltanto la violenza reattiva della
vita rimossa e separata. Essa fa soffrire il colpevole, fino a
quando nell'annientamento della vita altrui egli riconosca l'imperfezione della propria, e nel distacco dalla vita altrui l'estraneazione da se stesso. In questa causalità del destino perviene
alla coscienza il nesso lacerato della totalità etica. La totalità
scissa può essere riconciliata solamente quando dall'esperienza
della negatività della vita scissa riemerge il desiderio per la vita
perduta - e quando esso costringe gli interessati a riconoscere
nuovamente nell'altrui esistenza separata la propria natura rinnegata. Allora entrambe le parti comprendono che le loro reciproche posizioni irrigidite sono il risultato del distacco, dell'astrazione dal loro comune contesto di vita - e riconoscono
in tale contesto il fondamento della loro esistenza.
Hegel dunque contrappone alle astratte leggi della morale
la ben diversa legalità di un concreto contesto di colpa, che si
attua tramite la scissione di una totalità etica presupposta. Ma
quel processo intentato al giusto destino non si può derivare,
come le leggi della ragion pratica, dal principio della soggettività per il tramite del concetto di volontà autonoma. La dinamica del destino risulta piuttosto dalla perturbazione delle condizioni di simmetria e delle reciproche relazioni di riconoscimento di un contesto di vita costituito intersoggettivamente, dal
quale una delle parti si isola e di conseguenza anche tutte le
17
18
lvi, p. 323 (tr. it. cit., p. 378, modificata).
lvi, pp. 342 sgg. (tr. it. cit., pp. 393 sgg.).
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altre si estraneano da sé e dalla loro vita comune. Soltanto questo atto della lacerazione di un mondo della vita intersoggettivamente condiviso produce una relazione soggetto-oggetto; che
viene introdotta come un elemento estraneo, e in ogni caso soltanto in seguito, in rapporti che fin da principio obbediscono
alla struttura di un'intesa fra soggetti, e non già alla logica dell'aggettivazione da parte di un soggetto. Con ciò anche il 'positivo ' assume un altro significato. L'assolutizzazione di un condizionato a incondizionato non è più ricondotta ad una soggettività
dilatata, che avanza pretese eccessive, bensì alla soggettività
estraniata, che si è distaccata dalla vita comune. E la repressione
che ne risulta risale al perturbamentb di un equilibrio intersoggettivo, piuttosto che al soggiogamento di un soggetto che si è
fatto oggetto.
Hegel non può ricavare l'aspetto della riconciliazione, cioè
della ricomposizione della totalità lacerata, dalla stessa autocoscienza o dalla relazione riflessiva del soggetto conoscente con
se stesso. Ma quando ricorre all'intersoggett1vità dei rapporti
di intesa, si lascia sfuggire l'obiettivo, essenziale per l'autofondazione della modernità, di pensare il positivo in modo tale che
possa essere superato da quello stesso principio dal quale procede - vale a dire dalla soggettività.
Questo risultato non è poi tanto sorprendente, se si riflette
che il giovane Hegel spiega il coagularsi dei rapporti vitali in
positività tramite la corrispondenza del suo presente con l'età
della decadenza ellenistica. Egli rispecchia il suo presente in
un'epoca di disgregazione dei modelli classici. In vista della
fatale riconciliazione della modernità decaduta, egli presuppone
perciò una totalità etica, che non è cresciuta sul terreno della
stessa modernità, bensì è mutuata dal passato idealizzato della
religiosità comunitaria protocristiana e della polis greca.
Contro le incarnazioni autoritarie della ragione centrata nel
soggetto, Hegel fa appello al potere unificatore di un'intersoggettività, che si presenta sotto il nome di 'amore' o di 'vita'.
Il posto della relazione riflessiva fra soggetto e oggetto è assunto
da una mediazione comunicativa (nel senso più ampio del termine) dei soggetti fra di loro. Lo spirito vivente è il medium
che fonda una comunanza tale che· un soggetto può sapersi una
cosa sola con un altro soggetto, e tuttavia rimanere se stesso.
L'isolamento dei soggetti mette allora in moto la dinamica di
una comunicazione distorta, alla quale è però immanente quale
telos il ristabilimento del rapporto etico. Questa tendenza del
pensiero avrebbe potuto avviare ad una ripresa e trasformazione
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del concetto di riflessione, sviluppato nella filosofia del soggetto,
nel senso di una teoria della comunicazione. Hegel non ha battuto questa strada 19 • Fino allora infatti egli aveva sviluppato
l'idea della totalità etica soltanto in base al filo conduttore dell'idea d'una religione popolare, nella quale la ragione comunicativa assumeva la forma idealizzata di comunità storiche, quale
ad esempio la comunità protocristiana e la polis greca. Come
religione popolare, essa è intrecciata non solo a scopo illustrativo, bensì in modo indissolubile con i tratti ideali di queste
epoche classiche.
Ma ora l'età moderna aveva conquistato la propria autocoscienza attraverso una riflessione che vietava il ricorso sistematico a tali passati esemplari. Come si poteva ricavare dalla
controversia fra Jacobi e Kant, e dalla reazione di Fichte, il
contrasto tra fede e sapere era stato spostato nella stessa filosofia. Hegel incomincia il suo saggio su tale argomento appunto
con questa considerazione, che lo costringe ad abbandonare
l'idea secondo cui la religione positiva e la ragione si possono
riconciliare fra loro mediante un rinnovamento riformatore dello
spirito protocristiano. Nello stesso periodo Hegel si familiarizza
con l'economia politica. Anche qui egli deve rendersi conto del
fatto che gli scambi economici capitalistici hanno dato origine
ad una società moderna, che sotto il nome tradizionale di ' società civile ' (biirgerliche Gesellschaft) rappresenta una realtà
completamente nuova, non paragonabile alle forme classiche
della societas civilis o della polis. Nonostante taluni elementi di
continuità con la tradizione del diritto romano, Hegel non può
più addurre la condizione sociale del decadente Impero romano
a paragone con i rapporti giuridici privati della moderna società
civile. Di conseguenza anche il termine di confronto in base al
quale soltanto il tardo Impero romano poteva essere considerato
come un periodo di decadenza, e cioè la tanto celebrata libertà
politica della città-stato ateniese, perde il carattere di un modello
per l'età moderna. In breve: un'eticità della polis e del cristianesimo primitivo, per quanto così efficacemente interpretata, non
poteva più fornire quel criterio, che una modernità in sé scissa
potrebbe fare proprio.
Questa può essere la ragione per cui Hegel non ha più se19 Prescindo qui dalla fenenser Realphilosophie, nella quale le impostazioni
basate sulla teoria dell'intersoggettività degli scritti giovanili hanno lasciato le
loro tracce. Cfr. J. Habermas, Arbeit und Interaktion, in Technik und Wissenschajt als 'Ideologie', Frankfurt a. M. 1968, pp. 9 sgg. (tr. it., Lavoro e interazione, Milano 1975).
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guito le tracce di una ragione comunicativa, che sono chiaramente indicate nei suoi scritti giovanili, e nel periodo di Jena
ha sviluppato invece un concetto dell'Assoluto, che entro i limiti
della filosofia del soggetto co'nsentiva di staccarsi dai modelli
cristiani e antichi - certo al prezzo di un ulteriore dilemma.
III
Prima di tracciare la sofuzione filosofica che Hegel può offrire
all'autofondazione della modernità, è opportuno gettare uno
sguardo retrospettivo a quel più antico programma di sistema,
che ci è pervenuto in un manoscritto di Hegel e che riproduce
la convinzione comune agli amici Holderlin, Schelling ed Hegel,
riuniti a Francoforte 20 • Qui infatti viene messo in gioco un altro
elemento: l'arte quale potenza che indica la riconciliazione futura. La religione della ragione deve affidarsi all'arte, per poter
assumere la forma della religione popolare. Il monoteismo della
ragione e del cuore deve collegarsi al politeismo della fantasia,
e creare una mitologia al servizio delle idee. « Prima che noi
rendiamo estetiche, cioè mitologiche, le idee, esse non presentano alcun interesse per il popolo; e all'inverso, prima che la
mitologia sia razionale, il filosofo deve vergognarsi di essa» 21 •
La totalità etica, che non reprime nessuna forza e rende possibile l'eguale formazione di tutte le forze, sarà ispirata da una
religione fondata poeticamente. La sensibilità di questa mito'Poesia può allora coinvolgere in egual misura il popolo e i
filosofi 22 •
Questo programma ricorda le idee espresse da Schiller nel
1795 sull'educazione estetica dell'uomo 23 ; guida Schelling nell'elaborazione del suo Sistema dell'idealismo trascendentale del
1800; e anima fino alla fine il pensiero di Holderlin 24 • Hegel
invece incomincia ben presto a dubitare dell'utopia estetica.
Nello scritto del 1801 sulla Difjer{!nza, non le concede più alcuna possibilità, perché nella formazione dello spirito estraniato
20 G. W. F. Hegel, Das ii/teste Systemprogramm, a cura di R. Bubner, Bonn
1973; sull'origine del manoscritto, cfr. i contributi a: Chr. Jamme ·H. Schneider
(a cura di), Mytho/ogie der Vernunjt, Frankfurt a. M. 1984.
21 lvi, vol. l, p. 236.
22 << Cosi alla fine gli illuminati e i non illuminati devono porgersi la mano,
la mitologia deve divenire filosofica e il popolo ragionevole, e la filosofia deve
divenire mitologica per render sensibili i filosofi » (ibid.).
23 Cfr., injra, l'excursus, pp. 46 sgg.
24 D. Henrich, op. cit., pp. 61 sgg.
33
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a se stesso non può più destare attenzione « la più profonda e
seria relazione con l'arte vivente» 25 • A Jena, per così dire sotto
gli occhi di Hegel, nasce la poesia del protoromanticismo. Hegel
riconosce immediatamente che l'arte romantica è congeniale allo
spirito del tempo - nel suo soggettivismo si esprime lo spirito
della modernità. Ma in quanto poesia della scissione essa non
ha la vocazione di 'maestra dell'umanità'; non spiana la strada
a quella religione dell'arte, che Hegel aveva evocato a Francoforte, insieme con Holderlin e Schelling. La filosofia non può
subordinarsi all'arte. La filosofia stessa deve piuttosto concepirsi
come quel luogo in cui la ragione fa la sua comparsa come
potenza assoluta dell'unificazione. E dal momento che essa in
Kant e in Fichte ha assunto la forma della filosofia della riflessione, Hegel deve tentare, dapprima ancora sulle orme di Schelling, di sviluppare dall'impianto della filosofia della riflessione,
cioè dall'autorelazione del soggetto con se stesso, un concetto di
ragione, col quale poter assimilare le proprie esperienze delle
crisi e realizzare la critica della modernità lacerata.
Hegel vuole portare al concetto l'intuizione della sua giovinezza, secondo cui nel mondo moderno l'emancipazione deve
necessariamente mutarsi in illibertà, perché la forza liberatrice
della riflessione si è autonomizzata e realizza l'unificazione ancora soltanto tramite la violenza di una soggettività soggiogante. Il
mondo moderno soffre di false identità, perché, nella quotidianità come nella filosofia, pone di volta in volta come assoluto
un condizionato. Alle positività della fede e delle istituzioni politiche, e in genere dell'eticità lacerata, corrisponde il dogmatismo
della filosofia kantiana, che assolutizza l'autocoscienza dell'uomo
ragionevole, la quale mantiene con la molteplicità di un mondo
in rovina « un rapporto oggettivo, e conserva stabilità, sostanzialità, pluralità e perfino realtà e possibilità, - una determinatezza oggettiva, cui l'uomo dà un'occhiata e che getta via» 26 •
E ciò che è valido per l'unità del soggettivo e dell'oggettivo nella
conoscenza, è altrettanto valido per l'identità del finito e dell'infinito, del singolo e dell'universale, della libertà e della necessità
nella religione, nello stato e nella moralità; tutte queste sono
identità false - « l'unificazione è violenta, l'uno riceve l'altro
sotto di sé [ ... ], l'identità, che dovrebbe essere assoluta, è incompleta » Z1.
25
26
Z1
G. W. F. Hegel, Differenz cit., in Werke cit., vol. Il, p. 23.
G. W. F. Hegel, Glauben und Wissen cit., in Werke cit., vol. Il, p. 309.
G. W. F. Hegel, Difjerenz cit., in Werke cit., vol. Il, p. 28.
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L'esigenza di un'identità non coatta, il bisogno di un'unificazione diversa da quella puramente positiva, fissata in rapporti
di violenza, sono attestati in Hegel, come si è visto, da vissute
esperienze di crisi. Ma se la vera identità deve a sua volta essere
sviluppata partendo dall'impianto della filosofia della riflessione,
allora la ragione deve essere pensata come l'autorelazione di un
soggetto, ma anche come una riflessione che non si impone semplicemente ad un altro come la potenza assoluta della soggettività, bensì al contempo ha la sua ragion d'essere e il suo
movimento soltanto nel contrastare tutte le assolutizzazioni, cioè
nell'eliminare tutto quel positivo che lo produce. Al posto dell'astratta contrapposizione di finito e infinito Hegel pone perciò
l'assoluta autorelazione di un soggetto che dalla sua sostanza
perviene alla sua autocoscienza, e che porta in sé tanto l'unità
quanto la differenza del finito e dell'infinito. A differenza di Holderlin e di Schelling, questo soggetto assoluto non deve precedere, come essere o come intuizione intellettuale, il processo
cosmico, ma deve consistere unicamente nel processo della relazione tra finito e infinito, e quindi nella struggente attività dello
stesso pervenire a sé. L'assoluto non è concepito né come sostanza né come soggetto, bensì unicamente come il processo mediatore dell'autorelazione che si produce incondizionatamente 28 •
Questa figura concettuale, peculiare ad Hegel, usa il mezzo
della filosofia del soggetto per il fine di un superamento della
ragione centrata nel soggetto. In tal modo Hegel può convincere
la modernità dei suoi errori, senza ricorrere ad un principio
diverso da quello della soggettività ad essa intrinseco. La sua
estetica ne offre un esempio assai istruttivo.
Non solo gli amici francofortesi avevano riposto la loro speranza nella forza riconciliatrice dell'arte. Proprio nella disputa
sull'esemplarità dell'arte classica era giunto alla coscienza in
Germania, come già prima in Francia, il problema dell'autofondazione della modernità. H. R. Jauss ha mostrato 29 come Friedrich Schlegel e Friedrich Schiller, nei loro lavori Ober das
Studium der griechischen Philosophie (1797) e Ober naive und
sentimentale Dichtung (1796) abbiano attualizzato la problemadca della Querelle fr~ncese, messo in rilievo il carattere particolare della poesia moderna, e preso posizione sul dilemma che
si presentò quando si dovette cercare di mettere d'accordo l'esem28 D. Henrich, Hegel und Holderlin, in op. cit., pp. 35 sgg.
29 H. R. Jauss, Schlegels und Schillers Replik, in Literatur als Provokation
cit., pp. 67 sgg.
35
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plarità dell'arte antica riconosciuta dai classicisti con la superiorità della modernità. Entrambi gli autori descrivono in modo
analogo la differenza di stile come un contrasto fra l'oggettivo
e l'interessante, tra la formazione naturale e quella artificiale,
fra l'ingenuo e il sentimentale. All'imitazione classica della natura, essi contrappongono l'arte moderna come atto della libertà
e della riflessione. Schlegel allarga i confini del bello, accennando perfino ad un'estetica del brutto, che riserba un posto al
piccante e all'avventuroso, al sorprendente e al nuovo, allo scandaloso e al ripugnante. Ma mentre Schlegel esita a distaccarsi
chiaramente dall'ideale artistico classicista, Schiller stabilisce un
ordine gerarchico ispirato alla filosofia della storia fra l'antichità e l'età moderna. La perfezione della poesia ingenua è bensì
divenuta irraggiungibile per il poeta riflessivo della modernità,
ma l'arte moderna aspira invece all'ideale di un'unità mediata
con la natura - e ciò è ' infinitamente preferibile ' allo scopo
che l'arte antica ha raggiunto con la bellezza della natura imitata.
Schiller aveva portato al suo concetto l'arte riflessiva del
romanticismo ancor prima che essa nascesse. Hegel l'aveva già
dinanzi agli occhi, quando accoglie l'interpretazione data da
Schiller all'arte moderna in termini di filosofia della storia nel
suo concetto dello spirito assoluto 30 • Nell'arte in genere lo spirito deve prender coscienza di se stesso come del simultaneo
evento dell'autoalienazione e del ritorno in sé. L'arte è la forma
sensibile, in cui l'Assoluto si coglie intuitivamente, mentre la
religione e la filosofia rappresentano forme superiori, nelle quali
l'Assoluto già si rappresenta e si concepisce. L'arte trova dunque nella sensibilità del suo medium un limite interno, e alla
fine indica oltre il confine del suo modo di esporre l'Assoluto.
Vi è un « dopo l'arte » 31 • Da questa prospettiva Hegel può trasferire quell'ideale, cui secondo Schiller l'arte moderna aspira,
senza poterlo raggiungere, in una sfera al di là dell'arte, dove
può essere realizzato come idea. Ma allora l'arte contemporanea
deve essere interpretata come un grado, al livello del quale con
la forma artistica romantica l'arte come tale si dissolve.
In tal modo la disputa estetica fra gli antichi e i moderni
trova un'elegante soluzione: il romanticismo è il ' compimento '
dell'arte - tanto nel senso della dissoluzione soggettivistica dell'arte nella riflessione, quanto nel senso dello sfondamento rifles30
p. 89.
31
G. W. F. Hegel, Vorlesungen uber die A.sthetik, l, in Werke cit., vol. XIII,
lvi, p. 141.
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sivo di una forma di presentazione dell'Assoluto ancora vincolata all'elemento simbolico. Così alla domanda, sempre di nuovo
sollevata in tono canzonatorio a partire da Hegel, « se poi produzioni di tal genere si possano ancora chiamare proprio opere
d'arte» 32, si può rispondere con voluta ambivalenza. L'arte moderna è davvero decadente, ma appunto per questo si è anche
avanzata sulla via verso il Sapere assoluto, mentre l'arte classica
conserva la sua esemplarità, e tuttavia è stata superata a buon
diritto: « La forma classica dell'arte ha (bensì) il massimo di
ciò che la sensualizzazione dell'arte è in grado di offrire » 33 ;
tuttavia alla sua ingenuità manca la riflessione sulla limitatezza
della sfera artistica come tale, che nelle tendenze romantiche
alla dissoluzione si manifesta con tanta evidenza.
In base allo stesso modello Hegel prende congedo anche
dalla religione cristiana. I paralleli fra la tendenza dell'arte a
dissolversi e quella della religione sono chiari. La religione ha
raggiunto la sua interiorità assoluta nel protestantesimo; alla fine,
nell'epoca dell'Illuminismo, si è separata dalla coscienza mondana: «Alla nostra epoca non importa più niente di non conoscere nulla intorno a Dio; anzi, che questa conoscenza non sia
nemmeno possibile, è per essa il sapere supremo» 34 • La riflessione ha invaso tanto l'arte quanto la religione; la fede sostanziale ha lasciato il posto o all'indifferenza oppure al sentimentalismo bigotto. Da questo ateismo la filosofia salva il contenuto
della fede, mentre ne distrugge la forma religiosa. È vero che
la filosofia non ha un contenuto diverso da quello della religione, ma in quanto lo trasforma in sapere concettuale, « nulla
è (più) giustificato nella fede» 35 •
Se ora ci fermiamo un momento, per richiamare alla mente
l'andamento del pensiero, sembra che Hegel abbia raggiunto il
suo scopo. Hegel può comprendere la modernità partendo dal
suo stesso principio, grazie al concetto di un Assoluto che sopraffà tutte le assolutizzazioni, e che solo mantiene, in quanto incondizionato, l'infinita processualità dell'autorelazione che assorbe
in sé tutto il finito. E ciò facendo, egli dimostra che la filosofia
è la potenza dell'unificazione, che supera tutte le positività procedenti dalla riflessione stessa - e pone così rimedio ai moderni
lvi, Il, in Werke cit., vol. XIV, p. 223.
lvi, l, p. 111.
G. W. F. Hegel, Vorlesungen iiber die Philosophie der Religion, l, in
Werke cit., vol. XVI, p. 43.
35 lvi, II, in Werke cit., vol. XVII, p. 343.
32
33
34
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fenomeni di decadenza. Ma questa impressione troppo semplice
inganna.
Se infatti si confronta ciò che Hegel intendeva un tempo
con l'idea di una religione popolare, con ciò che rimane dopo
il superamento dell'arte nella religione e della fede nella filosofia,
si comprende la rassegnazione che s'impadronisce di Hegel alla
fine della sua filosofia della religione. Ciò che nel migliore dei
casi la ragione filosofica è in grado di procurare, è una riconciliazione parziale - senza l'esterna universalità di quella religione pubblica, che doveva rendere razionale il popolo e sensibili i filosofi. Anzi, il popolo si sente abbandonato dai suoi
preti divenuti filosofi: « La filosofia sotto questo aspetto è un
santuario appartato - dice ora Hegel - e i suoi servitori costituiscono un clero isolato, che non può più coincidere col mondo
[ ... ]. Come il presente temporale, empirico, possa trovare la
via d'uscita dalla sua disunione, come possa costituirsi, deve esser
lasciato ad esso, e non è una faccenda e questione direttamente
pratica della filosofia » 36 •
La dialettica dell'Illuminismo, pervenuta alla sua meta, ha
esaurito quell'impulso alla critica del tempo, che pure l'aveva
messa in movimento. Questo risultato negativo si mostra ancor
più chiaramente nella costruzione del ' superamento ' della società civile nello Stato.
IV
Nella tradizione aristotelica, il concetto vetero-europeo della
politica come sfera che comprende in sé lo Stato e la società è
stato ininterrottamente proseguito fin dentro il secolo XIX. L'economia dell'' intera casa', un'economia di sussistenza fondata
sulla produzione agrario-artigianale, integrata da mercati locali,
costituisce, secondo tale concezione, il fondamento di un ordine
politico globale. La stratificazione sociale e la partecipazione (o
esclusione) differenziale rispetto al potere politico procedono di
pari passo - la costituzione del dominio politico integra la
società nel suo complesso. Ma è chiaro che questa concettualità non è più adatta alle società moderne, nelle quali lo scambio di merci dell'economia capitalistica organizzato in base al
diritto privato si è affrancato dall'ordinamento signorile. Tramite
i media del valore di scambio e del potere si sono differenziati
36
lvi, pp. 343 sgg.
38
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due sistemi d'azione, che si completano funzionalmente: il sociale si è separato dal politico, la società economica spoliticizzata
dallo Stato burocratizzato. Tale sviluppo doveva chiedere troppo
alla capacità di comprensione della dottrina classica della politica; che perciò, verso la fine del diciottesimo secolo, si scinde
da un lato in una teoria della società fondata sull'economia politica, e dall'altro in una teoria dello Stato ispirata dal diritto
naturale moderno.
Hegel si trova nel bel mezzo di questo sviluppo scientifico.
Egli è il primo· a dare anche termino logicamente espressione ad
una concettualità adeguata alla società moderna, in quanto separa la sfera politica dello Stato dalla ' società civile '. Egli per
così dire recupera per la teoria della società la contrapposizione
fra modernità e antichità messa a punto nella teoria dell'arte:
« Nella società civile, ciascuno è fine a se stesso, ogni altra cosa
per lui è nulla. Ma senza rapporto con gli altri, esso non può
conseguire l'ampiezza dei suoi fini. Pertanto, ·questi altri sono
mezzo al fine del particolare. Ma il fine particolare, mediante
il rapporto con altri, si dà la forma dell'universalità e si appaga,
in quanto appaga al contempo il benessere dell'altro » 37 ,
Hegel descrive lo scambio mercantile come un ambito eticamente neutralizzato per il perseguimento di interessi privati, ' egoistici ', nel quale essi fondano al contempo un « sistema di dipendenza onnilaterale ». In base alla descrizione di
Hegel, la società civile si presenta da un lato come una « eticità
perduta nei suoi estremi », come un che « di appartenente alla
corruzione» 38 • Dall'altro lato essa, «la creazione [ ... ] del mondo moderno » 39, trova anche la sua giustificazione nell'emancipazione del singolo nella libertà formale: la liberazione del carattere arbitrario del bisogno e del lavoro è un momento necessario
sulla via per « formare la soggettività nella sua particolarità » 40•
Sebbene il noto termine di ' società civile ' (burgerliche
Gesellschaft) si presenti solo più tardi, nella Filosofia del diritto,
Hegel si era conquistato il nuovo concetto già nel suo periodo
di Jena: Nel saggio Sulle maniere di trattare scientificamente il
diritto naturale, egli si riferisce all'economia politica per analizzare « il sistema della dipendenza reciproca universale in consi37 G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Werke cit.,
vol. VII, p. 340 (tr. it., Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1963, p. 356, modificata).
38 lvi, p. 339 (tr. it. cit., p. 170, modificata).
39 lvi, pp. 340, 344 (tr. it. cit., pp. 168, 170).
40 lvi, p. 343 (tr. it. cit., p, 170).
39
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derazione dei bisogni fisici e del lavoro e (dell') accumulazione
per questi » 41 come il « sistema della proprietà e del diritto ».
Già qui si pone per lui il problema della maniera in cui si
possa concepire la società civile non semplicemente come una
sfera della decadenza dell'etica sostanziale, bensì, nella sua negatività, al contempo anche come un momento necessario dell'eticità. Hegel prende le mosse dal fatto che l'ideale antico dello
Stato non può più essere ripristinato nelle condizioni della società moderna, spoliticizzata. D'altro canto egli tiene ferma l'idea
di quella totalità etica, di cui si era occupato già in precedenza,
sotto il nome di religione popolare. Dunque egli deve mediare
l'ideale etico degli antichi, sotto l'aspetto per il quale esso è
superiore all'individualismo dell'età moderna, con le realtà della
modernità sociale. Con la differenziazione fra Stato e società,
che già allora aveva sviluppato almeno quanto alla cosa stessa,
Hegel prende distanza in egual misura dalla filosofia restauratrice dello Stato e dal diritto naturale razionale al contempo.
Mentre il diritto statale restauratore non va oltre le idee dell'eticità sostanziale, e concepisce ancora lo Stato come una relazione
familiare ampliata, il diritto naturale individualistico non si
eleva affatto nemmeno all'idea dell'eticità, e identifica lo Stato
della necessità e dell'intelletto con i rapporti di diritto privato
della società civile. Ma la peculiarità dello Stato moderno può
essere percepita solamente quando il principio della società civile
è concepito come un principio della socializzazione conforme al
mercato, cioè non-statale. Infatti « il principio degli Stati moderni ha questa immensa forza e profondità: lasciare che il principio della soggettività si porti a compimento nell'estremo autonomo della particolarità personale, ed al contempo riportarlo
nell'unità sostanziale, mantenendolo così in esso medesimo » 42 •
Questa formulazione contraddistingue il problema della mediazione fra Stato e società, ma anche già la soluzione tendenziosa proposta da Hegel. Non è infatti di per sé evidente che la
sfera dell'eticità, la quale comprende in sé la famiglia, la società,
la formazione politica della volontà e l'apparato statale nel suo
insieme, debba compendiarsi e cioè pervenire a se stessa, soltanto nello Stato, e più precisamente nel governo e nel suo vertice monarchico. Per il momento Hegel può soltanto rendere
41 G. W. F. Hegel, Ober die wissenschaft/ichen Behandlungsarten des Naturrechts, in Werke cit., vol. Il, p. 482 (tr. it., Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, in Scritti di filosofia del diritto, Bari 1971, p. 95).
42 G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts cit., in Werke
cit., vol. VII, p. 407 (tr. it. cit., p. 218, modificata).
40
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plausibile che e perché nel sistema dei bisogni e del lavoro scoppino antagonismi, che non potrebbero essere bloccati solamente
per mezzo dell'autoregolamentazione della società civile; del
tutto all'altezza del suo tempo, egli lo spiega con «il decadere
di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo
di sussistenza [ ... ] il che a sua volta porta con sé la maggiore
facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate » 43 • Da ciò risulta senza dubbio anzitutto la necessità funzionale di inserire la società antagonistica in una sfera di eticità
vivente. Questo universale dapprima soltanto richiesto ha la duplice forma dell'eticità assoluta, quella che include in sé la società
come uno dei suoi momenti, e quella di un ' positivamente universale', che si distingue dalla società, per bloccare le tendenze
all'autodistruzione e conservare al contempo i risultati dell'emancipazione. Hegel pensa questo positivo come lo Stato, e risolve
il problema della mediazione tramite il ' superamento ' (Aujhebung) della società nella monarchia costituzionale.
Ma questa soluzione risulta cogente soltanto in base al presupposto di un Assoluto, concepito in base al modello della
relazione di un soggetto conoscente con se stesso 44 • La figura
dell'autocoscienza ha già fornito ad Hegel, nella ]enenser Realphilosophie, l'impulso per pensare la totalità etica come « l'unità
dell'individualità e dell'Universale » 45 • Infatti un soggetto che si
riferisce a se stesso conoscendo, si trova al contempo come un
soggetto universale, che si contrappone al mondo come all'insieme degli oggetti della conoscenza possibile, e come un io individuale, che si presenta entro questo mondo come un'entità fra
molte altre. Ma se l'Assoluto è pensato come una soggettività
infinita (che si rigenera eternamente nell'oggettività, per elevarsi
dalle sue ceneri nello splendore del Sapere assoluto) 46 , i momenti dell'Universale e del particolare possono essere pensati
43 Ancor più energicamente che nella versione del libro Hegel mette in ri·
lievo la struttura della società civile nelle lezioni sulla filosofia del diritto tenute
nel semestre invernale 1819-20. Cfr. l'Einleitung ·di D. Henrich a G. W. F. Hegel,
Philosophie des Rechts. Die Vorlesung von 1819/20 in einer Nachschrift, Frank·
furt a. M. 1983, po. 18 sgg.
44 Cfr. R. P. Horstmann, Probleme der Wandlung in Hegels ]enaer System·
konzeption, in << Philosophische Rundschau >>, 1972, no 9, pp. 95 sgg.; Vber die
Rolle der bilrgerliche Gesellschaft in Hegels politischer Philosophie, in << Hegel·
Studien », vol. IX, 1974, pp. 209 sgg.
45 G. W. F. Hegel, ]enenser Realphilosophie, ed. Hoffmeister, Leipzig 1931,
p. 248.
.
46 Con queste parole Hegel caratterizza la tragedia rappresentata nell'am·
bito dell'etico: l'Assoluto che recita eternamente con se stesso: G. W. F. Hegel,
V ber die Wissenschaftlichen Behandlungsarten cit., in Werke cit., vol. VII, p. 495
(tr. it. cit., p. 112).
41
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come unificati soltanto nel quadro di riferimento dell'autoconoscenza monologica: perciò nell'universalità concreta il soggetto
in quanto universale mantiene il primato sul soggetto in quanto
particolare. Nella sfera dell'eticità da questa logica deriva il
primato della soggettività di grado superiore spettante allo Stato
sulla libertà soggettiva del singolo. D. Henrich lo ha definito
come 'l'istituzionalismo forte' di Hegel: « La volontà singola,
che Hegel chiama volontà soggettiva, è interamente inserita nell'ordine delle istituzioni e in genere è giustificata solamente nella
misura in cui anch'esse lo sono» 47 •
Un diverso modello per la mediazione fra l'universale e il
singolo è quello offerto dall'intersoggettività di grado superiore
della libera formazione della volontà in una comunità di comunicazione che sottostà a coazioni cooperative: nell'universalità di
un consenso spontaneo, raggiunto fra liberi ed eguali, i singoli
conservano una istanza di appello, che può essere invocata anche
contro forme particolari della concretizzazione istituzionale della
volontà comune. Negli scritti giovanili di Hegel, come si è visto,
era rimasta ancora aperta l'opzione di spiegare la totalità etica
come una ragione comunicativa incorporata in contesti di vita
intersoggettivi. Lungo questa linea un'auto-organizzazione democratica della società e dello Stato avrebbe potuto prendere il
posto dell'apparato statale monarchico. La logica del soggetto
che concepisce se stesso impone invece l'istituzionalismo di uno
Stato forte.
Quando però lo Stato della filosofia del diritto viene elevato
alla « realtà della volontà sostanziale, al razionale in sé e per
sé», ne deriva la conseguenza, sentita come provocatoria già dai
contemporanei, secondo cui quei movimenti politici che spingono oltre i limiti tracciati dalla filosofia, dalla prospettiva hegeliana urtano contro la ragione stessa. Come alla fine la filosofia
della religione mette da parte gli inappagati bisogni religiosi
del popolo 48 , così anche la filosofia dello Stato abbandona l'inappagata realtà politica. L'esigenza di autodeterminazione democratica, che si annuncia energicamente nella rivoluzione parigina
di luglio, e cautamente nel progetto del governo inglese per una
riforma elettorale, risuona alle orecchie di Hegel come un'ancor
D. Henrich, Einleitung a Hegel cit., p. 31.
<<Quando il Vangelo non viene più predicato ai poveri, quando il sale
è divenuto insipido e tutte le feste principali sono state tacitamente abolite, al·
lora il popolo, per il cui intelletto rimasto grezzo la verità può darsi solo nella
rappresentazione, non può più giovare all'impulso del suo intimo>> (G. W. F. He·
gel, Vor/esungen iiber die Philosophie der Religion, in Werke cit., vol. XVII,
p. 343).
47
48
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più stridente ' stonatura'. Questa volta Hegel è talmente preoccupato per la discrepanza fra la ragione e il presente storico,
che con il suo scritto Sul progetto di riforma inglese si schiera
apertamente dalla parte della Restaurazione.
v
Hegel aveva appena portato al concetto la scissione della modernità, che già le agitazioni e i movimenti di questa modernità
si accingevano a far saltare quel concetto. Ciò si spiega in base
al fatto che Hegel poteva eseguire la critica della soggettività
soltanto entro il quadro della filosofia del soggetto. Là dove la
potenza della scissione deve entrare in attività soltanto affinché
l'Assoluto possa dimostrare di essere la potenza della riunificazione, non vi possono più essere ' false ' positività, bensì solamente scissioni, che possono pretendere anche ad un relativo
diritto. L'istituzionalismo ' forte ' ha guidato la penna di Hegel,
quando egli, nella Prefazione alla Filosofia del diritto, dichiarò
che il reale è razionale. Certo, nelle precedenti lezioni del semestre invernale 1819-20, si trova la formulazione più~debole: «Ciò
che è razionale, diventa reale, e ciò che è reale diventa razionale » 49 • Ma anche questa frase non fa altro che aprire lo spazio
per un presente già deciso e giudicato in anticipo.
Ricordiamoci del problema di partenza. Una modernità priva
di modelli, aperta al futuro, avida di innovazioni, può attingere
i suoi criteri soltanto da se stessa. Come unica fonte del normativo si offre il principio della soggettività, da cui deriva la
stessa coscienza temporale della modernità. La filosofia della
riflessione, che parte dal fatto fondamentale dell'autocoscienza,
porta al concetto questo principio. Alla facoltà riflessiva applicata a se stessa si svela senza dubbio anche il negativo di una
soggettività autonomizzata, posta assolutamente. Perciò la razionalità dell'intelletto, che la modernità conosce come sua proprietà e riconosce come unico obbligo, deve estendersi alla ragione seguendo le tracce di una dialettica dell'Illuminismo. Ma
come sapere assoluto questa ragione assume alla fine una configurazione tanto dominante, che non solo risolve il problema iniziale di un autoaccertamento della modernità, ma lo risolve fin
troppo bene: la questione dell'autocomprensione genuina della
modernità sprofonda nell'ironica risata della ragione. Infatti la
49
G. W. F. Hegel, Philosophie des Rechts. Vorlesungen cit., p. 51.
43
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ragione ha ora preso il posto del destino, e sa che ogni evento
di significato essenziale è già deciso. Così la filosofia hegeliana
soddisfa il bisogno di autofondazione della modernità soltanto
al prezzo di una svalutazione dell'attualità e di un mitigamento
della critica. Alla fine la filosofia toglie importanza al suo presente, distrugge l'interesse nei suoi riguardi e gli contesta la
vocazione al rinnovamento autocritico. I problemi dell'epoca perdono il rango di provocazioni, perché la filosofia, che è all'altezza del tempo, li ha privati del loro significato.
Nel 1802 Hegel aveva introdotto il « Giornale critico della
filosofia» con un saggio intitolato Sull'essenza della critica filosofica. Vi distingue due tipi di critica. L'uno si volge contro le
false positività dell'epoca; si intende come una maieutica della
vita oppressa, che spinge fuori da forme irrigidite: « Se la critica non può far valere l'opera e l'atto come figura dell'idea, essa
almeno non disconoscerà la tendenza;. qui l'interesse autenticamente scientifico (!) sta nell'asportare quella scorza che ancora
impedisce all'aspirazione interna di venire alla luce » 50 • Qui non
ci è difficile riconoscere quella critica che il giovane Hegel ha
praticato nei riguardi delle potenze positive della religione e
dello Stato. Un diverso tipo di critica Hegel lo rivolge contro
l'idealismo soggettivo di Kant e di Fichte, riguardo ai quali si
dice « che l'idea della filosofia è stata riconosciuta più chiaramente, ma che la soggettività si sforza di tener lontana la filosofia, nella misura in cui diviene necessario salvarsi» 51 • Qui
dunque si tratta di scoprire le astuzie di una soggettività limitata,
·che si chiude ad una migliore visione oggettivamente già da
tempo accessibile. Lo Hegel della Filosofia del diritto considera
la critica giustificata ancora soltanto in questa sua seconda versione.
La filosofia non può insegnare al mondo come esso deve
essere; nei suoi concetti si riflette soltanto la realtà, così come
essa è. Non si rivolge più criticamente contro la realtà, bensì
contro le oscure astrazioni che si inseriscono fra la coscienza
soggettiva e la ragione oggettivamente conformata. Dopo che lo
spirito nella modernità 'ha dato una scossa', dopo aver trovato
ancora una via d'uscita dalle aporie del moderno, e non soltanto
è entrato nella realtà effettuale, ma vi è divenuto oggettivo,
Hegel ritiene che la filosofia sia sgravata dal compito di confronSO G. W. F. Hegel, Ober das Wesen der philosophischen Kritik, in Werke
cit., vol. VII, p. 175.
51
Jbid.
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tare l'inerte esistenza della vita sociale e politica con il suo concetto. A questa mitigazione della critica corrisponde la svalutazione dell'attualità, dalla quale i servitori della filosofia si distolgono. La modernità portata al concetto consente di ritrarsene
stoicamente in disparte.
Hegel non è il primo filosofo che appartiene all'età moderna,
.ma è il primo per il quale la modernità sia divenuta un problema. Nella sua teoria diviene per la prima volta visibile la costellazione concettuale fra modernità, coscienza del tempo e razionalità. Lo stesso Hegel alla fine fa saltare questa costellazione,
perché la razionalità elevata a Spirito assoluto neutralizza le
condizioni in base alle quali la modernità ha raggiunto una
coscienza di se stessa. Hegel non ha quindi risolto il problema
dell'autoaccertamento della modernità. Ma per l'epoca posthegeliana ne deriva la conseguenza, che soltanto colui il quale
concepisce in termini più modesti il concetto della ragione ottiene un diritto di preferenza per trattare questo tema.
I giovani hegeliani si attengono al progetto di Hegel con un
concetto moderato di ragione e vogliono, lungo la via di una
diversa dialettica dell'Illuminismo, comprendere e criticare al
contempo la modernità che non è più in pace con se stessa.
Senza dubbio essi costituiscono solo uno fra molti partiti. Gli
altri due partiti, che si scontrano sulla corretta comprensione
della modernità, tentano di dissolvere l'intimo rapporto fra modernità, coscienza del tempo e razionalità; tuttavia non possono
sottrarsi alla coazione concettuale di questa costellazione. Il partito dei neoconservatori che si collega all'hegelismo di destra si
affida acriticamente alla dinamica trainante della modernità sociale, banalizzando la coscienza moderna del tempo e riducendo
la ragione a intelletto, la razionalità alla razionalità in- vista di
un fine. La modernità culturale perde per essi ogni forza obbligante, se va oltre la scienza scientisticamente autonomizzata. Il
partito dei giovani conservatori che si ricollega a Nietzsche sopravanza la critica dialettica del tempo, radicalizzando la coscienza
moderna del tempo e smascherando la ragione come razionalità
finalistica assoluti~zata, come forma di esercizio spersonalizzato
del potere. Esso deve inoltre all'arte d'avanguardia autonomizzata esteticisticamente quelle norme inconfessate, dinanzi alle
quali non può esistere né la modernità culturale né quella sociale.
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Excursus
sulle « Lettere sull'educazione estetica dell'uomo »
di Schiller
Le Lettere pubblicate nel 1795 nella rivista « Horen », alle
quali Schiller aveva lavorato fin dall'estate del 1793, rappresentano il primo tentativo programmatico di una critica estetica
della modernità. Esso anticipa la veduta francofortese degli
amici di Tubinga, in quanto Schiller svolge l'analisi della modernità scissa in sé, nei concetti della filosofia kantiana, e abbozza
un'utopia estetica, che assegna all'arte un ruolo addirittura socialrivoluzionario. Al posto della religione, è l'arte che deve poter
operare come potenza unificatrice, perché viene intesa come una
forma di comunicazione ' che interviene nelle relazioni intersoggettive degli uomini. Schiller concepisce l'arte come una ragione comunicativa, che si realizzerà nello Stato estetico ' del
futuro.
Nella seconda lettera Schiller si pone la domanda se non sia
anacronistico lasciare la precedenza alla bellezza rispetto alla
libertà, «perché le condizioni del (mondo) morale offrono un
interesse assai più vicino e lo spirito della ricerca filosofica viene
così energicamente invitato dalle circostanze del tempo ad occuparsi della più perfetta di tutte le opere d'arte, della costruzione di una vera libertà politica » 52 •
La stessa formulazione della domanda suggerisce già la risposta: l'arte stessa è il tramite della formazione del genere umano
alla vera libertà politica. Questo processo di formazione non si
riferisce all'individuo, bensì al contesto collettivo della vita di un
popolo: « La totalità del carattere deve trovarsi nel popolo, che
deve essere capace e degno di mutare lo Stato del bisogno nello
Stato della libertà» 33 • Se l'arte deve poter adempiere al compito
storico di riconciliare la modernità in sé decaduta, essa non può
occuparsi solamente degli individui, ma deve piuttosto trasformare quelle forme di vita che gli individui condividono. Perciò
Schiller punta sulla forza comunicativa, associante, solidarizzante, sul carattere pubblico, dell'arte. La sua analisi del presente finisce per mostrare che nelle condizioni di vita moderne
1
1
52 F. Schiller, Briefe iiber die iisthetische Erziehung des Menschen, in Siimtliche Werke, vol. V, pp. 571 sgg. (tr. it., Lettere sull'educazione estetica e altri
scritti, Firenze 1927, p. 6).
53 lvi, p, 579 (tr. it. cit., p. 19, modificata).
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le forze particolari hanno potuto differenziarsi soltanto al prezzo
di una frammentazione della totalità.
Ancora una volta la lotta fra il nuovo e l'antico offre il punto
di partenza per un accertamento autocritico della modernità. Anche la poesia e l'arte greca,
scomponevano, è vero, la natura umana e la proiettavano separatamente, ingrandita, nella splendida cerchia degli dèi; non però
in modo che la facessero a pezzi, ma combmandola variamente
poiché ogni singolo Dio racchiudeva l'umanità intera. Come ben
altrimenti avviene presso di noi moderni! Anche presso di noi
l'immagine della specie è separatamente sparsa, ingrandita, negli
individui; ma in frammenti, non nelle varie combinazioni, sicché
si deve esaminare individuo per individuo, per ricomporre insieme
la totalità 54.
Schiller critica la società borghese come ' sistema dell'egoismo '. La scelta dei suoi termini ricorda il giovane Marx. La
meccanica dell'ingranaggio di un complicato orologio serve da
modello tanto per il processo economico reificato, che separa il
consumo dal lavoro, il mezzo dal fine, la fatica dalla ricompensa 55, quanto per l'apparato statale autonomizzato, che estranea da sé i cittadini, li ' classifica ' come oggetto dell' ' amministrazione ' e li ' sussume sotto fredde leggi ' 56 • Al contempo con
la critica del lavoro estraniato e della burocrazia, Schiller si
volge contro una scienza intellettualizzata e superspecializzata,
che si allontana dai problemi quotidiani:
Lo spirito speculativo, che aspirava nel mondo delle idee a
possessi che non si possono perdere, doveva divenir straniero al
mondo sensibile e per le forme perdere la materia. Lo spirito degli
affari invece, racchiuso in una cerchia uniforme di oggetti, e in essa
ancor più ristretto da formule, doveva perdere di vista il libero
tutto e immiserirsi nella sua sfera [ ... ] . Il pensatore astratto ha
perciò spesso un cuore freddo, perché analizza le impressioni che
commuovono l'animo solo come un tutto; l'uomo d'affari ha spesso
un cuore angusto, perché la suà immaginazione, chiusa nell'uniforme cerchia della sua professione, non può estendersi ad altri
modi di rappresentare '57,
54
55
56
'57
lvi,
lvi,
lvi,
lvi,
p. 582 (tr. it. cit., p. 24, modificata).
p. 584 (tr. it. cit., p. 26).
p. 585 (tr. it. cit., pp. 27 sgg.).
pp. 585 sgg. (tr. it. cit., pp. 28 sgg.).
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Senza dubbio Schiller intende questi fenomeni di estraneazione soltanto come le inevitabili conseguenze secondarie di progressi che il genere umano non avrebbe potuto compiere in altro
modo. Schiller condivide la fiducia della filosofia critica della
storia, si serve anzi della concezione teleologica senza le riserve
della filosofia trascendentale: « Per il solo fatto che nell'uomo
le singole forze si isolano e si arrogano il diritto di un'esclusiva
legislazione, esse entrano in contrasto con la verità delle cose e
costringono il senso comune, il quale altrimenti riposa con indolente moderazione sull'apparenza, a penetrare nel fondo degli
oggetti» 58 • Come lo spirito affaristico si autonomizza nella sfera
della società, così lo spirito speculativo nel regno dello spirito.
Due opposte legislazioni si costituiscono nella società e nella filosofia. E questa astratta contrapposizione di sensibilità e intelletto,
di impulso materiale e impulso formale, sottopone i soggetti illuminati ad una duplice costrizione: alla costrizione fisica della
natura e alla costrizione morale della libertà, che si fanno entrambe tanto più sentire, quanto più appassionatamente i soggetti cercano di dominare la natura, quella esterna quanto la
loro propria interna. Così, alla fine lo Stato naturalmente dinamico e lo Stato razionalmente etico si fronteggiano come realtà
estranee; essi convergono soltanto nell'effetto di reprimere il
senso comune - giacché « lo stato dinamico non può far altro
se non rendere possibile la società, domando la natura per mezzo
della natura; lo stato etico non può se non renderla moralmente
necessaria, assoggettando le volontà singole alla volontà universale >>:n.
Perciò Schiller si raffigura la realizzazione della ragione come
una resurrezione del senso comune distrutto; essa non può provenire hé dalla sola natura né dalla sola libertà, ma unicamente
da un processo di formazione che, per porre termine al contrasto di quelle due legislazioni, deve togliere la casualità della
natura esterna dal carattere fisico dell'una, e la libertà del volere
dal carattere morale dell'altra 60 • Il medium di questo processo
di formazione è l'arte; essa infatti suscita una «media disposizione dell'animo, nella quale l'animo stesso_ non è costretto né
fisicamente né moralmente, eppure è attivo in entrambi i modi » 61 • Mentre i progressi della stessa ragione avviluppano sempre di più la modernità nel conflitto fra il sistema incontrollato
58 lvi, p. 587 (tr. it. cit., p, 30).
59 lvi, p. 667 (tr. it. cit., p. 146).
60 lvi, p. 576 (tr. it. cit., p. 16).
61 lvi, p, 633.
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dei bisogni e gli astratti principi della morale, l'arte può ' conferire un carattere socievole ' a questa totalità scissa, perché
partecipa ad entrambe le legislazioni: « Nel cuore del regno
terribile delle forze e nel cuore del regno sacro delle leggi, l'impulso della formazione estetica lavora a costruirne un terzo, il
lieto regno del gioco e dell'apparenza, nel quale esso toglie all'uomo i vincoli di tutte le relazioni e lo libera da tutto ciò che
si chiama coercizione, tanto nel fisico quanto nel morale» 62 •
Con questa utopia estetica, che è rimasta un punto di orientamento per Hegel e per Marx, e in genere per la tradizione
hegelo-marxista fino a Lukacs e a Marcuse 63 , Schiller ha concepito l'arte come la genuina incarnazione di una ragione comunicativa. Certamente, la Critica del Giudizio di Kant ha anche
reso possibile l'accesso ad un idealismo speculativo che non
poteva accontentarsi delle differenziazioni kantiane fra intelletto
e sensibilità, libertà e necessità, spirito e natura, perché proprio
in tali distinzioni scorgeva l'espressione delle lacerazioni che
caratterizzano le condizioni della vita moderna. Ma la facoltà
mediatrice del giudizio riflettente serviva a Schelling e ad Hegel
come ponte per passare ad un'intuizione intellettuale, che si
voleva assicurare dell'identità assoluta. Schiller era più discreto:
si è attenuto al significato ristretto del giudizio estetico, a dire
il vero per farne uso agli scopi della filosofia della storia. Tuttavia mette tacitamente insieme il concetto kantiano con quello
tradizionale del giudizio, che nella tradizione aristotelica (fino
ad Hannah Arendt) 64, non aveva mai completamente perduto
il collegamento con la concezione politica del civismo. Così egli
poté concepire l'arte principalmente come una forma di comunicazione, ed affidarle il compito di portare ' armonia nella società': « Tutte le altre forme di rappresentazione dividono la società, perché si riferiscono esclusivamente o alla sensibilità privata o all'abilità privata dei singoli membri, cioè a quel che
pone una differenza fra uomo e uomo; solo la bella comunicazione unisce la società, perché si riferisce a ciò che è comune
a tutti » 65 •
Schiller definisce poi la forma ideale dell'intersoggettività in
contrasto con l'isolamento e la massificazione, che sono le due
lvi, p. 667 (tr. it. cit., p. 146, modificata).
H. Marcuse, Fortschritt im Lichte der Psychoanalyse, in Freud in der
Gegenwart, Frankfurter Beitriige zur Soziologie, vol. VI, Frankfurt a. M. 1957,
p. 348.
64 H. Arendt, Lectures on Kant, Chicago 1982 (tr. ted., Mi.inchen 1985).
65 F. Schiller, op. cit., p. 667 (tr. it. cit., p. 147, modificata).
62
63
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opposte deformazioni dell'intersoggettività. Quegli uomini che
come i trogloditi si nascondono nelle caverne sono privati, nel
loro modo di vita privatistico, delle relazioni con la società, concepita come qualcosa di oggettivo posto fuori di essi; mentre
a quegli altri uomini che come i nomadi si spostano in grandi
masse, nella loro esistenza estraniata manca la possibilità di
ritrovarsi con se stessi. Schiller coglie con un'immagine romantica il giusto equilibrio fra questi estremi dell'estraneazione e
della fusione: la società esteticamente riconciliata dovrebbe costituire una struttura comunicativa, «nella quale (ognuno) nella
propria capanna se ne sta tranquillo parlando con se stesso, e,
tosto che n'esce, parla con l'intero genere umano » 66 •
L'utopia estetica di Schiller non punta certo ad una estetizzazione delle condizioni di vita, bensì ad un rivoluzionamento
dei rapporti d'intesa. Contro la dissoluzione dell'arte nella vita,
che più tardi i surrealisti richiedono programmaticamente, i
dadaisti e i loro continuatori vogliono realizzare provocatoriamente, Schiller insiste sull'autonomia della pura apparenza. È
vero che dal diletto per l'apparenza estetica egli si aspetta la
'totale rivoluzione' dell'' intero modo di sentire'. Ma l'apparenza rimane un'apparenza puramente estetica solo finché le
manca ogni appoggio nella realtà. Più tardi Herbert Marcuse
definirà in modo aalogo a Schiller il rapporto fra arte e rivoluzione. Dato che la società non si riproduce soltanto nella coscienza dell'uomo, bensì anche nei suoi sensi, l'« emancipazione
della coscienza deve radicarsi nell'emancipazione dei sensi - la
fiducia repressiva nel mondo oggettuale dato (deve) venir dissolta». Tuttavia l'arte non deve mettere in pratica l'imperativo
surrealista, non deve entrare desublimata nella vita: « Ci si può
immaginare una 'fine dell'arte' soltanto (in una condizione) in
cui gli uomini non siano più in grado di distinguere tra vero e
falso, bene e male, bello e brutto. Sarebbe la condizione della
completa barbarie al culmine della civilizzazione » 67 • Il tardo
Marcuse ripete il monito di Schiller contro un'estetizzazione
immediata della vita: l'apparenza estetica dispiega una forza
riconciliatrice soltanto come apparenza - « solo finché (l'uomo)
si astiene scrupolosamente, nel campo della teoria, dall'affermarne l'esistenza, e rinuncia, nel campo della pratica, a produrre
da esso un'effettiva esistenza » 68 •
lvi, p. 655 (tr. it. cit., p. 129).
H. Marcuse, Konterrevolution und Revo/te, Frankfurt a. M. 1973, pp.
140 sgg.
68 F. Schiller, op. cit., p. 658 (tr. it. cit., pp. 143 sgg., modificata).
66
67
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Dietro questo monito si cela già in Schiller quell'idea di una
autonomia delle sfere culturali dei valori della scienza, della
morale e dell'arte, che più tardi Emil Lask e Max Weber metteranno in forte rilievo. Queste sfere sono per così dire ' interamente libere', e « godono di un'assoluta immunità rispetto all'arbitrio degli uomini. Il legislatore politico può limitare il loro
regno, ma non dominare in esso» (f}. Se si tentasse, senza riguardi per la loro autonomia culturale, di infrangere i recipienti
dell'apparenza estetica, ne dovrebbero defluire i contenuti - dal
senso desublimato e dalla forma destrutturata non potrebbe derivare un effetto liberatorio. Un'estetizzazione del mondo della
vita è legittima, per Schiller, soltanto nel senso che l'arte ha un
effetto catalizzatore, quale forma di comunicazione, quale medium nel quale i momenti separati si ricollegano nuovamente in
una totalità esente da costrizioni. Il carattere sociale del bello
e del gusto deve comprovarsi solamente in quanto l'arte « porta
(fuori), sotto il cielo aperto del senso comune» tutto ciò che
•nella modernità si è separato - il sistema dei bisogni incontrollati, lo Stato burocratizzato, le astrazioni della morale razionale e la scienza degli esperti.
69
lvi, p. 593 (tr. it. cit., p. 38, modificata).
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3.
TRE PROSPETTIVE:
GLI HEGELIANI DI SINISTRA,
GLI HEGELIANI DI DESTRA E NIETZSCHE
I
Hegel ha dato il via al discorso sulla modernità. Ha introdotto
il tema (l'accertamento autocritico della modernità), e ha indicato le regole in base alle quali lo si può variare (la dialettica
dell'Illuminismo). Al contempo, elevando la storia contemporanea al rango della filosofia, ha messo in contatto l'eterno con il
transitorio, l'atemporale con l'attuale, e con ciò ha straordinariamente modificato anche il carattere della filosofia. Ma egli non
voleva affatto la rottura con la tradizione filosofica; rottura che
pervenne alla coscienza soltanto nella generazione successiva.
Nel 1841, Arnold Ruge scrive nei ~< Deutsche Jahrbiicher »
(p. 594):
Già nel primo stadio del suo sviluppo storico, la filosofia hegeIiana presenta un carattere essenzialmente diverso dallo svolgimento
di tutti i sistemi precedenti. Essa, che per prima asserì che ogni
filosofia non è altro se non l'idea del proprio tempo, è anche la
prima ad essersi riconosciuta come tale idea del. tempo. Ciò che
le filosofie precedenti erano inconsapevolmente e solo in modo
astratto, essa Io è consapevolmente e in modo concreto; perciò di
quelle si poteva ben dire che erano e rimanevano soltanto idee;
ma questa, la filosofia hegeliana, si presenta come quell'idea che
non può restare tale, ma [ ... ] deve divenire azione [ ... ]. In questo
senso la filosofia hegeliana è la filosofia della rivoluzione e l'ultima
delle filosofie in genere.
Al discorso della modernità, che conduciamo senza interruzioni fino ad oggi, appartiene anche la consapevolezza che la
filosofia è giunta alla fine, non importa poi se ciò viene pensato
come una sfida produttiva oppure soltanto come una provoca52
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zione. Marx vuole superare (aufheben) la filosofia, per realizzarla. Moses Hess pubblica, nello stesso periodo, un libro dal
titolo Gli ultimi filosofi. Bruno Bauer parla della ' catastrofe
della metafisica', ed è convinto che « la letteratura filosofica può
essere considerata conclusa e ultimata per sempre». Senza dubbio, l'« oltrepassamento » (Oberwindung) della metafisica da
parte di Nietzsche e di Heidegger ha un significato diverso dal
« superamento » (Aufhebung) della metafisica; il commiato dalla
filosofia di Wittgenstein o di Adorno è qualcosa di diverso dalla
realizzazione della filosofia. Eppure tutti questi atteggiamenti rinviano a quella rottura con la tradizione (Lowith), che si è verificata quando lo spirito del tempo ha assunto il potere sulla filosofia, quando la coscienza moderna del tempo ha fatto saltare
la forma del pensiero filosofico.
Kant aveva una volta tracciato la differenza fra il ' concetto
scolastico ' (Schulbegriff) della filosofia, intesa come sistema delle
conoscenze razionali, e un ' concetto mondano ' (W eltbegriff)
della filosofia, che si riferiva a ciò che ' interessa necessariamente ' ogni uomo. Hegel per primo ha fuso insieme un concetto
mondano della filosofia, gravido di diagnosi del tempo, con il
concetto scolastico d'essa. Si può cogliere il mutato stato d'aggregazione della filosofia anche in base al modo in cui, dopo la
morte di Hegel, le vie della filosofia scolastica si separarono
nuovamente da quelle della filosofia mondana. La filosofia scolastica, consolidatasi in disciplina specializzata, si sviluppa ora
accanto ad una letteratura filosofica che segue il corso del mondo,
la cui collocazione non può più esser chiaramente definita dal
punto di vista istituzionale. La filosofia scolastica deve d'ora in
poi entrare in concorrenza con liberi docenti, scrittori e benestanti scapestrati, quali Feuerbach, Ruge, Marx, Bauer e Kierkegaard - ed anche con un Nietzsche, il quale rinuncia alla sua
cattedra a Basilea. Nell'Università essa cede il compito dell'autocomprensione teorica della modernità alle scienze dello stato e
della società, ed anche all'etnologia. Nomi quali Darwin e Freud,
correnti quali il positivismo, lo storicismo e il pragmatismo, attestano inoltre che nel secolo XIX la fisica, la biologia, la psicologia e le scienze dello spirito danno origine a concezioni del
mondo che per la prima volta influiscono sulla coscienza del
tempo senza la mediazione della filosofia 1 •
l Si veda la brillante esposizione della tradizione, ampiamente rimossa, del·
la filosofia delle scuole fatta da H. Schniidelbach, Philosophie in Deutschland
1831-1933, Frankfurt a. M. 1983.
53
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Questa situazione si modifica soltanto negli anni Venti del
nostro secolo. Heidegger recupera nuovamente il discorso della
modernità ad un movimento di pensiero genuinamente filosofico
(e lo stesso titolo di Sein und Zeit mette appunto in luce anche
questo). Qualcosa di simile si può dire per gli hegelo-marxisti,
per Lukacs, Horkheimer e Adorno, che ritraducono il Capitale,
con l'aiuto di Max Weber, in una teoria della reificazione, e
ristabiliscono la connessione interrotta fra economia e filosofia.
La filosofia riconquista competenze per la diagnosi del tempo anche attraverso una critica della scienza che dal tardo Husserl conduce, attraverso Bachelard, fino a Foucault. Ma è poi questa ancora la stessa filosofia che, come nel caso di Hegel, supera la
sua differenziazione tra il concetto scolastico e quello mondano
della filosofia? Sotto qualsiasi nome si presenti, come antologia
fondamentale, o come critica, o come dialettica negativa, o come
decostruzione o genealogia - tutti questi pseudonimi non sono
in nessun caso travestimenti dietro i quali possa apparire la
figura tradizionale della filosofia; piuttosto, il drappeggio dei
concetti filosofici serve già da mascheramento di una fine della
filosofia malamente dissimulata.
Noi persistiamo ancora in quella condizione di coscienza,
che i giovani hegeliani hanno prodotto quando si distanziarono
da Hegel e dalla filosofia in genere. Da allora sono in circolazione anche quei gesti trionfali di reciproco sopravanzamento,
con cui ignoriamo volentieri il fatto di essere rimasti contemporanei dei giovani hegeliani. Hegel ha inaugurato il discorso della
modernità; soltanto i giovani hegeliani lo hanno organizzato in
modo permanente. Infatti essi hanno liberato dal fardello del
concetto hegeliano della ragione la figura concettuale di una critica della modernità che attingeva allo spirito della stessa modernità.
Abbiamo visto come Hegel con il suo concetto enfatico della
realtà come ·unità di essenza ed esistenza aveva messo da parte
proprio ciò che doveva importare alla modernità - l'aspetto
transitorio dell'attimo gravido di significato, nel quale i problemi
del futuro di volta in volta incombente si intrecciano in un nodo.
Il vecchio Hegel aveva separato proprio l'attualità contemporanea, dalla quale doveva scaturire il bisogno dalla filosofia, come
ciò che è puramente empirico, come l'esistenza ' casuale', 'transitoria', ' insignificante ', ' effimera' e ' deperita', dalla costruzione dell'accadere essenziale o razionale. Contro questo concetto
di una realtà razionale, che si eleva al di sopra della fatticità,
contingenza e attualità degli eventi che sopravvengono e degli
54
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sviluppi che si delineano, i giovani hegeliani rivendicano (sulle
orme della tarda filosofia di Schelling e del tardo idealismo di
un Immanuel Hermann Fichte) il peso dell'esistenza. Feuerbach
insiste sull'esistenza sensibile della natura interna ed esterna:
sensazione e passione attestano la presenza del proprio corpo e
la resistenza del mondo materiale. Kierkegaard ribadisce l'esistenza storica del singolo: l'autenticità del suo esserci si mostra
nel concrescere e nell'insostituibilità di una decisione assolutamente interiore, irrevocabile, di interesse infinito. Marx infine
insiste sull'essere materiale dei fondamenti economici della vita
collettiva: l'attività produttiva e la cooperazione degli individui
associati costituiscono il medium del processo storico di autoproduzione del genere umano. Feuerbach, Kierkegaard e Marx protestano dunque contro le false mediazioni, compiute solo nel
pensiero, fra natura soggettiva e oggettiva, fra spirito oggettivo
e sapere assoluto. Essi insistono sulla desublimazione di uno
spirito, il quale introduce i contrasti di volta in volta attuali,
che scoppiano nel presente, nel vortice della sua assoluta autorelazione, unicamente per derealizzarli, per trasporli nella modalità della trasparenza indistinta di un passato rievocato - e
prenderli tutti sul serio.
Ma al contempo i giovani hegeliani mantengono la figura fondamentale del pensiero hegeliano. Dall'enciclopedia hegeliana
essi si appropriano della ricchezza di strutture ora divenuta disponibile, allo scopo di render fecondi per un pensiero radicalmente storico i vantaggi della differenziazione hegeliana. Questo
pensiero concede un'assoluta rilevanza al relativista, cioè al momento storico, senza rimettersi al relativismo di una scepsi ben
presto rinnovata storicisticamente. Karl Lowith, che ha descritto
con odio-amore la formazione del nuovo discorso 2 , ritiene che
i giovani hegeliani si siano affidati in modo afilosofico al pensiero storico: «Volersi orientare sulla storia vivendo in essa
sarebbe come se, in un naufragio, ci si volesse attaccare alle
onde» 3 • Questa caratterizzazione va letta in modo corretto. I
giovani hegeliani volevano certamente sottrarre il loro presente
aperto sul futuro all'imposizione della ragione saccente, volevano riconquistare la storia come una dimensione che apre alla
critica un margine di movimento, per rispondere alla crisi. Ma
2 K. Lowith, Von Hegel zu Nietzsche, Stuttgart 1941 (tr. it., Da Hegel a
Nietzsche, Torino 1950).
3 K. Lowith, Einleitung a K. Lowith (a cura di), Die Hegelsche Linke,
Stuttgart 1962, p. 38 (tr. it. come Nota a La sinistra hegeliana, Bari 1960,
p. 513).
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un orientamento nell'agire essi ·potevano riprometterselo solamente se non abbandonavano la storia contemporanea allo storicismo, ma conservavano invece alla modernità un riferimento
privilegiato alla razionalità 4•
In base alla premessa che ai decorsi storici sono intrecciati
processi di apprendimento sovrasoggettivi e fra loro concatenati,
si spiegano anche le altre caratteristiche del discorso: oltre al
pensiero radicalmente storico, la critica della ragione soggettocentrica, la posizione esposta degli intellettuali e la responsabilità per la continuità o la discontinuità storica.
II
I partiti che sin dai tempi dei giovani hegeliani rivaleggiano fra
di loro in merito alla giusta autocomprensione della modernità,
concordano però su di un punto: che cioè una profonda autoillusione è connessa con quei processi di apprendimento che il
XVIII secolo ha concettualizzato come Illuminismo. E vi è un
accordo anche nel ritenere che i tratti autoritari di un Illuminismo limitato sono insiti nello stesso principio dell'autocoscienza
e della soggettività. Il soggetto che si riferisce a se stesso acquista
4 Per il discorso della modernità il riferimento della ragione alla storia rimane costitutivo - nel bene come nel male. Chi partecipa a questo discorso,
e in ciò fino ad oggi non è cambiato nulla, fa un determinato uso delle espressioni 'ragione' o 'razionalità'. Non le impiega né in base a regole di gioco
ontologiche per caratterizzare Dio o l'ente in complesso, né in base a regole di
gioco empiristiche per connotare le disposizioni di soggetti capaci di conoscere
e di agire. La ragione non è considerata né come un che di finito, come una
teleologia obbiettiva, che si manifesta nella natura o nella storia, né come una facoltà puramente soggettiva. Piuttosto i modelli strutturali rintracciati negli sviluppi storici forniscono allusioni cifrate alle vie di processi di formazione non
conclusi, interrotti e fuorviati, che oltrepassano la coscienza soggettiva del singolo individuo. In quanto i soggetti si rapportano alla natura interna ed esterna,
si riproduce attraverso di essi il contesto di vita sociale e culturale nel quale
essi si trovano. La riproduzione delle forme di vita e delle vicende della vita
lascia dietro di sé, nel delicato medium della storia, impronte che, sotto lo sguardo concentrato dei cercatori di tracce, si consolidano in disegni o in strutture.
Questo sguardo specificamente moderno è guidato dall'interesse a rendersi conto
di sé: dalle configurazioni e dalle strutture che esso, pur sempre confuso dal
pericolo dell'inganno e dell'illusione, nondimeno afferma e ricava processi di
formazione soggettivi, nei quali si mescolano processi di apprendimento e disapprendimento. Perciò il discorso della modernità colloca appunto le sfere del nonessente e del mutevole nelle determinazioni della conoscenza e dell'errore: esso
porta la ragione in un ambito che tanto l'ontologia greca quanto la moderna filosofia del soggetto avevano considerato del tutto privo di senso e non suscettibile
di teorie. Questa impresa rischiosa si è dapprima insinuata, prendendo a prestito
falsi modelli teoretici, nel dogmatismu della filosofia della storia, ed ha poi chiamato in causa la difesa dello storicismo. Ma coloro che conducono seriamente il
discorso, sanno che devono muoversi fra Scilla e Cariddi.
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infatti l'autocoscienza soltanto al prezzo dell'aggettivazione della
natura esterna e della propria natura interna. Il soggetto, dal
momento che nel conoscere come nell'agire, verso l'esterno come
verso l'interno, deve sempre riferirsi ad oggetti, si rende al contempo impenetrabile e dipendente anche in quegli atti che dovrebbero garantire la conoscenza di sé e l'autonomia. Questo
limite inserito nella struttura dell'autorelazione resta inconscio
nel processo del divenir cosciente. Ne deriva la tendenza ad
autoesaltarsi e ad illudersi, cioè ad assolutizzare gli stadi relativi
della riflessione e dell'emancipazione.
Nel discorso della modernità i suoi accusatori le muovono
un rimprovero, che nella sostanza non si è mai modificato da
Hegel e Marx fino a Nietzsche e Heidegger, da Bataille e Lacan
fino a Foucault e Derrida. L'accusa è diretta contro una ragione
che si fonda nel principio della soggettività; ed afferma che
questa ragione denuncia e scalza tutte le forme esplicite dell'oppressione e dello sfruttamento, della degradazione e dell'estraneazione, soltanto per installare al loro posto il più inattaccabile
dominio della razionalità stessa. Questo regime di una soggettività elevata a falso assoluto trasforma i mezzi della presa di
coscienza e dell'emancipazione in altrettanti strumenti di aggettivazione e di controllo, e si procura in tal modo un'inquietante
immunità nelle forme di un ben celato dominio. L'opacità della
gabbia d'acciaio di una ragione divenuta positiva svanisce nello
splendente chiarore di un palazzo di cristallo perfettamente trasparente. Tutti i partiti sono qui d'accordo: questa facciata cristallina deve andare in frantumi; tuttavia si differenziano nelle
strategie che scelgono per superare il positivismo della ragione.
La critica degli hegeliani di sinistra, rivolta alla pratica e scatenata verso la rivoluzione, vuole mobilitare il potenziale storicamente accumulato della ragione, che attende di essere liberato,
contro la sua mutilazione, contro la razionalizzazione unilaterale
del mondo borghese. Gli hegeliani di destra seguono Hegel nella
convinzione che la sostanza dello stato e della religione equilibrerà le irrequietezze della società civile non appena la soggettività della coscienza rivoluzionaria che provoca irrequietezza cederà il posto alla veduta obbiettiva della razionalità dell'esistente. La razionalità dell'intelletto posta come assoluta si esprime ora nelle fantasie delle idee socialiste; contro questi falsi
critici deve farsi valere soltanto il discernimento metacritico dei
filosofi. Nietzsche infine vuole smascherare la sceneggiatura di
tutta la commedia, in cui fanno la loro comparsa tanto la speranza rivoluzionaria quanto la reazione contro di essa. Egli toglie
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il suo pungiglione dialettico alla critica della ragione ridotta a
razionalità in vista del fine e incentrata nel soggetto, e si comporta verso la ragione in generale come i giovani hegeliani verso
le sue sublimazioni: la ragione non è nient'altro che potenza,
la pervertita volontà di potenza, che essa nasconde in modo tanto
brillante.
Gli stessi fronti si costituiscono riguardo al ruolo degli intellettuali, che devono la loro posizione esposta al riferimento della
ragione alla modernità. Come detectives sulle tracce della ragione
nella storia, i filosofi della modernità cercano quel punto cieco
in cui l'inconscio si annida nella coscienza, l'oblìo si insinua nel
ricordo, in cui il regresso si atteggia a progresso e il disimparare
a processo di apprendimento. Ancora una volta d'accordo nell'illuminare l'illuminismo circa le sue limitazioni, i tre partiti
si differenziano nella valutazione di ciò che fanno effettivamente
gli intellettuali. I critici critici si vedono nel ruolo di un'avanguardia che si addentra nel territorio sconosciuto del futuro, e
spinge innanzi il processo dell'illuminismo. Essa si presenta ora
come battistrada del modernismo estetico, ora come guida politica che influisce sulla coscienza delle masse, ora nella figura
di individui sparsi che si lasciano dietro il loro annunzio come
un messaggio in bottiglia (con tale coscienza ad esempio Horkheimer e Adorno hanno affidato la loro Dialettica dell'illuminismo alla fine della guerra ad una piccola casa editrice di emigrati). Per contro i metacritici vedono di volta in volta negli altri
gli intellettuali dai quali proviene il pericolo di un nuovo dominio clericale. Gli intellettuali scalzano l'autorità delle solide istituzioni e delle semplici tradizioni, e con ciò turbano quel processo di compensazione che una modernità resa inquieta deve
svolgere con se stessa, e la società razionalizzata con le forze
tenaci dello Stato e della religione. La teoria della Nuova Classe,
che oggi i neoconservatori impiegano contro i fautori sovversivi
di una cultura supposta ostile, dipende più dalla logica del nostro
discorso che dai fatti addotti a prova di una rist:ratificazione nel
sistema occupazionale postindustriale. Con non minore veemenza
criticano infine il tradimento degli intellettuali coloro che si
collocano nella tradizione della critica della ragione praticata
da Nietzsche; anch'essi denunciano i misfatti che le avanguardie
devono aver compiuto, con la buona fede derivante dalla filosofia della storia, in nome dell'universale ragione umana. Naturalmente, in questo caso, manca l'elemento proiettivo dell'odio
degli intellettuali per se stessi. (Così ad esempio io non interpreto le pertinenti osservazioni di Foucault come denuncia di
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avversari, bensì come smentita autocritica di pretese eccessive) 5•
Il discorso della modernità è contraddistinto inoltre da una
terza caratteristica. La storia viene esperita come processo di
crisi, il presente come improvviso balenare di diramazioni critiche, il futuro come l'affollarsi di problemi irrisolti; ne nasce
quindi una coscienza esistenzialmente affinata circa il pericolo
di decisioni mancate e di interventi tralasciati. Nasce una prospettiva dalla quale i contemporanei si vedono chiedere ragione
della condizione attuale come passato di un presente venturo.
Nasce la suggestione di una responsabilità per il collegamento di
una situazione con quella successiva, per la prosecuzione di un
processo che ha perduto la sua spontaneità naturale e si rifiuta
di promettere una continuità naturale. Questa tensione nervosa
non scuote affatto soltanto quei filosofi dell'azione per designare
i quali già Moses Hess aveva usato la denominazione di ' partito
del movimento'. Lo stesso stato febbrile coglie anche il 'partito
della continuità', che incita alla moderazione, ossia il partito di
coloro che dinanzi ad una modernizzazione divenuta quasi automatica, addossano l'onere della prova di ogni intervento programmato ai rivoluzionari e agli agitatori, ai riformatori ed ai
fautori del cambiamento 6 • Naturalmente fra tutti costoro gli
atteggiamenti verso la continuità storica variano secondo un
ampio spettro: che da Kautsky e dai protagonisti della Seconda
Internazionale, i quali vedevano nel dispiegamento delle forze
produttive una garanzia per il trapasso evolutivo dalla società
borghese al socialismo, si estende fino a Karl Korsch, a W alter
Benjamin e agli esponenti dell'ultrasinistra, che potevano raffigurarsi la rivoluzione solo come un balzo al di fuori della barbarie eternamente riproducentesi della preistoria, come un far
saltare la continuità di ogni storia. Questo atteggiamento viene
di nuovo ispirato dalla coscienza surrealistica del tempo, e si
incontra con l'anarchismo di coloro che, al seguito di Nietzsche,
evocano la sovranità estatica o l'Essere obliato, i riflessi del
corpo o le resistenze locali e le involontarie rivolte della natura
soggettiva seviziata.
In breve: i _giovani hegeliani hanno ripreso da Hegel il problema dell'autoaccertamento storico della modernità; con la critica di una ragione soggettocentrica priva di fondamento, con
la lotta per la posizione esposta degli intellettuall e per la respon5 M. Foucault, Die Intellektuellen und die Macht, in Von der Subversion
des Wissens, Mtinchen 1974, pp. 128 sgg.
6 Sulla difesa della distribuzione conservatrice degli oneri della prova, cfr.
H. Ltibbe, Fortschritt als Orientierungsproblem, Freiburg 1975.
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sabilità di una giusta misura fra rivoluzione e continuità storica,
hanno stabilito l'ordine del giorno. E con la loro presa di partito
in favore del divenir-pratico della filosofia, hanno suscitato due
avversari, che si attengono ai temi ed alle regole del gioco.
Questi oppositori non escono dal discorso per ripiegare sull'autorità di passati esemplari. Il ricorso veteroconservatore a verità
religiose o metafisiche non conta più nulla nel discorso filosofico
della modernità - l'elemento vetero-europeo è ormai svalutato.
Al partito del movimento risponde un partito della continuità,
che non vuole mantenere nient'altro che la dinamica della società
borghese, e che trasforma la tendenza alla conservazione nell'adesione neoconservatrice ad una mobilitazione che si verifica
comunque. Con Nietzsche e col neoromanticismo si contrappone
ad entrambi gli avversari un terzo partecipante al discorso, che
vuole sottrarre il terreno tanto ai radicali quanto ai neoconservatori, ed elimina dalla critica della ragione il genitivo soggettivo, in quanto toglie dalle mani della ragione la conduzione di
questa impresa, alla quale essi tengono ancor fermo. In tal modo
l'uno vuole sopravanzare l'altro.
È dunque evidente che noi ci distanziamo da questo discorso
nel suo complesso, e che consideriamo obsoleta questa messa in
scena del XIX secolo. Non mancano certo i tentativi di sopravanzare a nostra volta il gioco del reciproco sopravanzamento.
Li si può riconoscere facilmente in base ad un prefisso, ai neologismi formati con il prefisso ' post '. Ma già per motivi metodici io credo che noi non possiamo renderei estraneo, per fissare
lo sguardo solo a una fittizia etnologia del presente, il razionalismo occidentale, come se fosse l'oggetto di una considerazione
neutrale, ed uscire così semplicemente dal discorso della modernità. Seguirò pertanto una via più comune, e assumerò la prospettiva consueta di un partecipante che richiama a grandi tratti
alla memoria lo svolgimento dell'argomentazione, in modo da
poter rintracciare in ciascuna delle tre posizioni le difficoltà che
vi sono insite; il che non ci porterà fuori dal discorso della
modernità, ma ce ne farà forse comprendere meglio il tema. A
tal fine devo certamente accollarmi drastiche semplificazioni.
Partendo dalla critica di Marx ad Hegel, intendo osservare come
la trasformazione del concetto di riflessione in quello di produzione, e la sostituzione dell'' autocoscienza' con il ' lavoro ',
sfoci, lungo la linea del marxismo occidentale, in un'aporia. La
metacritica degli hegeliani di destra insiste con buone ragioni
sul fatto che il grado di differenziazione sistemica raggiunto nelle
società moderne non può essere semplicemente annullato. Da
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questa tradizione deriva un neoconservatorismo che per parte
sua incappa senza dubbio in difficoltà di fondazione, quando
deve spiegare come si possano equilibrare e compensare i costi
e le instabilità di un processo di modernizzazione che si autoriproduce.
III
La prosecuzione del progetto hegeliano come filosofia della prassi
Da molte testimonianze letterarie sappiamo che le prime ferrovie hanno rivoluzionato l'esperienza che i contemporanei avevano dello spazio e del tempo. Le ferrovie non hanno creato
la coscienza moderna del tempo; ma nel corso del XIX secolo
esse divennero letteralmente il veicolo con il quale questa coscienza moderna del tempo si impadronisce delle masse - la
locomotiva diviene il simbolo popolare di una vertiginosa messa
in moto di tutte le condizioni di vita, interpretata come progresso. Non sono più soltanto le élites intellettuali che esperiscono l'abolizione dei limiti temporali dei mondi della vita tradizionali; già Marx, nel Manifesto comunista, può fare appello a
un'esperienza quotidiana, quando riconduce « l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento
eterni » al « sovvertimento dei modi di produzione e di traffico »:
Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro
seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e
i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza
tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni
cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con
occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti 7 •
Questa formulazione contiene tre importanti implicazioni.
a) Il senso direzionale della storia si può ricavare, prima
di ogni considerazione filosofica, per così dire, empiricamente,
dalla modalità del movimento dei decorsi storici: la modernizzazione è maggiormente progredita là dove la messa in movimento e il sovvertimento delle condizioni di vita subiscono la
loro massima accelerazione. Di conseguenza per Marx, il quale
7 K. Marx- F. Engels, Werke (d'ora in poi citato come MEw), vol. IV,
Berlin 1959, p. 465 (tr. it., Manifesto del Partito Comunista, Torino 1948, p. 97).
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si attiene a questo criterio di accelerazione, è un fatto storico
che il mondo moderno abbia il suo centro di gravità in Occidente, in Francia e soprattutto in Inghilterra. Marx ha un'idea
ben chiara della contemporaneità del non-contemporaneo, e ritiene che le condizioni tedesche del 1843 non raggiungano nemmeno il 1789, secondo il computo temporale francese. Le condizioni tedesche « stanno sotto il livello della storia », il presente
politico « si trova già, come fatto polveroso, nella soffitta storica
dei popoli moderni » 8 •
b) Se però la società moderna sviluppa una dinamica nella
quale tutto ciò che è corporativo e stabile si volatilizza comunque, cioè senza l'intervento consapevole di soggetti agenti, allora
si trasforma anche il carattere di ciò che è naturale ossia del
'positivo'. La prospettiva del giovane Hegel non è certo affatto
mutata per il giovane Marx: si deve spezzare l'incantesimo che
il passato fa pendere sul presente; solo nel futuro comunista
il presente dominerà sul passato 9 • Ma il positivo non si presenta
più nella sua forma irrigidita e persistente; occorre invece uno
sforzo teoretico per scoprire nella permanenza dei mutamenti la
positività della coazione a ripetere. Un rivoluzionamento delle
condizioni di vita compiuto inconsapevolmente è l'apparenza che
occulta le tendenze del movimento realmente rivoluzionario.
Solamente ciò che a partire dall'inizio del secolo XIX si definisce come un movimento sociale può liberare gli uomini dalla
maledizione di una mobilità imposta dall'esterno. Marx vuole
perciò «(seguire) la guerra civile più o meno latente all'interno
della società attuale fino al momento nel quale essa erompe in
aperta rivoluzione » 10 • Marx postula un movimento sociale,
molto prima che esso potesse assumere un aspetto storicamente
comprensibile nel movimento europeo dei lavoratori.
c) Ma alle spalle tanto della mobilità imposta delle condizioni esterne della vita, quanto dell'impeto emancipativo dei
movimenti sociali, sta la ben visibile liberazione delle forze produttive - « il rapido miglioramento degli strumenti di produzione, la comunicazione immensamente facilitata». Ciò spiega il
carattere disincantante del processo accelerato della storia, la
profanazione del sacro. Siccome la duplice accelerazione della
storia si riconduce in ultima istanza al ' progresso nell'industria '
8 MEW, vol. l, p. 379 (tr. it., Per la critica della filosofia hegeliana del diritto. Introduzione, in Marx-Engels, Opere complete [d'ora innanzi citato come
MEOC], vol. III, Roma 1976, pp. 191 sgg,).
9 MEW, vol. IV, p. 476 (tr. it. cit., p. 137).
IO MEW, vol. IV, p. 473 (tr. it. cit., p. 107, modificata).
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(addirittura entusiasticamente celebrata nel Manifesto comunista), la sfera della società civile assume quel posto che lo Hegel
degli scritti teologici e politici giovanili aveva· riservato alla ' vita
del popolo '. Agli occhi del giovane Hegel tanto l'ortodossia religiosa e l'Illuminismo quanto le istituzioni politiche del decadente Reich tedesco si erano autonomizzate rispetto alla vita del
popolo; per Marx ora la società, «la realtà politico-sociale moderna », costituisce il terreno dal quale si sono distaccate quali
astrazioni la vita religiosa, la filosofia e lo Stato borghese. La
critica della religione condotta nel frattempo da Feuerbach, D. F.
Strauss e B. Bauer deve servire come modello per la critica dello
Stato borghese.
È vero che il positivismo della vita estraniata da se stessa
è per il momento ancora rafforzato da una filosofia dell'unificazione, che, con un superamento della società borghese costruito
nel pensiero, dà ad intendere che la riconciliazione è già attuata.
Perciò Marx si serve della filosofia hegeliana del diritto per
mostrare quale aspetto dovrebbe presentare un superamento
della società borghese, se soddisfacesse quell'idea della totalità
etica che è propria di Hegel 11 • Il punto principale della critica
marxiana, che oggi non sorprende più, consiste come è noto
nella tesi secondo cui lo Stato (il quale raggiunge la sua vera
compiutezza nei sistemi parlamentari dell'Occidente e non nella
Prussia monarchica) non colloca affatto la società antagonistica
in una sfera di eticità vivente; lo Stato adempie soltanto agli
imperativi funzionali di questa società ed è anch'esso un'espressione della sua eticità lacerata 12 •
Il Questa via egli la fonda del resto col teorema della non contemporaneità del contemporaneo: « La filosofia tedesca del diritto e dello stato è l'unica
storia tedesca che stia al pari col moderno presente ufficiale [ ... ] Noi siamo i
contemporanei filosofici del presente, senza esserne i contemporanei storici >>
(MEW, vol. l, p. 383 [tr. it. ci t., p. 195] ).
12 Il giovane Marx interpreta ancora il rapporto fra Stato e società nel
senso della teoria dell'azione dal punto di vista dei ruoli complementari del
'citoven' e del ' bourgeois ', del cittadino e della persona giuridica privata. Il
borghese in apparenza sovrano conduce una doppia esistenza - << una vita celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera
come ente comunitario, e una vita nella società civile, nella quale agisce come
uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a
mezzo e diviene trastullo di forze estranee» (MEW, vol. l, p. 355 [tr. it., Sulla
questione ebraica, in MEoc cit., vol. III, p. 166, modificata]). Qui l'idealismo
dello Stato borghese non fa altro che nascondere il compimento del materialismo della società civile, cioè la realizzazione del suo contenuto egoistico. Il
senso della rivoluzione borghese è duplice: essa emancipa la società civile dalla
politica, ed anche dall'apparenza di un contenuto universale; ma al contempo
strumentalizza la comunità costituita in ideale indipendenza per « il mondo dei
bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto privato », in cui lo Stato
trova la sua base naturale. Dal contenuto sociale dei diritti dell'uomo, Marx
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Da questa critica risulta la prospettiva di un tipo di autoorganizzazione della società che supera la scissione fra l'uomo
pubblico e quello privato, e distrugge tanto la finzione della
sovranità dei cittadini quanto l'esistenza estraniata dell'uomo
sussunto « sotto il dominio di rapporti disumani »: « Solo quando l'uomo reale, individuale, riprende in sé il cittadino astratto
[ ... ], quando egli ha riconosciuto e organizzato le sue jorces
propres come forze sociali, e perciò non separa più da sé la
forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora
l'emancipazione umana è compiuta » 13 • Questa prospettiva determinerà d'ora innanzi l'interpretazione che la filosofia della prassi
offre della modernità 14 • La filosofia della prassi si lascia guidare
dall'intuizione che anche sottostando alle limitazioni funzionali
di sistemi sociali altamente complessi rimane ancora la promettente prospettiva di realizzare l'idea della totalità etica.
Perciò Marx si occupa con particolare insistenza del paragrafo 308 della Filosofia del diritto, in cui Hegel polemizza contro l'idea « che tutti singolarmente debbano prender parte alla
discussione e risoluzione degli affari generali ». Tuttavia Marx
fallisce nel compito autoassegnatosi di esplicare la struttura di
una formazione della volontà che soddisfi « la tendenza della
società civile a trasformarsi in società politica, o a fare della
società politica la società reale » 15 • I parallelismi fra Marx ed
Hegel sono sorprendenti. Nella loro gioventù entrambi si mantengono aperta la possibilità di utilizzare la spontanea formazione della volontà in una comunità di comunicazione sottoposta
a coazioni cooperative, quale modello per la riconciliazione della
società borghese in sé scissa; ma entrambi rinunciano in seguito,
e per motivi similari, a servirsi di questa possibilità. Marx infatti
soggiace, come Hegel, alle coazioni concettuali della filosofia del
soggetto. Anzitutto egli si distanzia alla maniera hegeliana dall'impotenza del dover-essere di un socialismo puramente utopiricava che « la sfera nella quale l'uomo si comporta come ente comunitario viene
degradata al di sotto della sfera nella quale esso si comporta come ente parziale, che non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene preso
per l'uomo vero e proprio>> (MEw, vol. l, p. 370 [tr. it. cit., pp. 178 sg.]).
13 MEW, vol. I. p. 370 (tr. it. cit., p. 182, modificata).
14 Per ' filosofia della prassi ' non intendo soltanto le diverse versioni del
marxismo occidentale che risalgono a Gramsci e a Lukacs (come la teoria critica e la scuola di Budapest, l'esistenzialismo di Sartre, Merleau-Ponty e Castoriadis, la fenomenologia di Enzo Paci e dei filosofi jugoslavi della prassi), bensì
anche le varietà radicaldemocratiche del pragmatismo americano (G. H. Mead e
J. Dewey) e della filosofia analitica (Ch. Taylor). Cfr. l'istruttivo confronto di
R. J. Bernstein, Praxis and Action, Philadelphia 1971.
15 MEw, vol. l, p. 324 (tr. i t., Critica della filosofia hegeliana del diritto, in
MEOC, vol. III, p. 133).
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stico. In ciò si fonda come Hegel sulla forza di spinta di una
dialettica dell'Illuminismo: anche il movimento trasformatore,
la liberazione del potenziale razionale di questa società, va spiegato in base allo stesso principio dal quale sono derivate le conquiste e le contraddizioni della società moderna. Tuttavia Marx
riconcilia la modernizzazione della società con un sempre più
efficace sfruttamento delle risorse naturali e con lo sviluppo
sempre più intenso di una rete globale di traffici e di comunicazioni. Questa liberazione delle forze produttive deve essere ricondotta ad un principio della modernità, il quale è fondato piuttosto nella prassi del soggetto produttore che nella rifle.ssione di
un soggetto conoscente.
A questo scopo a Marx occorre soltanto spostare gli accenti
all'interno del modello della filosofia moderna. Questo modello
distingue due relazioni egualmente originarie fra soggetto e oggetto; come il soggetto conoscente si forma opinioni capaci di
verità circa qualcosa nel mondo oggettivo, così il soggetto agente
compie attività finalistiche controllate in base al successo, per
produrre qualcosa nel mondo oggettivo. Fra conoscere e agire
fa da intermediario il progetto del processo di formazione; tramite il medium del conoscere e dell'agire il soggetto e l'oggetto
entrano in costellazioni sempre nuove, dalle quali essi stessi
vengono influenzati e modificati anche nella loro forma. La filosofia della riflessione, che privilegia la conoscenza, concepisce
il processo di formazione dello spirito (secondo il modello dell'autorelazione) come un divenir coscienti; la filosofia della
prassi, che privilegia la relazione fra il soggetto agente e il
mondo degli oggetti manipolabili, concepisce il processo di formazione del genere umano (secondo il modello dell'autoalienazione) come autoeducazione. Il principio della modernità non è
per essa l'autocoscienza, bensì il lavoro.
Da questo principio si possono ora derivare senz'altro le
forze produttive tecnico-scientifiche. Marx non può certamente
concepire in modo troppo ristretto il principio del lavoro, se
nel concetto della prassi vuole sistemare anche il contenuto
razionale della cultura borghese, in base al quale si può identificare il regresso entro il progresso. Perciò il giovane Marx assimila il lavoro alla produzione creativa dell'artista, che nelle sue
opere estrinseca le proprie forze essenziali e si appropria nuovamente del prodotto nella contemplazione pensosa. Herder e Humboldt avevano delineato l'ideale dell'individuo che si realizza
onnilateralmente; Schiller e i romantici, Schelling ed Hegel avevano poi fondato questa idea espressivistica della cultura in una
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estetica della produzione 16 • Ora Marx, trasferendo questa produttività estetica « alla vita operosa del genere umano », può
concepire il lavoro sociale come autorealizzazione collettiva dei
produttori 17 • Soltanto l'equiparazione del lavoro industriale ad
un modello ricco di contenuto normativa gli consente la decisiva
differenziazione fra un'aggettivazione delle forze essenziali e la
loro estraneazione, fra una prassi che ritorna appagata in se
stessa ed una prassi frammentata e paralizzata.
Nel lavoro estraniato il circolo di alienazione e appropriazione delle forze essenziali oggettivate è interrotto. Il produttore
viene separato dal godimento dei suoi prodotti, nei quali potrebbe ritrovare se stesso, e viene quindi estraniato anche da se
stesso.
Nel caso esemplare del lavoro salariato, l'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta interrompe la normale
circolazione della prassi. Il rapporto del lavoro salariato trasforma la concreta azione lavorativa in una prestazione di lavoro
astratto, cioè in un contributo funzionale al processo dell'autovalorizzazione del capitale, che per così dire confisca il lavoro
morto sottratto ai produttori. Lo scambio asimmetrico tra la
forza-lavoro e il salario è il meccanismo che deve spiegare perché la sfera delle forze essenziali estraniate ai lavoratori salariati si autonomizzi sistematicamente. Con questo assunto della
teoria del valore il contenuto estetico-espressivo del concetto di
prassi è ampliato con un elemento morale. Ora infatti il lavoro
estraniato non si allontana più soltanto dal modello, concepito
nei termini di un'estetica della produzione, di una prassi che
ritorna appagata in se stessa, ma anche dal modello giusnaturalistica dello scambio fra equivalenti.
Ma in definitiva il concetto della prassi deve comprendere
anche l'' attività critico-rivoluzionaria', cioè l'azione politica
autocosciente, con cui i lavoratori associati spezzano l'incantesimo capitalistico del lavoro morto sul lavoro vivo, e si appropriano delle loro forze essenziali feticisticamente estraniate. Se
infatti la totalità etica lacerata viene pensata come lavoro estraniato, e se deve superare con le sue sole forze la sua scissione,
allora anche la prassi emancipativa deve poter derivare dal
lavoro stesso. Ma questo è il punto in cui Marx si impiglia in
16
17
Cfr. Ch. Taylor, Hegel, Cambridge 1975, cap. l, pp. 3 sgg.
Cfr. la mia critica ai fondamenti della filosofia della prassi in: J. Haber-
mas, Vorstudien und Ergiinzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns,
Frankfurt a. M. 1984, pp. 482 sgg.
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difficoltà concettuali analoghe a quelle di Hegel. La filosofia della
prassi infatti non offre i mezzi per pensare il lavoro morto come
intersoggettività mediatizzata e paralizzata. Essa rimane una variante della filosofia del soggetto, che non colloca la ragione nella
riflessione del soggetto conoscente, bensì nella razionalità finalistica del soggetto agente. Nelle relazioni fra un attore e un
mondo di oggetti percepibili e manipolabili può farsi valere
soltanto una razionalità cognitivo-strumentale; e in questa razionalità finalistica non può dischiudersi quella potenza unificatrice
della ragione, che ora è raffigurata come prassi emancipativa.
La storia del marxismo occidentale ha posto in luce le difficoltà concettuali di fondo della filosofia della prassi e del suo
concetto di ragione, che derivano in ogni caso da confusioni
circa i fondamenti normativi della critica. Vorrei richiamare l'attenzione su almeno tre di tali difficoltà.
a) L'adeguamento del lavoro sociale al modello dell'' autoattività ' (Selbsttiitigkeit) nel senso di autorealizzazione creativa
potrebbe in ogni caso trarre una certa plausibilità dall'ideale
romanticamente trasfigurato dell'attività artigiana. In questo senso si orientava ad esempio il contemporaneo movimento di riforma di John Ruskin e William Morris, che esaltavano l'artigianato artistico. Ma lo sviluppo del lavoro industriale si è andato
sempre più allontanando dal modello di un processo di produzione unitario. Anche Marx alla fine ha abbandonato ogni orientamento verso il passato della prassi artigianale elevata a modello. Tuttavia egli accoglie senza dare nell'occhio i discutibili
contenuti normativi di questo concetto della prassi nelle premesse della teoria del valore-lavoro, e al contempo li rende
irriconoscibili. Ciò spiega perché nella tradizione marxista il
concetto di lavoro è rimasto tanto ambiguo quanto la razionalità finalistica in esso contenuta.
Di conseguenza la valutazione delle forze produttive oscilla
da un estremo all'altro. Alcuni accolgono con favore lo sviluppo
delle forze produttive, e soprattutto il progresso scientificotecnico, come forza motrice della razionalizzazione sociale, e si
attendono che le istituzioni regolanti la ripartizione del potere
sociale e l'accesso differenziale ai mezzi di produzione vengano
a loro volta rivoluzionate sotto la pressione razionalizzante delle
forze produttive stesse. Altri diffidano di una razionalità del controllo sulla natura, che si unisce all'irrazionalità del dominio di
classe. Scienza e tecnica, per Marx ancora un inequivocabile
potenziale emancipativo, si convertono per Lukiics, Bloch e Mar67
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cuse solo in un medium tanto più efficace di repressione
sociale. Interpretazioni a tal punto contrapposte possono prodursi in quanto Marx non rende conto del modo in cui la tangibile razionalità dell'attività finalistica si rapporta a quella razionalità, cui si ricorre intuitivamente, dell'autoattività - cioè di
una prassi sociale, che si può soltanto intravvedere nell'immagine dell'associazione di liberi produttori.
b) Un'altra difficoltà deriva dalla contrapposizione astratta
fra lavoro morto e lavoro vivente. Quando si parte dal concetto
del lavoro estraniato, il processo produttivo separato dagli orientamenti del valore d'uso si presenta come la figura spettrale delle
forze essenziali, espropriate e divenute anonime, dei produttori.
L'approccio della filosofia della prassi suggerisce che il rapporto
sistemico dell'economia capitalisticamente organizzata e del suo
complemento statale è pura apparenza, che con la abolizione dei
rapporti di produzione si dissolverà nel nulla. Da questa prospettiva tutte le differenziazioni strutturali che non possono
essere accolte nell'orizzonte d'orientamento dei soggetti agenti
perdono d'un sol colpo la loro giustificazione. Non si pone neppure il problema se i sottosistemi controllati dai media presentino qualità dotate di un proprio valore funzionale, indipendente
dalla struttura di classe. La teoria della rivoluzione suscita piuttosto l'attesa che per principio tutti i rapporti sociali reificati e
autonomizzati sistematicamente possono essere ricuperati nell'orizzonte del mondo della vita: la parvenza dileguata del capitale restituirà la sua spontaneità ad un mondo della vita irrigidito sotto l'imposizione della legge del valore. Ma se l'emancipazione e la riconciliazione sono raffigurate soltanto nella modalità della dedifjerenziazione di rapporti di vita ipercomplessi,
allora la teoria sistemica ha buon gioco per liquidare come pura
illusione, di fronte a complessità ostinate, il potere unificante
della ragione.
c) Queste due difficoltà sono collegate fra di loro, in quanto
i fondamenti normativi della filosofia della prassi, e soprattutto
la capacità operativa del concetto di prassi per i compiti di una
teoria critica della società, non sono mai stati chiariti in modo
soddisfacente. La rivalutazione del concetto del lavoro sociale
nei termini di un'estetica della produzione, e il suo ampliamento
pratico-morale, richiedono una fondazione che non può essere
procurata da ricerche metodologicamente discutibili, di tipo
antropologico oppure fenomenologico-esistenziale. Di conseguenza quelli che non collocano più la ragione nel concetto della
prassi, procedono come se potessero ricavarla dalla razionalità
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volta ad uno scopo propria dell'agire finalizzato e della autoaffermazione 18 •
Il principio del lavoro garantisce certo alla modernità un
ottimo rapporto con la razionalità. Ma la filosofia della prassi si
trova di fronte allo stesso compito con cui a suo tempo ebbe
a che fare la filosofia della riflessione. Anche nella struttura
dell'autoalienazione è insita - come nella struttura dell'autorelazione - la necessità dell'auto-aggettivazione; perciò il processo di formazione del genere umano è determinato dalla tendenza per cui gli individui che lavorano acqu!stano la loro
identità, nella misura in cui dominano la natura esterna, soltanto al prezzo della repressione della loro natura interna. Per
dissolvere questa auto-implicazione di una ragione centrata nel
soggetto, Hegel aveva un tempo contrapposto all'assolutizzazione
dell'autocoscienza l'automediazione assoluta dello spirito. Alla
filosofia della prassi, che ha abbandonato per buone ragioni questa via idealistica, non viene risparmiato un problema corrispondente; anzi nel suo caso perfino si inasprisce. Che cosa può
infatti contrapporre essa alla ragione strumentale di una razionalità finalistica elevata a totalità sociale, se deve concepirsi essa
stessa, materialisticamente, come componente e risultato di questo contesto reificato - se la spinta all'aggettivazione penetra
nell'intimo della ragione criticante?
Nella loro Dialettica dell'illuminismo, Horkheimer e Adorno
non volevano più condurre fuori da questa aporia, ma soltanto
svilupparla. Essi si oppongono certo alla ragione strumentale con
una ' rimemorazione ' che indaga i moti di una natura in rivolta,
che protesta contro la sua strumentalizzazione. Essi hanno anche
un nome per designare questa resistenza: Mimesis. Questo nome
richiama associazioni che sono intenzionali: empatia e imitazione. Ciò rammenta un rapporto fra persone, in cui l'alienazione aderentemente identificante dell'uno al modello dell'altro
non richiede l'abbandono della propria identità, ma garantisce
al contempo dipendenza ed autonomia: « La condizione riconciliata non annetterebbe con imperialismo filosofico l'estraneo,
bensì troverebbe la sua felicità in quanto esso rimanga, nella
vicinanza garantita, il lontano e il diverso, al di là tanto dell'eterogeneo quanto del proprio » 19 • Ma questa facoltà mimetica
si sottrae ad una concettualità che è improntata unicamente dalla
18 Sull'obsolescenza del paradigma della produzione, cfr., in/ra, l'excursus,
pp. 77 sgg.
19 T. W. Adorno, Negative Dialektik, in Werke, vol. VI, Frankfurt a. M.
1973, p, 192.
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relazione soggetto-oggetto; perciò la mimesis si manifesta come
puro impulso, come il semplice opposto della ragione. La critica
della ragione strumentale non può far altro che denunciare come
difetto ciò che non è però in grado di spiegare nel suo carattere
difettoso. Essa infatti è prigioniera di concetti che consentono
ad un soggetto di poter disporre della natura esterna ed interna,
ma che non sono fatti per fornire ad una natura oggettivata il
linguaggio, di modo che essa possa dire ciò che le viene fatto
dai soggetti 20 • Per mezzo della sua Dialettica negativa Adorno
tenta di determinare ciò che non si può esporre discorsivamente;
e con la sua Teoria estetica suggella la cessione della competenza conoscitiva all'arte. L'esperienza estetica derivante dall'arte
romantica, che il giovane Marx aveva contrabbandato nel concetto di prassi, è stata radicalizzata nell'arte d'avanguardia; ora
Adorno la indica come l'unico testimone contro una prassi, che
nel frattempo ha sotterrato sotto le sue macerie tutto ciò che
una volta si intendeva come ragione. La critica può mostrare
ancora soltanto a modo di esercizio, perché quella facoltà mimetica sfugga alla presa teoretica, e trovi provvisoriamente asilo
nelle opere più avanzate dell'arte moderna.
IV
La risposta neoconservatrice alla filosofia della prassi
Il neoconservatorismo, che oggi domina, soprattutto nelle scienze
sociali, una scena delusa dal marxismo 21 , si nutre di motivi dell'hegelismo, di destra. I discepoli ufficiali di Hegel - mi riferirò soprattutto a Rosenkranz, Hinrichs e Oppenheim - sono
i contemporanei, di qualche anno più vecchi, di Marx. Non
reagiscono quindi direttamente a Marx, bensì alla sfida lanciata
dalle dottrine e dai movimenti del primo socialismo in Francia
e in Inghilterra, che erano stati resi noti in Germania soprattutto da Lorenz von Stein 22 • Questi hegeliani della prima gene20 Cfr., infra, la Lezione quinta, pp. 109 sgg.
21 H. Steinfels, The Neoconservatives, New York 1979; R. Saage, Neokonservatives Denken in der Bundesrepublik, in Rilckkehr zum starken Staat?,
Frankfurt a. M. 1983, pp. 228 sgg.; H. Dubiel, Die Buchstabierung des Fortschritts, Frankfurt a. M. 1985.
22 L'opera in tre volumi di Lorenz von Stein, apparsa nel 1849, Geschichte
der sozialen Bewegungen in Frankreich (Darmstadt 1959), è una continuazione
della sua precedente opera su Sozialismus und Kommunismus des heutigen
Frankreichs.
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razione ritenevano di essere i difensori del liberalismo prequarantottesco. Si sforzavano di acquisire alla filosofia hegeliana
del diritto il margine necessario per l'attuazione politica dello
Stato liberale di diritto e di talune riforme sociali. Essi hanno
spostato gli accenti fra una ragione che secondo il concetto è
l'unica realtà, e le forme finite del suo presentarsi storico. Le
condizioni empiriche richiedono di essere perfezionate, perché vi si riproducono ancor sempre dei passati, che in sé sono
già superati. Gli hegeliani di destra sono convinti, al pari di
quelli di sinistra, che « il presente raccolto nel pensiero [ ... ]
non è solo teoreticamente nel pensiero, bensì mira a penetrare
anche praticamente la realtà» 23 • Anch'essi concepiscono il presente come luogo privilegiato della realizzazione della filosofia:
le idee devono entrare in rapporto con gli interessi esistenti.
Anch'essi vedono la sostanza politica dello Stato inserita in una
formazione della volontà radicalmente temporalizzata 24 •
La destra hegeliana non chiude gli occhi nemmeno di fronte
al potenziale conflittuale della società borghese 25 ; ma rifiuta decisamente la via del comunismo. Tra gli allievi liberali e quelli
socialisti di Hegel vi è dissenso quanto a quella abolizione della
23 H. F. W. Hinrichs, Politische Vorlesungen,in H. Liibbe (a cura di), Die
Hegelsche Rechte, Stuttgart 1962, p. 89 (tr. it., Lezioni sulla situazione politica
dell'epoca contemporanea, in Gli hegeliani liberali, Roma-Bari 1974, p. 123, modificata).
24 I saggi di Rosenkranz sui concetti di partito politico e di opinione pubblica rispecchiano in modo drammatico l'irruzione della coscienza moderna del
tempo nel mondo della filosofia hegeliana del diritto (cfr. Liibbe, op. cit., pp.
59 sgg., 65 sgg_ [tr. it. ci t., pp. 73 sgg., 85 sgg.] ). Nel processo che il futuro
intenta contro il passato, il continuum storico si decompone in una serie di
momenti attuali. L'opinione pubblica in continua trasformazione è il medium di
questo conflitto, che non divampa soltanto fra i partiti del progresso e dell'immobilismo, ma penetra persino all'interno degli stessi partiti, trascina ogni singolo partito nel vortice della polarizzazione tra futuro e passato e li scinde in
frazioni, ali, cricche, ecc. Perfino l'idea di un'avanguardia che incarna il futuro
nel movimento presente non è estranea ai liberali - e nel Manifesto comunista
trova soltanto la sua formulazione più decisa.
25 Oppenheim polemizza contro « il cieco dominio della concorrenza, della
domanda e dell'offerta>>, contro <<la tirannia del capitale e della grande proprietà fondiaria>>, che, lasciati a se stessi, <<darebbero sempre origine ad un'oligarchia di possidenti>> (H. B. Oppenheim, in Liibbe, op. cit., pp. 186 sg. [tr. it.
ci t., pp. 298 sgg.] ). Lo Stato deve intervenire nel presunto << santuario delle condizioni industriali>>: << L'amministrazione [ ... ] è stata impassibile a guardare
come i grandi capitalisti scavassero un canale di deflusso, nel quale, sotto l'illusoria tutela della ' libera concorrenza', venisse a scorrere tutto il patrimonio
nazionale, ogni ricchezza e ogni fortuna (op. cit., p. 193 [tr. it., p. 293] ). Hinrichs vede che il sistema del lavoro e dei bisogni può mantenere la promessa
della libertà soggettiva solamente se anche << all'operaio (venga) assicurato tanto,
che egli possa mantenersi in vita sviluppando le facoltà intellettuali, che sia
messo in condizione di acquistarsi la proprietà>> (op. cit., p. 131 [tr. it., p. 189,
modificata]). E Rosenkranz si aspetta una <<nuova, sanguinosa rivoluzione>>,
qualora non vengano risolte <<le impellenti questioni sociali >> (op. cit., p. 150
[tr. it., p. 210] ).
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differenza fra Stato e società, che gli uni temono e gli altri invece
vogliono. Marx era convinto che l'auto-organizzazione della società, che toglie al potere pubblico il carattere politico, deve
appunto metter fine a quella condizione che secondo la concezione dei suoi avversari era stata addirittura prodotta per tal via
- cioè la risoluzione senza residui dell'eticità sostanziale nell'immediata concorrenza degli interessi naturali. Entrambe le
parti giudicano dunque criticamente la società borghese come
stato della necessità e dell'intelletto, che ha come unico scopo
il benessere e la sussistenza del singolo, come contenuto il lavoro
e il godimento della persona privata, come principio la volontà
naturale, e come conseguenza la moltiplicazione dei bisogni. Gli
hegeliani di destra vedono però realizzato nella società borghese
il principio del sociale in genere, e sostengono che esso dovrebbe
giungere al dominio assoluto non appena fosse introdotta la
distinzione fra il politico e il sociale 26 • La società si presenta fin
da principio come una sfera della disuguaglianza dei bisogni,
delle disposizioni e delle capacità naturali; essa costituisce un
contesto oggettivo, i cui imperativi funzionali intervengono inevitabilmente negli orientamenti soggettivi dell'azione. Di fronte
a questa struttura complessa, devono necessariamente fallire tutti
quei tentativi che vogliono introdurre nella società il principio
civile dell'uguaglianza, sottomettendola alla formazione democratica della volontà dei produttori associati '2:1.
Questa critica è stata più tardi ripresa e accentuata da Max
Weber; i fatti hanno dato ragione alla sua prognosi, secondo
cui l'abolizione del capitalismo privato non significherebbe affatto una rottura della gabbia d'acciaio del lavoro industriale
moderno. Nel ' socialismo realmente esistente' il tentativo di dissolvere la società civile in quella politica ha avuto come conseguenza soltanto la loro burocratizzazione, ha soltanto ampliato
la coazione economica in un controllo amministrativo che compenetra tutti gli ambiti della vita.
D'altro lato, con la sua fiducia nelle facoltà rigeneratrici di
uno Stato forte, la destra hegeliana ha fatto anch'essa naufragio.
Rosenkranz difendeva ancora la mona_rchia, perché solo essa
potrebbe assicurare la neutralità di un governo posto al di sopra
26 H. Liibbe difende imperterrito questa posizione in Aspekte der politischen
Philosophie des Burgers, in Philosophie nach der Aufkliirung, Diisseldorf 1980,
pp. 211 sgg.
'2:1 << Come può amministrarsi in comune ciò che non forma un tutto indiviso e si rigenera e si riplasma ogni giorno nell'infinita e infinitamente varia
produzione degli individui?» (Oppenheim, in Liibbe, Die Hege/sche Rechte
ci t., p. 196 [tr. it. ci t., p, 297] ),
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dei partiti, mitigare l'antagonismo degli interessi, garantire l'unità
del particolare con l'universale. Dalla sua prospettiva il governo
deve restare l'ultima istanza anche perché esso solo « può ricavare dal libro dell'opinione pubblica le norme necessarie del
suo agire » 28 • Parte di qui una linea di storia dello spirito che
conduce, attraverso Cari Schmitt, fino a quegli studiosi del diritto statale che, guardando indietro alla ingovernabilità della
Repubblica di Weimar, credettero di dover giustificare lo Stato
totale 29 • Sulla base di questo filone tradizionale il concetto dello
Stato sostanziale ha potuto trasformarsi in quello di uno Stato
puramente autoritario, perché nel frattempo era stata distrutta
a fondo quella disposizione per gradi dello spirito soggettivo,
oggettivo ed assoluto, alla quale avevano ancora fatto ricorso gli
hegeliani di destra 30 •
Dopo la fine del fascismo gli hegeliani di destra ricominciano da capo, avviando due revisioni. Da un lato si accordano
con un'epistemologia che non concede alcun diritto alla ragione,
all'infuori della cultura consolidata nelle scienze della natura e
dello spirito; dall'altro accettano il risultato dell'Illuminismo
sociologico, per cui lo Stato (intrecciato funzionalmente con la
economia capitalistica) assicura in ogni caso l'esistenza privata
e professionale del singolo nella società industriale basata sulla
divisione del lavoro, ma in nessun caso l'innalza eticamente.
In base a tali premesse, autori quali Hans Freyer e Joachim
Ritter 31 rinnovano le figure concettuali della destra hegeliana.
Alle scienze dello spirito spetta l'eredità teoretica della filosofia
ormai congedata, - e alle potenze tradizionali dell'eticità, della
religione e dell'arte quel compito compensativo che non può più
Rosenkranz, in Liibbe, op. cit., p. 72 (tr. it., p, 96).
Sulle pubblicazioni in proposito di E. Forsthoff, E. R. Huber, K. Larenz
ecc., cfr. già H. Marcuse, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitiiren
Staatsaufjassung, in << Zeitschrift flir Sozialforschung >>, 1934, pp. 161 sgg. (tr.
it., La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello stato, in Cultu·
ra e società, Torino 1969, pp. l sgg.).
30 Questa decomposizione era stata introdotta dalla scuola hegeliana di sinistra. Le riflessioni metodologiche sulle scienze della natura e dello spirito in
rapido progresso, cioè il positivismo e lo storicismo, avevano poi discreditato
tutto ciò che voleva andar oltre il « semplice pensiero intellettivo ». Rosenkranz
aveva ancora parlato della imperitura maestà dello spirito che agisce nella storia
- ma questo tipo di filosofia della storia era stato superato alla fine del diciannovesimo secolo. Chi voleva ora attenersi ancora alla figura concettuale di un
superamento della società civile nello Stato, aveva a sua disposizione ancora
soltanto il concetto nominalistico del potere, al quale Max Weber aveva tolto
ogni connotazione razionale. Allo Stato si possono addossare tutt'al più, esistenzialisticamente, significati derivanti dal rapporto amico-nemico.
31 H. Freyer, Weltgeschichte Europas, 2 voli., Wiesbaden 1948; Theorie des
gegenwiirtigen Zeitalters, Stuttgart 1955; J. Ritter, Metaphysik und Politik, Frankfurt a. M. 1969.
28
29
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venir affidato allo Stato. Questa argomentazione modificata fornisce la base per collegare l'atteggiamento affermativo verso la
modernità sociale con una parallela svalutazione della modernità culturale. Questo modello valutativo dà oggi l'impronta alle
diagnosi neoconservatrici del tempo tanto negli Stati Uniti quanto nella Repubblica Federale Tedesca 32 • Cercherò qui di chiarirlo in base ai lavori di Joachim Ritter, che da noi hanno esercitato una così grande influenza.
In un primo passo interpretativo, Ritter separa la modernità
da quella coscienza del tempo dalla quale essa aveva ricavato
la propria autocomprensione. Dato che la società moderna riduce
l'uomo alla sua natura soggettiva, al godimento e al lavoro, e
dato che essa si riproduce attraverso l'utilizzazione e lo sfruttamento industriale della natura esterna, Ritter ritiene che l'essenza storica della modernità sia caratterizzata da un rapporto
astorico con la natura. Il mondo moderno « separa gli ordinamenti storici dall'essere sociale dell'uomo » 33 ; e la scissione dell'esistenza sociale è fondata su questa mancanza di storia: « Ciò
che vien fuori con la nuova epoca è [ ... ] la fine della storia
realizzatasi fin qui; il futuro non ha relazione con l'origine » 34 •
Questa descrizione suggerisce due conseguenze. Da un lato
la modernità sociale può dispiegare una propria dinamica evolutiva, distaccata dagli eventi tramandati dalla storia, che le conferisce la stabilità di una seconda natura; ed a ciò si collega
l'idea tecnocratica, che il processo di modernizzazione è controllato da coazioni oggettive che non possono essere influenzate.
Dall'altro lato i cittadini del mondo moderno devono la loro
libertà soggettiva proprio all'astrazione dagli ordini storici della
vita; senza l'azione frenante delle logore imbottiture tradizionali essi sarebbero senza dubbio consegnati indifesi agli imperativi funzionali dell'economia e dell'amministrazione. A ciò si
collega l'idea storicistica secondo cui la libertà soggettiva, che
si presenta come scissione, può essere protetta dai pericoli di
una socializzazione e burocratizzazione totali, soltanto se le svalutate potenze della tradizione assumono tuttavia un ruolo di
compensazione. La loro validità oggettiva è ormai infranta; ma
le si deve rafforzare come potenze di fede privatizzate « della
32 J. Habermas, Neokonservative Kulturkritik in den USA und in der Bundesrepublik, in Die Neue Uniibersichtlichkeit, Frankfurt a. M. 1985, pp. 30 sgg.
33 J. Ritter, Hegel und die franzosische Revolution, Frankfurt a. M. 1965,
p. 62 (tr. it., Hegel e la Rivoluzione francese, Napoli 1970, p. 54).
34
lvi, p. 45 (tr. it. cit., p. 42).
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vita personale, della soggettività e dell'origine» 35 • La continuità
della storia interrotta esteriormente nella società moderna deve
essere conservata nella sfera della libertà interiore: « La soggettività si è fatta carico di conservare e mantener presenti nella
religione quella conoscenza di Dio, nell'estetica quella bellezza,
e quale morale quell'eticità, che sul terreno della società divengono, nella reificazione del mondo, un che di puramente soggettivo. Questa è la sua grandezza e il suo ufficio cosmico-storico » 36 •
Ritter ha ben percepito la difficoltà di questa teoria della
compensazione, ma non ha veramente compreso la paradossalità
del suo tradizionalismo senza speranza, in quanto illuminato
storicisticamente. Come possono continuare a vivere come potenze di fede soggettive quelle tradizioni, di cui con la decadenza delle immagini religiose e metafisiche del mondo vanno
perdute le ragioni plausibili, se soltanto la scienza conserva
ancora l'autorità di fondare qualcosa che deve essere ritenuto
vero? Ritter crede che esse possano riacquistare la loro credibilità tramite il medium della loro riattualizzazione operata dalle
scienze dello spirito.
Le scienze moderne si sono liberate dalla pretesa razionale
della tradizione filosofica. Esse rovesciano il rapporto classico fra
teoria e prassi. Le scienze della natura, che producono un sapere
tecnicamente valorizzabile, sono divenute una forma di riflessione della prassi, la prima forza produttiva. Fanno parte del
contesto funzionale della società moderna. Ma ciò vale, in un
senso diverso, anche per le scienze dello spirito; che non servono, è vero, alla riproduzione della vita sociale, ma sicuramente a compensare le deficienze della società. La società moderna ha bisogno « di un organo, che compensi la sua mancanza
di storia e tenga aperto e presente quel mondo storico e spirituale, che deve porre fuori di se stessa » 37 • Ma con l'accenno
alla funzione delle scienze dello spirito è ben difficile fondare
il valore teoretico dei loro contenuti. Proprio se noi partiamo,
come Ritter, da un'autocomprensione oggettivistica delle scienze
dello spirito, non si riesce a vedere perché mai l'autorità del
metodo scientifico dovrebbe comunicarsi a quei contenuti che
per tal via sono attualizzati storicamente. Lo storicismo è anch'esso un'espressione di quel problema che esso risolve agli
35
36
lvi, p. 70 (tr. it. cit., p. 59).
J. Ritter, Subjektivitiit und industriel/e Gesel/schaft, in Subjektivitiit,
Frankfurt a. M. 1974, p. 138.
37 J. Ritter, Die Aujgabe der Geisteswissenschajten in der modernen Gesell·
schaft, in Subjektivitiit cit., p. 131.
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occhi di Ritter: la musealizzazione operata dalle scienze dello
spirito non restituisce alle potenze tradizionali svalutate la loro
forza vincolante. La forma storica comparativa dell'Illuminismo
non può neutralizzare quell'effetto di distanziamento che ha
avuto inizio nel secolo XVIII con l'Illuminismo astorico 38 •
Joachim Ritter collega un'interpretazione tecnocratica della
società moderna con la valorizzazione funzionalistica della cultura tradizionale. I suoi discepoli neoconservatori ne hanno tratto la conseguenza che tutti quei fenomeni sgradevoli che non si
adattano al quadro di una modernità compensativamente appagata, devono essere imputati all'attività culturale rivoluzionaria
dei ' mediatori di senso '. Essi ripetono - naturalmente con un
effetto ironico - la critica del vecchio Hegel alle astrazioni che
si inseriscono fra la realtà razionale e la coscienza dei suoi critici. Infatti la soggettività dei critici ora non deve più consistere nel fatto che essi non sono in grado di cogliere una ragione
modellata ad oggettività. Ai critici viene addebitato piuttosto
l'errore di partire ancor sempre dall'attesa che la realtà possa
assumere comunque una forma razionale. Essi devono lasciarsi
insegnare dai loro avversari che il progresso scientifico è divenuto «privo d'interesse per le idee politiche ». Le conoscenze
scientifiche sperimentali conducono a innovazioni tecniche o a
raccomandazioni di tecnica sociale, le interpretazioni delle scienze dello spirito assicurano le continuità storiche. Chi avanza pretese teoretiche più ampie, chi pratica la filosofia e la sociologia
sulle orme dei maestri del pensiero, si tradisce come un 'intellettuale', come un corruttore travestito da illuminista, che contribuisce al potere clericale della Nuova Classe.
Dalla necessità di compensazione di una modernità sociale
instabile i neoconservatori traggono l'ulteriore conseguenza, che
i contenuti esplosivi della cultura moderna devono venir disinnescati. Essi spengono il riflettore della :;oscienza temporale
orientata verso il futuro, e ricuperano tutta la realtà culturale,
tutto ciò che non è direttamente incappato nel vortice della dinamica della modernizzazione, nella prospettiva della conservazione memorizzante. Questo tradizionalismo toglie il loro diritto
tanto ai punti di vista costruttivi e· critici dell'universalismo morale, quanto alle forze creative e sovversive dell'arte d'avanguardia. Un'estetica rivolta al passato 39 minimizza in particolare
38 H. Schnadelbach, Geschichtsphi/osophie nach Hegel. Die Probleme des
Historismus, Freiburg 1974.
39 J. Ritter, Landschaft. Zur Funktion des Asthetischen in der modernen
Gesellschajt, in Subjektivitiit cit., pp. 141 sgg.
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quei motivi, emersi dapprima nel protoromanticismo, di CUl Sl
è nutrita la critica nietzscheana della ragione, ispirata all'estetica.
Nietzsche vuol far saltare il quadro del razionalismo occidentale, in cui si muovono pur sempre gli opposti fautori, di sinistra e di destra, dell'hegelismo. Questo antiumanesimo, che è
stato continuato in due varianti da Heidegger e da Bataille,
costituisce la vera sfida per il discorso della modernità. Intendo
anzitutto ricercare, in base a Nietzsche, che cosa si nasconde
dietro i gesti radicali di questa sfida. Se alla fine dovesse risultare che anche questa strada non conduce seriamente fuori dalla
filosofia del soggetto, non dovremmo ritornare a quell'alternativa,
che Hegel a Jena aveva lasciato cadere a sinistra - ad un concetto di ragione comunicativa, che pone in una diversa luce la
dialettica dell'Illuminismo? Forse il discorso della modernità ha
preso la direzione sbagliata proprio a quel primo crocevia, di
fronte al quale si era fermato anche il giovane Marx, quando
criticava Hegel 40 •
Excursus
sull'obsolescenza del paradigma della produzione
Fin tanto che la teoria della modernità si orienta in base ai
concetti fondamentali della filosofia della riflessione, ai concetti
del conoscere, del divenir coscienti e dell'autocoscienza, il suo
rapporto interno con il concetto della ragione o della razionalità
è evidente. Ma ciò non si può dire senz'altro per i concetti fondamentali della filosofia della prassi, quali l'agire, l'autoproduzione e il lavoro. :È vero che i contenuti normativi dei concetti
di prassi e di ragione, di attività produttiva e di razionalità, sono
ancora intrecciati, certo in maniera non facile a scorgere, con
la teoria marxiana del valore-lavoro. Ma questo intreccio si dissolve al più tardi negli anni Venti del nostro secolo, quando
teorici come Gramsci, Luhks, Korsch, Horkheimer e Marcuse
fanno valere, contro l'economismo e l'oggettivismo storico delia
Seconda Internazionale, il senso originariamente pratico di una
critica della reificazione. All'interno del marxismo occidentale si
distinguono due linee tradizionali, determinate l'una dalla recezione di Max Weber e l'altra da una recezione di Husserl e di
Heidegger. Il giovane Lukacs e la teoria critica intendono la
reificazione come razionalizzazione, e dall'appropriazione mate40
Cfr., infra, la Lezione undicesima, pp. 297 sgg.
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rialistica di Hegel ricavano un concetto critico della razionalità,
senza ricorrere per questo al paradigma della produzione 41 •
Per contro, il giovane Marcuse e in seguito Sartre rinnovano
il paradigma della produzione, che nel frattempo si era esaurito,
leggendo il Marx degli scritti giovanili alla luce della fenomenologia di Husserl, e sviluppano un concetto di prassi fortemente
normativa, senza ricorrere per questo ad una concezione della
razionalità. Soltanto il mutamento di paradigma dall'attività produttiva all'agire comunicativo, e la riformulazione in termini di
teoria della comunicazione, divenuta possibile grazie ad esso,
del concetto di mondo della vita (che a partire dal saggio di
Marcuse sul concetto filosofico del lavoro è entrato in sempre nuove combinazioni con il concetto marxiano della prassi) fa nuovamente incontrare quelle due tradizioni. La teoria dell'agire comunicativo produce infatti un'intima relazione fra prassi e razionalità, indagando gli assunti di razionalità della prassi comunicativa quotidiana e riportando il contenuto normativa dell'agire
orientato verso l'intesa al concetto della razionalità comunicativa 42 • Questo mutamento di paradigma è motivato fra l'altro
dal fatto che i fondamenti normativi di una teoria critica della
società non potevano essere dimostrati né sull'una né sull'altra
di queste linee tradizionali. Ho analizzato in altra sede le aporie
del weber-marxismo. Vorrei ora discutere le difficoltà di un
marxismo che rinnova il paradigma della produzione mediante
prestiti dalla fenomenologia, in base a due lavori provenienti
dalla Scuola di Budapest. È singolare che il tardo Lukacs abbia
ancora azionato gli scambi verso una svolta antropologica ed
una riabilitazione del concetto di prassi come ' mondo quotidiano' 43 •
Husserl ha introdotto il concetto di costituzione della prassi
nel contesto delle sue analisi del mondo della vita. Per sua
natura non è certamente un concetto fatto per affrontare problematiche autenticamente marxiane: come si vede ad esempio dal
fatto che le teorie del mondo quotidiano, sviluppate l'una indipendentemente dall'altra da Berger e Luckmann ricollegandosi
41 Cfr. in proposito: H. Brunkhorst, Paradigmakern und Theoriedynamik
der Kritischen Theorie der Gesellschaft, in « Soziale Welt >>, 1983, pp. 25 no 1
sgg. (tr. it., Nucleo paradigmatico e dinamica teorica della teoria critica della società, in M. Protti [a cura di], Dopo la Scuola di Francoforte. Studi su f. Habermas, Milano 1984, pp. 171 sgg.).
42 J. Haberrnas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M.
1981 (tr. it. cit.).
43 G. Luk:ks, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, 3 voli., Neuwied
1971 sgg. (tr. it., Ontologia dell'essere sociale, 3 voli., Roma 1976, 1981).
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ad Alfred Schi.itz, e da Agnes Heller ricollegandosi a Lukacs,
presentano somiglianze sorprendenti. In entrambi i casi il concetto dell'oggettivazione è centrale: « L'espressività umana è in
grado di oggettivarsi; essa si manifesta cioè, in attività che sono
accessibili sia ai loro produttori che agli altri in quanto elementi
di un mondo comune» 44 •
L'espressione usata nell'originale inglese 'human expressivity ' rimanda al modello espressivistico, attribuito da Ch. Taylor ad Herder, di un processo di produzione e di formazione,
che è stato trasmesso a Marx tramite Hegel, il Romanticismo e
naturalmente Feuerbach 45 • Il modello dell'alienazione e riappropriazione di forze essenziali dipende da un lato dalla dinamicizzazione del concetto aristotelico della forma: l'individuo dispiega le sue forze essenziali mediante la sua propria attività produttiva; e dall'altro lato dalla mediazione, operata dalla filosofia
della riflessione, fra il concetto aristotelico e quello estetico della
forma: le oggettivazioni, nelle quali la soggettività assume forma
esterna, sono al contempo l'espressione simbolica di un atto creativo cosciente e di un processo di formazione inconscio. La produttività del genio artistico è perciò il prototipo di un'attività,
in cui autonomia e autorealizzazione si uniscono in modo tale,
che l'oggettivazione delle forze essenziali dell'uomo perde il
carattere della violenza, nei confronti tanto della natura esterna
quanto della natura interna. Ora Berger e Luckmann collegano
tale idea con la produttività costituente il mondo della coscienza
trascendentale di Husserl, e concepiscono il processo della riproduzione sociale in base a questo modello: « Il processo attraverso il quale i prodotti esteriorizzati dell'attività umana attingono il carattere dell'oggettività è l'oggettivazione » 46 • Ma l'oggettivazione designa soltanto una fase nel processo circolare di alienazione, oggettivazione, appropriazione e riproduzione delle forze
essenziali dell'uomo, nel quale gli atti creativi sono associati con
il processo di formazione dei soggetti socializzati: « La società
è un prodotto umano. La società è una realtà oggettiva. L'uomo
è un prodotto sociale » 47 •
Questa prassi del mondo della vita è interpretata, ancora
nel senso della filosofia della coscienza, come l'operazione di una
44 P. Berger- Th. Luckmann, Die gese/lscha!tliche Konstruktion der Wirklichkeit, Frankfurt a. M. 1966 (tr. it., La realtà come costruzione sociale, Bologna 1969, p. 57).
45 Ch. Taylor, Hegel, Cambridge 1975, pp. 76 sgg.
46 P. Berger- Th. Luckmann, op. cit., p. 65 (tr. it. cit., pp. 95 sg.).
47 Ibid. (tr. it., p. 96).
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soggettività che ne costituisce la base trascendentale: perciò le
è immanente la normatività dell'autoriflessione. Nel processo del
divenir cosciente è strutturalmente inserita una possibilità di
errore: l'ipostatizzazione di prestazioni proprie in un In-sé. Di
questa figura concettuale si serve il tardo Husserl nella sua critica delle scienze, al pari di Feuerbach nella sua critica della
religione e di Kant nella sua critica dell'apparenza trascendentale. Perciò Berger e Luckmann possono collegare senza sforzo
il concetto husserliano dell'oggettivismò con quello della reificazione:
La reificazione è la percezione dei prodotti dell'attività umana
come se fossero qualcosa di diverso dai prodotti umani, per esempio, fatti di natura, risultati di leggi cosmiche o manifestazioni della
volontà divina. La reificazione implica che l'uomo è capace di
dimenticare di essere lui stesso autore del mondo umano e inoltre che la dialettica tra l'uomo produttore e i suoi prodotti scompare dalla coscienza. Il mondo reificato è, per definizione, un
mondo disumanizzato; l'uomo ne fa esperienza come di una fattualità estranea, come un opus alienum, sul quale non ha alcun controllo, piuttosto che come opus proprium della sua attività produttiva 48 •
Nel concetto della reificazione si rispecchia il contenuto normativa del modello espressivistico: ciò che non può più giungere alla coscienza come il proprio prodotto, limita la propria
produttività, ostacola al contempo l'autonomia e l'autorealizzazione, ed estranea il soggetto tanto dal mondo quanto da se
stesso.
La filosofia della prassi può convertire direttamente in senso
naturalistico queste determinazioni proprie della filosofia della
riflessione, non appena la figura concettuale idealistica della produzione o costituzione di un mondo venga concepita materialisticamente, cioè alla lettera come processo produttivo. In questo
senso Agnes Heller definisce la vita quotidiana come « l'insieme
delle attività dirette dagli individui alla loro riproduzione, che
creano di volta in volta le possibilità della riproduzione sociale» 49 • Con l'interpretazione materialistica del concetto idealistico della costituzione della prassi, svolto in ultimo da Husserl,
la 'produzione' si converte nell'erogazione di forza-lavoro,
lvi, p. 95 (tr. it., pp. 135 sgg., modificata).
A. Heller, Das Alltags/eben, Frankfurt a. M. 1978 (tr. it., La vita quotidiana, Ed. Riuniti 1975); cfr. anche Alltag und Geschichte, Neuwied 1970.
48
49
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l'' aggettivazione ' nella aggettivazione di forza-lavoro, l' ' appropriazione ' del ' prodotto ' nella soddisfazione di bisogni materiali, cioè in consumo. E la 'reificazione ', che priva i produttori
delle loro forze essenziali alienate come qualcosa di estraneo,
sottratto al loro controllo, diviene sfruttamento materiale, causato dalla appropriazione privilegiata della ricchezza socialmente
prodotta, e in definitiva dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Questa reinterpretazione presenta certo il vantaggio di
sgravare il concetto della prassi quotidiana da quegli obblighi di
fondazione e da quelle difficoltà metodiche proprie di una filosofia fondamentalistica della coscienza, che Berger e Luckmann
si assumono assimilando il concetto di prassi del giovane Marx
a quello del tardo Husserl.
Ma il paradigma della produzione strappato dalle radici che
aveva nella filosofia della riflessione, porta con sé, qualora debba
svolgere analoghi servizi di teoria sociale, per lo meno tre nuovi
problemi: l. il paradigma della produzione delimita il concetto
della prassi in modo tale che ci si deve chiedere come il tipo
paradigmatico dell'attività del lavoro o della creazione di p1odotti si rapporti a tutte le restanti forme di espressione culturale di soggetti capaci di parlare e di agire. Agnes Heller annovera le istituzioni e le forme linguistiche di espressione fra le
«aggettivazioni conformi al genere », non meno che i prodotti
del lavoro in senso stretto 50 • 2. Il paradigma della produzione
determina il concetto della prassi in un senso naturalistico, di
modo che ci si chiede se dal processo di ricambio organico fra
la società e la natura si possano ancora ricavare contenuti normativi. La Heller si riferisce con grande disinvoltura all'attività
produttiva degli artisti e degli scienziati come ad un modello
sempre valido per una rottura creativa delle pratiche abitudinarie della vita quotidiana estraniata 51 • 3. Il paradigma della produzione conferisce al concetto della prassi un significato empirico tanto chiaro, che ci si chiede se esso perda la sua plausibilità con la fine, storicamente prevedibile, della società del
lavoro. Con tale domanda C. Offe ha aperto l'ultimo convegno
tedesco di sociologia 52 • Mi limiterò alle due prime difficoltà, di
cui si è occupato G. Markus 53 •
50 A. Heller, Das Alltagsleben cit., pp. 182 sgg. (tr. it. cit., pp. 193 sgg.).
51 I vi, pp. 25 sgg.
52 C. Offe, Arbeit als soziologische Schliisselkategorie?, in J. Matthes (a
cura di), Krise der Arbeitsgesellschaft, Frankfurt a. M. 1983, pp. 38 sgg.
53 G. Markus, Die Welt menschlicher Obiekte, in A. Honneth- U. Jaeggi
(a cura di), Arbeit, Handlung, Normativitiit, Frankfurt a. M. 1980, pp. 12 sgg.;
versione ampliata: G. Markus, Langage et production, Paris 1981.
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1. Markus vuole spiegare in qual senso non soltanto i manufatti, cioè i mezzi e i prodotti del processo lavorativo, bensì tutti
gli elementi di un mondo sociale della vita, e persino lo stesso
contesto del mondo della vita, si possano intendere come aggettivazioni del lavoro umano. Egli svolge la sua argomentazione in
tre passi. In primo luogo Markus mostra che gli elementi oggettivi del mondo della vita devono il loro significato non soltanto
a regole tecniche della produzione, bensì anche a convenzioni
dell'uso. Il valore d'uso di un bene non rappresenta soltanto la
forza-lavoro consumata e le capacità utilizzate per il processo
di produzione, bensì anche il contesto di applicazione e i bisogni alla cui soddisfazione quel bene può servire. Come Heidegger analizza il carattere strumentale degli oggetti d'uso, così
Markus mette in rilievo il carattere sociale che inerisce come una
'qualità naturale' all'oggetto prodotto per un determinato uso:
« Un prodotto è un'aggettivazione solamente in rapporto ad un
processo di appropriazione, cioè soltanto in rapporto a quelle
attività di un individuo, nelle quali vengono seguite e interiorizzate le convenzioni d'uso essenziali - nelle quali cioè i bisogni
e le capacità sociali che esso (nella qualità del suo valore d'uso)
incorpora sono trasformate nuovamente in desideri e capacità
viventi » 54 • Negli oggetti si oggettivizzano dunque non soltanto
le forze di lavoro erogate produttivamente, bensì anche le possibilità determinate socialmente dell'appropriazione consumatrice.
In secondo luogo, questa prassi, che si orienta tanto in base
a regole tecniche della produzione quanto in base a regole utilitarie dell'uso, è però mediata da norme per la ripartizione dei
mezzi di produzione e della ricchezza prodotta. Queste norme
d'azione fondano diritti e doveri differenziali, e assicurano motivazioni per l'esercizio di ruoli sociali differenzialmente ripartiti,
che a loro volta fissano attività, capacità e soddisfazione dei
bisogni. La prassi sociale si presenta quindi sotto un duplice
aspetto: da un lato come processo di produzione e di appropriazione, che si attua secondo regole tecnico-utilitarie e indica
di volta in volta il livello dello scambio fra società e natura,
cioè lo stato delle forze produttive; dall'altro lato come processo
di interazione, che è regolato in base a norme sociali ed esprime
l'accesso selettivo al potere e alla ricchezza, cioè i rapporti di
produzione, i quali fondono il contenuto materiale ossia le capacità e i bisogni dati di volta in volta, nella forma specifica di
54 G. Markus, Die Welt cit., p. 28.
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una struttura privilegiata, che stabilisce la distribuzione delle
posizioni.
Infine Markus vede il vantaggio decisivo del paradigma della
produzione nel fatto che esso consentirebbe di pensare « l'unità
di questo processo dualistico », cioè di intendere la prassi sociale « tanto come lavoro, quanto come riproduzione di relazioni sociali» 55 • Dal punto di vista della produzione si potrebbe
rendere comprensibile « l'unità dei processi di interazione fra
uomo e natura e fra uomo ed uomo » 56 • Questa affermazione è
sorprendente, perché lo stesso Markus distingue, con tutta la
chiarezza desiderabile, fra le regole tecnico-utilitarie della produzione e dell'uso dei prodotti da un lato, e le regole dell'iuterazione sociale, cioè le norme d'azione sociali affidate al riconoscimento e al sanzionamento intersoggettivo dall'altro. Di conseguenza egli traccia una chiara separazione analitica fra la ' sfera
tecnica' e la 'sfera sociale'. Non lascia sussistere alcun dubbio
sul fatto che la prassi, intesa nel senso della produzione e dell'uso utile dei prodotti, ha effetti strutturanti solamente per il
processo di ricambio organico fra l'uomo e la natura. Al contrario, la prassi intesa come interazione guidata da norme non
può venire analizzata in base al modello dell'erogazione produttiva di forza-lavoro e del consumo di valori d'uso. La produzione costituisce semplicemente un oggetto, oppure un contenuto
per regolamentazioni normative.
Senza dubbio, secondo Markus l'elemento tecnico e quello
sociale si possono separare soltanto analiticamente nel corso
della storia quale si è svolta finora; empiricamente, queste sfere
rimangono indissolubilmente intrecciate fra loro, fin tanto che
le forze produttive e i rapporti di produzione si determinano
a vicenda. Perciò Markus utilizza la circostanza che il paradigma
della produzione è adatto soltanto a spiegare il lavoro, ma non
l'interazione, per determinare quella formazione sociale che avrà
prodotto una separazione istituzionale tra la sfera tecnica e
quella sociale. A suo parere cioè il socialismo è caratterizzato
appunto dal fatto che esso « riduce le attività produttive-materiali a ciò che esse sono e sempre furono secondo la loro destinazione, cioè a ricambio organico attivo-razionale con la natura,
ad attività puramente ' tecnica' al di là tanto delle convenzioni
quanto del dominio sociale» 57 •
55
56
57
lvi, p. 36.
lvi, p. 74.
lvi, p. 51.
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2. Con ciò tocchiamo la questione concernente il contenuto
normativo del concetto di prassi interpretato produttivisticamente. Se ci si raffigura il processo di ricambio organico fra
l'uomo e la natura come un processo circolare, in cui produzione e consumo si stimolano e si ampliano a vicenda, allora
per valutare l'evoluzione sociale si offrono due criteri: l'aumento
del sapere tecnicamente valorizzabile e la differenziazione e universalizzazione dei bisogni. Li si può sussumere entrambi sotto
il punto di vista funzionalistico dell'aumento di complessità.
Oggi però nessuno vorrà più affermare che la qualità della convivenza sociale debba necessariamente migliorare con la crescente complessità dei sistemi sociali. Il modello del processo
di ricambio organico suggerito dal paradigma della produzione
non ha un contenuto normativo, più che il . modello, nel frattempo subentrato al suo posto, del rapporto fra sistema e ambiente.
Ma come stanno le cose a proposito dell'autonomia e dell'autorealizzazione, che erano insite nel concetto del processo di
formazione proprio della filosofia della riflessione? Questi contenuti normativi possono venir ricuperati dal punto di vista della
filosofia della prassi? Come si è visto, Markus fa un uso normativo della distinzione fra una prassi che si regola tramite regole
tecnico-utilitarie sotto le coazioni della natura esterna, ed un
concetto della prassi che sottostà a norme d'azione, nelle quali
si riflettono interessi, orientamenti valoristici e finalità quali
forme espressive della natura soggettiva.
Egli prende in considerazione come scopo pratico la separazione istituzionale fra il tecnico e il sociale, la scissione tra
una sfera di necessità esterna ed una sfera nella quale tutte le
'necessità' sono in definitiva autoprovocate:
La categoria del lavoro, che la teoria critica della società, a
differenza dell'economia politica, 'mette al primo posto', assume
verità pratica soltanto nella società socialista; infatti qui solo [ ... ]
il divenire degli uomini si realizza tramite un proprio agire consapevole del proprio scopo, determinato unicamente da quell'oggettività sociale, che gli uomini trovano già bell'e fatta e che, come
natura, pone limiti al loro agire 58 •
Questa formulazione non esprime ancora abbastanza chiaramente l'idea che la prospettiva dell'emancipazione non deriva
affatto dal paradigma della produzione, bensì dal paradigma
58
lvi, p. 50.
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dell'agire orientato verso l'intesa. :È la forma dei processi di
interazione che deve essere cambiata, se si vuole scoprire praticamente che cosa potrebbero volere e che cosa dovrebbero fare
nell'interesse comune nella situazione data di volta in volta i
membri di una società. Più chiaro risulta quest'altro passo:
« Quando gli uomini determinano gli scopi e i valori collettivamente sociali del loro agire nella consapevolezza delle coazioni
e limitazioni della loro situazione di vita e mediante l'espressione e il confronto dialogico dei loro bisogni, (solo) allora la
loro vita è razionale » 59 • Come in realtà possa venir fondata
questa idea della ragione quale idea che di fatto è insita nei
rapporti di comunicazione e che deve essere attuata praticamente, non potrà certo dircelo una teoria legata al paradigma
della produzione.
59
lvi, p. 114.
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4.
L'ENTRATA NEL POST-MODERNO:
NIETZSCHE QUALE PIATTAFORMA GIREVOLE
I
Né Hegel, né i suoi diretti discepoli della sinistra o della destn
hanno mai voluto mettere in discussione le conquiste della modernità, ciò da cui l'età moderna traeva il suo orgoglio e la
coscienza di se stessa. L'epoca moderna sta anzitutto sotto il
segno della libertà soggettiva: che nella società si realizza come
ambito per il perseguimento dei propri interessi garantito dal
diritto privato, nello Stato come partecipazione per principio
paritetica alla formazione della volontà politica, nel privato come
autonomia etica e realizzazione di se stessi, ed infine nella sfera
pubblica relativa a questa sfera privata come processo di formazione, che si attua tramite l'appropriazione della cultura divenuta riflessiva. Anche le figure dello spirito assoluto e dello spirito oggettivo hanno assunto, dalla prospettiva del singolo individuo, una struttura nella quale lo spirito soggettivo può emanciparsi dalla mera spontaneità naturale delle forme di vita tradizionali. Ma le sfere nelle quali l'individuo conduce la sua vita
come borghese, come cittadino e come uomo, si separano sempre più l'una dall'altra, fino a divenire indipendenti. Quelle
stesse separazioni e autonomizzazioni che, dal punto di vista
della filosofia della storia, aprono la via all'emancipazione da
antichissime dipendenze, sono sentite anche come astrazioni,
come estraneazione dalla totalità di un contesto di vita etico.
Un tempo la religione era l'infrangibile sigillo di questa totalità.
Non a caso, ora questo sigillo si è spezzato.
Le forze religiose dell'integrazione sociale sono venute meno
in seguito ad un processo di ' illuminazione', che non può essere revocato, così come non è stato prodotto arbitrariamente.
L'Illuminismo è caratterizzato dall'irreversibilità dei processi di
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apprendimento derivante dall'impossibilità di dimenticare a proprio libito idee, che invece possono essere soltanto rimosse, oppure corrette da idee migliori. Perciò l'Illuminismo può compensare le sue lacune solamente per mezzo di un Illuminismo radicalizzato; perciò Hegel e i suoi discepoli devono porre la loro
speranza in una dialettica dell'Illuminismo, nella quale la ragione possa fungere da equivalente della potenza unificatrice
della religione. Essi hanno formulato concezioni della ragione
che dovevano realizzare un tale programma. Abbiamo visto come
e perché questi tentativi sono falliti.
Hegel concepisce la ragione come autoconoscenza conciliante
di uno spirito assoluto, la sinistra hegeliana come appropriazione
liberatrice di forze essenziali alienate nella produzione, la destra
hegeliana come compensazione rimemorante della sofferenza derivata da divisioni inevitabili. La concezione hegeliana si dimostrò troppo forte; lo spirito assoluto ignora impassibilmente il
processo della storia rivolto al futuro e il carattere inconciliato
del presente. Contro il quietistico ritrarsi del clero dei filosofi
da una realtà inconciliata, i giovani hegeliani rivendicano perciò il diritto profano di un presente che attende ancora la realizzazione dell'idea filosofica. Tuttavia è indubbio che essi mettano in gioco un concetto troppo ristretto della prassi. Tale
concetto non fa che potenziare quella violenza della razionalità
finalistica assolutizzata, che dovrebbe invece superare. I neoconservatori possono rinfacciare alla filosofia della prassi quella
complessità sociale che si afferma ostinatamente contro ogni speranza rivoluzionaria. A loro volta essi modificano la concezione
hegeliana della ragione in modo che insieme alla razionalità si
manifesti anche la necessità di risarcire la modernità sociale.
Ma questa concezione non basta per rendere comprensibile l'attività compensatrice di uno storicismo che deve mantenere in vita
le potenze tradizionali per mezzo delle scienze dello spirito.
Contro questa cultura compensativa, alimentata alle fonti
della storiografia antiquaria, Nietzsche valorizza la coscienza moderna del tempo, così come una volta i giovani hegeliani contro
l'oggettivismo della filosofia hegeliana della storia. Nella seconda
delle « Considerazioni inattuali » (Sull'utilità e il danno della
storia per la vita), Nietzsche analizza l'inefficacia di una tradizione culturale staccata dall'azione e trasferita nella sfera dell'interiorità: « Il sapere che viene preso in eccesso, senza fame,
anzi contro il bisogno, oggi non opera più come motivo che
trasformi e spinga verso l'esterno, ma rimane nascosto in un
certo caotico mondo interno [ ... ]. E quindi tutta la cultura mo-
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derna è essenzialmente interna [ ... ], un 'manuale di cultura
interna per barbari esterni ' » 1 • La coscienza moderna, oberata
di sapere storico, ha perduto quella « forza plastica della vita »,
che mette gli uomini in cçmdizione di « interpretare il passato »
con lo sguardo rivolto al futuro e « con la massima forza del
presente» 2 • Le scienze dello spirito che procedono metodicamente, siccome seguono un ideale falso, perché irraggiungibile,
di oggettività, neutralizzano i criteri necessari alla vita e diffondono un relativismo paralizzante: « In tutti i tempi fu diverso,
non conta come tu sia» 3 • Esse bloccano la capacità « di infrangere e di dissolvere [ogni tanto] un passato, per poter vivere
[nel presente] » 4• Come già i giovani hegeliani, nell'ammirazione storicistica per il ' potere della storia ' Nietzsche fiuta una
tendenza, che fin troppo facilmente si rovescia nell'ammirazione
della politica realìstica per il nudo successo.
Quando Nietzsche entra nel discorso della modernità, l'argomentazione si modifica da. capo a fondo. La ragione era stata
concepita dapprima come autoconoscenza riconciliante, poi come
appropriazione liberante, infine come memoria risarcente, affinché potesse presentarsi come un equivalente del potere unificante
della religione e superare con le proprie forze propulsive le
scissioni della modernità. Questo tentativo di adattare il concetto di ragione al programma di un Illuminismo in sé dialettico
è fallito tre volte. In tale situazione Nietzsche non aveva altra
scelta che quella di sottoporre ancora una volta la ragione centrata nel soggetto ad una critica immanente - oppure di abbandonare del tutto tale programma. Nietzsche si decide per la
seconda alternativa - rinuncia ad una rinnovata revisione del
concetto di ragione e manda in congedo la dialettica dell'Illuminismo. In particolare, la deformazione storicistica della coscienza moderna, l'afflusso indiscriminato di contenuti arbitrari e lo
svuotamento di tutto ciò che è essenziale lo inducono a dubitare che la modernità possa ancora attingere da se stessa i propri
criteri: « Noi moderni infatti non caviamo proprio niente da
noi stessi » 5 • È vero che Nietzsche applica ancora una volta la
figura concettuale della dialettica dell'Illuminismo all'Illuminil F. Nietzsche, Siimtliche Werke in 15 volumi, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin 1967 sgg., vol. l, pp. 273 sgg. (in seguito citato come N.) (edizione
italiana a cura degli stessi, Milano 1967 sgg., vol. III, l, pp. 288 sg.).
2 N., vol. l, pp. 293 sg. (ed. it. cit., III, l, p. 311).
3 N., vol. I, pp. 299 sg. (III, l, p. 317).
4 N., vol. l, p. 269 (III, l, p. 284).
s N., vol. I, p. 273 (III, l, p. 289).
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smo storico, ma ora allo scopo di far saltare la scorza razionale
della modernità come tale.
Nietzsche adopera la scala della ragione storica per gettarla
via alla fine, e mettere piede nel mito, nell'Altro dalla ragione:
Giacché l'origine della cultura storica - e della sua contraddizione assolutamente e intimamente radicale rispetto allo spirito
di un 'nuovo tempo', di una 'coscienza moderna' - questa origine deve essa stessa essere riconosciuta storicamente, la storia deve
essa stessa risolvere il problema della storia, il sapere deve volgere
il suo pungolo contro se stesso; questo triplice deve è l'imperativo dello spirito del 'tempo nuovo', nel caso che vi sia in esso
qualcosa di nuovo, di forte, di originale, qualcosa che promette
vita 6 •
Qui naturalmente Nietzsche pensa alla sua Nascita della tragedia, una ricerca condotta con mezzi storico-filologici, che lo
riconduce, al di là del mondo alessandrino e al di là di quello
romano-cristiano, fino agli inizi, nell'« originario mondo greco
antico di ciò che è grande, naturale e umano ». Per questa via
i ' tardivi ' della modernità che pensano antiquariamente devono
divenire i ' precursori ' di un'epoca postmoderna - un programma che Heidegger riprenderà in Sein und Zeit. Per Nietzsche,
la situazione di partenza è chiara. Da un lato l'Illuminismo storico non fa altro che rafforzare le lacerazioni che si sono fatte
sentire nelle conquiste della modernità; la ragione che si presenta sotto la forma di una religione della cultura non dispiega
più alcuna forza sintetica capace di rinnovare la potenza unificatrice della religione tradizionale. Dall'altro lato la via del ritorno
nella restaurazione è preclusa alla modernità. Le immagini religioso-metafisiche del mondo delle culture antiche sono già esse
stesse un prodotto dell'Illuminismo, sono cioè troppo razionali,
per poter contrapporre ancora qualcosa all'Illuminismo radicalizzato della modernità.
Come tutti quelli che balzano fuori dalla dialettica dell'Illuminismo, anche Nietzsche mette mano ad un vistoso livellamento.
La modernità perde la sua posizione eminente; essa costituise;e
ancora soltanto un'ultima epoca nella grandiosa storia di una
razionalizzazione che inizia con la dissoluzione della vita arcaica
e con la decomposizione del mito 7 • In Europa questo taglio netto
6 N., vol. I, p, 306 (III, 1, p. 324).
7 Ciò vale anche per Horkheimer e Adorno, che sotto questo rispetto si
avvicinano a Nietzsche, Bataille e Heidegger. Ma si veda infra, pp. 109 sgg.
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è segnato da Socrate, il fondatore del pensiero filosofico, e da
Cristo, il fondatore del monoteismo ecclesiastico: «A che cosa
accenna l'enorme bisogno storico della cultura moderna insoddisfatta, l'affastellarsi di innumerevoli altre culture, la divorante
volontà di conoscere, se non alla perdita del mito, alla perdita
della patria mitica [ ... ]? »8 • Ma la coscienza moderna del tempo
vieta ogni idea di regressione, di ritorno diretto alle origini mitiche. Unicamente il futuro costituisce l'orizzonte per il risveglio
di passati mitici: « Il responso del passato è sempre un responso
oracolare: soltanto come architetti del futuro, come sapienti del
presente voi lo capirete! » 9 • Questo atteggiamento utopico, che
si rivolge verso il dio veniente, distingue l'impresa di Nietzsche
dal reazionario 'ritorno alle origini'. Soprattutto il pensiero
teleologico, che mette in contrasto fra loro l'origine e la meta,
perde la sua forza. E Nietzsche, siccome non nega, bensì acuisce
la coscienza moderna del tempo, può presentare l'arte moderna,
che nelle sue forme d'espressione più soggettive spinge all'estremo questa coscienza, come quel medium nel quale la modernità
si incontra con l'arcaico. Mentre lo storicismo allestisce il mondo
come se fosse un'esposizione e trasforma i gaudenti contemporanei in spettatori annoiati, soltanto la potenza sovrastorica di
un'arte che si consuma nell'attualità può apportare la salvezza
per «l'angustia, l'intima miseria degli uomini moderni» 10 •
Il giovane Nietzsche aveva allora dinanzi agli occhi il programma di Richard Wagner, che aveva aperto il suo saggio sulla
religione e sull'arte con queste parole: « Si potrebbe dire che
qui, dove la religione diviene artistica, sia riservato all'arte di
salvare il nucleo della religione, cogliendo i simboli mitici, che
la prima vuole siano creduti nel loro senso autentico, secondo
i loro valori simbolici, per far conoscere, mediante la loro esposizione ideale, la profonda verità in essi celata » 11 • Una festa
religiosa divenuta opera d'arte deve superare, con la pubblicità
rinnovata del culto, l'interiorità della cultura storica di cui ci
si è appropriati in privato. Una mitologia esteticamente rinnovata deve liberare quelle forze dell'integrazione sociale che nella
società concorrenziale si sono irrigidite: essa decentrerà la coscienza moderna aprendola ad esperienze arcaiche. Quest'arte
del futuro si nega come produzione di un artista individuale e
N., vol. I, p. 146 (III, l, p. 152).
N., vol. I, p. 294 (III, l, p. 312).
10 N., vol. I, pp. 281, 330 (III, l, p. 297).
11 R. Wagner, Siimtliche Schriften und Dichtungen, vol. X, p. 211.
8
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installa « il popolo stesso come l'artista del futuro » 12 • Perciò
Nietzsche celebra W agner come ' rivoluzionario della società ' e
come colui che ha oltrepassato la cultura alessandrina. Egli si
aspetta che da Bayreuth si irradiino gli effetti delle tragedie
dionisiache - « che lo Stato e la società e in genere gli abissi
fra uomo ed uomo cedano ad un soverchiante sentimento di
unità che riconduce al cuore della natura» 13 •
Più tardi, come è noto, Nietzsche si è allontanato con disgusto dal mondo dell'opera wagneriana. Più interessante che i motivi personali, politici ed estetici di questo distacco, è il determinante motivo filosofico, che si cela dietro alla domanda:
« Come dovrebbe essere fatta una musica che non fosse più
(come quella di Wagner) di origini romantiche - bensì dioni·
siache? » 14 • Di origine romantica è l'idea di una nuova mitologia, romantico è anche il ricorso a Dioniso come al dio veniente. Tuttavia Nietzsche si distanzia dall'uso romantico di
queste idee e ne proclama una versione manifestamente più
radicale, che indica oltre Wagner. Ma in che cosa si distingue
il dionisiaco dal romantico?
II
Nell'Altestes Systemprogramm del 1796-97 abbiamo g1a mcon·
trato l'attesa di una nuova mitologia, che elegge la poesia quale
maestra dell'umanità. Già qui si può ravvisare un motivo, che in
seguito sarà messo in rilievo da W agner e da Nietzsche: l'arte
deve riconquistare, nelle forme di una mitologia rinnovata, il
carattere di una istituzione pubblica, e dispiegare la forza per
rigenerare la totalità etica del popolo 15 • Nello stesso senso, alla
fine del suo Sistema dell'idealismo trascendentale Schelling afferma che la nuova mitologia « non può essere l'invenzione di
un singolo poeta, bensì di una nuova stirpe, che quasi rappresenti un solo poeta» 16 • Analogamente Friedrich Schlegel nel
suo Discorso sulla mitologia: « Alla nostra poesia manca un
lvi, p. 172.
N., vol. l, p. 56 (III, 1, p. 54).
Nel Versuch einer Selbstkritik, che è la Prefazione alla seconda edizione
della Geburt der Tragodie, N., vol. l, p. 20 (III, 1, p. 13); cfr. il Nachlass, N.,
vol. XII, p. 117.
15 M. Frank, Der kommende Gott. Vorlesungen uber die neue Mythologie,
Frankfurt a. M. 1982, pp. 180 sgg.
16 Schellings Werke, a cura di M. Schrèiter, vol. Il, p. 629 (tr. it., Sistema
dell'idealismo trascendentale, Bari 1926, p. 317).
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13
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punto centrale, quale lo era la mitologia per gli antichi, e tutto
ciò che vi è di essenziale, in cui l'arte poetica moderna è inferiore all'antica, può riassumersi in queste parole: noi non abbia·
mo nessuna mitologia. Ma [ ... ] siamo vicini ad acquisirne
una» 17 • Entrambe queste pubblicazioni nascono del resto nell'anno 1800, e non fanno che tessere in diverse varianti l'idea
di una nuova mitologia.
Un altro motivo contenuto nell'Altestes Systemprogramm è
l'idea che con la nuova mitologia l'arte soppianterà la filosofia,
perché l'intuizione estetica è « l'atto supremo della ragione »:
«Verità e bontà (sono) affratellate soltanto nella bellezza» 18 •
Questa frase potrebbe servire quale motto per il Sistema di
Schelling del 1800. Nell'intuizione estetica Schelling trova la
soluzione di un enigma: come si possa portare alla coscienza
dell'io l'identità di libertà e necessità, di spirito e natura, di attività cosciente e inconscia, in un prodotto da lui stesso creato:
«Appunto perciò l'arte è per il filosofo quanto vi ha di più alto,
perché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna ed originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e
nella storia è separato, e quello che nella vita e nell'azione, come
nel pensiero, deve fuggirsi eternamente » 19 • Nelle condizioni moderne di una riflessione spinta fino all'estremo, l'arte, e non la
filosofia, custodisce la fiamma di quell'assoluta identità, che si
era accesa un tempo nei culti solenni delle comunità di fede
religiose. L'arte, che riacquisterebbe il suo carattere pubblico
nella forma di una nuova mitologia, non sarebbe più soltanto
l'organo, bensì anche la meta e il futuro della filosofia. Quest'ultima, una volta raggiunta la sua pienezza, potrebbe riconfluire
in quell'oceano della poesia, dal quale un tempo era uscita:
« Quale poi sarà l'intermediario del ritorno della scienza alla
poesia, non è difficile dirlo in modo generale, essendo un tale
intermediario esistito nella mitologia [ ... ]. Ma come possa nascere una nuova mitologia [ ... ] è un problema, la cui soluzione
si deve attendere solo dai futuri destini del mondo e dal corso
ulteriore della storia » 20 •
La differenza rispetto ad Hegel è palese: non la ragione speculativa, bensì soltanto la poesia, quando divenga pubblicamente
efficace nella forma di una nuova mitologia, può sostituire la
forza unificante della religione. Tuttavia, per giungere a questa
17 F. Schlegel, Kritische Ausgabe, vol. II, p. 312.
18
19
20
G. W. F. Hegel, Suhrkamp-Werkausgabe cit., vol. l, p. 235.
F. W. J. Schelling, op. cit., vol. II, p. 628 (tr. it. cit., p. 316).
lvi, p. 629 (tr. it. cit., p. 317).
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conclusione, Schelling costruisce un intero sistema filosofico. È
la medesima ragione speculativa, che supera se stessa tramite il
programma di una nuova mitologia. Schlegel, invece, consigliava
al filosofo di spogliarsi « degli ornamenti marziali del sistema »
e di condividere « con Omero la dimora nel tempio della nuova
poesia» 21 • Nelle mani di Schlegella nuova mitologia si tramuta
da un'aspettazione fondata filosoficamente in una speranza messianica, che si fa incitare da indizi storici - da indizi i quali
stanno a indicare che « l'umanità lotta con tutte le sue forze
per trovare il suo centro. Essa deve necessariamente o andare
in rovina [ ... ], oppure ringiovanire [ ... ]. L'antichità divenuta
smorta ritornerà nuovamente a vivere, e il più lontano futuro
della civiltà si annuncia già nei suoi presagi » 22 • La temporalizzazione messianica di ciò che in Schelling era una fondata aspettazione storica, dipende dal mutato valore di posizione che
Schlegel assegna alla ragione speculativa.
Senza dubbio quest'ultima aveva spostato il suo centro gravitazionale già in Schelling, per il quale la ragione non poteva più
divenire padrona di se stessa nel proprio medium dell'autoriflessione, ma poteva ritrovarsi soltanto nel medium preparatorio
dell'arte. Ma ciò che secondo Schelling si può intuire nei prodotti
dell'arte, è però ancora la ragione divenuta oggettiva - la stretta
unione del vero e del buono nel bello. Appunto questa unità è
ciò che Schlegel mette in questione. Egli insiste sull'autonomia
del bello, nel senso « che esso è separato dal vero e dall'etico,
e che (ha) diritti eguali ai loro » 23 • La nuova mitologia non
deve affatto la sua forza vincolante ad un'arte nella quale si
collegano strettamente tutti i momenti della ragione, bensì al
dono divinatorio della poesia, che si distingue appunto dalla
filosofia e dalla scienza, dalla morale e dall'eticità: « Qui sta
infatti l'inizio di ogni poesia: nel superare l'andamento e le leggi
della ragione che pensa razionalmente, e nel trasferirei di nuovo
nella bella confusione della fantasia, nel caos originario della
natura umana, per il quale io non conosco finora ness11n si11.!:_
bolo più bello che la variopinta moltitudine degli dèi antichi» 24 •
Schlegel non intende più la nuova mitologia come sensibilizzazione della religione, come un estetizzarsi delle idee, che per
F. Schlegel, Kritische Ausgabe cit., vol. II, p. 317.
lvi, p. 314.
Athenaum Fragment no 252, in Schlegel, op. cit., II, p. 207; cfr. in proposito K. H. Bohrer, Friedrich Schlegels Rede uber die Mythologie, in K. H.
Bohrer (a cura di), Mythos und Moderne, Frankfurt a. M. 1983, pp. 52 sgg.
24 F. Schlegel, op. cit., II, p. 319.
21
22
23
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questa via dovrebbero associarsi agli interessi del popolo. Solo
una poesia divenuta autonoma, purificata da commistioni con la
ragione teoretica e pratica, apre invece la porta verso il mondo
delle originarie potenze mitiche. Unicamente l'arte moderna può
entrare in comunicazione con le fonti arcaiche dell'integrazione
sociale, che nella modernità si sono inaridite. In base a questa
interpretazione, la nuova mitologia si aspetta che la modernità
scissa si metta in rapporto con il ' caos originario' come l'Altro
dalla ragione.
Ma se alla produzione del nuovo mito manca la forza propulsiva della dialettica dell'Illuminismo, se l'aspettazione « di
quel grande processo di ringiovanimento universale » non può
più venir fondata dalla filosofia della storia, allora il messianismo romantico 25 ha bisogno di un'altra figura concettuale. A
questo proposito merita interesse la circostanza che Dioniso, il
dio errante dell'ebbrezza, della follìa e delle incessanti metamorfosi, conosca una sorprendente rivalutazione nel protoromanticismo.
Il culto di Dioniso poteva riuscire attraente per un'epoca
illuministica che sta perdendo la fiducia in se stessa, perché,
nella Grecia di Euripide e della critica sofistica, aveva mantenute vive antiche tradizioni religiose. Ma il motivo decisivo è
indicato da M. Frank nella circostanza che, come dio veniente,
Dioniso poteva attirare su di sé speranze di redenzione 26 • Zeus
aveva generato con una donna mortale, Semele, Dioniso, che
viene perseguitato da Hera, la sposa di Zeus, con la sua ira divina,
e gettato infine nella follìa. Da allora Dioniso continua a vagare
per il Nordafrica e l'Asia Minore insieme ad una selvaggia
schiera di Satiri e di Baccanti, un ' dio straniero', come dice
Holderlin, che precipita l'Occidente nella 'notte degli dèi ', e
lascia dietro di sé soltanto i doni dell'ebbrezza. Ma un giorno,
rinato attraverso i misteri e liberato dalla follìa, Dioniso dovrà
ritornare. Da tutti gli altri dèi greci egli si distingue appunto
come il dio assente, il cui ritorno è ancora di là da venire. Il
paragone con Cristo era ovvio: anch'egli è morto, e lascia dietro
di sé, fino al giorno del suo ritorno, pane e vino 27 • Dioniso presenta però la particolarità che pur negli eccessi cultuu.li conserva,
25 Su questa espressione cfr. W. Lange, Tod ist bei Gottern immer ein Vortei/, in K. H. Bohrer, op. cit., p. 127.
26 M. Frank, op. cit., pp. 12 sgg.
27 L'equiparazione di Dioniso con Cristo è studiata da M. Frank, op. cit.,
pp. 257-342, in base all'esempio dell'elegia Brot und Wein di Holderlin. Cfr. anche P. Szondi, HO/derlin-Studien, Frankfurt a. M. 1970, pp. 95 sgg.
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per così dire, anche quel fondo di solidarietà sociale che per
l'Occidente cristiano è andato perduto insieme con le forme
arcaiche della religiosità. Perciò Holderlin associa al mito di
Dioniso quella peculiare forma dell'esegesi storica che poteva
incoraggiare un'aspettazione messianica, e che è rimasta attiva
fino ad Heidegger. L'Occidente, fin dai suoi inizi, perdura nella
notte della lontananza degli dèi, o dell'oblìo dell'Essere; il dio
del futuro rinnoverà le perdute potenze dell'origine; e il dio che
si avvicina fa presentire il suo avvento già con la dolente coscienza della sua assenza, con la sua 'massima lontananza';
facendo sentire con sempre maggiore urgenza ai derelitti ciò che
è stato loro sottratto, egli promette in modo tanto più convincente il suo ritorno; nel più grande pericolo nasce anche il
Salvatore 28 •
Proprio nella sua concezione dionisiaca della storia, Nietzsche non è originale. La tesi storica sull'origine del coro della
tragedia greca dal culto greco arcaico di Dioniso ricava il suo
effetto di critica della modernità da un contesto che si era già
costituito nel protoromanticismo. A maggior ragione occorre,
quindi, spiegare perché Nietzsche abbia preso le distanze da
questo retroscena romantico. La chiave è offerta dall'equazione
fra Dioniso e Cristo, che non è certo stata formulata soltanto
da Holderlin, ma viene intrapresa da Novalis, Schelling, Creuzer,
e in generale nella recezione dei miti da parte del primo romanticismo. Questa identificazione del traballante dio del vino con
il dio cristiano della redenzione è possibile soltanto perché il
messianismo romantico tende non già ad accomiatare, bensì a
ringiovanire l'Occidente. La nuova mitologia doveva ritrovare
una solidarietà perduta, senza però rinnegare quell'emancipazione che il distacco dalle originarie potenze mitiche aveva pure
prodotto per i singoli individuati al cospetto dell'Unico ·Dio 29 •
Nel romanticismo il ricorso a Dioniso doveva soltanto servire a
rendere accessibile quella lìbertà pubblica, in cui le promesse
cristiane devono attuarsi nell'al di qua, di modo che il principio
della soggettività, approfondito, e al contempo portato autorita28 Cfr. l'inizio della poesia Patmos: <<Wo aber Gefahr ist, wiichst das Rettende auch >>, in F. Hiilderlin, Siimtliche Werke, vol. Il, a cura di F. Beissner,
p, 173.
29 Jacob Taubes osserva in tale contesto che Schelling riguardo a questa
soglia fra la coscienza arcaica e quella storica, ha nettamente differenziato tra
la filosofia della mitologia e la filosofia della rivelazione: <<Non dunque ' essere
e tempo', bensl 'essere e tempi' è il programma del tardo Schelling. Il tempo
mitico e il tempo della rivelazione sono qualitativamente diversi» (J. Taubes,
Zur Konjunktur des Polytheismus, in K. H. Bohrer, op. cit., p. 463).
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riamente al dominio, dalla Riforma e dall'Illuminismo, potesse
perdere la sua limitatezza.
III
Il Nietzsche maturo riconosce che quel Wagner, nel quale la
modernità addirittura si 'riassume', condivideva con i romantici la prospettiva dell'attuazione ancora incompiuta dell'età moderna. Proprio Wagner spinge Nietzsche alla « delusione su tutto
ciò che rimane per l'entusiasmo a noi uomini moderni», perché,
da decadente disperato, « improvvisamente [ ... ] si prostrò dinanzi alla croce cristiana» 30 • Wagner rimane dunque legato al
collegamento romantico fra il dionisiaco e il cristiano. Al pari
dei romantici, egli non apprezza in Dioniso quel semidio che
redime radicalmente dalla maledizione dell'identità, che mette
fuori gioco il principio dell'individuazione, che valorizza il polimorfo contro l'unità del Dio trascendente, l'anomia contro lo
statuito. In Apollo i Greci hanno divinizzato l'individuazione,
il rispetto dei limiti dell'individuo. Ma la bellezza e la moderazione apollinee non facevano altro che velare quel sottofondo
dell'elemento titanico e barbarico, che si manifestava nel tono
estatico delle feste dionisiache: « L'individuo, con tutti i suoi
limiti e le sue misure, sprofondò qui nell'oblìo di sé degli stati
dionisiaci e dimenticò i canoni apollinei » 31 • Nietzsche richiama
alla memoria l'accenno di Schopenhauer a quell'« orrore, che
afferra l'uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle
forme di conoscenza del fenomeno, in quanto il principio di
ragione sembra soffrire un'eccezione [ ... ]. Se a questo orrore
aggiungiamo l'estatico rapimento che, per la stessa violazione
del principium individuationis sale dall'intima profondità dell'uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo
nell'essenza del dionisiaco » 32 •
Ma Nietzsche non era soltanto il discepolo di Schopenhauer;
era anche il contemporaneo di Mallarmé e dei simbolisti, un
fautore dell'arte per l'arte. Perciò nella descrizione del dionisiaco - quale elevazione del soggettivo fino al completo oblìo
di sé - rientra anche l'esperienza (radicalizzata ancora una
volta rispetto al romanticismo) dell'arte contemporanea. Ciò che
30 N., vol. VI, pp. 431 sg.
N., vol. l, p. 41 (tr. it. cit., III, 1, p. 38).
32 N., vol. I, p. 28 (tr. it. cit., III, 1, pp. 24 sg.).
31
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Nietzsche chiama il 'fenomeno estetico', si svela nei concentrati rapporti che ha con se stessa una soggettività decentrata
e affrancata dalle convenzioni quotidiane della percezione e dell'azione. Solamente quando si perde, quando si ritrae dalle esperienze prammatiche spazio-temporali, quando è colpito dalla
scossa dell'inatteso, il soggetto vede soddisfatto « il desiderio
ardente della vera presenza» (Octavio Paz), e si perde dissolvendosi nell'istante; solamente quando le categorie del fare e
del pensare ragionevoli sono crollate, quando le norme della vita
quotidiana sono infrante, quando le illusioni della normalità
abituale sono dissolte - soltanto allora si apre il mondo dell'imprevisto e dell'assolutamente sorprendente, l'ambito della
apparenza estetica, che non occulta né rivela, non è né fenomeno né essenza, bensì null'altro che superficie. Nietzsche prosegue la depurazione romantica del fenomeno estetico da tutte
le commistioni teoretiche e morali 33 • Nell'esperienza estetica la
realtà dionisiaca è isolata dal mondo della conoscenza teoretica
e dell'agire morale, dalla quotidianità, tramite un ' baratro dell'oblìo '. L'arte apre l'accesso al dionisiaco soltanto al prezzo
dell'estasi - cioè al prezzo della dolorosa abolizione delle differenze, della disindividualizzazione, della fusione con l'amorfa
natura interna ed esterna.
Perciò l'uomo della modernità, privo di miti, dalla nuova
mitologia può attendersi soltanto un tipo di redenzione che elimina tutte le mediazioni. Questa versione schopenhaueriana del
principio dionisiaco imprime al programma della nuova mitologia una svolta, che era stata estranea al messianismo romantico:
ora si tratta di un distacco totale dalla modernità svuotata dal
nichilismo. Con Nietzsche la critica della modernità rinuncia
per la prima volta a mantenerne il contenuto emancipativo. La
ragione centrata nel soggetto viene messa a confronto con il
totalmente altro dalla ragione. E quale istanza contro la ragione
Nietzsche evoca le esperienze, arretrate nell'arcaico, dell'auto33 In Socrate, che cade nell'errore secondo cui il pensiero raggiunge i più
profondi abissi dell'essere, Nietzsche compendia l'antitipo teorico dell'artista:
<< Se infatti l'artista a ogni disvelamento della verità rimane attaccato con sguardi estatici sempre e solo a ciò che anche ora, dopo il disvelamento, rimane velo,
l'uomo teoretico a sua volta gode e si appaga nel togliere il velo >> (N., vol. l,
p. 88 [tr. it. cit., III, 1, p. 100] ). Altrettanto energicamente Nietzsche si scaglia
contro la trasfigurazione morale dell'arte, che va da Aristotele fino a Schiller:
« Per l'interpretazione del mito tragico la prima esigenza è proprio quella di
cercare il piacere ad esso peculiare nella pura sfera estetica, senza invadere il
campo della compassione, della paura o del moralmente sublime. Come possono
il brutto e il disarmonico, il contenuto del mito tragico, suscitare un piacere
estetico?>> (N., vol. l, p. 152 [tr. it. cit., III, 1, pp. 158 sg.] ).
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rivelazione di una soggettività decentrata, liberata da tutte le
limitazioni della cognizione e dell'attività finalistica, da tutti gli
imperativi dell'utile e della morale. L'unica via di scampo diviene allora quella « violazione del principio di individuazione »;
che, se deve essere qualcosa di più che una citazione da Schopenhauer, certo può ottenere la propria convalida soltanto dalla
più avanzata arte della modernità. Su questa contraddizione
Nietzsche può illudersi, in quanto strappa il momento razionale,
che si mette in luce nel senso proprio dell'ambito radicalmente
differenziato dell'arte d'avanguardia, dal rapporto con la ragione
teoretica e pratica, e lo sospinge nell'irrazionale trasfigurato
metafisicamente.
Già nella Nascita della tragedia, dietro l'arte vi è la vita.
Già qui troviamo quella peculiare teodicea, secondo la quale
il mondo può essere giustificato soltanto come fenomeno estetico 34 • La crudeltà e il dolore sono considerati, al pari del piacere, quali proiezioni di uno spirito creatore, che si abbandona
senza scrupoli allo spensierato godimento per la potenza e l'arbitrarietà delle sue creazioni fantastiche. Il mondo si presenta
come un tesuto di contraffazioni e di interpretazioni, alla cui
base non vi è né un'intenzione né un testo. La potenza che crea
il senso costituisce, insieme ad una sensibilità che si può eccitare nei modi più differenziati possibili, il nucleo estetico della
volontà di potenza: la quale è al contempo una volontà di apparenza, di semplificazione, di maschera, di superficie; e l'arte può
essere considerata come l'autentica attività metafisica dell'uomo,
perché la vita stessa si fonda sull'apparenza, sull'inganno, sull'illusione, sulla necessità del prospettico e dell'errore 35 •
Certo, Nietzsche può sviluppare queste idee in una ' metafisica degli artisti ' soltanto perché riconduce all'estetico tutto
ciò che è e che deve essere. Non vi possono essere fenomeni
ontici, né morali, in ogni caso non nel senso in cui Nietzsche
parla di fenomeni estetici. Al fine di tale dimostrazione sono
destinati i noti abbozzi di una gnoseologia pragmatistica e di
una storia naturale della morale, che riducono la distinzione
fra ' vero ' e ' falso ', ' buono ' e ' cattivo ', a preferenze per ciò
che serve alla vita e che è nobile 36 • Secondo questa analisi,
34 Nietzsche riassume tale dottrina nella seguente frase: << t giustificato
ogni male alla cui vista un dio si sente edificato>> (N., vol. V, p. 304).
35 N., vol. l, pp. 17 sg.; vol. V, p. 168; vol. XII, p. 140.
36 J. Habermas, Zu Nietzsches Erkenntnistheorie, in Zur Logik der Sozialwissenschaften, Frankfurt a. M. 1982, pp. 505 sgg. [tr. it., Logica delle scienze
sociali, Bologna 1970; e Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, Bologna 1980. Non esiste una traduzione italiana dell'edizione da cui Habermas cita
nel testo (N.d.T.)].
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dietro le pretese di validità in apparenza universali si celano le
soggettive pretese di potenza degli apprezzamenti dei valori.
Anche in queste pretese di potenza non si mette in luce la
volontà strategica di singoli soggetti. La volontà soprasoggettiva
di potenza si manifesta piuttosto nel flusso e riflusso di anonimi processi di sopraffazione.
La teoria di una volontà di potenza che si dispiega in tutto
ciò che accade offre il quadro nel quale Nietzsche spiega come
sorgano le finzioni di un mondo dell'ente e del bene, nonché
le apparenti identità di soggetti che conoscono e che agiscono
moralmente, come si costituisca, con l'anima e l'autocoscienza,
una sfera dell'interiorità, come siano giunte al dominio la metafisica, la scienza e l'idealità ascetica - ed infine, come la ragione
centrata nel soggetto debba tutto questo inventario all'evento di
un fatalmente masochistico rovesciamento nella parte più intima
della volontà di potenza. Il dominio nichilistico della ragione
centrata nel soggetto viene concepito come risultato ed espressione di un pervertimento della volontà di potenza.
Ma siccome la incorrotta volontà di potenza è soltanto la versione metafisica del principio dionisiaco, Nietzsche può concepire il nichilismo del presente come la notte della lontananza
degli dèi, nella quale si annuncia l'avvicinarsi del dio assente; il
cui ' essere in disparte ' e ' al di là ' viene frainteso dal popolo
come una fuga dinanzi alla realtà - « mentre è soltanto la sua
immersione, il suo sotterramento, il suo approfondimento nella
realtà, affinché egli un giorno, quando ritornerà alla luce, possa
riportarne a casa la redenzione di questa realtà» 37 • Nietzsche
definisce come ' rintocco del mezzogiorno ' il momento del ritorno dell'Anticristo- in sorprendente accordo con la coscienza
temporale estetica di Baudelaire. Nell'ora di Pan il giorno trattiene il respiro, il tempo si ferma - l'istante fuggevole si sposa
con l'eternità.
Nietzsche deve il suo concetto della modernità, sviluppato
nel senso della teoria del potere, ad una critica razionale smascheratrice della ragione, che pone se stessa al di fuori dell'orizzonte della ragione. ·Questa critica è dotata di una certa suggestività, perché fa appello, almeno implicitamente, a criteri mutuati dalle fondamentali esperienze della modernità estetica.
Nietzsche insedia appunto il gusto, 'il sì e no del palato ', quale
organo di una conoscenza al di là del vero e del falso, al di là
37
N., vol. V, p. 336.
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del bene e del male. Ma egli non può legittimare i criteri mantenuti del giudizio di gusto, perché traspone le esperienze estetiche nell'arcaico, e non riconosce come momento della ragione
la facoltà critica dell'apprezzamento dei valori, acuita nel rapporto con l'arte moderna, che almeno proceduralmente, nel processo della fondazione argomentativa, è ancora collegata con la
conoscenza e col giudizio morale. L'estetico, quale porta verso
il dionisiaco, viene invece ipostatizzato nell'Altro dalla ragione.
Perciò i disvelamenti operati dalla teoria del potere si impigliano nel dilemma di una critica della ragione che si riferisce
a se stessa ed è divenuta totale. Riguardando la Nascita della
tragedia, Nietzsche confessa la giovanile ingenuità del suo tentativo di porre la scienza « sul terreno dell'arte », di « vedere
tutta la scienza con l'ottica dell'artista » 38 • Ma anche nella vecchiaia egli non poté mai rendersi chiaro che cosa mai voglia
dire praticare una critica dell'ideologia che attacca i suoi propri fondamenti 39 • Alla fine, oscilla fra due strategie.
Da un lato, Nietzsche ci suggerisce la possibilità di una considerazione artistica del mondo, condotta con mezzi scientifici,
ma con un atteggiamento antimetafisico, antiromantico, pessimistico e scettico. Una scienza storica di questo tipo, essendo al
servizio della filosofia della volontà di potenza, deve poter sfuggire all'illusione della fede nella verità 40 • Ma allora si dovrebbe
poter presupporre la validità di questa filosofia. Perciò Nietzsche
deve affermare, dall'altro lato, la possibilità di una critica della
metafisica, che riesumi le radici del pensiero metafisica, senza
però rinunciare a se stessa come filosofia. Egli proclama che
Dioniso è un filosofo, e considera se stesso quale ultimo discepolo e iniziato di questo dio filosofante 41 •
La critica di Nietzsche alla modernità è stata proseguita
lungo entrambe queste vie. Lo scienziato scettico, che vorrebbe
svelare la perversione della volontà di potenza, la ribellione delle
forze reattive e l'origine della ragione centrata ne~ soggetto con
metodi antropologici, psicologici e storici trova seguaci in Bataille, Lacan e Foucault; il critico iniziato della metafisica, che
ricorre ad un sapere particolare e insegue l'origine della filosofia del soggetto fin dentro gli inizi presocratici, in Heidegger
e Derrida.
38
39
40
41
N., vol. l, pp. 13 sg. (tr. it. cit., III, 1, pp. 5 sg.).
Cfr. la Genealogia della morale, N., vol. V, pp. 398·405.
N., vol. XII, pp. 159 sg.
N., vol. V, p. 238.
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IV
Heidegger vorrebbe riprendere i motivi essenziali del messianismo dionisiaco di Nietzsche, sfuggendo però alle aporie di
una critica della ragione che si riferisce a se stessa. Il Nietzsche
che operava ' scientificamente ' voleva ribaltare il pensiero moderno lungo le vie di una genealogia della fede nella verità e
dell'ideale ascetico; Heidegger, che in questa strategia di smascheramento basata sulla teoria del potere subodora un non eliminato residuo di illuminismo, si attiene piuttosto al Nietzsche
'filosofo'. Lo scopo che Nietzsche perseguiva wn una critica
totalizzante e autodistruttiva della ideologia, Heidegger vuole
raggiungerlo con una distruzione immanente della metafisica
occidentale. Nietzsche aveva teso l'arco dell'accadere dionisiaco
fra la tragedia greca antica e la nuova mitologia. La tarda filosofia di Heidegger può essere intesa come il tentativo di spostare questo accadere dalla scena della mitologia esteticamente
rinnovata a quella della filosofia 42 • Heidegger si trova anzitutto
dinanzi al compito di collocare la filosofia in quella sede nella
quale Nietzsche poneva l'arte (come contromovimento al nichilismo), per poi trasformare il pensiero filosofico in modo tale,
che esso possa divenire la scena per consolidare e rinnovare le
forze dionisiache. L'avvento e l'oltrepassamento del nichilismo
egli vuole interpretarli come l'inizio e la fine della metafisica.
Le prime lezioni di Heidegger su Nietzsche, intitolate La
volontà di potenza come arte, si fondano soprattutto su quei
frammenti postumi che nella compilazione di Elisabeth ForsterNietzsche sono stati montati in un capolavoro mai scritto, La
volontà di potenza 43 • Heidegger tenta di documentare la tesi
« che Nietzsche si muove nell'orbita del domandare della filosofia occidentale » 44 • Egli denomina bensì ' un artista-filosofo '
quel pensatore che « con la sua metafisica ritorna all'inizio della
42 Nel decennfo fra il 1935 e il 1945, ossia fra la Einfuhrung in die Metaphysik, che mostra ancora le tracce dello Heidegger fascista, e il Brief uber den
Humanismus, che apre la filosofia del dopoguerra, Heidegger si è continuamente
occupato di Nietzsche. L'idea della storia dell'Essere si è formata nell'intensa
discussione con il filosofo Nietzsche. Lo riconosce espressamente nel 1961 lo
stesso Heidegger nella Prefazione ai due volumi che documentano questo segmento del suo cammino filosofico: M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen 1961, vol. l,
pp. 9 sg.
43 Questa falsificazione è stata totalmente distrutta dall'edizione di Giorgio
Colli e Mazzino Montinari; cfr. il loro commentario alla tarda opera di Nietzsche, in N., vol. XIV, pp. 383 sgg., e la Chronik zu Nietzsches Leben, N.,
vol. XV.
44 M. Heidegger, Nietzsche cit., vol. l, p. 12.
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filosofia occidentale » 45 , e che guida il contromovimento al nichilismo, ma ritiene che le idee di Nietzsche sulla forza salvifica
dell'arte devono essere « estetiche (soltanto) secondo la prima
apparenza, e metafisiche secondo la (loro) più intima volontà» 46 •
La concezione classicistica che Heidegger ha dell'arte favorisce
questa interpretazione: Heidegger è convinto, al pari di Hegel,
che col romanticismo l'arte è giunta al suo risultato essenziale.
Un confronto con Walter Benjamin potrebbe mostrare quanto
poco Heidegger sia mai stato toccato dalle genuine esperienze
dell'arte d'avanguardia. Perciò egli non ha mai potuto nemmeno
comprendere perché soltanto un'arte soggettivisticamente acuita
e radicalmente differenziata, che sviluppa tenacemente il senso
proprio dell'estetico partendo dall'autoesperienza di una soggettività decentrata, sia la più adatta per inaugurare una nuova
mitologia 47 • Tanto più facile gli riesce quindi il livellamento del
' fenomeno estetico ' e l'equiparazione dell'arte alla metafisica.
Il bello fa risplendere l'Essere: « Bellezza e verità sono entrambe riferite all'Essere, e precisamente entrambe quale svelamento dell'essere dell'ente » 48 •
Si dirà più tardi che il poeta annuncia quel sacro, che si
rivela al pensatore. Il poetare e il pensare si richiamano bensì
a vicenda, ma alla fine il poetare deve pur scaturire dal pensiero originario 49 •
Dopo che in tal modo l'arte è stata antologizzata 50, la filosofia deve riprendere di nuovo un compito, che nel romanticismo
aveva ceduto all'arte: cioè, quello di creare un equivalente del
potere unificante della religione, per opporsi alle lacerazioni
della modernità. Nietzsche aveva affidato il superamento del
nichilismo al mito di Dioniso esteticamente rinnovato. Heidegger
proietta questo evento dionisiaco sullo schermo di una critica
lvi, p. 27.
lvi, p. 154.
Sotto questo rispetto dimostra una sensibilità incomparabilmente maggiore Oskar Becker, con il suo controprogetto dualistico all'ontologia fondamentale di Heidegger: O. Becker, Von der Hinfiilligkeit des Schonen und der Abenteuerlichkeit des Kilnstlers, e Von der Abenteuerlichkeit des Kunstlers und der
vorsichtigen Verwegenheit des Philosophen, entrambi in O. Becker, Dasein und
Dawesen. Gesammelte phi/osophische Aufsiitze, Pfullingen 1963, pp. 11 sgg. e
103 sgg.
48 M. Heidegger, op. cit., vol. l, p. 231.
49 Poscritto a Was ist Metaphysik?, in M. Heidegger, Wegmarken, Frankfurt a. M. 1978, p. 309.
SO Heidegger riassume la sua prima lezione su Nietzsche con queste parole:
<< Partendo dall'essenza dell'Essere, l'arte deve venir concepita come l'accadere
fondamentale dell'ente, come l'autentico principio creatore>>.
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della metafisica, alla quale spetta perciò un significato cosmicostorico.
Ora è l'Essere che ha abbandonato l'ente, e che annuncia
il suo indeterminato avvento facendo sentire la sua assenza e
accrescendo il dolore della privazione. Il pensiero che segue
questo destino dell'oblìo dell'Essere incombente sulla filosofia
occidentale, ha una funzione catalizzatrice. Quel pensiero, che
al contempo proviene dalla metafisica e ritorna a interrogare gli
inizi della metafisica, quel pensiero che sormonta dall'interno i
limiti della metafisica, non condivide più la fiducia in sé di una
ragione che si gloria della sua autonomia. Certamente, bisogna
asportare quegli strati sotto i quali l'Essere è seppellito. Ma il
lavoro della distruzione, a differenza dalla forza della riflessione,
serve ad addestrarsi in una nuova eteronomia. Esso rivolge tutta
la sua energia unicamente verso l'autosuperamento e l'autorinuncia di una soggettività alla quale è necessario apprendere la
perseveranza, e che deve sciogliersi in umiltà. La ragione in
sé può operare soltanto nella nefasta attività del dimenticare e
dello scacciare. Anche alla memoria manca la forza per indurre
al ritorno ciò che è esiliato. In tal modo dunque l'Essere può
darsi soltanto come un destino comune, al quale si aprono e si
tengono pronti, qualora sia necessario, coloro che ne hanno bisogno. La critica heideggeriana della ragione finisce nella radicalità distanziante di un mutamento di spirito onnipervadente, ma
privo di contenuto - via dall'autonomia, verso una dedizione
all'Essere, che pretende di lasciar dietro di sé il contrasto fra
autonomia ed eteronomia.
La critica della ragione ispirata a Nietzsche prende un'altra
direzione in Bataille. Anch'egli impiega il concetto del sacro
per indicare quelle esperienze decentranti di un'estasi ambivalente, nelle quali la soggettività irrigidita rinuncia a se stessa.
Sono esemplari le azioni del sacrificio religioso e della fusione
erotica, nelle quali il soggetto vorrebbe « liberarsi dal riferimento al proprio io » e far posto ad una ristabilita « continuità
dell'Essere » 51 • Anche Bataille va alla ricerca di una violenza
originaria, che potrebbe sanare la frattura fra il mondo razionalmente disciplinato del lavoro e il proscritto Altro dalla ragione. Egli si rappresenta lo sconvolgente ritorno in una perduta
continuità dell'Essere come l'eruzione degli elementi contrari alla
ragione, come atto che abolisce i confini del Sé e produce l'estasi.
51
G. Bataille, L'érotisme, Paris 1957, pp. 17 sgg.
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In questo processo di redenzione la soggettività monadicamente
chiusa e isolata degli individui che si affermano gli uni contro
gli altri viene espropriata e precipitata al fondo.
Bataille però non si accosta a questa potenza dionisiaca,
rivolta contro il principio dell'individuazione, lungo la cauta via
di un auto-oltrepassamento, presentato come un compito, del
pensiero irretito nella metafisica, bensì descrivendo e analizzando direttamente i fenomeni dell'autosuperamento e dell'autodissoluzione del soggetto che agisce razionalmente in vista del
fine. Evidentemente ciò che interessa Bataille sono i tratti baccantici di un'orgiastica volontà di potenza, l'attività creatrice e
donante di una volontà di potere, che si manifesta tanto nel
gioco, nella danza, nell'entusiasmo e nel delirio, quanto in quelle
eccitazioni che vengono provocate dalla distruzione, dallo spettacolo della sofferenza e della morte violenta, che suscita orrore
e piacere al contempo. Lo sguardo indagatore con cui Bataille
anatomizza pazientemente le esperienze-limite dell'azione sacrificale rituale e dell'atto d'amore sessuale è guidato e informato
da un'estetica dell'orrore. Per molti anni compagno e poi avversario di André Breton, Bataille non passa distrattamente oltre la
fondamentale esperienza estetica di Nietzsche, come fa invece
Heidegger, bensì ne segue la radicalizzazione nel surrealismo.
Bataille indaga ossessivamente quelle ambivalenti e scovolgenti
reazioni dell'animo, della vergogna, del ribrezzo, dell'orrore e
del compiacimento sadico, che vengono provocate da impressioni
subitanee, offensive, indecenti, che irrompono con improvvisa
violenza. In queste eccitazioni esplosive le contrastanti tendenze
del desiderare e del ritrarsi si uniscono in un fascino paralizzatore. Ribrezzo, ripugnanza e disgusto si fondono con la voluttà,
col rapimento e con la bramosia. La coscienza, esposta a queste
laceranti ambivalenze, si scombussola. I surrealisti volevano provocare questa condizione di shock con mezzi estetici impiegati
in modo aggressivo. Bataille segue le tracce di questa ' illuminazione profana ' (Benjamin) all'indietro, fino ai tabù del cadavere umano, del cannibalismo, del corpo nudo, del sangue mestruale, dell'incesto, ecc.
Queste ricerche antropologiche, di cui ci occuperemo ancora
in seguito, offrono il punto di partenza per una teoria della
sovranità. Come già Nietzsche nella Genealogia della morale,
così ora Bataille esamina quell'esclusione e quella sempre più
completa estirpazione di tutto ciò che è eterogeneo, da cui soltanto si costituisce il mondo moderno del lavoro razionale in
vista del fine, del consumo e dell'esercizio del potere. Bataille
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non esita a costruire una storia della ragione occidentale che,
al pari della critica heideggeriana della metafisica, presenta l'età
moderna come un'epoca di estenuazione. Ma in Bataille gli elementi eterogenei e ripudiati non si presentano nella figura di
un destino apocalittico misticamente concepito, bensì come forze
sovversive, che sono costrette a scaricarsi convulsivamente, se
pure non vengano ancora liberate in una società socialista libertaria.
Per questo diritto del sacrale rinnovato, Bataille combatte
paradossalmente con i mezzi dell'analisi scientifica. Egli non denigra affatto il pensare metodico. «Nessuno (può) porre il problema della religione, se parte da soluzioni arbitrarie, che non
sono ammesse dall'attuale spirito di precisione. Perciò quando
parlo dell'esperienza interna e non di oggetti, non sono uomo
di scienza, ma nel momento in cui parlo di oggetti, lo faccio
con l'indispensabile rigore dello scienziato» 52 •
Ciò che separa Bataille da Heidegger è tanto il suo accesso
ad una esperienza genuinamente estetica, dalla quale attinge
il concetto del sacro, quanto il rispetto per il carattere scientifico di una conoscenza di cui egli vorrebbe servirsi per analizzare il sacro. Vi sono tuttavia paralleli fra questi due autori,
quando si prendono in considerazione i loro contributi al discorso filosofico della modernità. Le somiglianze strutturali si
spiegano in quanto Heidegger e Bataille vogliono risolvere lo
stesso compito ispirandosi a Nietzsche. Entrambi vogliono svolgere una critica radicale della ragione - tale da attaccare le
stesse radici della critica. Dalla concordanza di questa problematica derivano vincoli argomentativi formalmente analoghi.
Anzitutto l'oggetto della critica deve essere determinato in
modo tanto preçiso, che vi si possa riconoscere la ragione centrata nel soggetto quale principio della modernità. Quale punto
di partenza, Heidegger sceglie il pensiero oggettivante delle scienze moderne, e Bataille l'agire razionai-finalistico dell'impresa
capitalistica e dell'apparato burocratizzato dello Stato. L'uno,
HE!'idegger, indaga i concetti antologici fondamentali della filosofia della coscienza, per mettere a nudo, quale spinta che
domina il pensiero da Descartes fino a Nietzsche, la volontà di
disposizione tecnica su processi oggettivati. Soggettività e reificazione deformano lo sguardo su ciò di cui non si può disporre.
L'altro, Bataille, indaga quegli imperativi dell'economicità e dell'efficienza, ai quali sono stati assoggettati in modo sempre più
52
lvi, p. 29.
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esclusivo il lavoro e il consumo, per cogliere nel produttivismo
industriale una tendenza all'autodistruzione insita in tutte le società moderne. La società totalmente razionalizzata ostacola, infatti, la spesa improduttiva e l'uso prodigalmente generoso della
ricchezza accumulata.
La critica totalizzata della ragione ha rinunciato ad una dialettica dell'Illuminismo; pertanto ciò che si espone a tale critica
deve essere talmente esteso, che l'Altro dalla ragione, le controforze dell'Essere o della Sovranità, non si rivelino alla fine soltanto quali momenti rimossi e repressi della ragione stessa. Perciò Heidegger e Bataille risalgono, con Nietzsche, dietro gli inizi
della storia occidentale, ai periodi arcaici, per ritrovare le tracce
del dionisiaco o nel pensiero dei presocratici, oppure negli stati
d'eccitamento dei rituali sacrificali. Qui si devono poter identificare quelle sepolte esperienze, dissolte dalla razionalizzazione,
che possono infondere vita alle espressioni dell' ' essere ' e della
' sovranità ', che dapprima sono entrambi soltanto dei nomi, e
che devono essere introdotti quali concetti opposti alla ragione,
in modo tale da poter resistere a tutti i tentativi di inglobamento
razionale. L' ' Essere ' viene definito come ciò che si è ritratto
dalla totalità oggettivamente pensata, la ' sovranità ' come ciò
che è stato escluso dal mondo dell'utile e del calcolabile. Queste potenze originarie si presentano nelle immagini di una abbondanza che deve esser donata, ma è rifiutata e indisponibile di una ricchezza che attende di essere dissipata. Mentre la ragione è determinata dalla messa a disposizione e dalla valorizzazione calcolante, il suo Altro può essere caratterizzato soltanto
negativamente, come ciò che non è assolutamente disponibile e
valorizzabile - come un medium, nel quale il soggetto può
immergersi solamente quando si abbandoni e si superi come
soggetto.
Questi due momenti, la ragione e il suo Altro, non stanno
fra loro in un rapporto di opposizione che rinvia al superamento dialettico, bensì in un rapporto tensionale di reciproca
repulsione ed esclusione. La loro relazione non è costituita dalla
dinamica di una rimozione che possa venir revocata dagli opposti processi dell'autoriflessione o della prassi illuminata. La ragione è piuttosto consegnata impotente alla dinamica del ritrarsi
e del lasciare, dell'escludere e del proscrivere, di modo che la
soggettività limitata non raggiunge, con le sole forze ad essa
proprie dell'anamnesi e dell'analisi, ciò che le si sottrae o ciò che
essa tiene lontano da sé. L'Altro dalla riflessione rimane precluso
all'autoriflessione: esso dirige un gioco di forze di tipo metasto106
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rico o cosmico-naturale, che richiede uno sforzo di osservanza
diversa. Lo sforzo paradossale di una ragione che oltrepassa se
stessa assume però in Heidegger la forma chiliastica di un insistente rimemorare che evoca la ventura dell'Essere, mentre Bataille si ripromette bensì, da una sociologia del sacro fondata
eterologicamente, di chiarire il gioco trascendente delle forze,
senza tuttavia sperare di poterlo influenzare.
Entrambi questi autori svolgono la loro teoria ricostruendo
narrativamente la storia della ragione occidentale. Heidegger,
che, seguendo il filo conduttore della filosofia del soggetto, interpreta la ragione come autocoscienza, concepisce il nichilismo
quale espressione di impadronimento del mondo da parte di una
tecnica totalmente liberata. In questo esito deve concludersi il
destino di un pensiero metafisica, che è stato messo in moto
dalla domanda sull'Essere, e tuttavia, dinanzi al tutto dell'ente
reificato, perde di vista sempre di nuovo questo elemento essenziale. Bataille, che, seguendo invece il filo conduttore della filosofia della prassi, interpreta la ragione come lavoro, concepisce
il nichilismo come conseguenza di una coazione ad accumulare
totalmente autonomizzata. In ciò si conclude la fatalità di una
sovraproduzione che un tempo serviva ancora alla grandiosa prodigalità sovrana, ma poi impiega sempre più risorse allo scopo
di aumentare la produzione, trasforma lo spreco in consumo, e
toglie il terreno alla sovranità fervidamente creatrice.
Oblìo dell'Essere e rifiuto della parte proscritta sono le due
immagini dialettiche dalle quali fino ad oggi sono stati ispirati
tutti quei tentativi, che intendono liberare la critica della ragione
dalle figure concettuali di un Illuminismo in sé dialettico, ed
innalzare l'Altro dalla ragione ad un'autorità dinanzi alla quale
la modernità può essere richiamata all'ordine. Intendo perciò
esaminare, da un lato in base alla tarda filosofia di Heidegger
(ed alla continuazione produttiva di questa mistica filosofica da
parte di Derrida), dall'altro in base all'economia universale di
Bataille (e alla genealogia del sapere fondata da Foucault sulla
teoria del potere) se queste due vie, che Nietzsche ha indicato,
conducano effettivamente al di fuori della filosofia del soggetto.
Heidegger ha risolutamente antologizzato l'arte, puntando
tutto sulla carta di un movimento di pensiero che libera distruggendo, e che deve oltrepassare di per se stesso la metafisica.
Con ciò egli sfugge alle aporie di una critica della ragione che,
riferendosi anche a se stessa, deve necessariamente distruggere
i suoi propri fondamenti. Ma con la svolta antologica del messianismo dionisiaco egli si collega in tal guisa alla domanda
107
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iniziale, allo stile di pensiero e al tipo di fondazione della filosofia dell'originario, che può superare il fondamentalismo della
fenomenologia husserliana soltanto al prezzo di una fondamentalizzazione della storia che va a finire nel vuoto. Heidegger
tenta di evadere dal circolo incantato della filosofia del soggetto
fluidificandone temporalmente i fondamenti. Ma il superfondamentalismo della storia dell'Essere che astrae da ogni storia
concreta rivela come egli rimanga fissato a quel pensiero che
vuole negare. Per contro, Bataille resta fedele ad una autentica
esperienza estetica del dionisiaco, e si apre un ambito fenomenico nel quale la ragione centrata nel soggetto si può rispecchiare come nel suo Altro. Indubbiamente egli non può confessare a se stesso l'origine moderna di questa esperienza dal
surrealismo, ma deve trapiantarla nell'arcaico, con l'ausilio di
conoscenze antropologiche. In tal modo Bataille persegue il progetto di un'analisi scientifica del sacro e di un'economia universale, che devono spiegare il processo cosmico-storico della razionalizzazione e la possibilità di una conclusiva inversione di
marcia.
Tuttavia egli incappa nello stesso dilemma di Nietzsche: la
teoria del potere non può soddisfare la pretesa di oggettività
scientifica e al contempo tener fede al programma di una critica
totale, e quindi riferita a se stessa, della ragione, che intacca
anche la verità degli enunciati scientifici.
Prima di seguire le due vie aperte da Nietzsche, e percorse
rispettivamente nel postmoderno da Heidegger e da Bataille, vorrei soffermarmi su una linea di pensiero, che da questo punto di
vista appare dilatoria: cioè, sull'ambiguo tentativo di una dialettica dell'Illuminismo, compiuto da Horkheimer e Adorno, per
dare soddisfazione alla radicale critica nietzschiana della ragione.
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s.
L'INTRICO DI MITO E ILLUMINISMO:
HORKHEIMER E ADORNO *
Gli scrittori oscuri della borghesia, quali Machiavelli, Hobbes,
Mandeville, avevano da sempre affascinato Horkheimer, già influenzato da Schopenhauer. Anch'essi, indubbiamente, pensavano ancora in modo costruttivo, le loro disarmonie presentavano ancora linee che portavano alla teoria sociale di Marx.
Gli scrittori neri della borghesia, in testa a tutti il marchese di
Sade e Nietzsche, hanno interrotto questi collegamenti. Da essi
muovono Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell'illuminismo, il loro libro più nero, per elaborare concettualmente il
processo autodistruttiva dell'Illuminismo. Conseguentemente alla
loro analisi, non era loro più consentito sperare nella sua forza
liberatoria. Guidati dalla speranza dei disperati, divenuta ironica, di Benjamin, essi non volevano tuttavia desistere dal lavoro
del concetto, pur divenuto paradossale. Questa disposizione, questo atteggiamento, non sono più i nostri. Nondimeno, all'insegna
di un Nietzsche rinnovato post-strutturalisticamente, si diffondono disposizioni e atteggiamenti tanto somiglianti a questi, da
confonderli. Vorrei prevenire tale confusione.
La Dialettica dell'illuminismo è un libro singolare. Nelle sue
parti essenziali è nato da appunti presi da Gretel Adorno
• La presente fezione riproduce sostanzialmente, con qualche modificazione
e variante, un articolo già apparso sotto il titolo Die V ersch/ingung von Mythos
und Aufkliirung. Bemerkungen zur 'Dialektik der Aufkliirung ' - nach einer
erneuten Lektiire, in K. H. Bohrer (a cura di), Mythos und Moderne, Frankfurt
a. M. 1983, pp. 405 sgg. Una traduzione italiana condotta su un dattiloscritto
inviatomi da Habermas anteriormente alla pubblicazione in volume, è comparsa,
sotto il titolo: L'intrico di mito e illuminismo. Osservazioni sulla 'Dialettica
dell'illuminismo'- dopo una rilettura, nel volume da me curato, J. Habermas,
Dialettica della razionalizzazione, Milano 1983, pp. 265 sgg. - Ringrazio i traduttori, Giuseppe Pirola e Antonio Ponsetto, di avermi permesso di utilizzare,
modificandola là dove l'Autore ha modificato il testo, la loro versione italiana
(Emilio Agazzi).
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nel corso di discussioni fra Horkheimer e Adorno, a Santa Monica. Il testo è stato terminato nel 1944, ed è stato pubblicato
tre anni dopo, presso il Querido-Verlag ad Amsterdam. Per
quasi vent'anni è stato possibile trovare esemplari di questa prima edizione. La storia dell'influsso che Horkheimer e Adorno
hanno esercitato con questo libro sullo sviluppo intellettuale
della Repubblica Federale Tedesca, principalmente nelle prime
due decadi, sta in un curioso rapporto con il numero dei suoi
acquirenti. Singolare è anche la composizione del libro. Esso è
costituito da un saggio di poco più che cinquanta pagine, due
digressioni e tre appendici, che occupano più della metà del
libro. La forma piuttosto poco chiara dell'esposizione non consente di distinguere a prima vista la netta struttura della linea
del pensiero.
Esporrò quindi in primo luogo le due tesi centrali (1). Dalla
valutazione della modernità risulta il problema che mi interessa
nei riguardi della situazione odierna: perché Horkheimer e
Adorno vogliono illuminare radicalmente l'Illuminismo su se
stesso (Il). Il grande prototipo per un autosuperamento totalizzante della critica dell'ideologia era Nietzsche. Il confronto di
Horkheimer e Adorno con Nietzsche informa non solamente sulle
direzioni contrarie in cui le due parti spingono la loro critica
alla cultura (III); fa anche sorgere dubbi sul ripetuto farsi
riflessivo dell'Illuminismo medesimo (IV).
I
Nella tradizione dell'Illuminismo il pensiero illuminista è stato
inteso al tempo stesso come antitesi e come controforza rispetto
al mito. Come antitesi, perché oppone al vincolo autoritativo di
una tradizione legata alla sequela delle generazioni, la libera
costrizione dell'argomento migliore; come contro-forza, in quanto
spezza il predominio di potenze collettive mediante acquisizioni
intellettive individuali, trasposte in motivi. L'Illuminismo contraddice il mito e si sottrae in tal modo al suo potere 1 • A questo
contrasto, di cui il pensiero illuminato è tanto certo, Horkheimer
e Adorno oppongono la tesi di una complicità segreta: « Il mito
è già Illuminismo, e l'Illuminismo torna a rovesciarsi in mitolol K. Heinrich, Versuch iiber die Schwierigkeit Nein zu sagen, Frankfurt a.
M. 1964.
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gia » 2 • Questa tesi, annunciata nella prefazione, viene sviluppata
nel saggio che dà il titolo al libro e illustrata nella forma di
un'interpretazione dell'Odissea.
Dall'anticipata obiezione filologica, secondo la quale la scelta
della tarda elaborazione epica di una tradizione mitica già lontana da Omero farebbe cadere gli Autori in una petitio principii,
essi traggono un vantaggio dal punto di vista metodico: « Nelle
stratificazioni di Omero si sono sedimentati i miti; la loro narrazione però, l'unità che viene ricavata a forza dalle diffuse
saghe, è al tempo stesso la descrizione della linea di fuga del
soggetto di fronte alle potenze mitiche » 3 • Nelle avventure di
Odisseo, astuto in duplice senso, si rispecchia l'antichissima storia di una soggettività che si sottrae al dominio delle potenze
mitiche. Il mondo mitico non è la patria, ma il labirinto, da
cui si tratta di evadere per amore dell'identità: « all'origine delle
avventure nelle quali la soggettività, di cui l'Odissea narra la
preistoria, si sottrae al mondo mitico, è proprio la nostalgia.
Che il concetto di patria si opponga al mito, che i fascisti vorrebbero spacciare per patria, è il paradosso più intimo del
poema» 4 •
Senza dubbio, le narrazioni mitiche richiamano il singolo
alle origini genealogicamente trasmesse attraverso la sequela
delle generazioni; ma le celebrazioni rituali che devono gettare
un ponte verso il colpevole allontanamento dalle origini, e dare
salvezza, nello stesso tempo approfondiscono la frattura 5 • Il mito
dell'origine conserva il duplice senso dell' ' evadere ' (Entspringen): l'orrore di fronte allo sradicamento e il riaversi dallo scampato pericolo. Perciò Horkheimer e Adorno perseguono l'astuzia
di Odisseo fino nell'intimo delle azioni sacrificali; alle quali è
immanente un momento di inganno, in quanto gli uomini si
riscattano dalla maledizione delle potenze vendicatrici per mezzo
di rappresentanti simbolicamente rivalutati 6 • Questo strato del
mito caratterizza l'ambivalenza di una posizione della coscienza,
per la quale la prassi rituale è sia reale che fittizia. Essenziale
2 T. W. Adorno- M. Horkheimer, Dialektik der Aufkliirung, Amsterdam
1947, p. 10; in seguito citato come DA (tr. it., Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966, p. 8; in seguito citata come DI).
3 DA, p. 61 (DI, p. 55, modificata).
4 DA, pp. 96 sg. (DI, p. 87).
5 K. Heinrich, Dahlemer Vorlesungen, Basel-Frankfurt a. M. 1981, pp. 122 sg.
6 <<Antichissima dev'essere stata l'esperienza, che la comunicazione simbolica con la divinità attraverso il sacrificio non è reale. La rappresentanza implicita nel sacrificio esaltata da irrazionalisti alla moda, è inseparabile dalla divinizzazione della vittima, dall'inganno, dalla razionalizzazione sacerdotale dell'assassinio mercé l'apoteosi dell'eletto » (DA, p. 66 [DI, p. 60] ).
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per la coscienza collettiva è la forza rigenerante di un ritorno
rituale alle origini, che garantisce, come ha mostrato Durkheim,
il legame sociale; altrettanto necessario, tuttavia, è il carattere
solo apparente del ritorno alle origini, alle quali il membro del
collettivo tribale, in quanto si forma come io, deve al contempo
sottrarsi. In tal modo le potenze originarie, che vengono al contempo sacralizzate e raggirate, occupano già un primo stadio
dell'Illuminismo nella storia primordiale della soggettività 7 •
Se la distanza dalle origini significasse liberazione, si tratterebbe di un Illuminismo riuscito. Il potere mitico si rivela
invece come quel momento ritardante che arresta l'emancipazione cui si aspira, e prolunga un vincolo con le origini esperito
anche come prigionìa. Perciò Horkheimer e Adorno chiamano
' Illuminismo ' il processo complessivo in sospeso fra le due
parti. E questo processo, l'assoggettamento delle potenze mitiche,
deve ora provocare fatalmente ad ogni nuovo stadio il ritorno
del mito. L'Illuminismo deve ricadere nella mitologia. Anche
questa tesi gli Autori tentano di confermarla facendo ricorso allo
stadio odisseico della coscienza.
Essi esaminano l'Odissea episodio per episodio, per scoprire
il prezzo pagato dall'esperto Odisseo affinché il suo Io esca
rinvigorito e fortificato dalle avventure sostenute, così come lo
spirito da quelle esperienze della coscienza di cui il fenomenologo Hegel riferisce con lo stesso intento con cui il poeta epico
Omero riferisce le avventure. Gli episodi narrano rischi, astuzie e scampati pericoli, e le rinunce autoimposte, attraverso cui
l'lo, che impara a dominare il pericolo, consegue la propria
identità e al tempo stesso si congeda dalla felicità dell'arcaica
unità con la natura, sia esterna che interna. Il canto delle sirene
richiama alla memoria una felicità un tempo garantita dalla
'fluttuante unione con la natura'; Odisseo si abbandona alla
seduzione come chi già si sa in catene: « Il dominio dell'uomo
su se stesso, che fonda il suo Sé, è virtualmente ogni volta la
distruzione del soggetto al cui servizio esso ha luogo, poiché la
sostanza dominata, oppressa e dissolta dell'autoconservazione non
è altro che il vivente, in funzione del quale si definiscono compiti dell'autoconservazione, e che è proprio ciò che si tratta di
conservare» 8 • Questa figura, e cioè che gli uomini plasmano la
propria identità imparando a dominare la natura esterna a prezzo della repressione della loro natura interna, fornisce il modello
7
8
DA, p. 60 (DI, p. 54).
DA, p, 71 (DI, pp. 63 sg.).
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per una descrizione in cui il processo dell'Illuminismo rivela il
proprio volto di Giano: il prezzo del sacrificio, dell'occultamento di sé, dell'ininterrotta comunicazione dell'Io con la sua
propria natura, divenuta anonima come Es, viene spiegato come
conseguenza di una introversione del sacrificio. L'Io, che un
tempo nel sacrificio aveva dominato con l'astuzia il destino mitico, viene da questo ripreso non appena si vede costretto a
introiettare il sacrificio: « Il Sé permanente identico, che sorge
dal superamento del sacrificio, è direttamente a sua volta
un rituale sacrificale rigido, e implacabilmente osservato, che
l'uomo celebra con se stesso, opponendo la propria coscienza al
contesto naturale » 9 •
Nel processo cosmico-storico dell'Illuminismo quindi il genere umano si è sempre più allontanato dalle origini, senza tuttavia sciogliersi dalla mitica coazione a rip_etere. Il mondo moderno, del tutto razionalizzato, è solo in apparenza liberato dalla
magìa; su di esso incombe la maledizione della reificazione
demoniaca e dell'isolamento mortale. Nei fenomeni paralizzanti
di una emancipazione che lavora a vuoto si palesa la vendetta
delle potenze primordiali su coloro che dovevano emanciparsi
e che tuttavia non riuscirono a scampare. La costrizione a sottomettere razionalmente le forze della natura che premono dall'esterno ha avviato i sòggetti sulla via di un processo formativo
che accresce smisuratamente le forze produttive per amore della
pura autoconservazione, lasciando però atrofizzare le forze della
conciliazione, che trascendono la pura autoconservazione. Il
dominio su una natura esterna oggettivata e sulla natura interna
repressa è il signum permanente dell'Illuminismo.
Horkheimer e Adorno variano in tal modo il noto tema di
Max Weber, che nel mondo moderno vede gli antichi dèi, privati della loro magìa, risorgere dai loro sepolcri in forma di
potenze impersonali, per rinnovare l'irriconciliabile lotta dei
demoni 10 •
Il lettore che non si lascia sopraffare dall'esposizione retorica, che fa un passo indietro e prende sul serio la pretesa del
testo inteso in senso del tutto filosofico, può ricavare l'impressione:
- che la tesi qui discussa non sia meno arrischiata della
diagnosi del nichilismo, svolta in modo analogo da Nietzsche;
9 DA, p. 70 (DI. p. 63).
lO M. Weber, Wissenschaft
als Beruf (1918), in Gesammelte Aufsiitze zur
Wissenschaftslehre, Tiibingen 1968, p. 604 (tr. it., La scienza come professione,
in Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1966, p. 33).
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- che gli Autori abbiano coscienza di questo rischio e,
contro ciò che appare a prima vista, facciano un tentativo conseguente di motivare la loro critica della cultura;
- che nel far ciò accettino tuttavia astrazioni e livellamenti,
che mettono in dubbio la plausibilità del loro argomento.
Desidero verificare in primo luogo se questa impressione è
esatta.
La ragione stessa distrugge quell'umanità che essa ha reso
possibile: questa ampia tesi viene motivata nella prima digressione, come abbiamo veduto, affermando che il processo dell'Illuminismo è dovuto fin dall'inizio all'impulso di un'autoconservazione che mutila la ragione, in quanto la impegna solamente nelle forme di una razionalità che ha per scopo il dominio sulla natura e sull'istinto, appunto come ragione strumentale. Con ciq non è ancora dimostrato che la ragione rimanga
soggetta fino nei suoi prodotti ultimi, fino nella scienza moderna, nelle nozioni universalistiche del diritto e della morale e
nell'autonomia dell'arte, al Diktat della razionalità in vista dello
scopo. Questa riprova viene fornita nel saggio sul concetto dell'Illuminismo, nella digressione su Illuminismo e morale e nell'appendice sull'industria culturale.
Adorno e Horkheimer sono convinti che nel positivismo
logico la scienza moderna si è chiusa su se stessa e ha rinunciato all'enfatica pretesa della conoscenza teoretica a favore di
di una utilizzabilità tecnica: « Comprendere il dato come tale,
non limitarsi a leggere, nei dati, le loro astratte relazioni spaziotemporali, per cui si possono prendere e maneggiare, ma intenderli invece come la superficie, come momenti mediati del concetto, che si adempiono solo nell'esplicazione del loro significato
sociale, storico e umano, - ogni pretesa della conoscenza viene
abbandonata » 11 • La critica prima rivolta alla concezione positivistica della scienza si acuisce nell'accusa globale che le scienze
stesse vengono assorbite dalla ragione strumentale. Seguendo il
filo conduttore della Histoire de ]uliette e della Genealogia della
morale, Horkheimer e Adorno vogliono mostrare inoltre che la
ragione è stata espulsa dalla morale e dal diritto, perché con il
decadimento delle immagini religioso-metafisiche del mondo tutti
i criteri normativi avrebbero perduto il loro credito di fronte
all'unica autorità rimasta, quella della scienza: « Il fatto di
non aver mascherato, ma proclamato ad alta voce l'impossibilità
di produrre, in base alla ragione, un argomento di principio
Il
DA, p. 39 (DI, p. 35).
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contro l'assassinio, ha alimentato l'odio con cui proprio progressisti perseguitano ancora oggi Sade e Nietzsche » 12 • E ancora: « Essi non hanno dato ad intendere che la ragione formalistica sia in rapporto più stretto con la morale che con l'immoralità » 13 • La critica prima rivolta alle reinterpretazioni metaetiche della moralità si rovescia in sarcastico consenso allo scetticismo etico.
Con la loro analisi della cultura di massa, Horkheimer e
Adorno vogliono dimostrare infine che l'arte fusa con lo svago
verrebbe paralizzata nella sua forza innovatrice, svuotata di ogni
contenuto critico e utopico:
Il momento - nell'opera d'arte - per cui essa trascende la
realtà, è, in effetti, inseparabile dallo stile; ma non consiste nell'armonia realizzata, nella problematica unità di forma e contenuto,
interno ed esterno, individuo e società, ma nei tratti in cui affiora
la discrepanza, nel necessario fallimento della tensione appassionata verso l'identità. Anziché esporsi a questo fallimento, in cui
lo stile della grande opera d'arte si è negato da sempre, l'opera
mediocre si è sempre tenuta alla somiglianza con altre, al surrogato dell'identità. L'industria culturale, infine, assolutizza l'imitazione 14 •
La critica prima rivolta contro il carattere puramente affermativo della cultura borghese, si accresce fino alla furia impotente nei confronti della ironica giustizia di quel giudizio, spacciato come non rivedibile, che la cultura di massa pronuncia
su un'arte che da sempre è stata ideologica.
Nei confronti della scienza, della morale e dell'arte l'argomentazione segue quindi lo stesso schema: già la separazione
degli ambiti culturali, il decadimento della ragione sostanziale
ancora incarnata nella religione e nella metafisica, infirmano i
momenti di razionalità isolati, privati della loro unione, a tal
punto da farli regredire al livello di una razionalità asservita
ad una inselvatichita autoconservazione. Nella modernità culturale la ragione viene definitivamente privata della propria esigenza di validità e assimilata a mero potere. La capacità critica
di prender posizione con un ' sì ' o un ' no ', di distinguere fra
affermazioni valide e non valide, viene trascurata, in quanto
entrano in torbida fusione esigenze di potere e di validità.
12
13
14
DA, p. 142 (DI, p. 129).
DA, p. 141 (DI, p. 128).
DA, p. 156 (DI, p. 141).
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Riducendo a questo nucleo la critica della ragione strumentale, si fa chiaro perché la Dialettica dell'illuminismo debba
livellare in maniera sorprendente l'immagine della modernità.
La dignità propria della modernità culturale consiste in ciò che
Max Weber ha chiamato l'ostinata differenziazione delle sfere di
valore. Con questo non viene però fiaccata, ma piuttosto potenziata la forza della negazione, la capacità di discriminare fra
' sì' e 'no ', perché ora possono essere trattati e dispiegati secondo la loro propria logica problemi di verità, di giustizia e
di gusto. Con l'economia capitalistica e con lo Stato moderno
si rafforza, è vero, anche la tendenza a far rientrare tutti i
problemi di valore nell'orizzonte restrittivo della razionalità in
vista dello scopo di soggetti autoconservantisi o di sistemi autosussistenti. Con questa propensione alla regressione sociale rivaleggia però la pressione non disprezzabile, indotta dalle razionalizzazioni delle immagini del mondo e dei mondi della vita,
verso la crescente differenziazione di una ragione che assume
con ciò una figura procedurale. Con la naturalistica assimilazione di pretese di validità a pretese di potere, con la distruzione
della capacità critica, rivaleggia la formazione di culture di
esperti nelle quali una sfera di validità articolata appoggia le
pretese di verità proposizionale, di giustezza normativa e di
autenticità, ai fini di un significato proprio, e certamente anche
di una vita propria esoterica e a sua volta compromessa dal
distacco dalla prassi comunicativa quotidiana.
La Dialettica dell'illuminismo non rende giustizia a quel contenuto razionale della modernità cuìturale che è stato custodito
negli ideali borghesi (e con essi anche strumentalizzato): intendo la dinamica teoretica propria che sempre torna a spingere
le scienze, e perfino l'autoriflessione delle scienze, oltre la produzione di sapere tecnicamente utilizzabile; intendo ancora le
basi universalistiche del diritto e della morale, che hanno trovato anche un'incarnazione (sia pure incompleta e distorta) nelle
istituzioni degli Stati costituzionali, in forme di educazione democratica della volontà, in modelli individualistici di formazione
dell'identità; intendo infine la produttività e la forza dirompente
di profonde esperienze estetiche, che strappano dal suo proprio
decentramento una soggettività liberata da imperativi dell'attività utilitaria e da convenzioni della percezione quotidiana. Sono
le esperienze che nelle opere d'arte d'avanguardia giungono alla
rappresentazione, nei discorsi della critica d'arte al linguaggio,
e nei codici di valore dell'autorealizzazione, arricchiti in senso
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innovativo, anche ad un certo effetto illuminante - o almeno
ad istruttivi effetti di contrasto.
Se questi cenni circa lo scopo del mio argomento fossero
completati a sufficienza, essi potrebbero confermare l'impressione intuitiva dell'incompletezza e unilateralità (per esprimerci
cautamente) che lascia a prima vista la lettura di questo libro.
Il lettore ricava a giusto titolo la sensazione che la descrizione
livellante non tenga conto di tratti essenziali della modernità
culturale. Ma allora si impone la domanda sui motivi che possono aver indotto Horkheimer e Adorno a spingere così a fondo
la loro critica all'Illuminismo, da compromettere il progetto dell'Illuminismo stesso; la Dialettica dell'illuminismo non lascia
infatti molte speranze di sfuggire al mito della razionalità in
vista dello scopo, sfociato nel dominio materiale. Per chiarire
tale questione, vorrei anzitutto identificare il posto che assume
la critica marxiana dell'ideologia nell'insieme del processo dell'Illuminismo, per poi trovare la ragione per cui Horkheimer e
Adorno credettero di dover al contempo abbandonare e sopravanzare la critica di questo tipo.
II
Abbiamo finora conosciuto la mentalità mitica solo sotto l'aspetto dell'atteggiamento ambivalente dei soggetti verso le potenze
primordiali, quindi dal punto di vista dell'emancipazione, che
è centrale per la formazione dell'identità. Horkheimer e Adorno
concepiscono l'Illuminismo come il fallito tentativo di svincolarsi
dalle potenze del destino. Il vuoto desolato dell'emancipazione
è la forma sotto la quale la maledizione delle forze mitiche
. ancora una volta cattura il fuggitivo. Un'altra dimensione della
descrizione del pensiero mitico come di quello illuminista viene
espressa solo in pochi passi, dove viene determinato il cammino
della demitologizzazione come trasformazione e differenziazione
di concetti fondamentali. Il mito deve la forza totalizzante con
la quale inquadra tutti i fenomeni percepiti in superficie in una
rete di corrispondenze, di rapporti di analogia e di contrasto,
a concetti fondamentali, nei quali è categorialmente tenuto insieme ciò che la moderna concezione del mondo non concilia più.
Ad esempio, il linguaggio è il mezzo della rappresentazione non
ancora tanto staccato dalla realtà, da far sì che il segno convenzionale sia comunemente separato dal contenuto semantico e dal
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referente; l'immagine mitica del mondo rimane intessuta con
l'ordine del mondo. Le tradizioni mitiche non possono essere
rivedute senza pericolo per l'ordinamento delle cose e l'identità
della stirpe che vi è inclusa. Categorie di validità, quali ' vero '
e 'falso', 'buono' e ' cattivo', sono ancora collegate con concetti empirici quali scambio, causalità, salute, sostanza e proprietà. Il pensiero magico non consente alcuna distinzione concettuale di principio fra cose e persone, inanimato e animato,
fra oggetti che possono essere manipolati e agenti ai quali attribuiamo azioni ed espressioni linguistiche. Soltanto la demitologizzazione dissolve quella magìa che a noi appare come una
confusione fra natura e cultura. Il processo dell'Illuminismo
porta alla desocializzazione della natura e alla denaturalizzazione del mondo umano; con Piaget, tale processo può essere
inteso come un decentramento dell'immagine del mondo.
L'immagine tradizionale del mondo viene infine resa temporale e può essere distinta, come interpretazione mutevole, dal
mondo stesso. Questo mondo esteriore si differenzia nel mondo
oggettivo dell'essente e nel mondo sociale delle norme (o dei rapporti interpersonali regolati normativamente); ambedue si staccano dal rispettivo mondo interno degli eventi soggettivi. Come
ha mostrato Max Weber, questo processo prosegue nella razionalizzazione delle immagini del mondo, che come religione e
metafisica sono anch'esse debitrici della demitologizzazione. Dove
la razionalizzazione, come nella linea tradizionale occidentale,
non si arresta neppure di fronte ai fondamentali concetti teologici e metafisici, la sfera dei nessi di validità non solo viene purgata dalle commistioni empiriche, bensì viene anche internamente differenziata secondo punti di vista di verità, di legittimità normativa e di veracità soggettiva o autenticità 15 •
Se in tal modo si descrive il processo in corso fra mito e
illuminismo come la formazione di una concezione del mondo
decentrata, si può indicare nel dramma anche il luogo dove può
emergere il procedimento della critica dell'ideologia. Solo quando vengono separati i rapporti di senso e quelli delle cose, le relazioni interne ed esterne, solo quando scienza, morale e arte sono
specializzate ciascuna ad una sola pretesa di validità, seguendo
ciascuna la sua rispettiva logica, e quando sono purgate da scorie
cosmologiche, teologiche, culturali, solo allora può nascere il sospetto che l'autonomia della validità, a cui pretende una teoria
15
J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M.
1981, vol. l, cap. Il (tr. it. cit.).
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empirica o normativa, sia un'apparenza, perché nei suoi pori
si sono infiltrati interessi nascosti e pretese di potere. La critica
che è ispirata da un tale sospetto vuol dimostrare che la teoria
sospettata, nelle affermazioni per le quali per un verso pretende
validità, rivela a tergo subordinazioni che non le è consentito
ammettere, senza perdere la credibilità. La critica diventa critica
dell'ideologia quando vuole mostrare che la validità della teoria
non si è ancora staccata in misura sufficiente dal contesto della
propria origine, che alle spalle della teoria si nasconde un inammissibile miscuglio di potere e di validità, e che proprio ad
esso deve ancora la sua reputazione. La critica dell'ideologia
vuole mostrare come, ad un livello per il quale la difficile distinzione fra contesti di senso e di cose è costitutiva, proprio queste
relazioni interne ed esterne si ingarbugliano, perché le pretese
di validità vengono determinate da rapporti di potere. La critica
dell'ideologia non è essa stessa una teoria che competa con un'altra; essa si serve soltanto di determinati assunti teoretici. Reggendosi su di questi, essa confuta la verità di una teoria sospetta,
svelandone la mancanza di veracità. Essa prosegue il processo
dell'Illuminismo, dimostrando come una teoria che presuppone
una comprensione demitologizzata del mondo sia ancora chiusa
nel mito, e segua le tracce di un errore categoriale che si pretende superato.
Con questo genere di critica l'Illuminismo diventa per la
prima volta riflessivo; esso si completa ora con i suoi propri
prodotti. Ma il dramma dell'Illuminismo giunge alla propria
peripezia solo quando la stessa critica dell'ideologia viene sospettata di non produrre (più) delle verità - e l'Illuminismo diventa
riflessivo per la seconda volta. Il dubbio si estende allora anche
alla ragione, i cui criteri la critica dell'ideologia ha trovato dati
negli ideali borghesi e non ha fatto altro che prendere in parola.
Questo passo lo compie la Dialettica dell'illuminismo - essa
autonomizza la critica anche nei confronti dei propri fondamenti. Perché Horkheimer e Adorno si vedono costretti a fare
tale passo?
La teoria critica era stata sviluppata dapprima nella cerchia
attorno ad Horkheimer, per elaborare le delusioni politiche sulla
mancata rivoluzione in Occidente, sullo sviluppo stalinista nella
Russia sovietica e sulla vittoria del fascismo in Germania; essa
doveva spiegare il fallimento delle prognosi marxiste, senza peraltro rompere con le intenzioni marxiste. Su questo sfondo diventa comprensibile come negli anni più oscuri della seconda
guerra mondiale poté consolidarsi più che mai l'impressione che
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l'ultima scintilla di ragione fosse scomparsa da questa realtà,
lasciandosi dietro le rovine desolate di una civiltà in decadenza.
L'idea della storia della natura, che il giovane Adorno aveva
accolto da Benjamin 16, sembrava essersi realizzata in modo imprevisto. La storia, nel momento della sua estrema accelerazione,
si era irrigidita in natura, era impallidita a calvario di una speranza divenuta irriconoscibile.
Certamente, simili spiegazioni storico-contemporanee e psicologiche possono pretendere di aver interesse in contesti teoretici
solamente nella misura in cui contengono riferimenti ad un motivo sistematico. In effetti, le esperienze politiche dovettero entrare in contatto con i fondamentali assunti storico-materialistici
sui quali ancora negli anni Trenta si era retta la Scuola di Francoforte.
In una delle ' annotazioni ' aggiunte asistematicamente, Filosofia e divisione (scientifica) del lavoro, si trova un passo che
si legge come un'intrusione proveniente dal periodo classico
della teoria critica. La filosofia, vi è detto,
non riconosce norme o fini astratti, che si presterebbero ad un'applicazione in contrasto con i fini e le norme vigenti. La sua libertà
dalla suggestione dell'esistente consiste proprio in ciò, che essa
accetta senza starei troppo a pensare gli ideali borghesi: quelli
che sono ancora proclamati - e sia pure in forma alterata dagli esponenti dell'attuale stato di cose, o quelli che sono ancora
riconoscibili come significato oggettivo delle istituzioni, tecniche e
culturali, a dispetto di ogni manipolazione 17 •
Con ciò Horkheimer e Adorno richiamano la figura della
critica marxiana dell'ideologia, la quale prendeva le mosse dal
fatto che il potenziale di ragione enunciato negli ' ideali borghesi ' e inserito nel ' senso oggettivo delle istituzioni ', mostra
due facce: da un lato esso conferisce alle ideologie della classe
dominante l'aspetto menzognero di teorie convincenti, dall'altro
esso offre il punto di appoggio per una critica immanente nei
confronti di quelle strutture che elevano a interesse generale ciò
che in realtà serve solamente alla parte dominante della società.
La critica dell'ideologia decifrò nelle idee abusate una parte di
ragione esistente nascosta a se stessa, lesse queste idee come
una promessa che avrebbe potuto adempiersi attraverso moti
16
T. W. Adorno, Gesammelte Schrijten, vol. I, Frankfurt a. M. 1973, pp.
345 sgg.
17 DA, p. 292 (DI, p. 260).
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sociali nella misura in cui si fossero sviluppate forze produttive
eccedenti.
I teorici critici negli anni Trenta avevano mantenuto una
parte della fiducia, propria della filosofia della storia, nel potenziale razionale della cultura borghese, che doveva essere liberato
sotto la pressione delle forze produttive sviluppate; su questo si
era fondato anche quel programma di ricerca interdisciplinare
che si realizza poi nei volumi della « Zeitschrift fi.ir Sozialforschung » (1932-1941). Helmut Dubiel ha mostrato, sulla base
dello sviluppo della prima teoria critica, perché questo capitale
di fiducia all'inizio degli anni Quaranta fosse a tal punto consumato 18 , che Horkheimer e Adorno ritennero esaurita la critica
marxiana dell'ideologia e non credettero più di poter mantenere
la promessa di una teoria critica della società costruita con i
mezzi delle scienze sociali. Essi praticano invece una radicalizzazione e un autosuperamento della critica dell'ideologia, che
deve informare l'Illuminismo su se stesso. La prefazione alla
Dialettica dell'illuminismo inizia con queste parole:
Pur avendo osservato da molti anni che nell'attività scientifica
moderna le grandi invenzioni si pagano con una crescente decadenza della cultura teoretica, credevamo pur sempre di poter seguire
la falsariga dell'organizzazione scientifica nel senso che il nostro
contributo si sarebbe limitato essenzialmente alla critica o alla
continuazione di dottrine particolari. Esso avrebbe dovuto attenersi,
almeno nell'ordinamento tematico, alle discipline tradizionali: sociologia, psicologia e gnoseologia. I frammenti raccolti in questo volume mostrano che abbiamo dovuto rinunciare a quella fiducia 19•
Se la coscienza, divenuta cinica, degli scrittori neri enuncia
la verità sulla cultura borghese, la critica dell'ideologia non conserva più nulla di ciò a cui essa potrebbe fare ricorso; e se
le forze produttive entrano in una· nefasta simbiosi con quei
rapporti di produzione, che un tempo esse dovevano far saltare,
allora non vi è più alcuna dinamica in cui la critica potrebbe
riporre le proprie speranze. Horkheimer e Adorno vedono quindi scosse le basi della critica dell'ideologia - e vorrebbero
tuttavia attenersi allo schema fondamentale dell'Illuminismo.
Così, quanto l'Illuminismo ha compiuto nei confronti del mito,
essi lo applicano di nuovo al processo dell'Illuminismo nel suo
18 H. Dubiel, Wissenschaftsorganisation und politische Erfahrung, Frankfurt a. M. 1978, parte A.
19 DA, p. 5 (DI, p. 3).
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complesso. In quanto si volge contro la ragione come fondamento della sua propria validità, la critica diventa totale. Come
è da intendersi questa totalizzazione e autonomizzazione della
critica?
III
Il sospetto nei confronti dell'ideologia diventa totale, senza tuttavia modificare la direzione. Esso si volge non solo contro la
funzione irrazionale degli ideali borghesi, bensì contro lo stesso
potenziale di razionalità della cultura borghese, e si estende
quindi ai fondamenti di una critica dell'ideologia il cui procedimento sia immanente; rimane tuttavia il proposito di conseguire un effetto di svelamento. Invariato è lo schema di pensiero in cui viene inserito lo scetticismo nella ragione; ora la
ragione stessa è sospettata della nefasta confusione fra pretese
di potere e di validità, ma ancora con intento illuministico. Con
il concetto di ' ragione strumentale ' si vogliono regolare i conti
con un intelletto calcolante, che ha usurpato il posto della ragione 20 • Questo concetto deve al contempo ricordare che la razionalità in vista dello scopo, ampliata a totalità, assorbe la distinzione fra ciò che esige validità e ciò che serve all'autoconservazione, demolendo così quella barriera fra validità e potere, annullando quella differenziazione concettuale di principio, che la
moderna comprensione del mondo credeva di dovere ad un definitivo superamento del mito. La ragione, come ragione strumentale, si è assimilata al potere, ed ha quindi rinunciato alla propria forza critica - questo è l'ultimo svelamento di una critica
dell'ideologia applicata a se stessa. Senza dubbio, questa descrive, in modo paradossale, l'autodistruzione della capacità
critica, perché nell'istante della descrizione deve ancora fare
uso della critica, che era già stata data per morta. Essa denuncia il divenir totalitario dell'Illuminismo con i mezzi che gli sono
propri. Adorno era perfettamente consapevole di questa contraddizione performativa della critica totalizzata.
La Dialettica negativa di Adorno si legge come una continua
spiegazione del perché dobbiamo ruotare, anzi dobbiamo persistere, in questa contraddizione performativa, perché solo lo svi20 Principalmente: M. Horkheimer, Zur Kritik der instrumentel/en Vernunft
(1947), Frankfurt a. M. 1967 (tr. it., Eclisse della ragione. Critica della ragione
strumentale, Torino 1969).
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luppo incessante e insistente del paradosso apre la prospettiva
su quella ' anamnesi' della natura del soggetto, quasi magicamente evocata, « nel compimento della quale è la verità misconosciuta di ogni cultura » 21 • Nei venticinque anni trascorsi dalla
conclusione della Dialettica dell'illuminismo, Adorno è rimasto
fedele all'impulso filosofico e non ha evitato la struttura paradossale di un pensiero della critica totalizzata. La grandiosità
di questa sua coerenza appare nel confronto con Nietzsche, la
cui Genealogia della morale era stato il grande modello per il
secondo divenir riflessivo dell'Illuminismo. Nietzsche ha rimosso
la struttura paradossale, ha spiegato l'assimilazione della ragione
al potere, compiutasi nella modernità, con una teoria della potenza, che si rimitologizza spontaneamente e in luogo dell'esigenza di verità mantiene ancora soltanto la pretesa retorica del
frammento estetico. Nietzsche aveva preteso di mostrare in che
modo si totalizzi la critica; ma solamente alla fine si scopre che
l'amalgama di validità e potere è per lui uno scandalo solo perché ostacola una glorificata volontà di potenza che è dotata
delle connotazioni della produttività artistica. Il confronto con
Nietzsche mostra che la direzione non è inscritta nella critica
divenuta totale. Fra i teorici irremovibili dello svelamento,
Nietzsche è quello che radicalizza l'Illuminismo 22 •
La posizione Horkheimer e Adorno nei confronti di Nietzsche
è contraddittoria. Da un lato, essi gli riconoscono di avere « compreso, come pochi dopo Hegel, la dialettica dell'Illuminismo » Z3.
Essi accettano naturalmente « la spietata lezione dell'identità di
dominio e ragione» 2\ cioè l'avvìo ad un autosuperamento totalizzante dell'ideologia. Dall'altro lato, non possono ignorare che
· Hegel è anche l'estremo opposto di Nietzsche. Nietzsche volge
all'affermativo la critica della ragione, fino al punto che perde
il proprio pungolo anche la negazione determinata, cioè quel
procedimento che Horkheimer e Adorno vogliono conservare
come unico esercizio, perché la ragione stessa è giunta a vacillare. La critica di Nietzsche divora lo stesso impulso critico:
Come protesta contro la civiltà, la morale dei signori rappresentava indirettamente gli oppressi: l'odio per gli istinti atrofizzati
denuncia oggettivamente la vera natura dei custodi, che non fa
DA, p. 55 (DI, pp. 48 sg.).
Come i suoi seguaci neoconservatori, già egli stesso si atteggia ad ' antisociologo ': cfr. H. Baier, Die Gesellschaft - ein langer Schatten des toten Gottes, in « Nietzsche-Studien >>, vol. X/Xl, 1982, pp. 6 sgg.
23 DA, p, 59 (DI, p. 53).
24 DA, p. 143 (DI, p. 129, modificata).
21
22
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che manifestarsi nelle loro vittime. Ma come grande potenza e religione di Stato, la morale dei signori si vende definitivamente ai
powers that be della civiltà di massa, alla maggioranza compatta,
al risentimento ed a tutto ciò contro cui una volta si opponeva.
Nietzsche viene confutato dalla sua realizzazione, e insieme si
libera la sua verità, che nonostante ogni sì alla vita era ostile allo
spirito della realtà 25.
l'atteggiamento contraddittorio nei confronti di Nietzsche è
istruttivo. Esso indica anche che la Dialettica dell'illuminismo
deve a Nietzsche più che la sola strategia di una critica dell'ideologia che si rivolge contro se stessa. Rimane però difficile,
ora come prima, spiegare quella certa noncuranza nei rapporti
(diciamolo pure con ostentazione) con le conquiste del razionalismo occidentale. Come hanno potuto i due, che sono pur sempre
illuministi, sottovalutare il contenuto razionale della modernità
culturale, fino al punto da percepire in tutto solamente una lega
di ragione e dominio, potere e validità? Si lasciano ispirare da
Nietzsche anche nell'acquisire i loro criteri di critica della cultura da un'esperienza fondamentale autonomizzata della modernità estetica?
In primo luogo, sono sorprendenti le concordanze di contenuto 26 • Di quella costruzione che Horkheimer e Adorno pòngono a base della loro 'preistoria della soggettività', si trovano
punto per punto analogie in Nietzsche. Appena gli uomini,
sostiene Nietzsche, furono privati dei loro istinti ' scatenati ',
dovettero far assegno sulla loro ' coscienza', cioè sull'apparato
dell'aggettivazione e della messa a disposizione della natura
esterna: « Essi furono ridotti al pensare, concludere, calcolare,
combinare cause ed effetti, questi infelici »-n. Nello stesso momento dovettero però esser domati i vecchi istinti, repressa la
natura bisognosa, che non trovava più sbocco spontaneo. Con
questo processo di inversione della direzione dell'impulso, e di
interiorizzazione, si forma, sotto il segno della rinuncia o della
' cattiva coscienza ', la soggettività di una natura interna: « Tutti
gli istinti che non si scaricano verso l'esterno si volgono verso
l'interno - questo è ciò che chiamo l'interiorizzazione dell'uomo: solo così va crescendo nell'uomo ciò che poi viene
chiamato la sua ' anima '. L'intero mondo interno, in origine
DA, p. 122 (DI, p. 110, modificata).
Cfr. anche P. Pi.itz, Nietzsche im Lichte der Kritischen Theorie, in
tzsche-Studien »,vol. III, Berlin 1974, pp. 175 sgg.
27 F. Nietzsche, Si:imt/iche Werke cit., vol. V, p. 322.
25
26
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<<
Nie-
sottilmente teso come tra due membrane, si è diversificato e
dischiuso, acquisendo profondità, larghezza, altezza, nella misura
in cui è stato ostacolato lo sfogo dell'uomo verso l'esterno» 28•
Infine i due elementi di un dominio sulla natura esterna e su
quella interna si congiungono e si rafforzano nel dominio istituzionalizzato di uomini su altri uomini: « Il vessillo della pace
e della società » è posto su tutte le istituzioni, perché queste
costringano l'uomo alla rinuncia: « Quei formidabili baluardi
con cui l'organizzazione dello Stato si proteggeva contro i vecchi
istinti della libertà - di questi baluardi fanno parte principalmente le punizioni - riuscirono a far sì che tutti questi istinti
dell'uomo selvaggio, libero, vagabondo, si volgessero indietro,
contro lo stesso uomo» 29 •
Allo stesso modo la critica nietzschiana della conoscenza e
della morale anticipa un'idea che Horkheimer e Adorno sviluppano nella forma di una critica della ragione strumentale: dietro
gli ideali di oggettività e le pretese di verità del positivismo,
dietro gli ideali ascetici e le pretese di giustezza della morale
universalistica, si nascondono imperativi di autoconservazione e
di dominio. Una teoria pragmatistica della conoscenza e una
dottrina morale delle passioni smascherano la ragione teoretica
e pratica come pure finzioni, nelle quali pretese di potere si
procurano un alibi efficace - e ciò con l'ausilio dell'immaginazione, dell'« impulso alla creazione di metafore, per il quale
gli stimoli esterni offrono soltanto l'occasione per risposte proiettive, per un intrico di interpretazioni dietro le quali il testo
scompare» 30 •
Certamente Nietzsche fa risaltare in modo diverso dalla Dialettica dell'illuminismo la prospettiva secondo la quale considera la modernità. E solo questa angolazione spiega perché
natura oggettivata e società moralizzata decadono ad altrettante
forme di manifestazione della medesima potenza mitica, sia essa
la volontà di potenza pervertita oppure la ragione strumentale.
Questa prospettiva si è aperta con la modernità estetica, con
quello svelamento ostinato, e accelerato nell'arte d'avanguardia,
di una soggettività decentrata, liberata da tutte le restrizioni
della cognizione e dell'attività per uno scopo, da tutti gli imperativi del lavoro e dell'utilità. Nietzsche non è solamente un
28
29
Jbid.
Jbid.
J. Habermas, Nachwort a F. Nietzsche, Erkenntnistheoretische Schriften,
Frankfurt a. M. 1968, pp. 237 sgg.
30
125
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contemporaneo di Mallarmé, a lui spiritualmente affine 31 ; egli
non ha solamente assorbito lo spirito tardo-romantico di Richard
Wagner; egli per primo elabora concettualmente il sentimento
della modernità estetica, ancor prima che la coscienza d'avanguardia nella letteratura, nella pittura e nella musica del XX
secolo possa assumere configurazione obiettiva ed essere elaborata teoreticamente da Adorno nella Teoria estetica. Nella rivalutazione del transitorio, nella celebrazione del dinamismo, nell'esaltazione dell'attualità e del nuovo, si esprime una coscienza
del tempo motivata esteticamente, l'anelito verso un immacolato
presente, che si arresti. L'intenzione anarchica dei surrealisti, di
far saltare il continuum della storia della decadenza, è già
all'opera in Nietzsche. La forza sovversiva di una resistenza
estetica, che più tardi alimenterà le riflessioni di Benjamin, e
anche di Peter Weiss, scaturisce già in Nietzsche dall'esperienza
della ribellione contro tutto ciò che è normativo. È la medesima forza che neutralizza tanto il moralmente buono quanto
il praticamente utile, quella che si manifesta nella dialettica di
segreto e di scandalo, nel piacere dello sgomento di fronte alla
profanazione. Nietzsche eleva a grandi antagonisti Socrate e
Cristo, sostenitori di una fede nella verità e nell'ideale ascetico: sono essi che negano i valori estetici! Nietzsche confida
solo nell'arte, «nella quale appunto si sana la menzogna, la
volontà dell'illusione » 32, solo nel terrore del bello, per non
lasciarsi catturare dal mondo fittizio della scienza e della morale.
Nietzsche intronizza il senso del gusto, «il Sì e il No del
palato » 33 , quale unico organo di una ' conoscenza' al di là del
vero e del falso, al di là del bene e del male. Il giudizio di
gusto del critico d'arte egli lo innalza a modello del giudizio
di valore, dell'' apprezzamento '. Il senso legittimo della critica
è quello di un giudizio di valore che produce un ordine gerarchico, pesa le cose, misura le forze. Ed ogni interpretazione è
valutazione. Il ' Sì' esprime un apprezzamento alto, il 'No' uno
basso. ' Alto ' e ' basso ' caratterizzano la dimensione della presa
di posizione Sì/No in genere.
È interessante vedere con quanta coerenza Nietzsche sfugga
le prese di posizione Sì/No nei confronti di pretese di validità
criticabili. Egli svaluta dapprima la verità delle proposizioni
assertorie e la giustezza delle proposizioni normative, ricondu31
In proposito, cfr. G. Deleuze, Nietzsche und die Philosophie, Miinchen
1976, pp. 38 sgg.
32 F. Nietzsche, op. cit., vol. V, p. 402.
33
lvi, p. 158.
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cendo validità e non-validità a giudizi di valore positivi e negativi: riduce « p è vero » e « n è giusto », ossia proposizioni
complesse, con le quali noi pretendiamo validità per proposizioni enunciative e normative, a proposizioni valutative semplici,
con le quali esprimiamo apprezzamenti, diciamo cioè che vorremmo anteporre il vero al falso e il buono al cattivo. Nietzsche
dunque prima reinterpreta le pretese di validità come preferenze, e pone poi la domanda: posto il caso che noi preferiamo
la verità (e la giustizia): perché non piuttosto la non-verità (e
l'ingiustizia)? 34 • Sono giudizi di gusto, quelli che rispondono
alla domanda relativa al valore della verità e della giustizia.
Senza dubbio, dietro questi apprezzamenti fondamentali
potrebbe celarsi un'architettonica che, come un tempo in Schiller, deve ancorare l'unità della ragione teoretica e pratica nella
facoltà del giudizio estetico. Nietzsche può assimilare completamente la ragione al potere solamente in quanto toglie lo status
cognitivo ai giudizi di valore, e dimostra che nelle prese di posizione Sì/No, che sono proprie degli apprezzamenti, non si esprimono più pretese di validità, bensì pure pretese di potere.
Dal punto di vista dell'analisi linguistica, il passo successivo
dell'argomentazione ha quindi come obiettivo quello di assimilare i giudizi di gusto agli imperativi, gli apprezzamenti alle
espressioni di volontà. Nietzsche si contrappone all'analisi di
Kant sul giudizio di gusto 35 per fondare la tesi che le valutazioni sono necessariamente soggettive e non possono essere associate ad una pretesa di validità intersoggettiva. L'aspetto del piacere disinteressato, nonché quello dell'impersonalità e dell'universalità del giudizio estetico devono poter risultare soltanto
dalla prospettiva dell'osservatore; dal punto di vista dell'artista
che produce, noi rileviamo però che gli apprezzamenti sono indotti da posizioni di valori innovative. L'estetica della produzione sviluppa l'esperienza dell'artista geniale, che crea valori:
dalla sua visuale gli apprezzamenti sono dettati da uno « sguardo che pone valori» 36 • La produttività che pone valori prescrive
la legge dell'apprezzamento. Così, nella validità cui pretende il
giudizio di gusto, si esprime l'« eccitazione della volontà per
mezzo del bello». Una volontà risponde a un'altra volontà, una
forza si impossessa dell'altra.
Questa è la via attraverso la quale Nietzsche giunge dalle
34
35
36
lvi, p. 15.
lvi, pp. 346 sg.
lvi, p. 271.
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prese di posizione Sì/No degli apprezzamenti, dopo averli depurati da tutte le pretese cognitive, al concetto della volontà di
potenza. Il bello è «lo stimolante della volontà di potenza»,
Il nucleo estetico della volontà di potenza è quindi la capacità
di una sensibilità che si lascia muovere nel modo più svariato
possibile 37 •
Quando però il pensare non può più muoversi nell'elemento
della verità, delle pretese di validità in generale 38 , allora contraddizione e critica perdono il loro senso. Contraddire, dire no,
ha ormai solamente il senso di « voler essere diverso». Senza
dubbio Nietzsche può difficilmente accontentarsene nell'attuazione della sua critica della cultura. Quest'ultima non deve affatto esaurirsi in agitazione, ma deve mostrare perché sia falso
o ingiusto o cattivo riconoscere la sovranità degli ideali, ostili
alla vita, della scienza e della morale universalistica. Se però
tutti i predicati di yalidità sono svalutati, e se negli apprezzamenti non si esprimono pretese di validità, ma soltanto pretese
di potere, secondo quale criterio la critica deve ancora effettuare
le proprie distinzioni? Essa deve almeno poter discriminare fra
un potere che merita di essere stimato, ed uno che merita di
essere svalutato.
Da questa aporia può aiutarci ad uscire soltanto una teoria
del potere che distingua tra forze ' attive ' e forze puramente
' reattive '. Ma Nietzsche non può ammettere questa teoria del
potere come una teoria che possa essere vera o falsa. Egli stesso
si muove, in forza della propria analisi, in un mondo dell'apparenza, nel quale si possono distinguere ombre più chiare da ombre più scure, ma non già ragione da irrazionalità. Questo è
un mondo per così dire ricaduto nel mito, in cui vi sono potenze
37 La funzione mediatrice del giudizio di gusto nella riduzione delle prese
di posizione Sì/No nei riguardi di pretese di validità criticabili al ' Sl ' e al
'No' nei riguardi di manifestazioni imperativistiche della volontà si evidenzia
anche nel modo in cui Nietzsche riesamina, insieme al concetto della verità delle
asserzioni, il concetto del modo incorporato nella nostra grammatica: « Che cosa
ci costringe dopotutto all'assunto secondo il quale esiste una contrapposizione
essenziale tra ' vero ' e ' falso '? Non è sufficiente ammettere gradi dell'illusione,
e per dir così tonalità generali e ombre più chiare e più scure dell'apparenza
- diversi valeurs, per parlare il linguaggio dei pittori? Perché il mondo, che un
po' ci riguarda - non dovrebbe essere una finzione? E a chi chiedesse qui:
'ma per la finzione non ci vuole un autore?' - non si dovrebbe rispondere
chiaro e tondo: Perché? Questo ' ci vuole' non fa forse parte della finzione?
Non è dunque lecito essere per l'appunto alquanto ironici nei riguardi del soggetto, come nei riguardi del predicato e dell'oggetto? Il filosofo non dovrebbe
elevarsi al di sopra della credulità nella grammatica?>> (lvi, pp. 53 sg.).
38 G. Deleuze, op. cit., pp. 114 sgg.
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che influiscono l'una sull'altra, e non è rimasto più nessun elemento che possa trascendere la lotta delle potenze. Forse è
senz'altro tipico di quel modo astorico di percezione, che è
proprio della modernità estetica, che le singole epoche perdano
il loro volto a favore di un'affinità eroica del presente con ciò
che è più lontano e più originario: il decadente vuole porsi
direttamente in rapporto con il barbarico, il selvaggio, il primitivo. In ogni caso il rinnovamento nietzscheano del quadro
mitico-originario si adatta bene a questa mentalità: la cultura
autentica è già da tempo tramontata; sul presente incombe la
maledizione della lontananza dalle origini; perciò Nietzsche pensa antiutopicamente l'avvicinarsi di quella cultura, che ancora
manca, come ritorno e ripetizione.
Questo quadro non ha un valore puramente metaforico; ha
invece il senso sistematico di far posto per la figura paradossale
di una critica sgravata dalle ipoteche del pensiero illuminato.
In Nietzsche infatti la critica dell'ideologia divenuta totale si
rovescia in ciò che egli chiama 'critica genealogica'. Dopo che
il senso del dir di no è stato sospeso, e il procedimento della
negazione è stato messo fuori gioco, Nietzsche ritorna a quella
dimensione del mito originario che consente una distinzione comprendente tutte le altre dimensioni: ciò che è più antico è ciò
che viene prima nella catena delle generazioni, ciò che è più
vicino alle origini. Ciò che è più originario deve essere considerato come ciò che è più venerando, più nobile, più incorrotto,
più puro: in breve, deve essere considerato come ciò che è
migliore. Derivazione ed origine servono quale criterio del rango,
tanto nel senso sociale quanto nel senso logico.
In questo senso Nietzsche fonda la sua critica della morale
sulla genealogia. Egli riconduce l'apprezzamento morale, che
attribuisce ad una persona o ad un modo di agire un posto
in un ordine di precedenza formato secondo criteri di validità,
all'origine, e quindi al rango sociale di colui che emette il giudizio morale:
L'indicazione della via giusta me la diede la domanda su che
cosa propriamente debbono significare dal punto di vista etimologico le denominazioni del 'buono' coniate nelle diverse lingue:
allora trovai che tutte quante riportano alla medesima mutazione
concettuale; che dovunque 'eccellente', 'nobile', nel senso del
rango, è il concetto fondamentale dal quale si svolge necessariamente ' buono ' nel senso di ' spiritualmente eccellente ', ' nobile ' nel
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senso di ' spiritualmente ben nato', 'spiritualmente privilegiato ':
uno sviluppo che è sempre parallelo con quell'altro, che muta alla
fine 'volgare', 'plebeo', 'basso' nel concetto di 'cattivo' 39 •
Così la localizzazione genealogica dei poteri assume un senso
critico: quelle che secondo la discendenza sono antecedenti e
più nobili, sono le forze attive, creatrici, mentre nelle forze
posteriori secondo l'origine, basse, reattive si esprime una volontà di potenza pervertita.
In tal modo Nietzsche dispone dei mezzi cqncettuali con i
quali può denunciare la mescolanza di fede nella ragione e ideale
ascetico, di scienza e morale, come una vittoria puramente fattuale delle forze inferiori e reattive, certamente decisiva per il
destino della modernità. Esse, come è noto, devono derivare dal
risentimento dei più deboli, « dall'istinto di protezione e di salvezza di una vita che va degenerando» 40 ,
IV
Abbiamo seguito la critica totalizzante, applicata anche a se
stessa, in due varianti. Horkheimer e Adorno si trovano nella
stessa situazione imbarazzante di Nietzsche: se non vogliono
rinunciare all'effetto di un ultimo svelamento e vogliono proseguire la critica, per spiegare la corruzione di tutti i criteri razionali essi devono pure tenerne per sé ancora uno intatto. Davanti
a questo paradosso la critica che si rovescia su se stessa perde
la direzione. Essa ha due opzioni di fronte a sé.
Nietzsche cerca scampo in una teoria della potenza; il che
è conseguente, perché quella fusione di ragione e potere che la
critica svela, lascia il mondo, come se fosse il mondo mitico,
in preda alla inconciliabile lotta delle potenze. A ragione Nietzsche, attraverso l'interpretazione di Gilles Deleuze, ha esercitato
F. Nietzsche, op. cit., vol. V, p. 261.
lvi, p. 366. - In questa sede a me interessa solamente la struttura dell'argomento. Solo mediante il ricorso ad uno schema del pensiero mitico-originario Nietzsche conserva la posizione del critico smascherante, dopo aver distrutto i fondamenti della critica dell'ideologia tramite l'uso applicato anche a
se stessa di questa critica. Una faccenda ben diversa è il contenuto ideologico
della ' genealogia della morale ', e in generale la battaglia di Nietzsche contro
le idee moderne, per la quale coloro che fra i dispregiatori della democrazia
sono abbastanza colti mostrano, oggi come un tempo, un interesse sorprendente:
cfr. R. Maurer, Nietzsche und die Kritische Theorie, e G. Rohrmoser, Nietzsches
Kritik der Mora/, in « Nietzsche-Studien », vol. X/Xl, Berlin 1982, pp. 34 sgg.
e 328 sgg.
39
40
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un influsso come teorico della potenza nella Francia strutturalista. Anche Foucault nei suoi lavori più recenti ha sostituito il
modello di repressione del dominio, sviluppato da Marx e da
Freud nella tradizione dell'Illuminismo, con un pluralismo di
strategie del potere che si intersecano, si susseguono, e che si
possono distinguere secondo il genere di formazione del discorso
e il grado della loro intensità, ma non si possono giudicare sotto
l'aspetto della validità, come avveniva nelle elaborazioni conflittuali consce rispetto a quelle inconsce 41 •
Una via d'uscita dall'imbarazzo di una critica che attacca le
premesse della sua propria validità non la offre certamente neppure la teoria delle forze attive e di quelle solo reattive - che
tutt'al più apre la strada per un'evasione dall'orizzonte della
modernità. Come teoria, è priva di base, se è vero che la distinzione categoriale fra pretese di potere e pretese di validità è la
base su cui deve compiersi ogni lavoro teoretico. Perciò anche
l'effetto dello svelamento si trasforma: non è la penetrazione
fulminea in una confusione che minaccia l'identità a provocare
lo shock, come nel motto di spirito il comprendere l'effetto
finale provoca la risata liberatrice; lo shock è scatenato dalla
de-differenziazione asserita, dal crollo asserito di quelle categorie, che sole possono fare di una svista, di una dimenticanza
o di un lapsus, un errore categoriale che minaccia l'identità
- o dell'arte, un'apparenza. Questa svolta regressiva pone ancora le forze dell'emancipazione a servizio dell'anti-illuminismo.
Horkheimer e Adorno adottano un'altra opzione, fomentando
e tenendo aperta, senza più valeria superare teoreticamente, la
contraddizione performativa di una critica dell'ideologia che
sopravanza se stessa. Dato che, sul livello di riflessione che si
è raggiunto, ogni tentativo di formulare una teoria doveva necessariamente scivolare verso l'abisso, essi rinunciano alla teoria
e praticano ad hoc la negazione determinata, opponendosi così
a quella fusione di ragione e potere che chiude ogni fessura:
La negazione determinata respinge le rappresentazioni imperfette dell'assoluto, gli idoli, non, come il rigorismo, opponendo loro
l'idea alla cui stregua non reggono. La dialettica rivela piuttosto
ogni immagine come scrittura, e insegna a leggere nei suoi caratteri l'ammissione della sua falsità, che la priva del suo potere e
41 H. Fink-Eitel, Miche/ Foucault Analytik der Macht, in F. A. Kittler (a
cura di), Austreibung des Geistes aus den Geisteswissenschaften, Paderborn
1980, pp. 38 sgg.; A. Honneth- H. Joas, Soziales Handeln und menschliche Natur, Frankfurt a. M. 1980, pp. 123 sgg.
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l'appropria alla verità.
plice sistema di segni.
Hegel ha indicato un
corruzione positivistica
Cosl il linguaggio diventa più che un semCon il concetto di negazione determinata,
elemento che distingue l'illuminismo dalla
a cui egli Io assegna 42 •
La pratica dello spirito di contraddizione è ciò che rimane
dello « spirito della teoria intransigente ». E questa prassi è come
uno scongiuro, per « invertire proprio alla sua meta » lo spirito
maligno dell'inesorabile progresso 43 •
Chi persiste nel paradosso in un punto che un tempo la filosofia occupava con le proprie fondazioni ultime, non solo assume una posizione scomoda; potrà mantenerla solamente se si
può almeno render plausibile la mancanza di vie d'uscita. Anche
il·ripiegamento da una situazione aporetica deve essere differito,
altrimenti non vi è che una via, appunto quella all'indietro. Ma
questo, a mio avviso, è proprio il caso.
Il confronto con Nietzsche è istruttivo in quanto richiama
l'attenzione sull'orizzonte dell'esperienza estetica, che guida e
motiva il giudizio diagnostico del tempo. Ho mostrato in che
modo Nietzsche strappi dal rapporto con la ragione teoretica e
pratica quel momento della ragione che arriva a farsi valere
specificamente nella sfera dei valori estetico-espressivi, in particolare nell'arte e nella critica d'arte d'avanguardia, e in che
modo schematizzi la facoltà del giudizio, sul filo conduttore
dell'' apprezzamento ' relegato nell'irrazionale, in una capacità
di discernimento al di là del vero e del falso, del buono e del
cattivo. In tal modo Nietzsche acquisisce criteri per una critica
della cultura che smaschera scienza e morale come forme di
espressione ideologica di una volontà di potenza pervertita, in
modo analogo a quello in cui la Dialettica dell'illuminismo denuncia queste creazioni quali incarnazioni della ragione strumentale. Questo fatto induce a supporre che Horkheimer e Adorno percepiscano la modernità culturale da un analogo orizzonte
d'esperienza, con la medesima sensibilità potenziata, ma anche
con la stessa ottica ristretta che rende insensibili alle tracce e
alle forme esistenti della razionalità comunicativa. A favore di
tale supposizione sta anche l'architettonica della tarda filosofia
di Adorno, in cui Dialettica negativa e Teoria estetica si sostengono reciprocamente - l'una, che dispiega il concetto paradossale del non-identico, rimanda all'altra, che decifra il contenuto
mimetico camuffato nelle opere d'arte avanzate.
42
43
DA, p, 36 (DI, pp. 32 sg.).
DA, p, 57 (DI, p. 50, modificata).
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La situazione problematica di fronte alla quale si videro
posti Horkheimer e Adorno all'inizio degli anni Quaranta non
ha dunque lasciato alcuna via d'uscita? Certamente, la teoria
sulla quale fino ad allora si erano basati, e il procedimento della
critica dell'ideologia, non ingannavano più - perché le forze
produttive non sviluppavano più alcuna forza dirompente; perché le crisi e i conflitti di classe non promuovevano più una
coscienza rivoluzionaria, né in genere unitaria, bensì solo una
coscienza frammentaria; perché infine gli ideali borghesi venivano ristretti, o assumevano comunque forme che toglievano
spazio agli attacchi di una critica immanente. D'altra parte,
Horkheimer e Adorno non si sono più impegnati, allora, in una
revisione sociologica della teoria, perché lo scetticismo contro
il contenuto di verità degli ideali borghesi sembrava mettere in
discussione i criteri della stessa critica dell'ideologia.
Di fronte a questo secondo elemento, Horkheimer e Adorno
hanno fatto la mossa autenticamente problematica: essi si sono,
come lo storicismo 44, abbandonati ad uno sfrenato scetticismo
nella ragione, invece di riflettere sui motivi che fanno dubitare
di questo stesso scetticismo. Per questa via sarebbe forse stato
possibile porre tanto profondamente le basi normative della teoria critica della società 45 , da impedire che essa potesse essere
toccata da una decomposizione della cultura borghese quale si
è compiuta allora in Germania sotto gli occhi di tutti.
Effettivamente la critica dell'ideologia, sotto un certo aspetto,
ha anche continuato l'Illuminismo non dialettico del pensiero
antologico. Essa rimase imprigionata nell'immagine purista, come
se nei rapporti interni fra genesi e validità vi fosse il diavolo
che bisognava scacciare affinché la teoria, purificata da ogni aggiunta empirica, potesse muoversi nel suo proprio elemento. Di
questa eredità la critica divenuta totale non si è sbarazzata.
Infatti, appunto nell'intenzione di un ' ultimo svelamento ', che
con uno strappo deve far cadere il velo dalla confusione di
ragione e potere, si tradisce un proposito purista - analogo
al proposito dell'antologia, di dividere categorialmente, cioè di
colpo, essere ed apparenza. Le due sfere tuttavia, come il context of discovery e il context of justification nella comunità di
comunicazione dei ricercatori, sono talmente intessute l'una nell'altra che devono essere separate proceduralmente, e cioè sem44 H. Schniidelbach, Ober historische Au/kliirung, in « Allgemeine Zeitschrift
fiir Philosophie >>, 1979, pp. 17 sgg.
45 Cfr. la mia Theorie des kommunikativen Handelns, 2 voli., Frankfurt a.
M. 1981 (tr. it., Teoria dell'agire comunicativo, 2 voli., Bologna 1986).
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pre di nuovo, dal pensiero mediatore. Nell'argomentazione si
intersecano sempre critica e teoria, illuminismo e fondazione,
anche se i partecipanti al discorso devono presupporre che sotto
le inevitabili premesse comunicative del discorso argomentativo
si riveli solo la libera costrizione dell'argomento migliore. Essi
però sanno, o possono sapere, che anche questa idealizzazione è
necessaria unicamente perché le convinzioni si formano e si
affermano in un medium che non è 'puro', che non è liberato,
a guisa delle idee platoniche, dal mondo dei fenomeni. Solamente un discorso che lo riconosca è in grado di liberarsi ancora dall'incanto del pensiero mitico, senza perdere la luce dei
potenziali semantici conservati anche nel mito.
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6.
L'INFILTRAZIONE DELLA CRITICA
DELLA METAFISICA
NEL RAZIONALISMO OCCIDENTALE:
HEIDEGGER
I
Horkheimer e Adorno lottano ancora con Nietzsche; Heidegger
e Bataille si schierano sotto la bandiera di Nietzsche per l'ultima battaglia. Vorrei anzitutto seguire, in base alle lezioni su
Nietzsche tenute da Heidegger nel corso degli· anni Trenta e
dei primi anni Quaranta, il modo in cui egli accoglie gradualmente il messianismo dionisiaco in quell'operazione che mira a
varcare la soglia verso il pensiero post-moderno lungo la via
di un oltrepassamento della metafisiCa dal suo interno. Per tale
via Heidegger perviene ad una filosofia dell'originario temporalizzata. Ciò che io intendo con tale espressione, vorrei caratterizzarlo anticipatamente mediante quattro operazioni, cui Heidegger mette mano nella sua discussione con Nietzsche.
1. Come prima cosa Heidegger ristabilisce la filosofia in
quella posizione dominante dalla quale era stata scacciata dalla
critica dei giovani hegeliani. La desublimazione dello spirito era
stata allora compiuta ancora secondo concetti che erano propri
di Hegel: come una riabilitazione dell'esterno rispetto all'interno, del materiale rispetto allo spirituale, dell'essere rispetto alla
coscienza, dell'oggettivo rispetto al soggettivo, della sensibilità
rispetto all'intelletto e dell'empiria rispetto alla riflessione. Da
questa critica dell'idealismo era derivato uno spodestamento della
filosofia - non soltanto in favore dell'andamento autonomo della
scienza, della morale e dell'arte, ma anche in favore del diritto
proprio del mondo politico-sociale. Heidegger, procedendo in
senso contrario, restituisce alla filosofia la perduta pienezza del
potere. In base alla sua concezione, infatti, i destini storici di
una civiltà o di una società sono fissati di volta in volta da una
precomprensione collettivamente vincolante di tutto ciò che può
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accadere nel mondo. Questa precomprensione antologica dipende dai concetti fondamentali costituenti l'orizzonte, che in
una certa misura pregiudicano il senso dell'essente: « Comunque possa venir interpretato l'essente - come spirito nel senso
dello spiritualismo, o come materia ed energia nel senso del
materialismo, o come divenire e vita, come volontà, come sostanza o soggetto, o come energheia, o come Eterno Ritorno
dell'identico, - in ogni caso l'essente in quanto essente si mostra alla luce dell'Essere» 1 •
In Occidente la metafisica è appunto il luogo in cui questa
precomprensione si esprime nel modo più chiaro. Le tramutazioni epocali della comprensione dell'Essere si rispecchiano nella
storia della metafisica. Già per Hegel la storia della filosofia era
divenuta la chiave per intendere la filosofia della storia. Un
rango analogo lo assume per Heidegger la storia della metafisica;
con essa il filosofo si impadronisce delle fonti dalle quali ogni
epoca riceve fatalmente la sua propria luce.
2. Questa ottica idealistica non è priva di conseguenze per
la critica heideggeriana della modernità. All'inizio degli anni
Quaranta - nello stesso momento in cui Horkheimer e Adorno
stendevano in California quei disperati frammenti, che più tardi
vennero pubblicati come Dialettica dell'illuminismo, - Heidegger vede nelle forme in cui si manifesta l'essenza totalitaria il
« compimento del dominio mondiale europeo-moderno », Egli
parla di « lotta per il dominio della terra », della « lotta per
l'illimitato sfruttamento della terra come deposito di materie
prime e per l'uso privo di illusioni del materiale umano al servizio del mandato incondizionato della 'volontà di potenza'» 2•
In un tono che non è ancora del tutto libero da ammirazione,
Heidegger caratterizza il superuomo in base all'immagine di un
membro idealtipico delle SA: « Il superuomo è il modello di
quell'umanità che per la prima volta si vuole come modello,
e si modella su questo modello [ ... ]. Questo modello umano
pone entro il tutto insensato la volontà di potenza come ' senso
della terra'. L'ultimo periodo del nichilismo europeo è la ' catastrofe', nel senso di inversione affermante » 3 • Secondo Heidegger l'essenza totalitaria della sua epoca è caratterizzata dalle
tecniche globali del dominio sulla natura, della condotta di guerra
e dell'allevamento razziale, nelle quali si esprime la razionalità
l M. Heidegger, Einleitung a Was ist Metaphysik?, in M. Heidegger, Wegmarken, Frankfurt a. M. 1967, pp. 361 sg.
2 M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen 1961, vol. Il, p. 333.
3 lvi, vol. II, p. 313.
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finalistica assolutizzata del « calcolo a fondo di ogni agire e
progettare». Ma questo calcolo si fonda a sua volta nella comprensione dell'Essere specificamente moderna, che si è andata
radicalizzando da Cescartes a Nietzsche: « L'età che noi chiamiamo tempo moderno [ ... ] si determina in quanto l'uomo diviene misura e centro dell'essente. L'uomo è ciò che sta alla
base di tutto l'essente, cioè, modernamente, di ogni aggettivazione e rappresentabilità, il subjectum » 4 • L'originalità di Heidegger consiste nella collocazione del dominio del soggetto nella
prospettiva della storia della metafisica. Descartes sta per così
dire a metà strada fra Protagora e Nietzsche. Egli concepisce la
soggettività dell'autocoscienza come il fondamento assolutamente
certo del rappresentare; con ciò l'essente nel suo complesso si
trasforma nel mondo soggettivo degli oggetti rappresentati, e la
verità in certezza soggettiva 5•
Con questa critica del soggettivismo moderno Heidegger fa
suo un motivo che da Hegel in poi appartiene al patrimonio
tematico del discorso della modernità. Più che la svolta antologica che Heidegger imprime a questo tema, è interessante la chiarezza con cui egli intenta il processo alla ragione centrata nel
soggetto. Heidegger bada poco a quella differenza fra ragione
(V ernunjt) e intelletto (V erstand), partendo dalla quale Hegel
volle svolgere la dialettica dell'Illuminismo; dall'autocoscienza
egli non può più ricavare, oltre al lato autoritario, anche quello
della riconciliazione. :È lo stesso Heidegger, e non già un Illuminismo ottuso, che livella la ragione ad intelletto. La medesima
comprensione dell'Essere che sprona la modernità ad estendere
illimitatamente il suo potere di disposizione sui processi oggettivati della natura e della società, impone infatti alla soggettività
scatenata anche vincoli che servono a render sicuro il suo procedimento imperativo. Tuttavia gli obblighi imperativi autoimposti restano idoli vuoti. Da questa prospettiva Heidegger può
distruggere la ragione moderna. così a fondo, da non distinguere
più fra i contenuti universalistici dell'Umanesimo, dell'Illuminismo e anche del Positivismo da un lato, e dall'altro le idee
particolaristiche dell'autoaffermazione, proprie del razzismo e
del nazionalismo, o di tipologie volte all'indietro nello stile di
Spengler e di Jiinger 6 • Non importa se le idee moderne si presentano nel nome della ragione o della distruzione della ragione:
4
5
6
lvi, vol. II, p. 61.
I vi, vol. II, pp. 141 sgg., 195 sgg.
I vi, vol. II, pp. 145 sg.
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il prisma della comprensione moderna dell'Essere scompone tutti
gli orientamenti normativi in pretese di potere di una soggettività ossessionata dall'autopotenziamento.
D'altra parte la ricostruzione critica della storia della metafisica non può fare a meno di un proprio criterio. Essa lo
riprende dal concetto implicitamente normativa del ' compimento ' della metafisica.
3. L'idea dell'origine e della fine della metafisica deve il suo
potenziale critico alla circostanza che Heidegger si muove, non
meno di Nietzsche, all'interno della coscienza moderna del tempo. L'inizio dell'età moderna è contrassegnato per lui dalla svolta
epocale della filosofia della coscienza, che ha inizio con Descartes; e la radicalizzazione di questa comprensione dell'Essere
attuata da Nietzsche contraddistingue l'età contemporanea, che
determina la costellazione del presente 7 ; la quale a sua volta
si presenta come il momento della crisi; il presente sottostà
all'urgenza di decidere « se questo tempo finale sia la conclusione della storia occidentale oppure l'avvìo ad un altro inizio » 8 • Si tratta di decidere « se l'Occidente si creda ancora
capace di creare un fine al di là di se stesso e della storia, oppure se preferisca abbassarsi alla conservazione e al potenziamento degli interessi economici e vitali, e accontentarsi di fare
appello a ciò che è stato finora, come se fosse l'Assoluto» 9 •
La necessità di un altro inizio 10 attira lo sguardo verso il vortice del futuro. Il ritornare alle origini, all'« origine dell'essenza», è pensabile soltanto nella modalità del progredire verso
« il futuro dell'essenza ». Questo futuro si presenta nella categoria dell'assolutamente nuovo: « Il compimento di un'epoca
[ ... ] è la predisposizione per la prima volta incondizionata e
completa in anticipo di ciò che non è e non potrà mai essere
atteso [ ... ], il Nuovo» 11 • A dire il vero il messianismo di
Nietzsche, che lasciava ancora spazio per « incalzare la salvezza », come si dice nella mistica ebraica, in Heidegger si rovescia
nell'attesa apocalittica dell'avvento catastrofico del nuovo. Al
contempo Heidegger mutua dai modelli romantici, e in particolare da Holderlin, la figura concettuale del dio assente, per poter
concepire la fine della metafisica come ' compimento ' e quindi
come indizio infallibile di un ' altro inizio '.
7 lvi, vol. Il, p. 149.
8 lvi, vol. l, p. 480.
9 lvi, vol. l, p. 579.
IO lvi, vol. Il, p. 656.
11
I vi, vol. II. p. 479.
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Come un tempo Nietzsche sperava dall'opera di Richard
Wagner il grande balzo nel ' passato futuro ' della tragedia greca
antica, così Heidegger vorrebbe farsi rilanciare indietro dalla
metafisica nietzscheana della volontà di potenza, fino alle origini
presocratiche della metafisica. Ma prima di poter tracciare la
storia dell'Occidente, fra gli inizi della metafisica e la sua fine,
come la notte della lontananza degli dèi, prima di poter definire
il compimento della metafisica come il ritorno del Dio fuggito,
Heidegger deve stabilire una corrispondenza fra Dioniso e l'intento della metafisica, la quale ha a che fare con l'essere dell'essente. Il semidio Dioniso si era presentato tanto ai romantici
quanto a Nietzsche come il dio assente, che con la sua ' massima lontananza ' fa comprendere ad una modernità abbandonata da Dio quali energie socialmente vincolanti le sono state
sottratte nel corso del suo stesso progresso. L'idea della differenza antologica serve ora come ponte fra questa idea di Dioniso e la questione fondamentale della metafisica. Heidegger
separa l'Essere, che era sempre stato inteso come l'essere dell'essente, dall'essente stesso. L'essere può fungere cioè quale portatore dell'evento dionisiaco solo quando - come orizzonte storico entro il quale soltanto l'essente giunge a manifestarsi diviene in certo qual modo autonomo. Solamente l'Essere distinto ipostaticamente dall'essente può assumere il ruolo di Dioniso: « L'essente è abbandonato dall'Essere stesso. L'abbandono
dell'Essere attacca l'essente in complesso, e non soltanto l'essente
del tipo dell'uomo, che rappresenta l'essente in quanto tale, nel
qual rappresentare gli si sottrae l'Essere stesso nella sua verità» 12 •
Heidegger non si stanca mai dal dar rilievo alla potenza
positiva di questa sottrazione di essere come un fatto di rifiuto.
« Il mancare dell'Essere è l'Essere stesso come tale mancanza» 13 •
Nel totale oblìo dell'Essere che è proprio della modernità, non
si sente nemmeno più il senso negativo dell'abbandono dell'Essere. Ciò spiega il significato' centrale di un'anamnesi della storia
dell'Essere, che ora si dà a conoscere come la distruzione dell'oblìo di sé della metafisica 14 • Tutto lo sforzo di Heidegger
tende ad « esperire la mancanza del non-nascondimento dell'Essere come un avvento dell'Essere stesso, e a meditare ciò
che così si è esperito» 15 •
lvi, vol. Il, p. 355.
lvi, vol. Il, p. 353.
14 Già in Sein und Zeit, Tiibingen 1949, par. 6, Heidegger parla della «distruzione della storia dell'ontologia >> (tr. it., M. Heidegger, Essere e Tempo,
Milano 1953, p, 3).
15 M. Heidegger, Nietzsche cit., vol. Il, p. 367.
12
13
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4. Heidegger non può tuttavia intendere la distruzione della
storia della metafisica come critica smascherante, né l'oltrepassamento della metafisica come un ultimo atto di svelamento. In·
fatti l'autoriflessione che compie tutto ciò appartiene ancora
all'epoca della soggettività moderna. Perciò il pensiero che utilizza come filo conduttore la differenza ontologica, deve servirsi
di una competenza conoscitiva al di là dell'autoriflessione, al di
là del pensiero discorsivo in genere. Nietzsche poteva ancora
invitare a « porre la filosofia sul terreno dell'arte »; ad Heidegger
rimane soltanto l'assicurazione che per gli eletti «vi è un pensiero, che è più rigoroso del pensiero concettuale» 16 . Il pensiero
scientifico e la ricerca condotta con metodo incorrono in una
svalutazione globale, perché si muovono all'interno della comprensione moderna dell'Essere, tracciata dalla filosofia del soggetto. Anche la filosofia, fin tanto che non rinuncia all'argomentazione, permane entro il cerchio incantato dell'oggettivismo.
Anch'essa deve lasciarsi rinfacciare che « nel campo del pensiero essenziale, ogni confutare (è) stolto » 17 •
Per rendere anche solo superficialmente plausibile la necessità di ricorrere ad un sapere speciale, cioè ad un accesso privilegiato alla verità, Heidegger è però costretto a livellare in modo
sconcertante l'evoluzione differenziata delle scienze e della filosofia dopo Hegel.
Nelle lezioni su Nietzsche tenute nel 1939, si trova un interessante capitolo, che ha per titolo: Intesa e calcolo. Come sempre, anche qui Heidegger si rivolge contro l'impostazione monologica della filosofia della coscienza, la quale parte dal soggetto
singolo che si contrappone, nel conoscere e nell'agire, ad un
mondo oggettivo di cose e di eventi. La garanzia della consistenza del soggetto si presenta come uso calcolatore di oggetti
percepibili e manipolabili. Anche la preliminare dimensione dell'intesa fra i soggetti deve, entro questo modello, presentarsi
nella categoria del « poter calcolare sull'(altro) uomo » 18 • D'altronde Heidegger sottolinea il senso non-strategico dell'intesa
raggiunta inter-soggettivamente, su cui si fonda in realtà « il
rapporto con l'altro, con la cosa e con se stesso: intendersi su
qualche cosa vuoi dire: avere su di essa la stessa opinione e,
nel caso che le opinioni divergano, fissare le considerazioni in
base alle quali sussiste tanto l'accordo quanto il dissenso [ ... ].
16 I vi, p. 353.
17 lvi, p. 333.
18
lvi, vol. l, p. 580.
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Siccome il fraintendere e il non intendere sono soltanto varietà
dell'intesa, il venirsi incontro degli stessi uomini nella loro medesimità e medesimezza può essere fondato soltanto tramite l'intesa» 19 • In questa dimensione dell'intesa si trovano anche le
risorse per la sussistenza di gruppi sociali, fra l'altro quelle fonti
dell'integrazione sociale che nella modernità si vanno disseccando 20 •
Ora è strano che secondo Heidegger vedute di questo genere
sono riservate alla sua critica della metafisica. Egli ignora il
fatto che riflessioni del tutto analoghe costituiscono il punto di
partenza tanto per la metodologia delle scienze comprendenti
dello spirito e della società, quanto per influenti correnti filosofiche, quali furono il pragmatismo di Peirce e di Mead, e più
tardi anche la filosofia linguistica di Wittgenstein e di Austin
o l'ermeneutica filosofica di Gadamer. La filosofia del soggetto
non è affatto quel potere assolutamente reificante, che cattura
ogni pensiero discorsivo e lascia aperta soltanto la fuga nell'immediatezza dell'immersione mistica. Vi sono altre vie che conducono fuori dalla filosofia del soggetto. Il fatto che Heidegger
nella storia della filosofia e della scienza dopo Hegel non scorga
tuttavia nient'altro che un monotono ripetersi del pre-giudizio
della filosofia del soggetto, si può spiegare solamente in quanto
egli, pur rifiutandola, rimane impigliato in quelle problematiche
che la stessa filosofia del soggetto gli aveva fornito nella forma
della fenomenologia husserliana.
II
Nel tentativo di superare la filosofia del soggetto, Hegel e Marx
si erano avviluppati nei suoi stessi concetti fondamentali. Ad
Heidegger questo rimprovero non si può muovere; ma, certo,
una obiezione altrettanto grave. Heidegger si libera tanto poco
dalle anticipazioni problematiche della coscienza trascendentale,
che non può far saltare la gabbia concettuale della filosofia della
coscienza altrimenti che per via di una negazione astratta. Ancora nella Lettera sull'umanesimo, che riassume il risultato di
un'interpretazione di Nietzsche durata dieci anni, Heidegger
caratterizza il proprio modo di procedere mediante un implicito
riferimento ad Husserl. Quest'ultimo - vi leggiamo - voleva
19 I vi, pp. 579 sgg.
20 I vi, p. 579.
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« tener fermi gli ausilii essenziali del vedere fenomenologico,
e tuttavia lasciar cadere l'intenzione rivolta alla ' scienza ' e alla
' ricerca ' » 21 •
Husserl intendeva la riduzione trascendentale come un procedimento che dovrebbe consentire al fenomenologo di operare
un taglio netto fra il mondo dell'essente, dato nell'atteggiamento
naturale, e la sfera della coscienza pura, costituente, che sola
conferisce il suo senso all'essente. All'intuizionismo di questo
procedimento Heidegger è rimasto fedele per tutta la vita; nella
sua tarda filosofia il suo modo di procedere è semplicemente
sgravato dall'esigenza della metodicità, e determinato come un
privilegiato « stare in bilico in mezzo alla verità dell'Essere ».
Anche la problematica di Husserl rimane determinante per
Heidegger, in quanto egli volge semplicemente in senso ontelogico la fondamentale questione gnoseologica. In entrambi i
casi lo sguardo fenomenologico si rivolge al mondo come correlato del soggetto conoscente. A differenza, p. es., da Humboldt,
da George Herbert Mead o dal tardo Wittgenstein, Heidegger
non si libera dalla connotazione tradizionale del comportamento
teoretico, dell'uso constatativo del linguaggio e della pretesa di
validità della verità proposizionale. Heidegger resta infine negativamente legato anche al fondamentalismo della filosofia della
coscienza. Nell'Introduzione a Che cosa è la metafisica? egli
paragona la filosofia ad un albero, che si ramifica nelle scienze
e cresce dal terreno della metafisica in cui ha le sue radici. La
tanto decantata rimemorazione dell'Essere non mette in questione l'impostazione fondamentalistica - « per parlare figuratamente, essa non svelle le radici della filosofia. Ne scava il fondamento e le ara il terreno » 22 • Heidegger non si oppone alle
gerarchizzazioni di una filosofia smaniosa di autofondarsi, e
perciò può venire incontro al fondamentalismo solo dissotterrando uno strato posto ancora più nel profondo - e ormai
vacillante. Sotto questo aspetto l'idea della ventura dell'Essere
resta avvinta al suo contrario astrattamente negato. Heidegger
oltrepassa l'orizzonte della filosofia della coscienza soltanto per
restare nella sua ombra. Prima di svolgere più chiaramente questa posizione ambigua in base a Sein und Zeit, vorrei richiamare l'attenzione su tre incresciose conseguenze:
a) Fin dall'inizio del XVIII secolo il discorso della modernità aveva un unico tema, sia pure sotto sempre nuove denomi21
M. Heidegger, Brie/ iiber den Humanismus, in Was ist Metaphysik?, cit.,
p. 353.
22
lvi, p. 363.
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nazioni: il venir meno delle forze connettive sociali, la privatizzazione e la scissione; in breve, quelle deformazioni di una
prassi quotidiana unilateralmente razionalizzata, che fanno nascere il bisogno di un qualcosa che equivalga alla potenza unificatrice della religione. Gli uni ponevano le loro speranze nella
capacità riflessiva della ragione - o per lo meno in una mitologia della ragione; gli altri evocavano la forza mitopoetica di
un'arte, che dovrebbe costituire il punto centrale della vita pubblica rigenerata. Ciò che Hegel aveva chiamato il bisogno della
filosofia, si trasformò, da Schlegel fino a Nietzsche, nel bisogno
della nuova mitologia, come critica della ragione. Ma soltanto
Heidegger ha volatilizzato questo bisogno concreto, antologizzandolo e fondamentalizzandolo, in un Essere che si sottrae
all'essente. Tramite questo spostamento, Heidegger rende irriconoscibili tanto l'origine di quel bisogno dalle patologie di un
mondo della vita ambiguamente razionalizzato, quanto l'arte
risolutamente soggettivistica quale sottofondo d'esperienza di
una critica radicalizzata della ragione. Heidegger traduce le tangibili deformazioni della prassi comunicativa quotidiana cifrandole in un'inafferrabile ventura dell'Essere amministrata da filosofi; al contempo, tronca la possibilità della decifrazione, in
quanto scarta la sia pur manchevole prassi quotidiana rivolta
all'intesa interpretandola come prassi dimentica dell'Essere, volgare, adattata al calcolo, destinata ad assicurare la stabilità, e
nega ogni interesse essenziale alla totalità etica scissa del mondo
della vita 23 •
b) Dalla tarda filosofia di Heidegger deriva l'ulteriore conseguenza che la critica della modernità si rende indipendente
dalle analisi scientifiche. Il ' pensare essenziale ' si rifiuta a tutte
le questioni empiriche e normative, che possono essere trattate
con mezzi storici e sociologici, o comunque in forma argomentativa. Tanto più disinvoltamente si diffondono, nel non indagato
orizzonte _dei pregiudizi della critica borghese della cultura, le
astratte vedute d'essenza. I giudizi di Heidegger in materia di
critica del tempo sul man, sulla dittatura del pubblico e l'impotenza del privato, sulla tecnocrazia e sulla civilizzazione di massa, sono sprovvisti di qualsiasi originalità, giacché appartengono a quel repertorio di opinioni che è tipico per le generazioni dei mandarini tedeschi 24 • Nella scuola di Heidegger sono
23 M. Heidegger, Nietzsche cit., vol. l, p. 580.
24
F.K. Ringer, The Decline oj the German Mandarins, Cambridge (Mass.)
1969; cfr. in proposito la mia recensione in J. Habermas, Philosophisch-politische Profile, Frankfurt a. M. 1981, pp. 458 sgg.
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stati certamente compiuti tentativi più seri per adattare con
maggior precisione i concetti antologici della tecnica, del totalitario, del politico in genere agli scopi dell'analisi del presente;
ma proprio in questi sforzi si mostra l'ironia del fatto che il
pensiero dell'Essere si fa semplicemente ingannare da mode
scientifiche del momento, quanto più si crede dispensato dall'impresa scientifica.
c) Infine è problematica l'indeterminatezza del destino che
Heidegger prospetta quale risultato dell'oltrepassamento della
metafisica. Dato che l'Essere si sottrae alla presa assertoria di
proposizioni descrittive, e può venir circoscritto e ' taciuto '
(erschweigen) soltanto nel discorso indirettto, i destini dell'Essere rimangono enigmatici. Il discorso sull'Essere, privo di contenuto proposizionale, ha tuttavia il senso illocutivo di pretendere la sottomissione al destino. Il suo lato pratico-politico consiste nell'effetto perlocutivo della disponibilità all'obbedienza, il
cui contenuto è assai vago, di fronte ad un'autorità auratica,
ma indeterminata. La retorica del tardo Heidegger risarcisce quei
contenuti proposizionali che il testo rifiuta: essa unisce i suoi
destinatari nel rapporto con potenze pseudo-sacrali.
L'uomo è il «pastore dell'Essere». Pensare è un devoto
« farsi prendere a servizio ». Esso « appartiene » all'Essere. La
rimemorazione dell'Essere sottostà a «leggi dell'opportunità».
Il pensiero « ascolta con attenzione » la ventura dell'Essere. Il
pastore devoto viene « chiamato » dall'Essere stesso nell'esservero della sua verità. Così l'Essere « concede >> alla salvezza
l'ascesa verso la grazia, e al furore l'afflusso alla sventura. Tutte
queste sono note formule della Lettera sull'umanesimo, che da
allora in poi si ripetono stereotipicamente. Il linguaggio di Sein
und Zeit aveva suggerito il decisionismo di una vuota risolutezza; la tarda filosofia suggerisce la sommissione ad un'altrettanto vuota disponibilità ad assoggettarsi. Certo, la vuota formula del ' rimemorare ' può anche essere riempita da un'altra
sindrome disposizionale, p. es. dalla istanza anarchica di un
atteggiamento sovversivo di rifiuto, che corrisponde piuttosto a
situazioni d'animo attuali che alla cieca sottomissione a ciò che
è superiore 25 • Ma infastidisce l'arbitrarietà con cui la stessa fi25 Reiner Schtirmann vede la fine della metafisica nel fatto che la serie di
epoche nelle quali la comprensione ontologica era determinata dal dominio di
singoli principi, è conclusa. Il postmoderno sta sotto il segno dell'estinguersi di
ogni forma di esegesi del mondo unificante, guidata da principi; esso reca i
tratti anarchici di un mondo policentrico, che perde le sue precedenti differenziazioni categoriali. Con la nota costellazione di conoscere e agire si modifica
anche il concetto del politico. Schtirmann contraddistingue il mutamento struttu-
144
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gura di pensiero può essere attualizzata secondo la storia del
tempo.
Se si riflette su queste conseguenze, allora si potrà nutrire
il dubbio se la tarda filosofia di Heidegger, che sopravanza la
critica di Nietzsche alla metafisica, si sottragga effettivamente
al discorso della modernità. Essa dipende da una svolta, che
dovrebbe condurre fuori dal vicolo cieco di Sein und Zeit. Ma
questa ricerca argomentativamente più rigorosa del filosofo
Heidegger può esser considerata come un vicolo cieco soltanto
se la si inserisce in un contesto di storia del pensiero diverso
da quello che Heidegger mette retrospettivamente dietro di sé.
III
Heidegger ha continuamente sottolineato di aver condotto gta
l'analisi esistenziale dell'esserci unicamente allo scopo di rinnovare la questione, seppellita fin dagli inizi della metafisica, circa
il senso dell'Essere. Egli vuole occupare quel luogo scoperto,
nel quale la metafisica al contempo si fa conoscere nel suo senso
di fondazione dell'unità, e si compie 26 • Questa superba pretesa
del tardo Heidegger nasconde il più evidente contesto nel quale
è effettivamente sorto Sein und Zeit. Non penso soltanto al postidealismo del diciannovesimo secolo, bensì specialmente a quella
svolta neo-antologica, che dopo la prima guerra mondiale ha
investito la filosofia tedesca, da Rickert attraverso Scheler fino
a N. Hartmann. Dal punto di vista della storia della filosofia,
in quest'era del neokantismo decadente, che era stata allora certamente l 'tmica filosofia di valore mondiale, non si tratta di un
ritorno all'antologia prekantiana. Le forme antologiche del pensiero servirono piuttosto ad ampliare e ' concretizzare ' la soggettività trascendentale oltre l'ambito della conoscenza. Già lo
storicismo e la filosofia della vita avevano dischiuso ed elevato
ad interesse filosofico ambiti di esperienza quotidiani ed extrarale con le seguenti caratteristiche: 1. Abolizione del primato della teleologia
nell'azione; 2. Abolizione del primato della responsabilità nella legittimazione
dell'azione; 3. Mutamento nell'azione come protesta contro il mondo amministrato; 4. Disinteresse per il futuro dell'umanità; 5. Anarchia come essenza di
ciò che è 'fattibile'. Cfr. R. Schiirmann, Questioning the Foundation oj Practical
Philosophy, in << Human Studies >>, vol. l, 1980, pp. 357 sgg.; Politica/ Thinking
in Heidegger, in << Social Research >>, vol. XLV, 1978, pp. 191 sgg.; Le principe
d'anarchie, Heidegger et la question de l'agir, Paris 1982.
26 Da questa prospettiva W. Schulz determina il Philosophiegeschichtlicher
Ort Martin Heideggers, in << Philosophische Rundschau >>, 1953, pp. 65 sgg., 211
sgg.; rist. in O. Pi:iggeler (a cura di), Heidegger, Ki:iln 1969, pp. 95 sgg.
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quotidiani della mediazione tradizionale, della creatività artistica, dell'esistenza corporea, sociale e storica - ambiti d'esperienza che chiedevano troppo alle operazioni costitutive dell'Io
trascendentale, e in ognì caso facevano saltare il concetto classico del soggetto trascendentale. Dilthey, Bergson e Simmel avevano sostituito le operazioni produttive della sintesi trascendentale con l'oscura e vitalistica produttività della vita o della
coscienza; tuttavia con ciò non si erano ancora liberati dal
modello espressivistico della filosofia della coscienza. Anche per
essi rimaneva determinante l'idea di una soggettività che si aliena, per fondere di nuovo queste aggettivazioni nell'esperire vissuto n. Heidegger accoglie questi stimoli, ma riconosce l'inadeguatezza dei concetti fondamentali della filosofia della coscienza,
che si erano trascinati dietro. Egli si trova dinanzi al problema,
passato in primo piano a partire -da Kant, di sostituire quel
concetto della soggettività trascendentale senza però appiattire la
ricchezza di differenziazioni conquistata dalla filosofia del soggetto, da ultimo con la fenomenologia di Husserl.
Il contesto problematico in cui è nato Sein und Zeit lo indica lo stesso Heidegger nel paragrafo 10, dove si riferisce ad
Husserl e a Scheler:
La persona non è una cosa, una sostanza, un oggetto. Viene
cosl posto l'accento su ciò stesso che Husserl vuole significare quando afferma che l'unità della persona esige una costituzione essenzialmente diversa da quella delle cose naturali [ ... ]. L'essenza della
persona è tale da esistere soltanto nel compimento di atti intenzionali [ ... ]. L'essere psichico non ha dunque nulla a che fare con
l'essere-persona. Gli atti vengono compiuti, la persona è compitrice
dell'atto 28 •
Heidegger non si accontenta di questo inizio, e chiede: « Ma
allora qual è il senso antologico del ' compiere '? Come deve
essere determinato in modo antologicamente positivo il modo
di essere della persona? ». Heidegger si serve del vocabolario
della svolta neo-antologica, per portare innanzi la dissoluzione
del concetto della soggettività trascendentale; ma in questa radicalizzazione egli tiene fermo all'atteggiamento trascendentale di
una chiarificazione riflessiva delle condizioni di possibilità dell'essere-persona come essere-nel-mondo. Altrimenti la pienezza
27 G. Simmel, Zur Philosophie der Kultur, in « Philosophische Kultur», Berlin 1983. Cfr. anche il mio Nachwort: Simme/ a/s Zeitdiagnostiker, ivi, pp. 243253.
28 Heidegger, Sein und Zeit cit., pp. 47 sg. (tr. it. cit., p. 60, modificata).
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articolata delle strutture dovrebbe necessariamente affondare nel
vortice de-differenziante della ' pappa concettuale ' della Lebensphilosophie. La filosofia del soggetto deve essere oltrepassata
dalla concettualità altrettanto precisa e sistematica, ma anche
più profonda, di un'ontologia esistenziale che segue il procedimento trascendentale. Sotto questa denominazione Heidegger
costringe a stare insieme, in modo originale, impostazioni teoretiche fin allora inconciliabili, e che ora, in vista del fine di
sostituire sistematicamente i concetti fondamentali della filosofia
del soggetto, indicano una sensata prospettiva di ricerca.
Nel capitolo introduttivo di Sein und Zeit Heidegger programma quelle tre grandiose scelte di strategia concettuale, che
aprono la via verso l'ontologia fondamentale. In primo luogo
egli conferisce un senso antologico alla problematica trascendentale. Le scienze positive si occupano di questioni ontiche,
fanno enunciazioni sulla natura e la cultura, su qualcosa nel
mondo. L'analisi delle condizioni di questi tipi ontici di conoscenza, condotta col metodo trascendentale, chiarisce poi la costituzione categoriale di ambiti oggettuali come settori dell'Essere.
In questo senso Heidegger intende la Critica della ragion pura
di Kant non primariamente come teoria della conoscenza, bensì
come « logica apriori dei fatti propri di quell'ambito dell'Essere
che è la natura» ?J. Questa coloratura ontologizzante della filosofia trascendentale diviene comprensibile, se si considera che
le scienze stesse non dipendono, come aveva affermato il neokantismo, da attività conoscitive sospese in aria, ma sono impiantate nei concreti contesti di vita: « Le scienze sono modi
d'essere dell'esserci » 30 • È ciò che Husserl aveva denominato la
fondazione delle scienze nel mondo della vita. Il senso della
costituzione categoriale degli ambiti oggettuali o settori dell'Essere scientifici si dischiude solo ritornando alla comprensione
dell'Essere di coloro che già nella loro esistenza quotidiana
si rapportano all'essente nel mondo e possono stilizzare questa
pratica ingenua nella forma di precisione dell'attività scientifica.
L'esistenza situata, corporeo-storica, possiede quella sia pur vaga
comprensione di un mondo, dal cui orizzonte è già sempre stato
interpretato anche il senso dell'essente, che poi può venir oggettivato dalle scienze. Ci imbat~iamo in questa comprensione preontologica dell'Essere quando ritorniamo a indagare, in atteggiamento trascendentale, dietro quella costituzione categoriale del29
30
lvi, p. 11 (p. 21, modificata).
lvi, p. 13 (p. 24).
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l'essente che la filosofia trascendentale ha messo allo scoperto
seguendo il filo conduttore delle scienze. L'analisi della comprensione preliminare del mondo coglie quelle strutture del mondo
della vita o dell' ' essere-nel-mondo ' che Heidegger chiama esistenziali. Siccome questi esistenziali sono preordinati alle categorie dell'essente in complesso, e in particolare di quelle regioni
dell'Essere verso le quali gli scienziati si rapportano in modo
oggettivante, l'analitica esistenziale dell'essere-nel-mondo si merita il nome di un'antologia fondamentale. Quest'ultima soltanto,
infatti, rende trasparenti i fondamenti del mondo della vita, o
esistenziali, delle ontologie regionali a loro volta elaborate nell'atteggiamento trascendentale.
In un secondo passo Heidegger conferisce al metodo fenomenologico il senso di un'ermeneutica antologica. Fenomeno è,
nel senso di Husserl, tutto ciò che si mostra di per sé come se
stesso. Heidegger, traducendo il termine 'evidente' come 'ciò
che è manifesto ', allude implicitamente ai concetti che vi si
oppongono, del nascosto, del celato, dell'occultato. I fenomeni
giungono solo indirettamente alla manifestazione. Ciò che si
manifesta è l'essente, che nasconde appunto il come dell'esser
dato di questo essente. I fenomeni si sottraggono ad una presa
diretta, appunto perché nelle loro manifestazioni ontiche non si
mostrano come ciò che essi sono di per sé. La fenomenologia
si distingue perciò dalle scienze, in quanto non ha a che fare
con un tipo particolare di manifestazioni, bensì con l'esplicazione di ciò che si cela in tutte le manifestazioni, e solo attraverso di esse si annuncia al mondo. L'ambito della fenomenologia è l'essere alterato dall'essente. Perciò occorre un particolare sforzo apofantico, per presentificare i fenomeni. Ma quale
modello di tale sforzo, non serve più, come in Husserl, l'intuizione, bensì l'esegesi di un testo. Non la presentificazione intuitiva di essenzialità ideali porta i fenomeni ad autopresentarsi,
bensì la comprensione ermeneutica di un complesso contesto di
senso disocculta l'Essere. Con ciò Heidegger prepara un concetto apofantico della verità e inverte il senso metodico dell'intuizione d'essenza nel suo contrario di ermeneutica esistenziale:
al posto della descrizione dell'immediatamente intuito, subentra
l'interpretazione di un senso che si sottrae ad ogni evidenza.
In un ultimo passo Heidegger collega l'analitica dell'esserci,
che procede al contempo in modo trascendentale ed ermeneutico, con un motivo della filosofia dell'esistenza. L'esserci umano
comprende se stesso a partire dalla possibilità di essere s~ stesso
oppure non se stesso. Esso sta di fronte all'inevitabile alterna148
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tiva fra l'autenticità e l'inautenticità. È un ente di quel tipo,
che il suo Essere ' deve essere' (' zu sein hat '). L'esserci umano
deve cogliersi a partire dall'orizzonte delle sue possibilità e prendere in mano la sua stessa esistenza. Chi tenta di evitare questa
alternativa, si è già deciso per una vita nel modo del lasciarsi
trascinare o della deiezione. Questo motivo della responsabilità
per la propria salvezza, che Kierkegaard aveva precisato in senso
esistenzialistico, Heidegger lo traduce nella formula della cura
per la propria esistenza: « L'esserci è un essente, per il quale,
nel suo essere, ne va di questo stesso » 31 •
Questo motivo secolarizzato della salvezza Heidegger lo applica ora contenutisticamente in modo tale, che la cura per il
proprio essere, inasprita in angoscia, fornisce il filo conduttore
per l'analisi della costituzione temporale dell'esistenza umana.
Ma è altrettanto importante l'uso metodico che Heidegger fa
di questo motivo. Non soltanto il filosofo, nella questione circa
il senso dell'Essere, si vede rinviato alla comprensione preontologica del mondo e dell'Essere che ha l'uomo nella sua esistenza
corporeo-storica; è piuttosto una determinazione di questa stessa
esistenza il preoccuparsi del suo Essere, l'assicurarsi ermeneuticamente delle possibilità esistenziali del suo ' più autentico poteressere '. Pertanto l'uomo è per natura un essere antologico, al
quale viene imposta esistenzialmente la questione dell'Essere.
L'analitica esistenziale scaturisce dal più profondo impulso della
stessa esistenza umana. Heidegger lo chiama il radicamento ontico dell'analitica esistenziale:
Così il compito di una ' interpretazione ' del senso dell'Essere
deve tener presente che l'Esserci non è solo l'ente che deve venir
interrogato per primo, ma che oltre a ciò esso è tale da rapportarsi
già sempre nel suo essere a ciò intorno a cui la ricerca si costi·
tuisce. Ma l'elaborazione del problema dell'Essere diviene allora
nient'altro che la radicalizzazione di una tendenza dell'Essere appar·
tenente in linea essenziale allo stesso Esserci 31 •
Queste tre decisioni di strategia concettuale si possono rias·
sumere nel senso che Heidegger congiunge dapprima la filosofia
trascendentale e l'antologia, per poter designare l'analitica esistenziale come antologia fondamentale; poi reinterpreta la fenomenologia come ermeneutica antologica, per poter svolgere l'antologia fondamentale come ermeneutica esistenziale; e infine
31
32
lvi, p. 191 (p. 213).
lvi, p. 15 (p. 25).
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assegna l'ermeneutica esistenziale a motivi della filosofia dell'esistenza, per poter inserire l'impresa dell'antologia fondamentale nei rapporti di interesse, altrimenti svalutati come semplicemente ontici. In quest'unico luogo si passa sopra alla differenza antologica e non si rispetta la rigorosa distinzione metodica fra l'universale degli esistenziali accessibili trascendentalmente e il particolare dei problemi esistenziali esperiti concretamente.
Per mezzo di questa connessione sembra che Heidegger riesca a togliere alla relazione soggetto-oggetto il suo significato
paradigmatico. Con la svolta verso l'antologia egli fa saltare il
primato della gnoseologia, senza però abbandonare la problematica trascendentale. Siccome l'essere dell'ente resta riferito
internamente alla comprensione dell'Essere, siccome l'Essere
assume validità soltanto nell'orizzonte dell'esserci umano, l'antologia fondamentale non significa una ricaduta dietro la filosofia
trascendentale, anzi ne è addirittura la radicalizzazione. La svolta
verso l'ermeneutica esistenziale completa però al contempo la
riduzione a metodo di quell'autoriflessione, che aveva costretto
ancora Husserl al procedimento della riduzione trascendentale.
Al posto della relazione del soggetto conoscente con se stesso,
subentra l'esegesi di una comprensione preontologica dell'Essere,
e quindi l'esplicazione di contesti di senso, nei quali l'esistenza
quotidiana si trova già sempre. Infine Heidegger inserisce il
motivo esistenzialistico in modo tale, che la chiarificazione sulle
strutture dell'essere-nel-mondo (che sono subentrate al posto
delle condizioni dell'oggettività dell'esperienza) si presenta al
contempo come risposta alla questione pratica circa la giusta
vita. Un concetto enfatico. di rivelazione della verità fonda la
validità dei giudizi nell'autenticità di un'esistenza umana, che si
rapporta all'essente prima di ogni scienza.
Questo concetto di verità serve come filo conduttore in base
al quale Heidegger introduce il concetto-chiave dell'antologia
fondamentale - cioè il concetto del 'mondo'. Il mondo costituisce l'orizzonte che dischiude il senso, entro il quale l'ente al
contempo si sottrae e si rivela all'esserci esistenziale che ha cura
del suo essere. Il mondo è già sempre anteriore al soggetto, che
si riferisce ad oggetti agendo o conoscendo. Infatti non è il soggetto che entra in relazione con qualcosa nel mondo, ma è il
mondo che fonda anzitutto il contesto dalla cui precomprensione
l'ente può accadere. Tramite questa comprensione preontologica
dell'Essere l'uomo è per natura inserito in rapporti col mondo
e privilegiato rispetto a tutti gli altri enti intramondani. :È quel150
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l'ente che non soltanto può venir incontrato nel mondo; grazie
al suo particolare modo di essere nel mondo, l'uomo è talmente
intessuto con quei processi di dischiudimento del mondo che
formano il contesto, danno lo spazio e temporalizzano, che Heidegger ne caratterizza l'esistenza come Da-sein, che ' fa essere '
ogni ente, in quanto si rapporta ad esso. Il Da del Dasein è il
luogo nel quale si apre la ' radura ' (Lichtung) dell'Essere.
E evidente la superiorità di questa strategia concettuale
rispetto alla filosofia del soggetto: non occorre più concepire il
conoscere e l'agire come relazioni soggetto-oggetto. « Il conoscere non instaura un rapporto estrinseco fra un soggetto ed un
mondo (oggetti rappresentabili o manipolabili), né sorge da
un'azione del mondo su un soggetto. Il conoscere è un modo
dell'esserci fondato nell'essere-nel-mondo » 33 , Al posto del soggetto, che si contrappone al mondo oggettivo inteso come l'insieme degli stati di cose esistenti, gli atti del conoscere e dell'agire compiuti in atteggiamento oggettivante possono ora essere
concepiti come derivanti da modi che stanno alla base dello
stare-dentro in un mondo della vita, in un mondo intuitivamente
inteso come contesto e sfondo. Questi modi dell'in-essere nel
mondo della vita Heidegger li caratterizza riguardo alle loro
strutture temporali come altrettanti modi dell'aver-cura, del prender cura di qualche cosa; come esempi egli indica « aver a
che fare con qualche cosa, riparare qualcosa, ordinare o curare
qualcosa, impiegare qualcosa, scoraggiarsi e desistere da qualcosa, intraprendere, riuscire, osare, interrogare, considerare, discutere, determinare, ecc. » 34 •
Al centro della prima sezione di Sein und Zeit vi è l'analisi
di questo concetto di mondo. Nella prospettiva del maneggiare,
in genere dei rapporti pratico-vitali, non oggettivanti, con elementi fisici del mondo della vita, Heidegger esplica un concetto
del mondo che si ricollega al pragmatismo come un contesto
di circostanze. Questo viene poi generalizzato oltre l'ambito del
disponibile e chiarito come contesto di rinvii. Soltanto questa
smondanizzazione di una regione dell'ente come del puramente
rappresentato fa sorgere un mondo oggettivo di oggetti e di
eventi, al quale un soggetto inteso nel senso della filosofia della
coscienza può riferirsi conoscendo e agendo.
33
34
lvi, pp. 62 sg. (pp. 75 sg.).
lvi, pp. 56 sg. (pp. 59 sg.).
151
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IV
Non mi occorre addentrarmi in queste analisi (parr. 14-24), perché non portano al di là di ciò che è stato elaborato nel pragmatismo, da Peirce fino a Mead e a Dewey. Originale è l'uso che
Heidegger fa di questo concetto del mondo per una critica della
filosofia della coscienza. Ma ben presto questa impresa incespica.
Ciò si mostra nel «problema del Chi dell'Esserci» (par. 25),
al quale Heidegger dapprima risponde nel senso che l'esserci è
quell'ente, che io stesso sempre sono: « Il chi si risponde sempre dall'io stesso, dal soggetto, dal se-stesso. Il Chi è ciò che si
mantiene identico nel mutare dei comportamenti e delle esperienze vissute, rapportandosi come tale a questa molteplicità» 35 •
Naturalmente questa risposta ricondurrebbe direttamente alla
filosofia del soggetto. Perciò Heidegger estende la sua analisi del
mondo-strumento, come si era presentata dalla prospettiva dell'attore che lavora da solo, al mondo delle relazioni sociali fra
più attori: « La chiarificazione dell'essere-nel-mondo mostrava
che [ ... ] non è mai dato innanzi tutto un puro soggetto senza
mondo. E allo stesso modo non è mai dato, in primo luogo, un
io isolato senza gli Altri >.' 36 • Heidegger amplia la sua analisi
del mondo dall'angolo visuale delle relazioni intersoggettive in
cui io entro con altri.
Come vedremo in un altro contesto, il mutamento di prospettiva dall'attività finalistica solitaria all'interazione sociale fa
effettivamente sperare un chiarimento su quei processi di intesa
- e non soltanto di comprensione - , che tengono presente il
mondo come sottofondo di mondo della vita intersoggettivamente
condiviso. In base al linguaggio usato comunicativamente si
possono ricavare quelle strutture che spiegano come il mondo
della vita, esso stesso privo di soggetto, si riproduca tuttavia
mediante i soggetti e il loro agire orientato verso l'intesa. Con
ciò si sistemerebbe quella domanda circa il ' Chi' dell'esserci,
che però Heidegger riconduce di nuovo ad un soggetto, il quale
costituisce il mondo dell'essere-nel-mondo mediante l'autentico
progetto delle sue possibilità d'esserci. Il mondo della vita, nel
quale è inserita l'esistenza umana, non è infatti prodotto dalle
fatiche di un esserci, che tacitamente ha assunto il posto della
soggettività trascendentale. Esso è per così dire sospeso nelle
strutture dell'intersoggettività linguistica e si mantiene tramite
35
36
lvi, p, 114 (p. 128).
lvi, p. 116 (pp. 129 sg.).
152
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lo stesso medium nel quale soggetti capaci di parlare e di agire
si intendono fra loro su qualche cosa nel mondo.
Ma Heidegger non percorre la via che conduce ad una tale
risposta basata sulla teoria della comunicazione. Egli infatti svaluta fin da principio, come strutture di un'esistenza quotidiana
media, cioè dell'esserci inautentico, quelle strutture dello sfondo
del mondo della vita, che vanno oltre l'esserci isolato. Il conesserci degli altri si presenta certo dapprima come un tratto
costitutivo dell'essere-nel-mondo. Ma la precedenza dell'intersoggettività del mondo della vita, rispetto all'esser-sempre-mio
dell'esserci si sottrae ad una concettualità che resta intricata nel
solipsismo della fenomenologia husserliana; nella quale non può
trovare collocazione l'idea che i soggetti vengano individuati e
socializzati al contempo. In Sein und Zeit Heidegger costituisce
la soggettività non altrimenti che Husserl nelle Méditations cartésiennes. L'esserci sempre-mio costituisce il con-esserci così
come l'Io trascendentale costituisce l'intersoggettività del mondo
condiviso da me e da altri. Perciò egli non può mettere a frutto
l'analisi del ' con-esserci ' per la questione di come il mondo
stesso si costituisce e si conserva. Del tema del linguaggio egli
si occupa soltanto dopo aver c.:>ndotto le sue analisi in un'altra
direzione (par. 34).
La prassi comunicativa quotidiana deve soltanto render possibile un essere-sé nella modalità del « dominio degli altri »:
« Si appartiene agli Altri e si consolida la loro forza [ ... ] Il
' Chi ' non è questo o quello, non è se stesso, non è uno solo
e non è la somma di tutti. Il ' Chi' è il Neutro, il si (man) » 37 •
Il ' si ' serve soltanto come quello sfondo dinanzi al quale si
può identificare con il chi dell'esserci l'esistenza kierkegaardiana,
radicalmente isolata di fronte alla morte, dell'uomo bisognoso
di salvezza nella sua autenticità. Soltanto come ' sempre mio ' il
poter essere è libero per l'autenticità o la non-autenticità. Diversamente da Kierkegaard, però, Heidegger non vuole più pensare il tutto dell'esserci finito in termini 'onta-teologici', bensì
ancora soltanto di per se stesso - cioè come autoaffermazione
paradossale, perché infondata. A buon diritto W. Schulz definisce la autocomprensione di Sein und Zeit come il nichilismo
eroico di un'autoaffermazione nell'impotenza e finitezza dell'esserci 38 •
Heidegger, benché in un primo passo distrugga la filosofia
37
38
lvi, p. 126 (p. 140).
W. Schulz, Ober den philosophiegeschichtlichen Ort cit., p. 115.
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del soggetto in favore di un contesto di rimandi che rende possibile le relazioni soggetto-oggetto, nel secondo passo, quando
si tratta di render comprensibile di per se stesso il mondo come
processo di accadere cosmico, ricade nelle strettoie concettuali
della filosofia del soggetto. Infatti l'esserci strutturato solipsisticamente occupa nuovamente il posto della soggettività trascendentale. Quest'ultima non appare più certamente come onnipotente Io-originario, ma ancora come «l'azione originaria dell'esistenza umana, nella quale ogni essere deve essere impiantato nel mezzo dell'ente » 39 , Si presume che l'esserci sia l'autore
del progetto del mondo. L'autentico poter-essere-un-tutto dell'esserci, ossia quella libertà, le cui strutture temporali Heidegger segue nella seconda sezione di Sein und Zeit, si attua nella
dischiusura trascendente dell'ente: « L'ipseità del sé che sta già
alla base di ogni spontaneità si trova nella trascendenza. Il
lasciar agire progettante-superante del mondo è la libertà» 40 •
L'istanza classica della filosofia dell'originario, di un'autofondazione ultima non viene respinta, ma risolta nel senso di
una Tathandlung fichtiana modificata nel progetto del mondo.
L'esserci si fonda di per se stesso: «l'esserci fonda il mondo
soltanto in quanto si fonda. in mezzo all'ente » 41 • Heidegger
concepisce il mondo partendò di nuovo dalla soggettività della
volontà di auto-affermazione. Lo attestano i due scritti immediatamente successivi a Sein und Zeit, Was ist Metaphysik? e Vom
Wesen des Grundes.
:È facile scorgere perché la ontologia fondamentale doveva
smarrirsi nel vicolo cieco della filosofia del soggetto, dalla quale
voleva condurci fuori. L'antologia divenuta trascendentale si
rende infatti colpevole del medesimo errore che essa rinfaccia
alla gnoseologia classica. Che poi il primato venga assegnato alla
questione dell'essere o alla questione della conoscenza, in entrambi i casi il rapporto cognitivo col mondo e il discorso che
constata i fatti, hi teoria e la verità degli enunciati, sono considerati alla stregua di un monopolio autenticamente umano, che
richiede di essere spiegato. Questo primato antologico-epistemologico dell'ente in quanto conoscibile livella la complessità dei
riferimenti al mondo, che si riflettono nella molteplicità delle
forze illocutive dei linguaggi naturali, in favore dell'unico riferimento privilegiato al mondo oggettivo. Questo riferimento resta
39
40
41
M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, Frankfurt a. M. 1949, p, 37.
M. Heidegger, Sein und Zeit cit., p·. 41.
lvi, p. 43.
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determinante anche per la prassi: l'esecuzione monologica di
intenzioni, cioè l'attività finalistica, è considerata come la forma
primaria dell'agire 42 • Il mondo oggettivo, benché concepito come
derivato da contesti di circostanze, rimane, sotto il nome dell'essente in complesso, il punto di riferimento anche per l'ontologia fondamentale. L'analitica dell'esserci segue l'architettonica
della fenomenologia husserliana in quanto concepisce il rapportarsi all'ente secondo il modello della relazione conoscitiva così come la fenomenologia analizza tutti gli atti intenzionali
secondo il modello della percezione di qualità elementari di
oggetti. Ora in questa architettonica si forma necessariamente
un posto per il soggetto che, tramite le condizioni trascendentali della conoscenza, costituisce ambiti oggettuali. Heidegger
occupa questo posto con un'istanza che diviene produttiva in
modo diverso, cioè mediante la creazione di senso che dischiude
il mondo. Come Kant ed Husserl distaccano il trascendentale
dall'empirico, così Heidegger distingue l'ontologico dall'ontico,
o l'esistenziale dall'esistentivo.
Heidegger si accorge del fallimento del suo tentativo di evadere dalla cerchia incantata della filosofia del soggetto; ma non
si rende conto che esso è una conseguenza di quel problema
dell'Essere, che si può porre soltanto nell'orizzonte di una filosofia dell'originario, sia pur volta in senso trascendentale. Come
via d'uscita, gli si offre un'operazione che egli abbastanza spesso
ha rimproverato al ' rovesciamento del platonismo ' attuato da
Nietzsche: egli capovolge la filosofia dell'originario, senza liberarsi dalle sue anticipazioni problematiche.
Abbiamo già imparato a conoscere la retorica con cui si
annuncia la svolta. L'uomo non è più il luogotenente del nulla,
bensì il custode dell'Essere; l'esser-tenuto-fuori nell'angoscia lascia il posto alla gioia e alla riconoscenza per la grazia dell'Essere; la resistenza al destino cede all'abbandono alla ventura
dell'Essere, l'autoaffermazione alla dedizione. Questo mutamento
di posizione si può delineare sotto tre aspetti: a) Heidegger
rinuncia alla pretesa all'autofondazione e alla fondazione ultima,
ora attribuite alla metafisica. Quel fondamento che una volta
l'ontologia fondamentale doveva porre sotto la forma di un'analisi della costituzione dell'esserci trascendentalmente condotta,
perde la sua importanza in favore di un accadere contingente,
42 Ciò si mostra del resto anche nella forma delle proposizioni servendosi
delle quali Tugendhat tenta una ricostruzione semantica del contenuto della seconda sezione di Sein und Zeit: cfr. E. Tugendhat, Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung, Frankfurt a. M. 1979, Lezioni 8.-10.
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cui l'esserci è esposto. L'evento dell'Essere può venir soltanto
devotamente appreso ed esposto narrativamente, ma non può
venir recuperato e spiegato argomentativamente. b) Heidegger
rifiuta il concetto esistenzial-pntologico della libertà. L'esserci
non è più considerato come l'autore dei progetti del mondo,
alla cui luce l'Essere al contempo si mostra e si sottrae; piuttosto, la produttività della creazione di senso dischiudente il
mondo passa all'Essere stesso. L'esserci si sottomette all'autorità del non-disponibile senso dell'Essere e si sbarazza della
volontà di autoaffermazione, sospetta di soggettività. c) Heidegger
nega infine il fondamentalismo del pensiero che risale ad un
Primo, non importa poi se questo si presenta nelle forme tradizionali della metafisica o nella forma della filosofia trascendentale da Kant fino a Husserl. Il rifiuto non si riferisce certo alla
gerarchia di gradi conoscitivi, che si basano su un fondamento
ineludibile, bensì soltanto al carattere atemporale di questa origine. Heidegger temporalizza gli inizi che, nella figura di un
destino non anticipabile, mantengono la sovranità di un Primo.
Ora la temporalità dell'Esserci è ancora soltanto il serto di una
ventura dell'Essere che si temporalizza. Il Primo della filosofia
dell'originario viene temporalizzato. Ciò si rivela nella natura
adialettica dell'Essere: il Sacro, come tale l'Essere è pronunciato nella parola dei poeti, è considerato, al pari che nella
metafisica, come l'assolutamente Immediato.
Una conseguenza di questo fondamentalismo rovesciato è
la reinterpretazione del proposito che Heidegger aveva annunciato per la seconda parte, rimasta non scritta, di Sein und Zeit.
Secondo l'autocomprensione di Sein und Zeit, doveva essere
riservato ad una distruzione della storia dell'antologia il compito di infrangere tradizioni irrigidite e di destare la coscienza
problematica dei contemporanei alle esperienze sepolte dell'antologia antica. Non diversamente Aristotele o Hegel si erano
riferiti alla storia della filosofia come ad una preistoria del loro
sistema. Dopo la svolta, a questo compito dapprima inteso come
propedeutico viene assegnato un significato addirittura cosmicostorico, poiché la storia della metafisica - e della parola dei
poeti decifrata sul suo sfondo - è promossa al rango di unico
medium tangibile della ventura dello stesso Essere. Sotto questo
aspetto Heidegger ricorre alle riflessioni con cui Nietzsche criticava la metafisica, per collocarlo nella storia della metafisica
come colui che l'ha ambiguamente compiuta, e adire all'eredità
del suo messianismo dionisiaco.
Senza dubbio Heidegger non avrebbe potuto rifunzionaliz156
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zare la radicale critica della ragione di Nietzsche in una distruzione della storia dell'antologia, non avrebbe potuto proiettare
apocalitticamente sull'Essere il messianismo dionisiaco, se con
la storicizzazione dell'Essere non fossero andati di pari passo
anche uno sradicamento della verità proposizionale e la svalutazione del pensiero discorsivo. Soltanto per questo motivo la
critica della ragione svolta in base alla storia dell'Essere può
destare, nonostante la sua radicalità, l'apparenza che essa sfugga
ai paradossi di ogni critica della ragione riferita a se stessa. Il
nome di verità essa lo riserva ad un cosiddetto accadere della
verità, che non ha più nulla a che fare con una pretesa di validità trascendente i confini spazio-temporali. Le verità, che si
presentano al plurale, della filosofia temporalizzata dell'originario sono di volta in volta provinciali, e tuttavia totali; esse
assomigliano piuttosto alle manifestazioni imperative di un potere sacrale, che si è rivestito con l'aura della verità. E. Tugendhat dimostra già per il concetto apofantico della verità sviluppato in Sein und Zeit (par. 44), che Heidegger, « in quanto
della parola verità fa un concetto fondamentale, sorvola appunto
sul problema della verità» 43 • Già qui il progetto del mondo
dischiudente il senso, che è inscritto (come in Humboldt) nella
totalità di un'immagine linguistica del mondo, o (come in Wittgenstein) nella grammatica di un gioco linguistico, si eleva al
di sopra di ogni istanza critica. Il potere illuminante del linguaggio che dischiude il mondo viene ipostatizzato: esso non
deve più dimostrarsi chiarificando di fatto l'ente nel mondo.
Heidegger parte dal fatto che l'ente si lascia aprire nel suo essere, senza offrire resistenza, in egual modo da qualsiasi intervento. Egli disconosce che l'orizzonte della comprensione del
senso applicato all'ente non precede la questione della verità,
ma le è a sua volta subordinato 44 •
Certamente con il sistema di regole di un linguaggio si modificano anche le condizioni di validità delle proposizioni formulate nel linguaggio stesso. Ma non dipende dalla capacità che
il linguaggio ha di dischiudere il mondo se le condizioni di validità possano venir soddisfatte di fatto in modo tale che le proposizioni possano anche funzionare, bensì dal successo intramondano della prassi, che la rende possibile. Lo Heidegger di
Sein und Zeit era certo ancora abbastanza fenomenologo, per
43 E. Tugendhat, Heideggers Idee von Wahrheit, in O. Poggeler (a cura di),
Heidegger cit., p, 296; E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und
Heidegger, Berlin 1967.
44 Cfr., in/ra, !'excursus su Castoriadis, pp. 327 sgg.
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respingere l'idea che la sua ermeneutica esistenziale condotta
argomentativamente fosse sottratta ad ogni pretesa di fondazione. Glielo impediva già l'idea, dotata di una forte carica normativa, dell'autentico poter essere, che egli collegava con un'interpretazione esistenziale della coscienza morale individuale
(parr. 54-60).
.
Questa stessa istanza di controllo di una risolutezza indubbiamente discutibile, perché formalisticamente decisionistica, viene messa fuori gioco dalla svolta. Quella dimensione del disoccultamento antecedente alla verità proposizionale trapassa infatti
dal coscienzioso progetto del singolo che ha cura della sua esistenza ad un'anonima e contingente ventura dell'Essere che esige
sottomissione e pregiudica il corso della storia concreta. In sostanza, la svolta consiste nel fatto che Heidegger assegna in
modo fuorviante l'attributo dell'accadere della verità all'istanza
metastorica di un potere originario temporalmente fluidificato.
v
Questo passo è talmente privo di plausibilità, che non lo si può
spiegare a sufficienza in base ai motivi interni finora indicati.
Io sospetto che Heidegger abbia potuto trovare la via verso la
filosofia dell'originario temporalizzata del suo tardo periodo soltanto attraverso la sua provvisoria identificazione con il movimento del nazionalsocialismo, al quale egli ancora nel 1935
aveva riconosciuto verità e grandezza.
Non la Professione di fede in Adolf Hitler e nello stato
nazional-socialista (titolo sotto il quale venne diffusa l'allocuzione di Heidegger alla manifestazione elettorale degli scienziati
tedeschi tenuta a Lipsia 1'11 novembre 1933) sfida il giudizio
dei posteri, i quali non possono sapere se in una situazione analoga non avrebbero commesso lo stesso errore. Ciò che inquieta
è la riluttanza e l'incapacità del filosofo, dopo la fine del regime
nazionalsocialista, ad ammettere anche con una sola frase il suo
errore gravido di conseguenze. Heidegger indulge invece alla
massima che non gli autori, bensì le vittime stesse sono colpevoli:
Certo - è sempre temerario, che uomini rinfaccino ed imputino la colpa ad altri uomini. Ma se già si cercano colpevoli e li
si valuta secondo la colpa: non vi è forse anche una colpa nell'omissione essenziale? Quelli che già allora erano tanto profeti·
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camente dotati, da vedere tutto venire come poi venne - io non fui
tanto saggio -, perché hanno atteso quasi dieci anni, per combattere
contro la sciagura? Perché nel 1933 quelli che credevano di saperlo,
perché allora proprio loro non si sono adoperati per volgere tutto
e dal fondo a buon fine? 45,
Ciò che infastidisce è soltanto la rimozione della colpa di
un uomo, che, quando tutto fu passato, si fece rilasciare un
certificato per giustificare la sua opzione per il fascismo, per
giunta dalla prospettiva servile di meschini intrighi universitari. Come Heidegger gettò subito la colpa della sua assunzione
del rettorato e delle querele che ne seguirono alla « condizione
metafisica essenziale della scienza » 46, così ora egli distacca le
sue azioni ed affermazioni da sé come persona empirica e le attribuisce ad un destino di cui non si deve rispondere. Da questa
stessa prospettiva egli ha considerato anche il proprio sviluppo
teoretico; anche la cosiddetta svolta egli non l'ha intesa come
il risultato di una sforzo del pensiero, di un processo di ricerca,
bensì sempre come l'evento oggettivo di un oltrepassamento della
metafisica inscenato anonimamente dallo stesso Essere. Finora
avevo ricostruito la transizione dall'antologia fondamentale al
devoto pensiero dell'Essere come una via d'uscita, motivata internamente, dal vicolo cieco della filosofia del soggetto, cioè come
soluzione di un problema; ma Heidegger vi si opporrebbe con
enfasi. Intendo mostrare che in questa .protesta vi è anche un
momento di verità. La svolta è effettivamente il risultato dell'esperienza fatta col nazionalsocialismo, cioè dell'esperienza con
un evento storico che in una certa misura è capitato ad Heidegger. Soltanto questo momento di verità nell'autocomprensione
elevata a momento metafisica può rendere plausibile ciò che
dovrebbe restare incomprensibile dalla prospettiva interna di uno
sviluppo teoretico guidato da problemi: come mai Heidegger
abbia potuto intendere la storia dell'Essere quale storia della
verità e mantenerla immune da un piatto storicismo di immagini del mondo o di esegesi epocali del mondo. Mi interessa
cioè la questione del modo in cui il fascismo abbia giocato entro
lo stesso sviluppo teoretico di Heidegger.
45 Lo scritto di Heidegger del 1945 è stato pubblicato per la prima volta
dal figlio: M. Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universitiit. Das
Rektorat 1933/34, Frankfurt a. M. 1983. In rapporto a questa pubblicazione,
M. Schreiber riferisce, nella « Frankfurter Allgemeine Zeitung >> del 20 luglio
1984 su Neue Einzelheiten einer kunftigen Heidegger-Biographie, che sono risultate dalle più recenti ricerche dello storico di Freiburg, Hugo Ott.
46 M. Heidegger, Die Selbstbehauptung cit., p. 39.
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Heidegger ha sentito tanto poco la problematicità della posizione elaborata in Sein und Zeit, e più volte delucidata negli
anni seguenti fino al 1933, che dopo la presa del potere ha
fatto un uso originale proprio delle implicazioni di filosofia del
soggetto che si ritrovano nell'esserci affermantesi nella sua finitezza - o per lo meno un uso che sposta significativamente le
connotazioni e il senso originario dell'analitica esistenziale. Nel
1933 Heidegger ha riempito con un nuovo contenuto i concetti fondamentali mantenuti inalterati dell'antologia fondamentale. Se fino ad allora aveva inequivocabilmente adoperato
' esserci ' quale denominazione dell'individuo esistenzialmente
isolato nel correre verso la morte, ora egli sostituisce questo
esserci ' sempre-mio ' con l'esserci collettivo del popolo ' semprenostro' che esiste per il destino 47 • Tutti gli esistenziali rimangono gli stessi e tuttavia mutano d'un colpo il loro senso, e non
soltanto il loro orizzonte di significato espressivo. Quelle connotazioni che essi devono alla loro origine cristiana, e specialmente a Kierkegaard, si trasformano alla luce di un nuovo paganesimo allora imperversante 48 • Si può mettere dinanzi agli occhi
di tutti lo scandaloso trascoloramento della semantica per mezzo
di citazioni che sono da lungo tempo ben note. In un manifesto elettorale il Rettore Heidegger scrive il 10 novembre 1933
nella « Freiburger Studentenzeitung »:
Il popolo tedesco è chiamato dal Fiihrer alla scelta. Ma il
Fiihrer non chiede nulla al popolo. Egli dà piuttosto al popolo la
più immediata possibilità della suprema libera decisione: se esso
- l'intero popolo - vuole il suo proprio esserci, oppure se non
lo vuole. Questa scelta è assolutamente inconfrontabile con tutti i
precedenti eventi elettorali. Ciò che vi è di unico nel suo genere
in questa scelta è la semplice grandezza della decisione che vi si
deve prendere [ ... ]. Quest'ultima decisione oltrepassa gli estremi
confini dell'esserci del nostro popolo [ ... ] La scelta, che ora il
popolo tedesco mette in atto, è già da sola l'accac;limento e - anche indipendentemente dal risultato - la più forte attestazione
della nuova realtà tedesca dello Stato nazionalsocialista. La nostra
47 Su di ciò aveva richiamato la mia attenzione Oskar Becker, già al tempo
dei miei studi universitari. Ringrazio Victor Farias per avermi permesso di vedere la sua ricerca ancora inedita sulla fase nazional-rivoluzionaria di Heidegger.
48 A ciò si addice del resto la reazione di Heidegger alla riammissione di
una associazione studentesca cattolica. In una lettera al Reichsfiihrer della Studentenschaft egli parla di una <<pubblica vittoria del cattolicesimo>>, e ammonisce: << Si continua a non conoscere la tattica cattolica. E un giorno si vendicherà duramente>> (G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger, Bern 1962,
p. 206). Sul 'Nuovo Paganesimo ', cfr. W. Brocker, Dialektik, Positivismus, Mytho/ogie, Frankfurt a. M. 1958, capp. II e III.
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volontà di autoresponsabilità etnica (volkisch) vuole che ogni po·
polo trovi la grandezza e la verità della sua missione [... ] Vi è
soltanto l'unica volontà del pieno esserci dello Stato. Questa volontà il Flihrer l'ha destata in tutto il popolo e l'ha fusa insieme
nell'unica decisione 49 •
Mentre prima l'antologia era radicata anticamente nell'esi·
stenza biografica del singolo 50, ora Heidegger privilegia l'esistenza storica del popolo fuso insieme dal Ftihrer nella volontà
collettiva come il luogo in cui deve decidersi l'autentico poteressere dell'esserci. Le prime elezioni del Reichstag, che si svolsero all'ombra dei campi di concentramento riempiti di comunisti e socialdemocratici, si spostano nell'aura di una decisione
esistenziale ultima. Ciò che in realtà è degenerato in vuota esclamazione, Heidegger lo stilizza in una decisione che, alla luce
della concettualità di Sein und Zeit, assume il carattere di una
nuova forma di vita autentica del popolo.
Il copione per un discorso che deve scuotere e spingere verso
una verità eroica non più l'esistenza individuale, bensì il popolo,
è fornito di nuovo da Sein und Zeit alla citata manifestazione
della scienza per il Ftihrer: « Il popolo riacquista la verità del
volere del suo esserci, poiché la verità è la rivelazione di ciò
che rende sicuro, chiaro e forte un popolo nel suo agire e nel
suo sapere ». La determinazione puramente formale della precedente risolutezza, che gli studenti avevano nelle orecchie fin dal
1927, viene ora cçmcretizzata come risveglio nazional-rivoluzionario - e come rottura col mondo del razionalismo occidentale:
Noi ci siamo liberati dalla idolatria di un pensiero privo di
base terrena e di potere. Vediamo la fine della filosofia che sta al
49 G. Schneeberger, op. cit., pp. 145 sg.
50 Già in Sein und Zeit Heidegger nel par. 74 svolge le sue analisi della
Costituzione fondamentale della storicità fino al punto in cui si può scorgere la
dimensione dell'intreccio fra il destino del singolo e il destino del popolo:
<< Poiché l'Esserci, carico di destino, in quanto essere-nel-mondo esiste sempre
essenzialmente come con-essere con gli Altri, il suo storicizzarsi è un con-storicizzarsi che si determina come destino comune. Con questo termine noi intendiamo lo storicizzarsi della comunità, del popolo>> (p. 383 [tr. i t. ci t., p. 396] ).
Non è certo del tutto casuale per il significato del termine più tardo ' destino
comune dell'essere ' (Seinsgeschick) che Heidegger introduca l'espressione ' destino comune' in questo contesto popolare (volkisch). Il primato esistenziale
dell'esserci individuale su quello collettivo della comunità, che più tardi la reinterpretazione nazional-rivoluzionaria rovescerà nel suo contrario, emerge però
chiaramente dal contesto. La struttura della ' cura ' è sviluppata sulla base dell'esserci ' sempre mio'. La ' decisione' per il 'più proprio poter essere' è faccenda dell'individuo, che deve prima essere deciso, per poi poter &-perimentare
' nella e con la sua generazione ' un fatidico ' destino comune ' (ein schicksalhaftes Geschick). L'indeciso infatti non può ' avere destino ' alcuno.
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suo serviziO. Siamo certi che la schietta forza e la irreprensibile
sicurezza dell'inflessibile semplice interrogare circa l'essenza dell'Essere stanno ritornando. Il coraggio originario di crescere nella lotta
con l'ente oppure di infrangersi contro di esso, è il più intimo
movente di una scienza popolare (vOlkisch) [ ... ] Domandare per
noi significa: non chiudersi al terrore dell'indomito e alla confusione dell'oscuro [ ... ]. E così noi, ai quali in futuro deve essere
affidata la custodia della volontà di sapere del nostro popolo, dichiariamo: la rivoluzione nazionalsocialista non è semplicemente l'assunzione di un potere presente nello stato da parte di un altro
partito che è cresciuto abbastanza per farlo, bensì questa rivoluzione comporta il totale sovvertimento del nostro esserci tedesco 51 •
Come attestano le lezioni dell'estate 1935, Heidegger è restato fedele a questa dichiarazione oltre il breve periodo del
suo rettorato. Quando alla fine non si ingannò più sul vero
carattere del regime nazionalsocialista, si era cacciato filosoficamente in una situazione difficile. Dato che aveva identificato
' esserci ' con l'esserci del popolo, l'autentico poter-essere con la
presa del potere, la libertà con la volontà del Flihrer, e nella questione dell'Essere aveva creduto di scorgere la rivoluzione nazionalsocialista insieme col servizio del lavoro, delle armi e del sapere, fra la sua filosofia e gli eventi contemporanei si era stabilito
un rapporto interno non facile da ritoccare. Una schietta trasvalutazione politico-morale del nazionalsocialismo avrebbe dovuto
attaccare i fondamenti dell'antologia rinnovata e porre in questione l'impostazione teoretica. Se invece la delusione riguardo
al nazionalsocialismo può essere elevata al di sopra della sfera
superficiale del giudicare e dell'agire responsabili, e schematizzata in un errore oggettivo, in un errore che fatalmente si svela,
allora la continuità con le posizioni di partenza di Sein und Zeit
non doveva più esser messa in pericolo. Heidegger tratta la sua
esperienza storica con il nazionalsocialismo in modo da non
porre la pretesa elitaria ad un accesso privilegiato del filosofo
alla verità. Egli interpreta la non-verità del movimento, dal quale
si era lasciato trascinare, non già nei concetti di una deiezione
esistenziale al Man, di cui si debba rispondere soggettivamente,
bensì come un oggettivo venir-meno della verità. Che al più
risoluto dei filosofi soltanto a poco a poco si siano aperti gli
occhi sulla natura del regime - di questa differita lettura della
storia del mondo deve assumersi i diritti d'autore appunto lo
stesso corso del mondo, non certo la storia concreta, bensì una
51
G. Schneeberger, op. cit., pp. 159 sg.
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storia sublimata, promossa al livello dell'antologia. Con ciò è
nata la concezione della storia dell'Essere.
Nel quadro di tale concezione l'errore fascista di Heidegger
assume un significato di storia della metafisica 52 • Ancora nel
1935 Heidegger scorgeva « l'intima verità e grandezza» del
movimento nazionalsocialista nell'« incontro della tecnica determinata planetariamente con l'uomo moderno » 53 • Allora egli
dalla rivoluzione nazionalsocialista si aspettava ancora che prendesse a servizio il potenziale della tecnica per il progetto del
nuovo esserci tedesco. Soltanto successivamente, nel corso della
discussione con la teoria nietzschiana del potere, Heidegger sviluppa nei termini della storia dell'antologia il concetto della
tecnica come ' Gestell '. Da allora in poi egli poté considerare
il fascismo per suo conto come sintomo, e insieme all'americanismo e al comunismo, classificarlo come espressione del dominio metafisica della tecnica. Soltanto dopo questa svolta il fascismo, come la filosofia di Nietzsche, è una fase oggettivamente
ambigua dell'oltrepassamento della metafisica 54 • Con questa reinterpretazione anche l'attivismo e il decisionismo dell'esserci che
afferma se stesso perdono (in entrambe le loro versioni, cioè
quella esistenzialistica e quella nazional-rivoluzionaria), la loro
funzione di dischiudimento dell'Essere; soltanto ora il pathos
dell'autoaffermazione diviene il tratto fondamentale di una soggettività che dom_ina la modernità. Nella tarda filosofia subentra
al ~uo posto il pathos del lasciar-essere e dell'asservimento.
La verifica della motivazione della svolta in base alla storia
contemporanea conferma il risultato della nostra ricostruzione
dello sviluppo interno della teoria. Heidegger, proponendo il
rovesciamento puro e semplice del modello ideale della filosofia
del soggetto, resta invischiato nelle problematiche di tale filosofia.
52 William Robertson mi ha indicato il punto di congiunzione che questa
concezione trova già nello scritto Vom Wesen der Wahrheit. La sez. 7 tratta
della 'non-verità come erramento '. L'erramento appartiene, come la verità·, alla
costituzione dell'esserci. << L'erramento è l'aperto luogo dell'errore. Non errori
isolati, bensì il regno (il dominio) della storia di quegli intrichi in sé intrecciati
di tutte le maniere dell'errare è l'errore» (Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt
a. M. 1949, p. 22). Ma più che un punto di congiunzione questo concetto dell'erramento come di un margine di gioco oggettivo non offre; infatti ancora l'errore e la verità si rapportano l'uno all'altra allo stesso modo che il disoccultamento e l'occultamento dell'ente come tale (ivi, p. 23). Ritengo che il testo,
pubblicato soltanto nel 1943, ma al quale serve come base il testo di una conferenza del 1930 • più volte riveduto', non consenta una chiara interpretazione
nel senso della tarda filosofia.
53 M. Heidegger, Ein/iihrung in die Metaphysik, Tiibingen 1953, p. 152.
54 Cfr. la precisa esposizione di R. Schiirmann, Politica! Thinking in Heidegger, cit., p. 191.
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7.
IL SOPRAV ANZAMENTO
DELLA FILOSOFIA TEMPORALIZZAT A
DELL'ORIGINARIO:
LA CRITICA DI DERRIDA AL FONOCENTRISMO
I
Nella misura in cui Heidegger è stato recepito nella Francia del
dopoguerra quale autore della Lettera sull'umanesimo, Derrida
reclama a buon diritto il ruolo dell'autentico allievo, che riprende criticamente la dottrina del maestro e la prosegue in
modo produttivo. Non privo di sensibilità per il kairos della
situazione contemporanea, Derrida fa valere questa rivendicazione nel maggio del '68, quando la rivolta aveva raggiunto il
suo culmine 1• Come Heidegger, Derrida tiene presente 'l'insieme dell'Occidente', e lo contrappone al suo Altro, che si annuncia con ' radicali sconvolgimenti ' - dal punto di vista economico e politico, cioè in superficie, con la nuova situazione fra
l'Europa e il Terzo mondo, e dal punto di vista metafisica con
la fine del pensiero antropocentrico. L'uomo, come essere per la
morte, è da sempre vissuto in rapporto alla sua fine naturale.
Ma ora si tratta della fine della sua autocomprensione umanistica: nella mancanza di patria del nichilismo non è l'uomo che
erra ciecamente, bensì l'essenza dell'uomo. E questa fine deve
svelarsi appunto nel pensiero dell'Essere introdotto da Heidegger. Heidegger prepara il compimento di un'epoca, che dal
punto di vista storico-antico forse non finirà mai 2 • La nota
melodia dell'autosuperamento della metafisica dà il tono anche
all'impresa di Derrida:
1
T. Derrida, Les fins de l'homme, in Marges de la philosophie, Paris 1972,
pp. 129 sgg.
2
J. Derrida, De la grammatologie, Paris 1967,
matologia, Milano 1969, p. 17).
p. 25 (tr. it., Della gram-
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All'interno della chiusura, con un movimento obliquo e sempre
pericoloso, che incessantemente rischia di ricadere al di qua di ciò
che esso decostruisce, bisogna circoscrivere i concetti critici di un
discorso prudente e minuzioso, [ ... ] disegnare rigorosamente la loro
appartenenza alla macchina che essi permettono di decostruire; e
ad un tempo la falla da cui si lascia intravedere, senza che ancora
si possa darle un nome, ciò che viene dopo il c,ompimento (della
nostra epoca) 3,
Fin qui, dunque, niente di nuovo.
Senza dubbio Derrida si distacca anche dalla tarda filosofia
di Heidegger, e precisamente anzitutto dalla sua metaforica. Egli
si volge contro la « metaforica - regressivamente riduttiva della vicinanza, della semplice e immediata presenza, che collega
con la vicinanza dell'essere i valori del vicinato, del domicilio,
della casa, del servizio, della custodia, della voce e dell'udito » 4•
Mentre Heidegger arreda il fatalismo di stile schulznaumburghiano della sua storia dell'Essere con le immagini sentimentalifamiliari di un contromondo contadino preindustriale 5 ; Derrida
si muove invece nel movimento sovversivo della lotta partigiana
- anche la dimora dell'Essere egli vorrebbe ancora smontarla,
e all'aperto « danzare quella festa crudele di cui parla la Genealogia della morale» 6 • Vogliamo cercare di vedere se con lo
stile muta anche il concetto della storia dell'Essere, oppure se
nelle mani di Derrida la stessa idea non fa altro che assumere
una colorazione differente.
Heidegger si acquista la temporalizzazione della filosofia dell'originario al prezzo di un concetto storicamente dinamicizzato,
ma sradicato, della verità. Se ci si lascia influenzare dalle circostanze contemporanee tanto quanto Heidegger, e tuttavia si va
avanti imperterriti nella dimensione dei concetti essenziali, la
pretesa di verità del fondamentalismo rovesciato si irrigidisce
nel gesto profetico. Per lo meno, resta oscuro come nella mobilità dell'accadere della verità, di cui non si può disporre, si
possa mantener fermo il nucleo normativa di una pretesa di
verità che però anche trascende il tempo e lo spazio. Con il
concetto del dionisiaco, Nietzsche ha pur sempre rinviato ad una
sfera di esperienze determinanti; anche lo Heidegger esistenzialista poteva ancora orientarsi in base al contenuto normativa di
3 lvi, p. 25 (tr. it. cit., p. 17).
4 J. Derrida, Marges de la philosophie, cit., p. 156.
5 P. Bourdieu, L'antologie politique de Martin Heidegger, in
recherche en sciences sociales >>, nn. 5-6, nov. 1975, pp. 118 sgg,
6 J. Derrida, Marges de la philosophie, cit., p, 163.
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<<
Actes de la
un esserci autentico. Per contro, alla grazia dell'Essere immemorabile manca ogni struttura; il concetto del sacro alla fine
non è meno vago che quello della vita. Distinzioni alle quali
noi colleghiamo un senso di valore non trovano nessun appiglio in un destino comune dell'Essere sottratto alla dimostrazione. Dei punti d'appoggio li offrono ancora soltanto connotazioni religiose, che vengono però subito smentite come residui
onta-teologici.
Anche Derrida si avvede che questa situazione è insoddisfacente; lo strutturalismo sembra offrire una via d'uscita. Per
Heidegger il linguaggio costituisce certo il medium della storia
dell'Essere; la grammatica delle immagini linguistiche del mondo
dirige quella comprensione preontologica dell'Essere che di volta
in volta domina. Heidegger, però, si accontenta di designare globalmente il linguaggio come dimora dell'Essere; nonostante la
posizione privilegiata che gli assegna, egli non ha mai indagato
sistematicamente il linguaggio. Qui incomincia Derrida. Un clima scientifico determinato dallo strutturalismo di Saussure lo
incoraggia a servirsi della linguistica anche in vista della critica
della metafisica. Egli ora ricupera anche metodicamente il passo
dalla filosofia della coscienza alla filosofia del linguaggio, e con
la grammatologia si apre un campo di ricerca per analisi che
per Heidegger sul livello della storia dell'Essere non dovevano
più aver luogo. Per motivi che illustreremo in seguito, Derrida
non utilizza però l'analisi del linguaggio corrente svolta nell'ambito anglosassone; egli non si occupa della grammatica del linguaggio o della logica del suo uso. Piuttosto, in contrasto con
la fonetica strutturalistica, egli tenta di chiarire i fondamenti
della grammatologia, cioè della scienza della scrittura. Dal Littré
egli cita la voce 'grammatologia': « Dottrina delle lettere, dell'alfabeto, della sillabazione, del leggere e dello scrivere », e
indica come unica indagine pertinente il libro di I. J. Gelb 7•
La grammatologia si raccomanda come filo conduttore scientifico per la critica della metafisica, perché attacca alle radici la
scrittura fonetica, cioè riprodotta in base ai suoni; essa è infatti
non soltanto coestensiva al pensiero metafisica, ma anche altrettanto originaria. Derrida è convinto « che la scrittura fonetica,
ambito della grande avventura metafisica, scientifica, tecnica ed
economica dell'Occidente, è limitata nel tempo » - ed oggi ha
raggiunto i suoi limiti 8 • Il primo Derrida vuole condurre l'ope·
7 I. J. Gelb, Von der Keilschrift zum Alphabet. Grundlagen einer Schrijtwissenschajt, Stuttgart 1958.
8 }. Derrida, De la grammatologie cit., p. 21 (tr. it. cit., p. 14).
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razione dell'autosuperamento della metafisica nella forma di una
ricerca grammatologica, che risale dietro gli inizi della scrittura
fonetica. Essa ricerca ciò che sta dietro ogni scrittura, che, quale
semplice fissazione di forme vocali, resta nel cerchio magico del
fonetico. La grammatologia deve invece spiegare perché l'essenziale del linguaggio deve essere concepito secondo il modello
della scrittura e non del discorso.
La razionalità - forse però occorrerebbe abbandonare questa
parola per la ragione che apparirà alla fine di questa frase - che
comanda la scrittura in tal modo estesa e radicalizzata, non è più
uscita da un logos ed inaugura la distruzione, non la demolizione
ma la desedimentazione, la de-costruzione di tutte le significazioni
che hanno la loro origine in quella di logos. In modo particolare
la significazione di verità. Tutte le determinazioni metafisiche della
verità, ed anche quella cui si richiama Heidegger, al di là dell'ontateologia metafisica sono più o ineno immediatamente inseparabili
dall'istanza del logos 9 ,
Siccome il logos, come vedremo, è sempre immanente alla
parola parlata, Derrida vuole colpire il logocentrismo dell'Occidente nella forma del fonocentrismo.
Per intendere questa sorprendente svolta verso la grammatologia, è utile rammentarci la metafora del libro della natura o
libro del mondo, che rinvia al manoscritto di Dio, difficile da
leggere, ma decifrabile sia pure con fatica. Derrida cita un detto
di Jaspers: « Il mondo è il manoscritto di un altro mondo,
mai del tutto leggibile; soltanto l'esistenza lo decifra ». Vi sono
libri al plurale solamente perché il testo originario è andato
perduto. Tuttavia Derrida toglie ogni nota ottimistica a questa
immagine, perché radicalizza kafkianamente l'idea del libro perduto. Questo libro scritto nella grafia divina non è mai esistito,
bensì sempre soltanto le sue tracce, ed anche queste sono cancellate. Questa consapevolezza impronta l'autocomprensione della modernità, per lo meno a partire dal XIX secolo.
Non è solo aver perduto la certezza teologica di vedere ogni
pagina ricollegarsi da sé nel testo unico della verità, [ ... ] raccolta
genealogica, Libro di Ragione, in questo caso, manoscritto infinito
letto da un Dio che, di tanto in tanto, ci abbia prestato la sua
penna. Questa certezza perduta, questa assenza della scrittura divina, cioè prima di tutto del Dio ebraico che in qualche occasione scrive esso stesso, non definisce solamente e vagamente qual9
!bid.
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cosa come la 'modernità'. In quanto assenza ed ossessione del
segno divino, essa domina per intero l'estetica e la critica moderne 10 •
La modernità sta ricercando le tracce d'una scrittura che non
fa più sperare, come il Libro della Natura o la Sacra Scrittura,
la totalità di un contesto di senso.
Nel catastrofico contesto della tradizione il sostrato del segno
scritto è l'unica cosa che resista alla corruzione. Il testo scritto
assicura durata alla parola, che invece nel molle medium della
voce si dilegua; l'interpretazione deve essere preceduta dalla
decifrazione. Spesso il testo è danneggiato e frammentato a tal
punto, che preclude all'interprete ogni accesso al contenuto. Ma
anche del testo incomprensibile resta il disegno, restano i segni
- sopravvive la materia come traccia d'uno spirito dileguato.
Evidentemente Derrida si è ispirato, seguendo Levinas, a
quella concezione ebraica della tradizione, che ancor più di
quella cristiana si è allontanata dall'idea del libro, e proprio per
questo rimane più rigorosamente vincolata alla dottrina scritturale. Il programma di una scienza scritturale che pretende di
criticare la metafisica è attinto da fonti religiose. Tuttavia Derrida non vuole pensare in termini teologici: in quanto heideggeriano, egli si vieta ogni idea di un ente supremo. Piuttosto,
analogamente ad Heidegger, egli ritiene che la condizione della
modernità sia costituita da fenomeni di sottrazione, che non si
possono comprendere entro l'orizzonte della storia della ragione
e della rivelazione divina. Come asserisce all'inizio del suo saggio sulla ' differenza ', egli non vuole praticare nessuna teologia,
nemmeno negativa. Ma nemmeno vorrebbe lasciarsi sfuggire di
mano ciò che qui si sottrae, semplicemente come fluido di una
storia dell'Essere in sé paradossale.
Anche per questo motivo il medium della scrittura si presenta come un modello che deve togliere l'aura e conferire una
certa consistenza giocosa all'accadere della verità, quell'Essere
distinto dall'ente in complesso e anche dall'ente supremo. Qui
Derrida non ha in mente nemmeno la « solida permanenza dello
scritto », bensì soprattutto la circostanza, che la forma scritta
libera il testo di turno dal suo contesto d'origine. La scrittura
rende ciò che vien detto indipendente dallo spirito dell'autore
e dal respiro del destinatario, nonché dalla presenza degli oggetti
di cui si parla. Il medium della scrittura conferisce al testo una
IO J. Derrida, L'Ecriture et la Différence, Paris 1967 (tr. it., La scrittura e
la differenza, Torino 1971, p. 13).
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rigida autonomia rispetto a tutti· i contesti viventi. Essa cancella
i riferimenti concreti a singoli soggetti e a determinate situazioni,
e tuttavia mantiene al testo la sua leggibilità. La scrittura garantisce che un testo può essere letto sempre di nuovo in contesti
che cambiano a piacere. Ciò che affascina Derrida, è l'idea di
una leggibilità assoluta - anche in assenza di tutti i possibili
destinatari, dopo la morte di tutti gli esseri intelligibili, la scrittura mantiene aperta, con un'astrazione eroica, la possibilità
della lettura ripetibile che trascende tutto ciò che è intramondano. La scrittura, annullando i riferimenti viventi della parola
parlata, promette salvezza al suo contenuto semantico anche al
di là del giorno in cui tutti coloro che potrebbero parlare e
udire cadono vittime dell'olocausto 11 : « Ogni grafema è nella
sua essenza testamentario » 12 •
Naturalmente questa idea varia semplicemente il motivo della
dipendenza del discorso vivente dalle strutture autosufficienti
del linguaggio. Derrida, mettendo la grammatologia, la scienza
della scrittura, al posto della grammatica come scienza del linguaggio, vuole acuire ancor di più l'idea fondamentale dello
strutturalismo. Ad Heidegger è mancata la concezione di un
medium linguistico stabilizzato di per se stesso; perciò in Sein
und Zeit egli dovette ricondurre la costituzione e la conservazione del mondo anzitutto alla produttività dell'esserci che progetta il mondo e fonda se stesso, cioè ad un equivalente dell'attività produttiva della soggettività trascendentale. Derrida si risparmia la deviazione attraverso Sein und Zeit. Con lo strutturalismo alle spalle, egli può imboccare la via diretta dalla prima
filosofia della coscienza di Husserl alla tarda filosofia del linguaggio di Heidegger. Intendo ora esaminare se la sua versione
grammatologicamente estraniata della storia dell'Essere sfugge a
quell'obiezione, che Heidegger ha elevato contro Nietzsche e che
ricade sullo stesso Heidegger: « che lo smembramento introdotto da Nietzsche rimane dogmatico e, come tutti i (semplici) rovesciamenti, prigioniero dell'edificio metafisica che esso
pretende di abbattere » 13 • Per anticipare la mia tesi: anche
Derrida non si svincola dai lacci del paradigma della filosofia del soggetto. Il suo tentativo di sopravanzare Heidegger
non sfugge alla struttura aporetica dell'accadere della verità
svuotato d'ogni valore di verità. Derrida supera il fondamen11 J. Derrida, Signature événement contexte, in Marges de la philosophie,
cit., pp. 365 sgg., in particolare pp. 374 sg. e p. 381.
12 J. Derrida, De la grammatologie cit., p. 100 (tr. i t. ci t., p. 77).
13 lvi, p. 33 (tr. it. cit., p. 23).
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talismo rovesciato di Heidegger, ma resta nella sua. ,orbita. In
tal modo il punto prospettico della filosofia temporalizzata dell'originario assume indubbiamente contorni· più chiari. Il ricordo del messianismO della mistica ebraica e di quel luogo abbandonato, ma ben circoscritto, che un tempo il Dio del Vecchio
Testamento aveva occupato, preserva Derrida tanto dall'insensibilità politico-morale quanto dalla mancanza di gusto di un
nuovo paganesimo arricchito con Holderlin.
II
Il testo in base al quale si può· verificare, passo per passo, il
tentativo compiuto da Derrida per evadere dalla filosofia del soggetto, è la critica alla teoria husserliana del significato, apparsa
nel 1967 contemporaneamente alla Grammatologia 14 • Dal punto
di vista strategico di una decostruzione della filosofia della coscienza Derrida non avrebbe potuto scegliere un oggetto più
adatto che la sezione su Espressione e significato dal secondo
libro delle Ricerche logiche 15 • Qui infatti Husserl difende energicamente la sfera della pura coscienza contro l'ambito intermedio della comunicazione linguistica; qui Husserl aggiudica
con forza il significato al lato della essenzialità ideale e dell'intelligibile, per purificarli dalle commistioni empiriche dell'espressione linguistica, senza di cui non possiamo impadronirci
del significato.
Husserl distingue, come è noto, il segno (Zeichen), che esprime un significato linguistico, dal semplice indizio (Anzeichen).
Ossa fossili sono indizi dell'esistenza di animali antidiluviani,
bandiere o distintivi attestano l'origine nazionale di chi li porta,
il nodo nel fazzoletto rammenta un'intenzione non eseguita. In
tutti questi casi il segnale richiama alla coscienza uno stato di
cose. Qui non è importante se l'indizio è connesso con l'esistenza dello stato di cose indiziato da rapporti causali, logici,
iconici, oppure puramente convenzionali; quale indizio esso funziona, come il nodo nel fazzoletto, quando la percezione del
14 J. Derrida, La voix et le phénomène, Paris 1967 (tr. it., La voce e il fenomeno, Milano 1968). Cfr. anche il relativo saggio La forme et le vouloir-dire.
Note sur la phénomènologie du langage, in « Rev. inter. philos. >>, LXXXI (1967),
quello che nell'edizione inglese Speech and Phenomenon, Evanston 1973, è stato
compreso insieme.
15 E. Husserl, Logische Untersuchungen, vol. II, 1, Tiibingen 1913 (1980),
pp. 23 sgg. (tr. it., Ricerche logiche, Milano 1982, pp. 291 sgg.).
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segno suscita in virtù di un'associazione psichicamente efficace,
l'idea di uno stato di cose non presente. L'espressione linguistica
rappresenta in altro modo il suo significato (o l'oggetto, al quale
essa si riferisce, quando si presenta in funzione connotativa).
Diversamente che il segnale, l'espressione linguistica ha significato per via di un rapporto ideale e non in virtù di una associazione. :È: interessante che Husserl annoveri la mimica e la
gesticolazione fra gli indizi, perché in queste espressioni spontanee, legate al corpo, non trova la volontà, o la intenzione.
comunicativa, in breve: l'intenzionalità del parlante. Esse assumono però un significato, quando sostituiscono espressioni linguistiche. Le espressioni si possono distinguere dagli indizi per
via della loro struttura genuinamente linguistica: una « espressione, oltre ad avere un significato, si riferisce anche ad oggetti
di genere qualsiasi» 16 • In altre parole: un'espressione può sem·
pre venir completata in una frase, la quale riferisce il contenuto
di ciò che vien detto a qualcosa, di cui si asserisce qualcosa.
All'indizio manca invece questa differenziazione tra il riferi·
mento all'oggetto e il contenuto predicato - e quindi anche
quell'indipendenza dalle situazioni che caratterizza specifica·
mente l'espressione linguistica.
La teoria husserliana del significato - al pari di quella di
Saussure - è impostata in senso semiotico e non semantico.
Husserl non amplia la distinzione semiotica fra i tipi segnici
(indizio contro espressione) alla distinzione grammaticale fra lin·
guaggio segnaletica e linguaggio proposizionalmente differen·
ziato 17 • Anche la critica di Derrida si limita a riflessioni sernio·
tiche, e si riferisce soprattutto all'uso peculiare che Husserl
fa della sua distinzione fra segno e indizio, per svalutare le
espressioni adoperate comunicativamente rispetto alle espressioni
linguistiche in senso stretto. Husserl enuncia la tesi che le espres·
sioni linguistiche, che si presentano « nella vita solitaria dell'anima», per dir così, pure, foro interno, devono assumere in
più la funzione di indizi, quando servono allo scopo pragmatico
della comunicazione e devono passare nella sfera esterna del
discorso. Nel discorso comunicante, le espressioni sarebbero 'intrecciate ' con indizi. Anche nella filosofia analitica si suole pre·
scindere dagli aspetti pragmatici dell'uso delle espressioni nelle
lvi, p. 46 (tr. it. cit., p, 313).
E. Tugendhat, Vor/esungen zur Einfiihrung in die sprachana/ytische Phi·
/osophie, Frankfurt a. M. 1976, pp. 212 sgg.; J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1981, vol. Il, pp. 15 sgg, (tr. it. cit., vol. Il,
pp. 552 sgg.).
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dichiarazioni, e considerare soltanto la struttura semantica delle
proposizioni e delle parti costitutive di proposizioni. Questo taglio
concettuale lo si può chiarire in base al passaggio dal discorso
intersoggettivo al monologo interno - la considerazione semantica si accontenta, appunto, di quegli aspetti che sono costitutivi
per un uso monologico delle espressioni linguistiche. Da questa
decisione per il livello analitico della semantica formale non
risulta ancora in modo cogente quella posizione semanticistica,
che nega il riferimento interno del linguaggio semanticamente
caratterizzato con il discorso, e fa come se le funzioni pragmatiche fossero esterne al linguaggio. Nel quadro della fenomenologia, Husserl difende appunto questa posizione: e certamente,
in base a premesse della filosofia della coscienza, egli non ha
nemmeno altra scelta 18 •
L'impianto monadologico nell'io trascendentale costringe
Husserl a ricostruire le relazioni intersoggettive prodotte nella
comunicazione dalla prospettiva della singola coscienza diretta
verso oggetti intenzionali. Il processo di intesa si scinde nell' ' annuncio ' (Kundgabe) di un parlante, che produce suoni e
con essi connette atti che conferiscono senso, e nell' ' ascolto '
(Kundnahme) dell'uditore, per il quale i suoni percepiti indicano gli eventi psichici ' annunciati': « Ciò che rende anzitutto possibile la frequenza spirituale, e fa sì che il discorso
che stabilisce un collegamento sia un discorso, risiede in questa
correlazione, mediata dagli aspetti fisici del discorso, tra i vissuti
fisici e psichici, reciprocamente inerenti, delle persone che si
frequentano » 19 • Siccome i soggetti stanno dapprima direttamente
gli uni di fronte agli altri, e si percepiscono dall'esterno, come
oggetti, la comunicazione fra essi viene raffigurata secondo il
modello della segnalazione di contenuti d'esperienza vissuta, cioè
espressivisticamente. I segni mediatori funzionano come indizi
per gli atti che l'altro compie anzitutto nella vita solitaria dell'anima: « Se si considera questo nesso nel suo insieme, si
riconosce immediatamente che, nel discorso comunicativo, tutte
le espressioni fungono da segnali. All'ascoltatore essi servono
come segni dei pensieri di chi parla, cioè dei suoi vissuti psichici
significanti [ ... ] » 20 •
Dato che la soggettività degli atti che conferiscono il senso
18 Del resto, si può vedere da questo che anche il semanticismo, chiarito in
senso analitico-linguistico, si trova ancora sotto le premesse di una filosofia della
coscienza.
19 E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., p. 33 (tr. it. cit., p. 300).
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è per Husserl originaria rispetto all'intersoggettività della intesa
prodotta linguisticamente, il processo dell'intesa fra soggetti deve
venir concepito secondo il modello della trasmissione e decifrazione di segnali di esperienze vissute. Con il ricorso alla distinzione fra espressione e indizio, Husserl descrive l'uso comunicativo di segni in modo tale che questi assumono la funzione
di indizi esterni degli atti compiuti dal parlante nella sua interiorità. Ma se le espressioni linguistiche si collegano agli indizi,
soltanto nella comunicazione, ossia in seguito, le espressioni
come tali devono essere attribuite alla sfera della solitaria vita
dell'anima; soltanto dopo aver lasciato la sfera dell'interiorità,
esse possono essere considerate come le determinazioni degli
indizi. Ma con ciò il sostrato fisico del segno è svalutato rispetto al significato dell'espressione linguistica, e trasferito in
uno stato virtuale, in certo qual modo cancellato nella sua esistenza. Tutto ciò che è esterno viene considerato come indizio.
Ma siccome l'espressione esentata dalla funzione comunicativa,
purificata da tutto ciò che è corporeo, viene elevata allivello del
puro significato, non si sa poi troppo bene a quale scopo i significati in genere dovrebbero necessariamente essere ancora espressi
con l'aiuto di segni verbali e proposizionali. Nel monologo interiore viene meno la necessità che il soggetto, in rapporto soltanto con se stesso, comunichi a se stesso qualcosa del suo
interno: «Dovremmo forse dire che colui che parla da solo
parla a se stesso e che anche a lui le parole servono come segni,
cioè come indizi dei propri vissuti psichici? Non credo che una
simile concezione sia sostenibile » 21 •
Nel monologo interiore il sostrato segnico del significato
espresso si volatilizza in 'un che di in sé indifferente'. Qui
sembra
che l'espressione distolga da sé l'interesse per orientarlo sul significato, per rinviare ad esso. Ma questo rinvio non è un'indicazione
nell'accezione da noi discussa [ ... ]. Ciò che deve servirei come
indizio (segno distintivo) deve essere da noi percepito come esistente. Questo è vero anche per le espressioni nel discorso comunicativo, ma non per le espressioni nel discorso isolato [ ... ]. Nella
fantasia ci sta di fronte un segno verbale pronuJ:?.ciato o stampato
- ma esso in realtà non esiste affatto 22 •
21
22
lvi, p. 35 (tr. it. cit., p. 302).
lvi, p, 36 (tr. it. cit., p. 302).
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La virtualizzazione del segno interiorizzato, che risulta dal
principio della filosofia del soggetto, ha un'implicazione importante. Husserl si vede cioè costretto a fondare l'identità del
significato in qualcosa di diverso dalle regole dell'uso segnico;
questa concezione, più tardi sviluppata da Wittgenstein, presupporrebbe infatti un rapporto int.erno fra l'identità dei significati
e la validità intersoggettiva delle regole del significato. Anche
Husserl paragona i segni che noi adoperiamo nelle operazioni
di calcolo con le figure che muoviamo secondo le regole degli
scacchi. Ma in contrasto con Wittgenstein, deve postulare il primato del. puri significati; soltanto conoscendo questi significati
originari, noi possiamo sapere come operiamo con le figure degli
scacchi:
Così anche i segni aritmetici posseggono, accanto al loro significato originario, per così dire il loro significato di gioco [... ]. Se
si assumono i segni aritmetici unicamente come pezzi di gioco nel
senso definito da queste regole, la soluzione dei compiti del gioco
calcolistico conduce a segni numerici, a formule numeriche, la cui
interpretazione nel senso dei significati originari, propriamente aritmetici, presenta al tempo stesso la soluzione dei compiti aritmetici corrispondenti n.
%significato di un'espressione è fondato negli atti dell'intenzione significativa e del riempimento intuitivo di tale intenzione
- certo, non psicologicamente, bensì nel senso di una fondazione trascendentale. Il contenuto di significato è un in sé ideale,
che Husserl vorrebbe acquisire dall'essenza intenzionale dell'atto
che conferisce significato, e in definitiva dall'essenza dell'atto
che riempie il significato di una corrispondente intuizione ideale.
Ma non sussiste nessun nesso necessario « fra le unità ideali che
fungono di fatto come significati ed i segni ai quali esse sono
legate, cioè per mezzo dei quali si realizzano nella vita psichica
dell'uomo» 24 •
Questo platonismo dei significati, che collega Husserl a
Frege, consente alla fine quella distinzione fra i significati ' in
sé ' e i significati puramente ' espressi ', che rammenta l'equivalente distinzione di Popper fra il terzo mondo e il secondo.
L'espressione che si presenta nel monologo interiore come ' fantasma segnico ' serve all'approvazione cognitiva delle unità ideali,
che solo in quanto espresse sono ottenibili per un soggetto cono23
24
lvi, p. 69 (tr. it. cit., p. 337).
lvi, p, 104 (tr. it. dt., p. 372).
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scente: « Ogni caso di formazione di nuovi concetti ci insegna
come si realizza un significato che in precedenza non era ancora
mai stato realizzato» 25 •
Ho seguito passo passo la teoria husserliana del significato,
per mostrare esattamente il punto in cui si inserisce la critica
di Derrida. Contro la platonizzazione dei significati e contro
l'interiorizzazione scorporante della sua espressione linguistica,
Derrida vuole valorizzare l'indissolubile intreccio dell'intelligibile con il sostrato segnico della sua espressione, addirittura il
primato trascendentale del segno rispetto al significato. È però
interessante che le sue riflessioni non si rivolgano contro quelle
premesse della filosofia della coscienza in base alle quali diviene impossibile identificare il linguaggio come un mondo intermedio costituito intersoggettivamente, che partecipa tanto al carattere trascendentale della rivelazione del mondo quanto al
carattere empirico di ciò che si può sperimentare entro il mondo.
Derrida non si appiglia a quel punto nodale in cui si diramano
la filosofia del linguaggio e quella della coscienza, cioè là dove
il paradigma della filosofia del linguaggio si distacca da quello
della filosofia della coscienza, e subordina l'identità del significato alla prassi intersoggettiva dell'uso di regole del significato.
Derrida segue piuttosto Husserl sul cammino della divisione,
proprio della filosofia trascendentale, di tutto ciò che è intramondano dalle operazioni della soggettività che costituisce il
mondo, per riprendere soltanto nelle aree più interne d'essa la
lotta contro il dominio delle essenze idealmente intuite.
III
La critica di Derrida attacca il concetto husserliano di evidenza
come una volta la critica di Heidegger il concetto husserliano
del fenomeno. Per assicurare lo status di significati esistenti
« in sé » al di là di ogni incorporazione, Husserl deve ricorrere
ad un'intuizione,, nella quale queste essenzialità si mostrano « a
partire da se stesse», pervengono alla datità come puri fenomeni. Questa intuizione egli la costruisce come riempimento di
un'intenzione significativa, come autodatità dell'« oggetto», che
è intenzionato con un'espressione linguistica. L'atto che intenziona il significato si rapporta all'atto che riempie il significato
come la rappresentazione alla percezione effettiva di un oggetto.
25
lvi, p. 104 (tr. it. cit., p. 373).
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L'intuizione paga quella cambiale che è emessa dal significato
espresso. Con questa concezione senza dubbio Husserl impronta
a priori tutti i significati linguisticamente esprimibili alla dimensione cognitiva.
Derrida ora biasima a ragione che con ciò il linguaggio viene
ridotto a quelle parti che sono adatte per la coscienza o per il
discorso che constata fatti. La logica mantiene il primato sulla
grammatica, la funzione conoscitiva sulla funzione dell'intesa.
Per Husserl, ciò è ovvio: «A proposito della questione di ciò
che un'espressione significa, dovremo naturalmente rifarci ai casi
in cui essa esercita una funzione conoscitiva attuale » 26• Lo
stesso Husserl osserva, che per esempio il significato di termini
singolari non può esser senz'altro spiegato in base a questo modello - vi sono « espressioni soggettive » il cui significato cambia con la situazione linguistica. Ma Husserl cerca di ovviare
a questa difficoltà affermando che « ogni espressione soggettiva,
mantenendo identica l'intenzione significante che spetta momentaneamente ad essa, è sostituibile con espressioni oggettive »n.
I nomi degli individui devono poter essere sostituiti da descrizioni, le indicazioni di luogo e di tempo da punti spaziotemporali, ecc. Come ha mostrato Tugendhat, questo programma della
conversione di espressioni soggettive in espressioni oggettive
indipendenti dalla situazione, è ineseguibile; i termini singolari
sono, al pari delle espressioni performative, esempi di significati
genuinamente pragmatici, che non si possono spiegare indipendentemente da una prassi della applicazione di regole intersoggettivamente messe in atto.
Derrida interpreta però in tutt'altro modo questo stato di
cose. Che Husserl debba accoppiare tutti i significati linguistici
con espressioni oggettive riferite alla verità, che mirano ad un
riempimento mediante intuizione attuale e quindi sono modellate sulla funzione conoscitiva, Derrida lo intende come sintomo
di un logocentrismo che viene da lontano e non può affatto
essere sanato con l'analisi del linguaggio: « In effetti è chiaro
che la affermazione secondo cui ogni espressione soggettiva si
può sostituire con un'espressione oggettiva, in fondo non asserisce null'altro, se non la illimitatezza della ragione oggettiva » 28 •
:È stata la precedente delimitazione metafisica del linguaggio da
parte della ragione, del significato da parte del sapere, che su26
Z7
28
lvi, p. 56 (tr. it. cit., p. 322).
lvi, p. 90 (tr. it. cit., pp. 357 sg.).
J. Derrida, La voix et le phénomène, cit., p. 90.
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scita la resistenza di Derrida. Nel concetto husserliano dell'evidenza della verità egli vede in opera una metafisica, che costringe a pensare l'essere come presenza, come d-presentazione o
presenziali tà.
Questo è il luogo in cui Derrida mette in gioco l'esteriorità
del segno, tenuta in disparte come inessenziale nell'argomentazione di Husserl - una veduta semiotica, e per nulla pragmatico-linguistica. Per Derrida, nell'idea dell'identità di una esperienza vissuta convalidata dalla presenza si svela il nucleo metafisico della fenomenologia - metafisica in quanto il modello
dell'intenzionalità significativa riempita intuitivamente fa scomparire proprio quella differenza temporale e quell'esser altro, che
sono entrambi costitutivi per l'atto della ri-presentazione intuitiva dello stesso oggetto, e quindi anche per l'identità del significato di un'espressione linguistica. Nella suggestione husserliana
della semplice presenza di un di per sé dato va perduta quella
struttura della ripetizione, senza di cui nulla può essere strappato al flusso del tempo e alla corrente delle esperienze vissute,
e fatto presente, appunto d-presentato, come lo stesso.
Nel centrale quinto capitolo di La voix et le phénomène, Derrida si riallaccia alle analisi husserliane sulla coscienza interna
del tempo, per enucleare con Husserl contro Husserlla struttura
differenziale dell'intuizione di un attualmente dato resa possibile soltanto da anticipazioni e regressi. La semplice presenza
di un oggetto non separato, identico con se stesso, si dissolve,
non appena perviene alla coscienza quella rete di pretensioni e
retensioni in cui è inserito ogni attuale esperire vissuto. L'esperire vissuto presente 'nel momento ' dipende da un atto di dpresentazione, la percezione da un riconoscere riproducente, in
modo tale che alla spontaneità del momento vivente è immanente la differenza di un intervallo temporale, e quindi anche
un momento di alterità. L'unità strettamente fusa dell'intuitivamente dato dimostra di essere in effetti un composto e un prodotto. Lo Husserl delle Ricerche logiche disconosce questo processo originario della generazione e della modificazione nel cuore
della soggettività trascendentale, e può quindi ingannarsi anche
sul ruolo del segno nella costituzione di oggetti e significati identici con se stessi. Per ciascuna d-presentazione che riferisce l'uno
all'altro passato e presente, il segno è indispensabile: « Un fonema o un grafema è sempre necessariamente altro, in una certa
misura, ogni volta che si presenta in un'operazione o una percezione, ma può funzionare come segno e linguaggio in generale
soltanto se un'identità formale permette di riprenderlo e di rico177
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noscerlo. Questa identità è necessariamente ideale » 29 • Al posto
dell'idealità dei significati in sé, che Husserl separa rigorosamente tanto dagli atti dell'opinare e della comunicazione quanto
dal substrato segnico dell'espressione e dal referente, Derrida
ricorre alla « idealità della forma sensibile del significante » 30•
Tuttavia non la spiega pragmaticamente partendo dall'uso delle
regole, bensì separandola da ciò che chiama la metafisica husserliana della presenza.
Husserl si è lasciato abbagliare, questa è l'obiezione centrale
di Derrida, dall'idea fondamentale della metafisica occidentale,
che l'idealità del significato identico con se stesso sia garantita
soltanto dalla presenza vivente dell'esperire attuale immediata,
intuitivamente accessibile nell'interiorità della soggettività trascendentalmente purificata da ogni commistione empirica; altrimenti egli non avrebbe potuto misconoscere che nel punto sorgivo di questo presente in apparenza assoluto si apre una differenza temporale e un'alterità che Derrida caratterizza al contempo come differenza passiva e come differimento che produce
le differenze. Questo non ancora di un presente per il. momento
nascosto, potenziale, in sospeso costituisce quello sfondo di rimandi senza dei quali proprio nulla potrebbe essere sperimentato come qualcosa di presente. Derrida contesta che un'intenzione significante possa mai risolversi nell'intuizione riempiente,
giungere a coincidere con essa, fondersi in essa. Un'intuizione
non può riscattare quella cambiale dell'intenzione significativa
emessa con l'espressione. Dislivelli e alterità sono piuttosto costitutivi tanto per la funzione significativa di un'espressione linguistica che deve rimanere comprensibile proprio in assenza di ciò
cui si riferisce quello che di volta in volta si intende e si dice;
quanto per la struttura dell'esperienza dell'oggetto, che può essere identificata e fissata come qualcosa di attualmente percepito soltanto nell'anticipazione di un'espressione interpretante,
cioè oltrepassante l'esperienza vissuta attuale e perciò non presente.
Alla base di ogni percezione vi è una struttura della ripetizione, che lo stesso Husserl esamina nei concetti della protensione e ritensione. Husserl non ha riconosciuto che questa struttura della d-presentazione è resa possibile soltanto dalla forza
simbolizzante o dalla funzione supplente del segno. Soltanto
l'espressione, nella sua esteriorità di sostrato, non-sublimabile,
29 lvi, p, 55 (tr. it. cit., p. 85).
30 lvi, p. 58 (tr. it. cit., p, 88).
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del carattere segnico, genera l'insopprimibile differenza, da un
lato tra sé e ciò per cui essa sta- il suo significato; e dall'altro
lato, tra la sfera dei significati articolati linguisticamente e la
sfera intramondana, alla quale appartengono il parlante e l'uditore con le loro esperienze vissute, ma anche il discorso e soprattutto i suoi oggetti. Derrida interpreta il rapporto in sé differenziato tra espressione, significato ed esperire vissuto come lo spiraglio attraverso il quale penetra quella luce del linguaggio, in
cui soltanto qualcosa può essere presente come qualcosa nel
mondo. Soltanto espressione e significato presi insieme possono
rappresentare qualcosa - e questa rappresentazione simbolica
Derrida la intende come un processo di generazione, come quel
differire, quell'attivo esser-assente e occultato, che si mette in
risalto nella struttura della ti-presentazione e del venire-allaluce nell'atto della intuizione.
Husserl non ha disconosciuto l'interno rapporto fra questa
struttura della ripetizione e la funzione vicaria del segno. linguistico; per spiegarlo, Derrida si riferisce all'osservazione occasionate di Husserl, « che io nelle rappresentazioni delle parole
che accompagnano e appoggiano il mio silente pensare, fantastico sempre parole parlate dalla mia voce » 31 • Derrida è convinto che Husserl poté trascurare come momento inessenziale il
carattere di sostrato del segno linguistico solo perché nella tradizione occidentale la forma fonica gode di un discutibile primato
sulla forma scritta, l'incarnazione fonetica sull'iscrizione grafica.
La fuggevole trasparenza della voce favorisce un'assimilazione
della parola al significato espresso. Già Herder aveva accennato
al rapporto con se stessi, unico nel suo genere, che esiste nel
sentirsi parlare. Come Herder (e Gehlen), Derrida sottolinea
l'intimità e trasparenza, l'assoluta vicinanza dell'espre-ssione animata al contempo dal mio respiro e dalla mia intenzione significativa.
Il parlante, in quanto si ascolta, compie insieme tre atti quasi
indistinguibili: produce forme foniche; percepisce, in quanto
stimola se stesso, la forma sensibile del fonema; e al contempo
comprende il significato intenzionato: «ogni altra forma di autoaffezione deve o passare attraverso l'ambito dell'estraneo oppure
rinunciare alla pretesa di essere universale» 32 • Questa proprietà
spiega non soltanto il primato della parola parlata, bensì anche
la suggestione che l'essere dell'intelligibile sia per così dire incor31
32
E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., p, 97 (tr. it. cit., p. 366).
J. Derrida, La voix et le phénomène, cit., p. 88 (tr. it. cit., p. 119).
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poreamente presente e convalidato dal presente vissuto nell'evidenza immediata. Pertanto fonocentrismo e logocentrismo sono
strettamente uniti l'un l'altro. « La voce può mostrare l'oggetto
ideale o il significato ideale [ ... ] senza avventurarsi al di fuori
dell'idealità, al di fuori dell'interiorità della vita presente a sé » 33 •
Ciò diviene poi la tesi di partenza della critica della metafisica
svolta dalla grammatologia: « Nella chiusura di questa esperienza la parola viene vissuta come unità elementare e indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una
trasparente sostanza espressiva» 34 •
Ma se il fonocentrismo è la base di un privilegiamento metafisico del presente, e se questa metafisica della presenza a sua
volta spiega perché ad Husserl rimase preclusa la fondamentale
idea semiotica della funzione sostitutiva del segno e della sua
forza dischiudente il mondo, allora conviene non spiegare più
il carattere segnico dell'espressione linguistica e la sua funzione
di sostituto partendo dall'orizzonte del sentirsi-parlare, ma scegliere invece, come punto di partenza dell'analisi la scrittura.
L'espressione scritta rammenta infatti con la massima fermezza
che i segni linguistici, « nonostante la totale assenza di un soggetto ed anche oltre la sua morte», rendono possibile decifrare
un testo, e se non ne garantiscono, almeno ne mettono in mostra
l'intelligibilità. La scrittura è la promessa testamentaria del comprendere. La critica di Derrida alla teoria husserliana del significato ha di mira questo punto strategico: fino a Husserl (e allo
stesso Heidegger) la metafisica ha pensato l'essere come presenza - l'essere è la «produzione e accoglimento dell'ente nella
presenza come sapere e signoria» 35 • La storia della metafisica
culmina quindi in un intuizionismo fenomenologico, il quale
annienta quella differenza originaria del dislivello temporale e
dell'alterità, che sola rende possibile l'identità di oggetti e significati, nella suggestiva autoaffezione mediante la propria voce
priva di differenza: « Una voce senza differenza, una voce
senza scrittura, è nello stesso tempo assolutamente viva e assolutamente morta».
In questa proposizione il traduttore usa la parola artificiale
' differanza ' per riprodurre il gioco di parole di Derrida con le
espressioni omofone ' différence ' e ' différance '. La struttura
segnica che sta alla base della struttura ripetitiva dello esperire
33
34
35
lvi, p. 87 (tr. it. cit., p. 118).
J. Derrida, De la grammatologie, cit., p. 34 (tr. it. cit., p. 24).
J. Derrida, La voix et le phénomène, cit., p. 115 (tr. it. cit., p. 145).
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vissuto si collega con il senso temporale del differire, del procrastinare per vie traverse, della ritenzione calcolante, del riservarsi, dell'accennare ad un che da adempiere più tardi. Con
ciò la struttura di rimando della supplenza, della d-presentazione
o della sostituzione dell'uno da parte dell'altro acquista la dimensione della maturazione e dell'ordinare differenziante: « Difjérer
in questo senso vuoi dire temporalizzare, vuoi dire ricorrere
consapevolmente o inconsapevolmente alla mediazione temporale
e procrastinante di una via traversa, che sospende l'esecuzione
o l'adempimento del ' desiderio ' o della ' volontà ' » 36 • Servendosi di questo concetto della ' differanza ' carico di dinamica
temporale, Derrida vuole sottrarsi tramite una radicalizzazione
al tentativo di Husserl, di elaborare il senso ideale di significati
'in sé', purificato da ogni commistione empirica. Derrida segue
le idealizzazioni di Husserl fino nel più intimo della soggettività
trascendentale, per bloccare qui, nell'origine della spontaneità
dell'esperire vissuto presente a se stesso, quella differenza incancellabile, che, quando viene rappresentata secondo il modello
della struttura di rinvio di un testo scritto, può venir pensata
come un'operazione affrancata dalla soggettività operante, appunto come accadere senza soggetto. La scrittura è considerata
come il segno assolutamente originario distaccato da tutti i rapporti pragmatici della comunicazione, divenuto indipendente da
soggetti che parlano e ascoltano.
Questa scrittura, che antecede ogni successiva fissazione di
forme foniche, la ' scrittura originaria', rende possibile - per
così dire senza intervento del soggetto trascendentale e precedendo le operazioni di questo soggetto - le differenziazioni
dischiudenti il mondo fra l'elemento intelligibile dei significati
e l'elemento empirico che giunge a manifestarsi all'interno del
suo orizzonte, fra il mondo e l'intramondano. Questa possibilizzazione è un processo del differire nel distinguere. Da
questa prospettiva l'intelligibile distinto dal sensibile si presenta al contempo come il sensibile differito, il concetto distinto
dall'intuizione come l'intuizione differita, la cultura distinta dalla
natura come natura differita. Così Derrida perviene ad un rovesciamento del fondamentalismo husserliano, in quanto ora la
forza originaria trascendentale della soggettività producente trapassa alla produttività anonima della scrittura che fonda la
storia. La presenza di ciò che si mostra da sé nell'intuizione
36
J. Derrida,
La Di[férance, in Marges de la phi/osophie, cit., p. 8.
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attuale diviene assolutamente dipendente dalla capacità ti-rappresentante del segno.
"È importante vedere come nel corso di questo movimento
di pensiero Derrida non rompa affatto con la persistenza fondamentalistica della filosofia del soggetto - ciò che era per essa
fondamentale, egli lo rende soltanto dipendente dal terreno ancora più profondo, divenuto vacillante o fatto oscillare, di un
potere originario temporalmente fluidificato. Derrida ricorre disinvolto nello stile della filosofia dell'originario a questa scrittura
originaria, che lascia dietro di sé le sue tracce senza soggetto
e anonimamente:
Per pensare questa età, per parlarne, ci vorrebbero altri nomi
che quelli di segno o (ri)presentazione. Così pure, per pensare
come 'normale' e 'pre-originario' ciò che Husserl crede di poter
isolare come un'esperienza particolare, accidentale, dipendente e
secondaria: quella della deriva infinita dei segni, come erranza e
cambiamento di scena, che concatena le ti-presentazioni le une alle
altre, senza inizio né fine 37,
Non la storia dell'essere è il Primo e l'Ultimo, bensì un
rebus: il labirintico effetto speculare di vecchi testi, di cui ciascuno rinvia continuamente a testi ancora più antichi, senza
destare la speranza di impadronirsi mai della scrittura originaria.
Come una volta Schelling, nella sua speculazione sull'interdipendenza atemporale-temporalizzante delle età del mondo del passato, del presente e del futuro, Derrida insiste sulla idea sconcertante di un passato che non è mai stato presente.
IV
Per rendere perfezionabile questa idea di una scrittura ongtnaria che antecede tutte le iscrizioni identificabili, Derrida illustra, seguendo il filo conduttore dei Fondamenti della linguistica di Saussure, la sua tesi che la scrittura sotto un certo
aspetto è il medium espressivo primario del linguaggio. Con
sempre nuovi attacchi egli investe la concezione, apparentemente
banale, secondo cui il linguaggio dipende per la sua struttura
dalla parola parlata, mentre la scrittura non fa che riprodurre
i fenomeni. Naturalmente Derrida non difende la tesi empirica
37
J.
Derrida, La voix et le phénomène, cit., p. 116 (tr. it. cit., p, 147).
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che la scrittura sia apparsa cronologicamente prima del discorso.
Egli fonda il suo argomento perfino sull'idea usuale, che la scrittura è il segno divenuto riflessivo per eccellenza. Tuttavia la
scrittura non è nulla di parassitario; piuttosto la parola parlata
è fin da principio disposta per supplire alla parola scritta, cosicché l'essenza del linguaggio, cioè la fissazione convenzionale e
l' ' istituzionalizzazione ' di significati nel sostrato segnico si può
spiegare in base alle qualità costitutive della scrittura. Tutti i
mezzi espressivi sono essenzialmente ' scrittura'. Tutti i segni
linguistici sono arbitrari, stanno in un rapporto convenzionale
col significato che simbolizzano; e «l'idea della convenzione
[ ... ] non può essere pensata prima della possibilità della scrittura e al di fuori del suo orizzonte » 38 •
Derrida si serve dell'idea fondamentale della fonetica strutturalistica, secondo cui le caratteristiche che definiscono ciascun
singolo fonema sono determinate unicamente dalla relazione sistematicamente fissata di un fonema con tutti gli altri. Ma poi
la singola forma fonica non è costituita dalla sostanza fonetica,
bensì da un fascio di caratteristiche astratte, riferite al sistema.
Con sufficienza Derrida cita il seguente passo dalla Fondazione
di Saussure: « Secondo la sua essenza il significante linguistico non è affatto sonoro, è incorporeo, non è formato dalla sua
sostanza materiale, bensì unicamente dalle differenze che separano la sua forma fonica da tutte le altre » 39 • Derrida conta su
qualità strutturali del segno, che si possono realizzare tanto nella
sostanza dell'inchiostro quanto nella sostanza dell'aria; in queste
astratte forme espressive, che si comportano indifferentemente nei
confronti dei diversi mezzi espressivi, della forma fonica e scritta, egli riconosce il carattere scritturale del linguaggio. Questa
scrittura originaria sta alla base tanto della parola parlata quanto di quella scritta.
La scrittura originaria assume il posto di un produttore di
scritture senza soggetto, che secondo lo strutturalismo sono
sprovviste di qualsiasi autore. Essa fonda le differenze fra gli
elementi segnici riferiti reciprocamente l'uno all'altro in un ordine astratto. Queste ' differenze' nel senso dello strutturalismo
Derrida le combina, non senza forzatura, con quella differenza
elaborata in base alla teoria husserliana del significato, che deve
sopravanzare la differenza antologica di Heidegger: « Essa (la
38 J. Derrida, De la grammatologie, cit., p. 65 (tr. it. cit., p. 50); cfr. anche
l'ottima esposizione di J, Culler, On Deconstruction, London 1983, pp. 89-109.
39 F. de Saussure, Course de linguistique générale, Paris 1922, 1972, p. 164
(tr. it., Corso di linguistica generale, Bari 1970, p. 144).
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differenza) rende possibile l'articolazione della parola parlata e
della scrittura - nel senso corrente - , così come fonda anche
il contrasto metafisico fra sensibile e intelligibile, e per di più
fra significante e significato, fra espressione e senso » 40 • Tutte
le espressioni linguistiche, si presentino poi sotto forma di fonemi oppure di grafemi, sono in una certa misura messe in opera
da una scrittura originaria essa stessa non presente. Questa, precedendo tutti i processi comunicativi e tutti i soggetti compartecipi, adempie alla funzione del dischiudimento del mondo, ma
in modo tale da nascondersi, da resistere alla parusia e lasciare
dietro di sé la sua traccia soltanto nella struttura di rimando del
testo prodotto, nel 'testo universale'. Il motivo dionisiaco del
dio che ai figli e alle figlie dell'Occidente rende tanto più sensibile la sua ostentata presenza mediante la sua consumante
assenza, ritorna nella metafora dello scritto originario e della sua
traccia: «Ma il movimento della traccia è necessariamente nascosto, esso sorge come nascondimento di se stesso. Se l'Altro
come tale si annuncia, esso si presentifica nella contraffazione
di se stesso » 41 •
Le decostruzioni di Derrida seguono fedelmente l'andamento
del pensiero di Heidegger. Involontariamente egli mette a nudo
il fondamentalismo rovesciato di questo pensiero, sopravanzando
ancora una volta la differenza ontologica e l'essere con la ' differanzg ' di una scrittura che colloca un piano ancora più sotto
un'origine già messa in moto. Il vantaggio che Derrida può avere
sperato dalla grammatologia e da una testualizzazione apparentemente concretizzante della storia dell'essere, rimane perciò irrilevante. Come partecipante al discorso filosofico della modernità,
Derrida eredita le debolezze di una critica della metafisica che
non riesce a liberarsi dall'intenzione della filosofia dell'originario. Benché muti atteggiamento, anch'egli alla fine pratica soltanto una mistificazione di tangibili patologie sociali; anch'egli
distacca il pensiero essenziale, cioè decostruente, dall'analisi
scientifica, e approda all'evocazione di un'autorità indeterminata mediante una formula vuota. Questa però non è l'autorità
di un essere sfigurato dall'ente, bensì l'autorità di una scrittura
non più sacra, di una scrittura esiliata, errante, estraniata al suo
proprio senso, attestante testamentariamente l'assenza del sacro.
Derrida si distingue da Heidegger soprattutto per via di una
pretesa in apparenza scientifica; ma poi con la sua Scienza
40
J.
Derrida, De la grammatologie, cit., p. 92 (tr. it. cit., p. 71).
41 lvi, p. 69 (tr. it. cit., p. 52).
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Nuova semplicemente non tiene conto della deplorata incompetenza delle scienze in generale e della linguistica in particolare 42 •
Derrida sviluppa la storia dell'essere codificata per iscritto
in una variante diversa da Heidegger. Egli trasferisce bensì come
lui la politica e la storia del tempo nell'ontico-superficiale, per
poter scorrazzare tanto più liberamente e con tanta maggior
abbondanza di associazioni nell'ontologico-originario scritturale.
Ma la retorica, che in Heidegger serve ad esercitarsi nel fato
dell'essere, in Derrida favorisce un altro atteggiamento, piuttosto
sovversivo. Derrida è più vicino al desiderio anarchico di far
saltare il continuum della storia, che alla direttiva autoritaria di
adattarsi al destino 43 •
Questo atteggiamento opposto può dìpendere dal fatto che,
nonostante ogni sua smentita, Derrida resta vicino alla mistica
ebraica. Egli non vuole tornare col neopaganesimo aldilà degli
inizi del monoteismo, aldilà del concetto di una tradizione che
segue le tracce della perduta scrittura divina e che continua a
prodursi mediante l'esegesi eretica degli scritti. Derrida cita con
approvazione un detto di Rabbi Eliezer tramandato da Levinas:
« Se tutti i mari fossero pieni d'inchiostro, se tutti gli stagni
fossero piantati di cannucce per scrivere, se il cielo e la terra
fossero di pergamena e tutti gli uomini praticassero l'arte della
scrittura, essi non potrebbero esaurire la Thora che io ho studiato; la Thora stessa ne verrebbe diminuita tanto poco, quanto
lo diviene il mare in cui fosse immersa la punta d'una penna» 44 •
I cabbalisti ebbero sempre interesse, è noto, a rivalutare la
Thora orale, che risale alla parola degli uomini, rispetto alla
parola presuntivamente divina della Bibbia. Essi conferiscono
un alto rango ai commentari con cui ogni generazione si appropria di nuovo la rivelazione. Infatti la verità non è fissata, non è
mai divenuta positiva una volta per tutte in una quantità determinata di enunciati. Questa concezione cabbalistica è stata poi
nuovamente radicalizzata. Ora perfino la Thora scritta è considerata come una traduzione problematica della parola divina nel
linguaggio degli uomini - come una pura interpretazione, appunto contestabile. Tutto è Thora orale, nemmeno una sillaba è
42 lvi, p. 142 (tr. it. cit., p. 111); cfr. anche l'intervista con Julia Kristeva
in J. Derrida, Positions, Paris 1972 (tr. it., Posizioni, Verona 1975, p. 53).
43 Della « différance » Derrida dice: « Essa non governa nulla, non domina
su nulla, non esercita in alcun posto una autorità. Non si annuncia tramite una
maiuscola. Non solo non vi è un regno della différance, ma essa istiga alla sovversione di ogni rcgho >> (Derrida, Marges de la philosophie, cit., p. 22).
44 J. Derrida, De la grammatologie, cit., pp. 27 sg. (tr. it. cit., p. 19).
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autentica cioè tramandata nella scrittura ongmaria. La Thora
dell'albero della conoscenza è una Thora occultata fin da principio. Essa muta continuamente i suoi abiti, e questi abiti sono
la tradizione.
Gershom Scholem ci riferisce le discussioni che si accesero
sulla questione se tutti i dieci comandamenti siano stati trasmessi non falsificati da Mosè al popolo di Israele. Secondo
alcuni cabbalisti, soltanto i primi due comandamenti (che, per
così dire, fondano il monoteismo) derivano da Dio stesso; altri
dubitano perfino dell'autenticità delle prime parole tramandate
da Mosè. Rabbi Mendel von Rymanow esaspera una idea di
Maimonide: «A suo parere nemmeno i primi due comandamenti derivano da un'immediata rivelazione all'intero popolo
di Israele. Tutto ciò che Israel udì non era altro che quell'Aleph, con cui nel testo ebraico della Bibbia incomincia il
primo comandamento».
Questo mi sembra effettivamente - aggiunge Scholem - una
frase degna di nota e che induce alla riflessione. La consonante
Aleph in ebraico non è infatti altro che l'impostazione laringale
della voce, che antecede una vocale all'inizio della parola. L'Aleph
rappresenta quindi, per così dire, l'elemento dal quale deriva ogni
suono articolato [ ... ]. Udire l'Aleph equivale a non udir proprio
nulla, esso rappresenta il trapasso a tutti i linguaggi percettibili,
e certamente di esso non si può dire che in sé comunichi un
senso specifico. Con quella frase audace [... ] Rabbi Mendel riduce
la rivelazione ad una rivelazione mistica, cioè ad una rivelazione
in se stessa infinitamente piena di senso, ma priva di senso specifico. Essa rappresentava qualcosa che, per fondare l'autorità religiosa, doveva essere tradotto in linguaggi umani; ed è appunto ciò
che, nel senso di questa massima, fece Mosè. Ogni enunciato, che
fonda l'autorità, sarebbe un'interpretazione, pur sempre umana per
quanto valida e d'alto rango, di qualcosa che la trascende 45 •
L'Aleph del Rabbi Mendel è affine all'' a' afono, discriminato solo per scritto, della 'difjérance ', in quanto nell'indeterminatezza di questo segno fragile e ambiguo è concentrata l'intera pienezza della promessa.
La concezione grammatologica derridiana di una scrittura
originaria le cui tracce suscitano tanto più interpretazioni, quan45
G. Scholem, Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Frankfurt a. M. 1973, pp.
47 sg.
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to più divengono inconoscibili, rinnova il concetto mistico della
tradizione come di un accadere dilatorio della rivelazione. L'autorità religiosa mantiene la sua forza solamente finché nasconde
il suo vero volto, e stimola così l'accertamento decifratorio degli
interpreti. La decostruzione praticata con insistenza è il lavoro
paradossale di una prosecuzione della tradizione in cui l'energia
salvifica si rinnova unicamente tramite l'esaurimento. Il lavoro
della decostruzione fa sempre più ingrossare quella fascia detritica delle interpretazioni, che essa vuole asportare per liberare
i fondamenti sepolti.
Derrida ritiene di oltrepassare Heidegger; fortunatamente
egli ritorna dietro di lui. Le esperienze mistiche nelle tradizioni
ebraica e cristiana potevano dispiegare la loro forza esplosiva,
la loro forza che minacciava le istituzioni e i dogmi, soltanto
perché in questi contesti continuavano a riferirsi all'unico Dio
nascosto, trascendente il mondo. Illuminazioni recise da questa
sorgente luminosa concentrata risultano particolarmente vaghe.
La via della loro coerente profanizzazione avvia a quell'ambito
di esperienze radicali che ha aperto l'arte d'avanguardia. Dall'incanto puramente estetico della soggettività estatica uscita fuori
di sé, Nietzsche aveva attinto i suoi orientamenti. Heidegger
rimase fermo a mezza strada; voleva trattenere la forza di una
illuminazione divenuta priva di direzione senza pagare il prezzo
della sua profanizzazione. Egli gioca quindi con un'aura alla
quale è venuto meno il sacro. Con la mistica dell'essere le illuminazioni regrediscono nel magico. Nella mistica neopagana non
procede dal carisma dell'extraquotidiano né qualcosa di liberante
come nell'estetico, né qualcosa di rinnovante come nel religioso
- ma tutt'al più il fascino della ciarlataneria. Da questo fascino
Derrida purifica dunque la mistica dell'essere, ricondotta nel
contesto tradizionale del monoteismo 46 •
46 Mi vedo confermato in questa interpretazione grazie ad un articolo di
Susan Handelman, di cui sono venuto a conoscenza solo successivamente grazie ad un'indicazione di J. Culler: facques Derrida and the Heretic Hermeneutic, in M. Krapnick (ed.), Displacement, Derrida and after, Bloomington (Indiana) 1983, pp. 98 sgg. S. Handelman rimanda ad un interessante detto
di Levinas, che Derrida fa suo (in un saggio su Levinas): <<Amare la Thora
più di Dio significa protezione contro la pazzia del contatto diretto con il Sacro>>, e sottolinea la affinità di Derrida con la tradizione rabbinica ed in particolare con le sue radicalizzazioni cabbalistiche ed eretiche: « L'affermazione (di
Levinas) è sorprendentemente ed eminentemente rabbinica - la Thora, la Legge,
Scrittura, Dio, dice, sono persino più importanti di Lui. Potremmo dire che Derrida e l'ermeneutica eretica ebraica fanno esattamente questo: rinunciano a Dio,
n'ia perpetuano la Thora nel loro proprio modo sostitutivo ed ambivalente >>
(p. 115). S. Handelman si riferisce allo stesso modo alla perdita di valore del-
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Se questa supposizione non è del tutto falsa, certo Derrida
ritorna a quel luogo .storico in cui una volta la mistica si era
convertita nell'Illuminismo. Per tutta la sua vita Scholem ha
seguito le tracce di questo capovolgimento compiuto nel XVIII
secolo. Nelle condizioni del XX secolo, come ha osservato Adorno, mistica e illuminismo si sono ritrovate insieme 'un'ultima
volta ' in Benjamin, con i mezzi concettuali del materialismo
storico. Mi sembra dubbio che questo movimento di pensiero
unico nel suo genere possa ripetersi con i mezzi di un fondamentalismo negativo; in ogni caso esso dovrebbe introdurci più
profondamente nel moderno, che pure Nietzsche e i suoi seguaci
volevano superare.
l'originale trasmissione della parola divina, a favore della Thora orale, che nel
corso della storia dell'esilio reclamò una crescente, alla fine addirittura preponderante autorità: << Ossia, tutte le successive interpretazioni rabbiniche sostennero insieme la stessa divina origine della Thora di Mosè; interpretazione,
usando i termini di Derrida, che " era già sempre presente ". In questo modo,
l'interpretazione umana e commentaria divenne parte della Rivelazione Divina.
Le linee di confine fra testo e commentario sono fluide, in modo nuovo che risulta difficile da immaginare per un testo sacro, ma questa fluidità è un principio centrale per la teoria critica contemporanea, specialmente in Derrida >>
(p. 101). Per il resto, S. Handelman pone la denuncia del logocentrismo occidentale come fonocentrismo chiaramente nel contesto della storia della religione,
di una difesa sempre rinnovata della lettera contro lo Spirito. Derrida riceve
così uno spazio all'interno dell'apologetica ebraica. Il Cristianesimo paolino aveva discreditato la storia dell'interpretazione della Thora orale come ' morta lettera' (2. Corinzi, 3, 6) contro le ' spirito vivente' dell'immediata presenza di Cristo. Paolo si volge contro gli ebrei, che si fermano alla lettera e non
vogliono sacrificare la ' Scrittura ' a favore del ' Logos ' della Rivelazione cristiana: la scelta di Derrida di scrivere per opporsi al logocentrismo occidentale
è una ri-emergenza di ermeneutiche rabbiniche in modo spostato. Derrida vuole
slegare la teologia greco-cristiana e farci tornare dalla antologia a!la grammatologia, dall'essere al testo, dal Logos alla Scrittura (écriture) (p. 111). In questo
contesto è di grande importanza il fatto che Derrida non riceve il motivo del
Dio attivo attraverso la lontananza ed il rifiuto come Heidegger, passando per
Hiilderlin, a partire dalla romantica recezione del dionisiaco, né può rivolgerlo
come un motivo arcaico contro il monoteismo. Piuttosto, la lontananza attiva
di Dio è un motivo che Derrida conduce personalmente attraverso Levinas, a
partire dalla tradizione ebraica: « Il Dio assente dell'olocausto, il Dio che
oscura il suo volto, paradossalmente diviene per Levinas la condizione della
Fede ebraica [ ... ] il Giudaismo è allora definito come questa speranza in un
Dio assente>> (p. 115). Con ciò la critica alla metafisica ottiene naturalmente
in Derrida un significato diverso che in Heidegger. Il lavoro della decostruzione
serve allora al rinnovamento di un discorso con Dio non garantito, che risulta
lacerata alle moderne condizioni di un'ontoteologia divenuta non obbligatoria.
Non il superamento della modernità tramite il ricorso a fonti arcaiche, sareblle
allora l'intenzione, bensì una considerazione delle condizioni del moderno pensiero postmetafisico, tenendo conto delle quali il discorso con Dio, protetto onteteologicamente, non può essere continuato.
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Excursus sullivellamento della differenza specifica
tra filosofia e letteratura
I
La ' dialettica negativa ' di Adorno e la ' decostruzione ' di Derrida si possono intendere come differenti risposte al medesimo
problema. L'autocritica totalizzante della ragione si impiglia in
una contraddizione performativa; di poter cioè convincere della
sua natura autoritaria la ragione centrata nel soggetto solo ricorrendo ai mezzi che le sono propri. Questi strumenti del pensiero
che non riescono a cogliere la ' non-identità ' e restano vincolati
alla ' metafisica della presenza ', sono però tuttavia anche gli
unici mezzi disponibili per scoprire la propria insufficienza.
Heidegger cerca scampo a questo paradosso nelle luminose altezze di un particolare discorso esoterico, che si libera in generale
dalle limitazioni del discorso discorsivo e si immunizza contro
ogni obiezione specifica mediante l'indeterminatezza. Per criticare la metafisica Heidegger si serve dei concetti metafisici come
della scala che, dopo averne salito i pioli, getta via. Giunto di
sopra, il tardo Heidegger non si ritrae però come il primo Wittgenstein nell'intuizione silente del mistico, ma piuttosto egli ricorre con gesto profetico, verbosamente, all'autorità dell'iniziato.
Diversamente Adorno. Egli non esce di soppiatto dal paradosso della critica della ragione che si riferisce a se stessa, della
contraddizione performativa, riconosciuta come inevitabile, in cui
questo pensiero si muove a partire da Nietzsche, egli fa la forma
organizzativa della comunicazione indiretta. Il pensiero identificante rivolto contro se stesso viene costretto a smentire continuamente se stesso. Fa vedere le ferite che infligge a sé e agli oggetti.
Questo esercizio porta a buon diritto il nome di una ' dialettica
negativa'; infatti Adorno pratica imperterrito la negazione determinata, benché essa abbia perduto ogni sostegno nella organizzazione categoriale della logica hegeliana - per così dire, come
feticismo del disincantamento. Il restar fedele ad un procedimento critico, che non può più essere sicuro dei suoi fondamenti,
si spiega in quanto Adorno, in contrasto con Heidegger, non
disprezza elitariamente il pensiero discorsivo. Nell'elemento discorsivo noi certamente erriamo qua e là, come in esilio; e tuttavia unicamente la forza insistente, mobilitata contro se stessa, di
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una riflessione senza fondo, mantiene il collegamento con l'utopia di una conoscenza libero-intuitiva, da lungo scomparsa, appartenente al lontano passato 47 • Il pensiero discorsivo non può
certo identificarsi di per sé. come la sua forma decaduta; a tale
scopo gli giova soltanto l'esperienza estetica, acquisita nella pratica con l'arte d'avanguardia. Quella promessa che una tradizione filosofica sopravvissuta non può più garantire, si è ritratta
nella scrittura speculare dell'opera d'arte esoterica e ha bisogno
della decifrazione negativistica. Da questo lavoro di decifrazione
la filosofia succhia quel residuo di fiducia paradossale nella ragione, con cui la dialettica negativa esegue ostinatamente nel
duplice senso della parola le sue contraddizioni performative.
Derrida non è in grado di condividere la fiducia residuale di
Adorno, convalidata esteticamente, in una ragione spostata (verrilckte), scacciata dai distretti della filosofia, divenuta appunto
utopica. Altrettanto poco egli crede però che Heidegger, il quale
fa uso dei concetti metafisici per ' cancellarli', si sia effettivamente svincolato dalle coazioni concettuali della filosofia del
soggetto. Certamente, Derrida vuole proseguire la via imboccata
della critica della metafisica; anch'egli vuole evadere dal paradosso piuttosto che circoscriverlo rimuginando. Ma come Adorno
egli si oppone a quell'atteggiamento della profondità, che Heidegger riproduce irriflessivamente in base al suo antagonista, la
filosofia dell'originario. Perciò sussistono paralleli anche fra Derrida e Adorno.
Questa affinità nell'atteggiamento del pensiero richiede una
analisi più precisa. Adorno e Derrida sono egualmente sensibilizzati contro modelli conclusivi, totalizzanti, onni-inglobanti, in
modo speciale contro l'organico nell'opera d'arte. Entrambi sottolineano perciò il primato dell'allegorico sul simbolico, della
metonimia sulla metafora, del romantico sul classico. Entrambi
utilizzano come forma dell'esposizione il frammento e sospettano di ogni sistema. Entrambi decifrano con grande ingegno
il caso normale a partire dai suoi casi-limite; si incontrano in
un estremismo negativo, scoprono l'essenziale nel marginale. nell'accidentale, il diritto dalla parte del sovversivo e del ripudiato,
la verità alla periferia e nell'inautentico. Ad una diffidenza verso
tutto ciò che è l'immediato e sostanziale corrisponde l'implacabile ricerca di mediazioni, presupposizioni e dipendenze nascoste. Alla critica delle origini, degli originali, delle primalità corri47 H. Schnadelbach, Dialektik als Vernunftkritik, in L. v. Friedeburg,
bermas (a cura di), Adorno-Konferenz 1983, cit., pp. 66 sgg.
190
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J. Ha-
sponde un certo fanatismo di dimostrare in tutto ciò il puramente
prodotto, imitato, secondario. Ciò che percorre da capo a fondo
come motivo materialistico l'opera di Adorno, lo smascheramento di posizioni idealistiche, il rovesciamento di falsi contesti
di costituzione, la tesi del primato dell'oggetto - anche ciò
trova un parallelo nella logica derridiana della supplementarità.
Il lavoro ribelle della decostruzione mira appunto a distruggere
gerarchie concettuali irrigidite, a sovvertire i contesti di fondazione e i rapporti concettuali di dominio, per es. fra discorso
e scrittura, fra intelligibile e sensibile, natura e cultura, interno
ed esterno, spirito e materia, uomo e donna. Derrida ha un particolare interesse a capovolgere il primato della logica sulla
retorica, già canonizzato da Aristotele.
Derrida non si è certo occupato di tale questione controversa
dall'ovvio punto di vista della storia della filosofia. In tal caso
egli avrebbe dovuto relativizzare il valore di posizione del suo
proprio progetto a quella tradizione che si è formata da Dante
fino a Vico, e che è stata mantenuta viva, attraverso Hamann,
Humboldt e Droysen, fino a Dilthey e a Gadamer. In questa
tradizione infatti si è espressa la protesta nuovamente elevata
da Derrida contro il primato platonico-aristotelico del logico sul
retorico. Derrida vuole estendere la sovranità della retorica sul
territorio del logico, per risolvere quel problema dinanzi a cui
si ferma la critica totalizzante della ragione. Come si è mostrato,
egli non vuole accontentarsi né della dialettica negativa di Adorno né della critica della metafisica di Heidegger: l'una nonostante tutto rimane bloccata nella beatitudine razionale della
dialettica, l'altra nella Ruberei originaria della metafisica. Heidegger sfugge al paradosso della critica della ragione riferita a
se stessa solo in quanto reclama per il rimemorare uno statuto
speciale, cioè la liberazione da vincoli discorsivi. Heidegger non
dice nulla sull'accesso privilegiato alla verità, Derrida aspira
nel risultato al medesimo accesso esoterico alla verità; ma egli
non vorrebbe farselo concedere come privilegio, quale che ne
sia l'istanza. Egli non trascura superbamente l'obiezione di incoerenza pragmatica, bensì la rende priva d'oggetto.
Di ' contraddizione ' si può parlare soltanto alla luce di esigenze di coerenza, che perdono la loro autorità, e in ogni caso
sono subordinate ad altre esigenze, per es. a quelle di tipo estetico, se la logica perde il suo tradizionale primato sulla retorica.
Allora il decostruttivista può trattare le opere della filosofia come
opere della letteratura e adeguare la critica della metafisica ai
criteri di una critica letteraria che non si fraintende in senso
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scientistico. Se prendiamo sul serio il carattere letterario degli
scritti di Nietzsche, la f.ondatezza della sua critica della ragione
deve essere giudicata secondo i criteri della riuscita retorica e
non secondo quelli della coerenza logica. Una tale critica, adeguata al suo oggetto, non si rivolge direttamente alla rete delle
relazioni discorsive, di cui sono costruiti gli argomenti, bensì alle
figure costitutive dello stile, che decidono sulla capacità di un
testo letterariamente chiarificante e retoricamente dischiudente.
Come una critica letteraria, che in certo qual modo non fa che
proseguire il processo letterario dei suoi oggetti, non si dissolve
nella scienza, così una decostruzione di grandi testi filosofici che
procede al modo della critica letteraria non obbedisce ai criteri
delle operazioni puramente cognitive di soluzione dei problemi.
Derrida sfugge dunque a quel problema, che Adorno riconosce come inevitabile e di cui fa il punto di partenza di quel
pensiero dell'identità che si traduce riflessivamente. Per Derrida
il problema diviene privo di oggetto, perché l'impresa decostruttiva non si può vincolare agli obblighi discorsivi della filosofia e della scienza. Derrida chiama decostruzione il suo procedimento, perché esso deve demolire quelle impalcature antologiche, che la filosofia ha eretto nel corso della sua storia della
ragione centrata nel soggetto. Ma in questa impresa della decostruzione Derrida non procede analiticamente, cercando di identificare presupposti o implicazioni nascosti. Così ogni generazione successiva ha appunto eretto a modello le opere delle
generazioni precedenti. Derrida procede piuttosto alla maniera
della critica stilistica, ricavando, dall'eccedenza retorica del significato degli strati letterari di un testo che si presenta come nonletterario, qualcosa come comunicazioni indirette, con le quali
il testo stesso smentisce i suoi contenuti manifesti. In tal modo
Derrida costringe testi di Husserl, Saussure o Rousseau a testimoniare contro l'opinione esplicita dei loro autori. Gli stessi
testi pettinati contropelo contraddicono, grazie al loro contenuto
retorico, ciò che enunciano, per es. il primato esplicitamente
affermato del significato rispetto al segno, della voce rispetto allo
scritto, dell'intuitivamente dato e immediatamente presente rispetto al sostituto e al differito-differenziante. Il punto cieco, in
un testo filosofico, è ·altrettanto difficilmente identificabile sul
livello dei contenuti manifesti, quanto in un testo letterario.
'Blindness and Insight' sono intrecciate retoricamente l'una con
l'altra. Così le limitazioni di un testo filosofico che sono costitutive per la conoscenza sono accessibili ad un interprete sol192
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tanto quando egli tratta il testo come ciò che esso non vorrebbe essere - come testo letterario.
Se tuttavia in ciò il testo filosofico (o scientifico) venisse soltanto straniato a testo apparentemente letterario, il decostruire
rimarrebbe un atto arbitrario. Lo scopo di Heidegger, di far
saltare le forme metafisiche del pensiero dall'interno, Dèrrida
può raggiungerlo, servendosi di un procedimento essenzialmente
retorico, soltanto se il testo filosofico è in verità un testo letterario - se si può mostrare che, in base ad una considerazione
più precisa, la differenza specifica fra filosofia e letteratura si
dissolve. Questa dimostrazic:me deve potersi condurre per la via
della stessa decostruzione; in ogni caso si comprova di nuovo
l'impossibilità di specializzare a scopi cognitivi i linguaggi della
filosofia e della scienza in modo tale da purificarli da ogni elemento metaforico e puramente retorico e liberarli da commistioni letterarie. Nella prassi decostruttiva si dimostra la inconsistenza della differenza specifica tra filosofia e letteratura; alla
fine tutte le differenze specifiche si perdono in un ampio contesto testuale onnicomprensivo. Ipostatizzando, Derrida parla del
'testo universale'. Rimane la scrittura che scrive se stessa, come
quel medium in cui ogni testo è intessuto con tutti gli altri.
Ogni singolo testo, ogni specie particolare hanno già perduto,
prima di manifestarsi, la loro autonomia in un contesto che
divora tutto, e nell'incontrollabile accadere di produzione spontanea di testi. Su di ciò si fonda il primato della retorica, che
ha a che fare con le qualità dei testi in genere, sulla logica
come sistema di regole, al quale sono soggette in modo esclusivo soltanto determinati tipi di discorso, vincolati all'argomentazione.
II
La trasformazione, che a tutta prima passa inosservata, della
' distruzione ' nella ' decostruzione ' della tradizione filosofica
trasferisce dunque la critica radicale della ragione nell'ambito
della retorica, e le indica con ciò una via per uscire dall'aporia
del riferimento a se stessa: chi dopo questo mutamento di forma
volesse ancora imputare dei paradossi alla critica della metafisica, l'avrebbe fraintesa scientisticamente. Ma questo argomento
coglie nel senso soltanto se risultanò vere le seguenti assunzioni:
(l) la critica letteraria non è un'impresa principalmente scien193
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tifica, ma obbedisce agli stessi criteri retorici dei suoi oggetti
letterari; (2) tra filosofia e letteratura non esiste affatto una differenza specifica, di modo che i testi filosofici nei loro contenuti
essenziali si possono analizzare con la critica letteraria; (3) il
primato della retorica sulla logica significa la competenza generale della retorica per le qualità universali di un nesso testuale
onnicomprendente, nel quale in definitiva si dissolvono tutte le
differenze specifiche: come la filosofia e la scienza non costituiscono universi propri, così l'arte e la letteratura non costituiscono un regno della finzione, che potrebbe affermare la sua
autonomia rispetto al testo universale.
La proposizione (3) illustra le proposizioni (2) e (l) in quanto despecifica il senso di ' critica letteraria'. La critica letteraria
serve bensì come un caso tipico che spiega se stesso tramite una
lunga tradizione; ma vale altresì come caso tipico di qualcosa di
più generale, cioè di una critica calibrata sulle qualità retoriche
di discorsi quotidiani e .non-quotidiani. Il procedimento della
' decostruzione ' utilizza questa critica generalizzata allo scopo
di far valere la rimossa eccedenza di significato retorico dei testi
filosofici e scientifici contro il loro senso manifesto. La pretesa
di Derrida, che la ' decostruzione ' sia un mezzo per cavar
fuori la radicale critica nietzschiana della ragione dal vicolo
cieco del suo paradossale autoriferimento, sta dunque - e
cade con la tesi indicata sotto (3).
Proprio questa tesi costituisce il centro d'interesse della vivace recezione che l'opera di Derrida ha conosciuto nei dipartimenti di scienze letterarie di illustri università americane 48 • Negli Stati Uniti la critica letteraria è da lungo tempo istituzionalizzata nell'esercizio scientifico, come una disciplina accademica, e con essa è istituzionalizzata fin da principio anche la
travagliata questione circa la scientificità della critica letteraria.
Il retroscena della recezione di Derrida è certamente costituito
da questo dubbio endemico, ma anche dalla liberazione da quel
New Criticism, dominante già da decenni, che era convinto dell'autonomia dell'opera d'arte linguistica e si era nutrito del
pathos scientifico dello strutturalismo. In questa situazione l'idea
della 'decostruzione' poteva avere successo, perché assegnava
alla critica letteraria, in base a premesse esattamente opposte, un
48 Ciò vale soprattutto per i critici di Yale Paul de Man, Geoffrey Hartmann, Hillis Miller e Harold Bloom. Cfr. J. Arac, W. Godzich, W. Martin (a
cura di), The Yale Critics: Deconstruction in America, Minneapolis 1983. Tra
gli altri importanti centri del decostruttivismo, accanto alla Yale University, la
University of Maryland, Baltimore, come pure la Cornell-University, Ithaca (N.Y.).
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compito di indubbia importanza: Derrida contesta altrettanto
energicamente l'autonomia dell'opera d'arte letteraria e l'autonomia dell'apparenza estetica, quanto la possibilità che la critica
possa mai raggiungere uno statuto scientifico. Al contempo la
critica letteraria gli serve come modello per un procedimento
che, oltrepassando il pensiero metafisico della presenza, e l'età
logocentrica, si assume una missione addirittura cosmico-storica.
Il livellamento della differenza specifica fra critica letteraria
e letteratura libera l'impresa critica dall'increscioso obbligo di
assoggettarsi a standards pseudoscientifici; al contempo essa lo
eleva al di sopra della scienza, fino al livello dell'attività creativa. La critica non deve più ritenere di essere qualcosa di secondario, assume rango letterario. Testi di Miller, di Hartmann e
di de Man possono servire a documentare la nuova autocoscienza,
« che i critici non sono più parassiti dei testi da essi interpretati,
giacché entrambi occupano un testo-ospite di linguaggio preesistente, che si nutre a sua volta parassitariamente della compiacenza ospitale a riceverlo ». I decostruttivisti rompono con la
tradizionale concezione arnoldiana della funzione puramente servile della critica: « La critica sta ora passando in letteratura,
respinge la servile posizione arnoldiana, e assume con un entusiasmo senza pari la libertà dello stile interpretativo » 49 • Così
Paul de Man nel suo libro forse più splendido illustra testi critici
di Lukacs, Barthes, Blanchot e Jakobson con lo stesso metodo
e con la medesima finezza, che di solito spetta soltanto a testi
letterari: « Giacché non sono scientifici, i testi critici vanno letti
con la stessa consapevolezza dell'ambivalenza che si porta allo
studio di testi letterari non-critici » 50 •
Altrettanto importante quanto l'equiparazione della critica
letteraria alla produzione letteraria creativa è del resto l'aumento
di importanza che la critica letteraria sperimenta come partecipante all'impresa della critica della metafisica. Questa rivalutazione nel senso della critica della metafisica richiede un completamento inverso all'interpretazione derridiana del livellamento
della differenza specifica fra filosofia e letteratura. Jonathan
Culler rammenta il senso strategico che Derrida assegna ad una
trattazione di testi filosofici come critica letteraria per raccomandare alla critica letteraria di trattare a sua volta testi letterari anche come filosofici. La distinzione, al contempo mantenuta
49 Ch. Norris, Deconstruction. Theory and Practice, London- N. Y. 1982,
pp. 93 e 98.
50 P. de Man, Blindness and Insight, Minneapolis 19832, p. 110.
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e decisamente relativizzata, fra i due generi « è essenziale alla
dimostrazione, che la lettura più fedelmente filosofica di un testo
filosofico [ ... ] è una lettura che tratta l'opera come letteratura,
come una composizione narrativa, retorica, i cui elementi e il
cui ordine sono determinati da diverse esigenze testuali». Poi
egli prosegue: « Inversamente, le letture più potenti e appropriate di opere letterarie possono essere quelle che le trattano
come atti filosofici mettendo in luce le implicazioni dei suoi
rapporti con le opposizioni filosofiche che li sostengono » 51 •
La proposizione (2) viene perciò variata nel seguente senso:
(2'). Tra filosofia e letteratura non esiste una differenza specifica, di modo che i testi letterari nel loro contenuto essenziale si
possono rendere accessibili con la critica della metafisica.
Ad ogni modo, tanto la proposizione (2) quanto la proposizione (2') si riferiscono al primato della retorica sulla logica affermato con la proposizione (3). Ciò che quindi importa ai critici
letterari americani è di sviluppare un concetto di letteratura
generale che abbia la stessa ampiezza della retorica in genere,
e che corrisponderebbe al ' testo universale ' di Derrida. Con il
concetto tradizionale della filosofia, che nega i fondamenti metaforici del pensiero filosofico, viene al contempo decostruito anche il concetto di letteratura limitato all'immaginario: « La nozione di letteratura o discorso letterario è coinvolta in alcune di
quelle opposizioni gerarchiche su cui si incentra la decostruzione: serio/non-serio, letterale/metaforico, verità/finzione [ ... ].
Le decostruzioni dimostrano che queste gerarchie sono annullate
lavorando sui testi che propongono loro di alterare lo stato del
linguaggio letterario ». Ed ora segue, nella forma di una proposizione condizionale, la tesi da cui tutto dipende - tanto la
nuova autocomprensione della critica letteraria, rivalutata nel
senso della critica della metafisica, quanto la dissoluzione decostruttivistica della contraddizione performativa di una critica
della ragione che si riferisce a se stessa: « Se il linguaggio serio
è un caso speciale di quello non-serio, se la verità sono racconti
di cui è stato dimenticato il carattere narrativo, allora la letteratura non è un caso deviante, parassitario del linguaggio. Al contrario, gli altri discorsi possono essere considerati come casi speciali di una letteratura generalizzata, o archiletteratura » 52 • Siccome Derrida non è uno di quei filosofi che amano l'argomentazione, sarà opportuno, per vedere se si può realmente sostenere
51
52
J. Culler, On Deconstruction, London 1983, p. 150.
lvi, p. 181.
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questa tesi, seguire quei suoi scolari che praticano la critica letteraria e sono cresciuti nel clima argomentativo anglosassone.
J. Culler ricostruisce molto chiaramente la discussione alquanto oscura fra Jacques Derrida e John Searle, per mostrare,
in base all'esempio della teoria degli atti linguistici di Austin, il
fallimento di ogni tentativo compiuto per separare l'ambito quotidiano del linguaggio abituale da un uso linguistico ' insolito ',
' deviante ' dai casi tipici. La tesi di Culler è poi completata e
indirettamente confermata da una ricerca di Mary Louise Pratt,
anch'essa basata sulla teoria degli atti linguistici, che in base
all'esempio della teoria -strutturalistica della poetica vorrebbe
dimostrare che fallisce anche il tentativo di delimitare l'ambito
extraquotidiano del discorso immaginario dai discorsi quotidiani
(cfr. la sez. III). Ma anzitutto sulla controversia fra Derrida e
Searle 53 •
Da questa complessa discussione J. Culler rileva che il punto
centrale di contrasto è la questione se Austin riesca, come sembra, a compiere un passo del tutto innocuo, provvisorio e puramente metodico. Austin vuole analizzare quelle regole che sono
intuitivamente seguite da parlanti competenti, e in base alle quali
si possono condurre efficacemente azioni linguistiche tipiche.
Egli ricava quest'analisi esaminando proposizioni espresse seriamente, le più semplici possibili e usate letteralmente nella prassi
quotidiana normale. Questa unità di analisi dell'azione linguistica tipica dipende dunque da talune astrazioni. Il teorico degli
atti linguistici volge la sua attenzione ad un campione di espressioni della lingua normale, dal quale sono scartati tutti i casi
complessi, derivati, parassitari e devianti. Alla base della delimitazione sta una concezione della prassi linguistica ' usuale ' o
normale, un concetto di 'ordinary language ', la cui innocuità e
coerenza Derrida mette in dubbio. L'intento di Austin è chiaro:
egli vorrebbe analizzare le proprietà universali, per esempio, di
'promettere', nei casi in cui l'esternazione di proposizioni corrispondenti funzioni effettivamente come una promessa. Ma vi
sono contesti, nei quali le stesse proposizioni perdono la forza
illocutiva di una promessa. Pronunciata da un attore sulla scena,
come elemento di una poesia o anche soltanto all'interno di un
53 Nel suo saggio Signature événement contexte, Derrida dedica l'ultimo
capitolo ad una controversia con la teoria di Austin: J. Derrida, Marges de la
philosophie, ci t., pp. 365 sgg. Ad essa si riferisce J. Searle, Reiterating the Differences: A Reply to Derrida, in << Glyph », n. l, 1977, pp. 198 sgg. La risposta
di Derrida è apparsa in « Glyph >>, n. 2, 1977, pp. 202 sgg. con il titolo: Limited !ne.
197
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monologo, una promessa, come dice Austin, diviene « in un
modo singolare vuota e nulla». La stessa cosa vale per una promessa che compare, o viene semplicemente rammentata in una
citazione. In questi contesti non vi è alcun uso serio e obbligante, talvolta nemmeno letterale, della corrispondente proposizione performativa- bensì un uso derivato parassitario. I modi
fittizi o simulati o indiretti dell'uso sono, come Searle ripete
con insistenza, ' parassitari ' nel senso che essi presuppongono
logicamente la possibilità dell'uso serio, letterale e vincolante
delle proposizioni grammaticalmente adatte per una promessa.
Dai testi di Derrida, Culler trasceglie essenzialmente tre obiezioni, che tendono a provare l'impossibilità di una tale operazione, e devono mostrare che le distinzioni correnti fra linguaggio serio e simulato, letterale e metaforico, quotidiano e narrativo, usuale e parassitario, non stanno in piedi.
a) Con il suo primo argomento Derrida stabilisce un collegamento poco chiaro fra citabilità e ripetibilità da un lato, finzionalità dell'altro. La citazione di una promessa sarebbe solo in
apparenza qualcosa di secondario rispetto alla promessa direttamente data; infatti la riproduzione indiretta di una espressione
performativa nella citazione sarebbe una forma di ripetizione; e
siccome la citabilità presuppone la possibilità della ripetizione
secondo una regola, dunque la convenzionalità, apparterrebbe
all'essenza di ogni espressione convenzionalmente prodotta, dunque anche di quella performativa, che essa possa essere citata
- e in senso ampio fittiziamente imitata:
Se non fosse possibile per un personaggio in un dramma fare
una promessa non vi potrebbero essere promesse nella vita reale,
perché ciò che rende possibile promettere, come ci dice Austin, è
l'esistenza di una procedura convenzionale, di formule che si possono ripetere. Perché io sia in grado di fare promesse nella vita
reale, vi devono essere procedure reiterabili o formule come quelle
usate sulla scena. Il comportamento serio è un caso del recitare
una parte 54.
Evidentemente Derrida presuppqne già nell'argomento ciò
che egli vorrebbe dimostrare: che ogni convenzione, che consente la ripetizione di azioni esemplari, non abbia soltanto carattere simbolico, ma fin da principio anche fittizio. Si dovrebbe
anzitutto dimostrare che le convenzioni di gioco non si possano
in definitiva distinguere dalle norme d'azione. Austin adduce ben54
J. Culler, On Deconstruction, cit.,
p. 119.
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sì la citazione d'una promessa come esempio di una forma derivata o parassitaria, perché la forma della riproduzione indiretta
toglie la forza illocutiva alla promessa citata: con ciò essa viene
asportata da un contesto in cui ' funziona ', cioè coordina azioni
di diversi partecipanti all'interazione e produce conseguenze rilevanti per l'azione. Efficace per l'azione è soltanto l'atto linguistico effettivamente compiuto di volta in volta, dal quale dipende
grammaticalmente la promessa menzionata o riferita a guisa di
citazione. Questo inquadramento che indebolisce l'illocuzione
costituisce anche il ponte fra riproduzione citante e presentazione fittizia. Anche un'azione scenica si fonda naturalmente su
una base di azioni quotidiane (degli attori, del regista, dello
sceneggiatore e degli impiegati del teatro); ed in questo contestoquadro le promesse possono funzionare in un altro modo che
' sulla scena', cioè con obbligatorietà rilevante per le conseguenze dell'azione. Derrida non intraprende nessun tentativo di
' decostruire ' questo distinto modo di funzionare del linguaggio
quotidiano nell'agire comunicativo. Austin ha scoperto nella forza
vincolante illocutiva delle espressioni-esternazioni linguistiche un
meccanismo del coordinamento dell'azione, che assoggetta il discorso normale, inserito nella prassi quotidiana, a limitazioni
diverse da quelle del discorso fittizio, della simulazione e del
monologo interiore. Le limitazioni in base alle quali atti illocutivi dispiegano una forza coordinatrice delle azioni e provocano
conseguenze rilevanti per l'azione, definiscono l'ambito del linguaggio ' normale '. Si possono analizzare come quelle supposizioni idealizzanti, di cui dobbiamo servirei nell'agire comunicativo.
b) A tali idealizzazioni si riferisce il secondo argomento, che
Culler adduce, con Derrida, contro Austin e Searle. Ogni analisi
generalizzante di azioni linguistiche deve poter specificare condizioni contestuali generali per la riuscita illocutiva di azioni linguistiche standardizzate. Questo compito se lo è assunto in particolare Searle 55 • Ora però le espressioni linguistiche modificano
il loro significato in dipendenza da contesti mutevoli; inoltre i
contesti sono cosiffatti, che restano aperti a specificazioni sempre più estese. Una fra le peculiarità del nostro linguaggio è che
noi possiamo togliere espressioni dai loro contesti originari e
trapiantarle in altri contesti (Derrida parla di 'innestare '). In
tal maniera noi possiamo aggiungere mentalmente ad un atto
55 J. Searle, Speech Acts, Cambridge 1969 (tr. it., Atti linguistici, Torino
1976). Dello stesso autore, Expression and Meaning, Cambridge 1979.
199
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linguistico come ' promessa di matrimonio ' contesti sempre nuovi
e sempre più improbabili; la specificazione di condizioni contestuali generali non urta contro alcun limite naturale:
Si supponga che i requisiti per una cerimonia matrimoniale
siano soddisfatti, ma che uno dei contraenti sia sotto ipnosi, o che
la cerimonia sia impeccabile sotto tutti i rispetti ma sia stata definita come una 'prova', o infine che mentre il parlante sia un
ministro abilitato a celebrare matrimoni e la coppia abbia ottenuto una licenza, che tre di essi in tale occasione stessero recitando in una commedia, che per caso includeva una cerimonia
matrimoniale 56,
Questa variazione contestuale che modifica il significato non
può per principio essere messa a tacere o controllata, perché
i contesti non possono essere esauriti, cioè padroneggiati teoreticamente una volta per tutte. Culler mostra in modo lampante
che Austin non può sfuggire a questa difficoltà nemmeno ricorrendo alle intenzioni del parlante e dell'uditore. Non i pensieri
della sposa, dello sposo o del prete decidono sulla validità della
cerimonia, bensì le loro azioni, e le circostanze nelle quali esse
vengono eseguite: « Ciò che conta è la plausibilità della descrizione: se le caratteristiche del contesto addotto creano o no un
quadro che altera la forza illocutiva delle espressioni» 07 •
Searle ha reagito a questa difficoltà precisando che il significato letterale di una proposizione non fissa completamente le
condizioni di validità dell'atto linguistico nel quale essa viene
usata, bensì dipende dal tacito completamento da parte di un
sistema di assunzioni di sfondo sulla normalità di stati generali
del mondo. Queste certezze di sfondo preriflessive sono di natura
olistica: non possono essere esaurite da una quantità numericamente finita di specificazioni. Anche significati proposizionali
bene analizzati hanno perciò valore solamente in relazione ad
un sapere di sfondo condiviso, che è costitutivo per il mondo
della vita di una comunità linguistica. Searle chiarisce però che
con questo relazionamento non si introduce affatto il relativismo
significativo cui Derrida vuole arrivare. Fin tanto che i giochi
linguistici funzionano e la precomprensione costitutiva del mondo della vita non crolla, i soggetti coinvolti contano a ragione
sugli stati del mondo che nella loro comunità linguistica vengono
supposti ' normali '. E per il caso che singole convinzioni di
56
57
T. Culler, On Deconstruction, cit., pp. 121 sg.
I vi, p. 123.
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fondo divengano problematiche, essi partono inoltre da ciò, che
per principio possano giungere ad un accordo razionalmente
motivato. Entrambe sono supposizioni forti, cioè idealizzanti;
ma queste idealizzazioni n,on sono atti arbitrari logocentrici, che
il teorico accosta a contesti indomabili per dominarli secondo
l'apparenza, bensì presupposizioni di cui gli stessi soggetti coinvolti devono fare uso, se l'agire comunicativo in genere deve
essere possibile.
c) Ci si può render chiaro il ruolo delle supposizioni idealizzanti anche in base ad altre conseguenze dello stesso stato di
cose. Siccome i contesti sono mutevoli e si possono estendere in
qualsiasi direzione, lo stesso testo può aprirsi a differenti tipi
di lettura; è il testo stesso, che rende possibile la sua incontrollabile storia effettuale. Da questa rispettabile veduta ermeneutica
non segue però l'enunciato intenzionalmente paradossale di Derrida, che ogni interpretazione è inevitabilmente un'interpretazione erronea, ogni comprendere un fraintendere. J. Culler giustifica così la proposizione « Ogni lettura è una cattiva lettura»:
un testo, se può essere inteso, può per principio essere inteso
ripetutamente, da differenti lettori in differenti circostanze. Questi
atti di lettura e di comprensione non sono, naturalmente, identici.
Essi implicano modificazioni e differenze, ma differenze che si
ritengono prive d'importanza. Possiamo quindi affermare che l'intendimento è un caso speciale del fraintendimento, una particolare
deviazione o determinazione del fraintendimento. È un fraintendimento i cui insuccessi non hanno importanza 58 •
Culler però non tiene conto di una circostanza. La produttività del processo di comprensione rimane aproblematica solamente fin tanto che tutti gli interessi tengono fermo al punto
di riferimento, di un'intesa effettiva possibile, nella quale essi
attribuiscono alle stesse espressioni lo stesso significato. Anche
lo sforzo ermeneutico che vuole superare le distanze temporali
e culturali, rimane, come ha mostrato Gadamer, orientato verso
l'idea di un accordo possibile, effettivamente prodotto.
In base all'urgenza decisionale della prassi comunicativa quotidiana i soggetti partecipanti dipendono da un accordo che coordina le azioni. Quanto più le interpretazioni si allontanano da
questo' caso d'emergenza', tanto più possono effettivamente liberarsi dalla supposizione idealizzante di un consenso raggiungibile. Ma esse non possono mai sciogliersi del tutto dall'idea che
ss lvi, p. 176.
201
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le interpretazioni errate debbano per principio poter essere criticate in base ad un accordo da raggiungere idealmente. Questa
idea non avvicina l'interprete al suo oggetto; egli piuttosto la
riprende, con l'atteggiamento performativo di un osservatore partecipante, dagli immediati interessati, che possono agire comunicativamente soltanto in base al presupposto di attribuzioni di
significato intersoggettivamente identiche. Contro la tesi di Derrida non vorrei quindi mettere in campo un positivismo wittgensteiniano dei giochi linguistici. Non la prassi linguistica messa
in gioco di volta in volta decide sul significato che spetta appunto a un testo o a un'espressione 59 • Piuttosto, i giochi linguistici funzionano soltanto perché prevedono idealizzazioni inglobanti giochi linguistici, che - come condizione necessaria di
possibile intesa - fanno sorgere la prospettiva di un accordo
criticabile in base a pretese di validità. Un linguaggio che opera
in base a queste limitazioni è sottoposto ad una prova di durata.
La prassi comunicativa quotidiana, nella quale gli attori si devono intendere su qualcosa nel mondo, sottostà alla coazione
dimostrativa, in cui soltanto supposizioni idealizzanti rendono
possibile una tale dimostrazione. E in base a questa coazione
dimostrativa della prassi quotidiana si possono distinguere, con
Austin e Searle, l'uso linguistico ' comune ' da quello ' parassitario '.
III
Finora ho criticato la terza e fondamentale assunzione di Derrida, solo nella misura in cui (contro la ricostruzione degli argomenti di Derrida fatta da Culler) ho difeso la possibilità di
distinguere il linguaggio normale da forme derivate. Non ho
ancora mostrato come si possa distinguere il discorso fittizio dall'uso linguistico normale, cioè quotidiano. Per Derrida questo
aspetto è il più importante. Se ' letteratura ' e ' scrivere ' costituiscono il modello per un contesto testuale universale, includibile, nel quale in definitiva tutte le differenze specifiche si
dissolvono, allora esse non possono isolarsi dagli altri discorsi,
come un regno autonomo della finzione. Per i critici letterari
degli Stati Uniti che sono seguaci di Derrida la tesi dell'autonomia dell'opera d'arte linguistica, come si è detto, è inaccettabile anche perché essi vorrebbero prendere le distanze dal for59
lvi, pp. 130 sg.
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malismo del New Criticism e dell'estetica strutturalistica.
In origine gli strutturalisti di Praga avevano tentato di distinguere il linguaggio poetico da quello comune in base al rapporto con la realtà extralinguistica. Nella misura in cui compare
in funzioni comunicative, il linguaggio deve istituire relazioni
fra l'espressione linguistica da un lato, e parlante, uditore nonché stato di cose dall'altro; nel suo schema semiotico Bi.ihler
lo aveva concepito come le funzioni segniche di espressione,
appello e rappresentazione 60 • Ma nella misura in cui il linguaggio adempie ad una funzione poetica, esso la realizza nel rapporto riflessivo dell'espressione linguistica con se stessa. Di conseguenza il riferimento all'oggetto, il contenuto informativo e il
valore di verità e in genere le condizioni di validità, sono estranee al linguaggio poetico - un'espressione può essere poetica
nella misura in cui si rivolge verso lo stesso medium linguistico,
la sua propria forma linguistica. Roman Jakobson ha compreso
questa determinazione in uno schema di funzioni ampliato; egli
attribuisce a tutte le espressioni linguistiche (oltre alle funzioni ritenute da Bi.ihler fondamentali, e cioè l'espressione di
intenzioni del parlante, la produzione di relazioni interpersonali,
l'esposizione di stati di cose, e due funzioni ulteriori, riferite alla
presa di contatto e al codice) anche una funzione poetica, che
dirige « la disposizione al messaggio in quanto tale » 61 • La più
precisa connotazione della funzione poetica (secondo la quale il
principio dell'equivalenza viene trasferito dall'asse della selezione all'asse della combinazione) qui deve occuparci meno che
una conseguenza interessante, importante per il nostro problema
di delimitazione:
Ogni tentativo di ridurre la sfera della funzione poetica alla
poesia o di limitare la poesia alla funzione poetica sarebbe una semplificazione ingannatrice. La funzione poetica non rappresenta l'unica funzione dell'arte della parola, bensì soltanto una funzione predominante e determinante la struttura, mentre in tutte le altre attività linguistiche essa gioca un ruolo subordinato, accessorio. Dirigendo l'attenzione sulla percettibilità del segno, questa funzione
approfondisce la dicotomia fondamentale tra segni e oggetti. Per
questo motivo la linguistica, quando indaga la funzione poetica,
non può limitarsi soltanto all'ambito della poesia 62.
K. Biihler, Sprachtheorie (1934), Stuttgart 1965, pp. 24 sgg.
R. Jakobson, Linguistik und Poetik (1960), in Poetik, Frankfurt a. M.
1979, p, 92.
62 I vi, pp. 92 sg.
60
61
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Il discorso poetico deve dunque essere contraddistinto soltanto dal primato e dalla forza formatrice di strutture di una
determinata funzione, che viene sempre soddisfatta in comune
con altre funzioni linguistiche.
Ora Richard Ohmann utilizza l'impostazione di Austin per
specificare in questo senso il linguaggio poetico. Il fenomeno
che abbisogna di spiegazione è per lui il carattere d'invenzione
dell'opera d'arte linguistica, cioè, la produzione dell'apparenza
estetica, con cui sulla base della continuata prassi quotidiana si
apre una seconda arena, specificamente derealizzata. Ciò che
contraddistingue il linguaggio poetico ·è la capacità di ' produrre
il mondo ': « un'opera letteraria crea un mondo [ ... ], fornendo
al lettore atti linguistici ridotti e incompleti, che egli completa
procurando le circostanze appropriate » 63 • Quel tipico spossessamento degli atti linguistici che produce finzioni consiste nel
fatto che essi sono privati della loro forza illocutiva, e mantengono significati illocutivi ancora soltanto come nella metafonesi
di una riproduzione indiretta, di una citazione: « Un'opera letteraria è un discorso le cui frasi mancano della forza illocutiva che
normalmente sarebbe loro connessa. La sua forza illocutiva è mimetica [ ... ]. In particolare, un'opera letteraria imita intenzionalmente una serie di atti linguistici, che di fatto non hanno altra
esistenza. Così facendo, essa induce il lettore a immaginare un
parlante, una situazione, una serie di eventi subordinati, e così
via » 64 • La messa in parentesi della forza illocutiva virtualizza
quei riferimenti al mondo nei quali le azioni linguistiche sono
inserite grazie alla loro forza illocutiva, e libera i partecipanti
all'interazione dall'intendersi su qualcosa nel mondo in base
a supposizioni idealizzanti, in modo da poter coordinare i loro
piani d'azione e quindi contrarre obbligazioni rilevanti per
le conseguenze dell'azione: « Siccome gli atti quasi linguistici
della letteratura non svolgono l'attività del mondo - descrivendo, incitando, contrattando ecc. - il lettore può bene occuparsene in modo non-pragmatico » 65 • La neutralizzazione delle
forze vincolanti sgrava gli atti illocutivi invalidati dalla spinta
decisionale della prassi comunicativa quotidiana, li esclude dalla
sfera del discorso comune, e con ciò li autorizza alla creazione
Iudica di nuovi mondi - o piuttosto: alla pura dimostrazione
della capacità di dischiudere il mondo che hanno le espressioni
63 R. Ohmann, Speech-Acts and the Definition of Literature,
and Rhetoric >>, 4, 1971, p. 17.
64 lvi, p. 14.
65 lvi, p. 17.
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<<
Philosophy
linguistiche innovative .. Questa specializzazione del linguaggio
nella funzione dischiudente il mondo spiega la tipica riferibilità
del linguaggio poetico a se stesso, cui accenna Jakobson, e che
induce G. Hartmann a formulare la domanda retorica: « Il
linguaggio letterario non è forse il nome che noi diamo ad
un'espressione il cui quadro di riferimento è tale che le parole
risaltano come parole (perfino come suoni) piuttosto che essere,
immediatamente, significati assimilabili? » 66 •
Mary L. Pratt si riferisce alle ricerche di Ohmann 67 , per
confutare la tesi dell'autonomia dell'opera d'arte letteraria nel
senso di Derrida, servendosi della teoria degli atti linguistici.
Essa non considera la finzionalità, la messa in parentesi della
forza illocutiva e lo sganciamento del linguaggio poetico dalla
prassi comunicativa quotidiana, come criteri selettivi, perché elementi linguistici fittizi come il motto di spirito, l'ironia, le fantasie esprimenti desideri, i racconti e le parabole ricorrono continuamente nei nostri discorsi quotidiani e non costituiscono affatto un universo autonomo, distaccato dagli 'affari del mondo'.
All'inverso libri che trattano materie specifiche, memorie, ragguagli di viaggi, romanzi storici, anche romanzi a chiave o gialli,
che si interessano, come A sangue freddo di Truman Capote, di
un caso documentariamente attestato, non creano affatto un mondo chiaramente fittizio, benché noi spesso, e in ogni caso prevalentemente, consideriamo queste produzioni come ' letteratura '.
Mary L. Pratt utilizza i risultati delle ricerche sociolinguistiche di
W. Labov 68 , per provare che la narrativa naturale, cioè le ' storie ' raccontate nella quotidianità, spontaneamente o su richiesta,
obbediscono alle stesse leggi di costruzione retorica ed esibiscono caratteristiche strutturali analoghe a quelle dei racconti
letterari:
In base ai dati di Labov è necessario spiegare la retorica narrativa in termini che non sono esclusivamente letterari; il fatto che
le espressioni narrative od organizzate mimeticamente possono presentarsi in quasi ogni ambito del discorso extraletterario esige che
noi facciamo lo stesso per la narrativa e la mimesis. In altre
parole, la relazione fra la narratività di un'opera e la sua letterarietà è indiretta ff).
G. Hartmann, Saving the Text, Baltimore 1981, p. xxr.
Cfr. anche R. Ohmann, Speech, Literature and the Space between, in
<< New Literary History >>, n. 5, 1974, pp. 34 sgg.
68 W. Labov, Language in the Inner City, Philadelphia 1972.
69 M. L. Pratt, Speech Act Theory of Literary Discourse, Bloomington 1977;
ringrazio J. Culler per l'indicazione di questo interessante volume.
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Il discorso poetico deve dunque essere contraddistinto soltanto dal primato e dalla forza formatrice di strutture di una
determinata funzione, che viene sempre soddisfatta in comune
con altre funzioni linguistiche.
Ora Richard Ohmann utilizza l'impostazione di Austin per
specificare in questo senso il linguaggio poetico. Il fenomeno
che abbisogna di spiegazione è per lui il carattere d'invenzione
dell'opera d'arte linguistica, cioè, la produzione dell'apparenza
estetica, con cui sulla base della continuata prassi quotidiana si
apre una seconda arena, specificamente derealizzata. Ciò che
contraddistingue il linguaggio poetico ·è la capacità di ' produrre
il mondo': «un'opera letteraria crea un mondo [ ... ], fornendo
al lettore atti linguistici ridotti e incompleti, che egli completa
procurando le circostanze appropriate » 63 • Quel tipico spossessamento degli atti linguistici che produce finzioni consiste nel
fatto che essi sono privati della loro forza illocutiva, e mantengono significati illocutivi ancora soltanto come nella metafonesi
di una riproduzione indiretta, di una citazione: « Un'opera letteraria è un discorso le cui frasi mancano della forza illocutiva che
normalmente sarebbe loro connessa. La sua forza illocutiva è mimetica [ ... ]. In particolare, un'opera letteraria imita intenzionalmente una serie di atti linguistici, che di fatto non hanno altra
esistenza. Così facendo, essa induce il lettore a immaginare un
parlante, una situazione, una serie di eventi subordinati, e così
via » 64 • La messa in parentesi della forza illocutiva virtualizza
quei riferimenti al mondo nei quali le azioni linguistiche sono
inserite grazie alla loro forza illocutiva, e libera i partecipanti
all'interazione dall'intendersi su qualcosa nel mondo in base
a supposizioni idealizzanti, in modo da poter coordinare i loro
piani d'azione e quindi contrarre obbligazioni rilevanti per
le conseguenze dell'azione: « Siccome gli atti quasi linguistici
della letteratura non svolgono l'attività del mondo - descrivendo, incitando, contrattando ecc. - il lettore può bene occuparsene in modo non-pragmatico » 65 • La neutralizzazione delle
forze vincolanti sgrava gli atti illocutivi invalidati dalla spinta
decisionale della prassi comunicativa quotidiana, li esclude dalla
sfera del discorso comune, e con ciò li autorizza alla creazione
Iudica di nuovi mondi - o piuttosto: alla pura dimostrazione
della capacità di dischiudere il mondo che hanno le espressioni
63 R. Ohmann, Speech-Acts and the De{inition of Literature,
and Rhetoric >>, 4, 1971, p. 17.
64 lvi, p. 14.
65 lvi, p. 17.
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Philosophy
linguistiche innovative .. Questa specializzazione del linguaggio
nella funzione dischiudente il mondo spiega la tipica riferibilità
del linguaggio poetico a se stesso, cui accenna Jakobson, e che
induce G. Hartmann a formulare la domanda retorica: « Il
linguaggio letterario non è forse il nome che noi diamo ad
un'espressione il cui quadro di riferimento è tale che le parole
risaltano come parole (perfino come suoni) piuttosto che essere,
immediatamente, significati assimilabili? » (16.
Mary L. Pratt si riferisce alle ricerche di Ohmann 67 , per
confutare la tesi dell'autonomia dell'opera d'arte letteraria nel
senso di Derrida, servendosi della teoria degli atti linguistici.
Essa non considera la finzionalità, la messa in parentesi della
forza illocutiva e lo sganciamento del linguaggio poetico dalla
prassi comunicativa quotidiana, come criteri selettivi, perché elementi linguistici fittizi come il motto di spirito, l'ironia, le fantasie esprimenti desideri, i racconti e le parabole ricorrono continuamente nei nostri discorsi quotidiani e non costituiscono affatto un universo autonomo, distaccato dagli ' affari del mondo'.
All'inverso libri che trattano materie specifiche, memorie, ragguagli di viaggi, romanzi storici, anche romanzi a chiave o gialli,
che si interessano, come A sangue freddo di Truman Capote, di
un caso documentariamente attestato, non creano affatto un mondo chiaramente fittizio, benché noi spesso, e in ogni caso prevalentemente, consideriamo queste produzioni come 'letteratura'.
Mary L. Pratt utilizza i risultati delle ricerche sociolinguistiche di
W. Labov 68 , per provare che la narrativa naturale, cioè le ' storie ' raccontate nella quotidianità, spontaneamente o su richiesta,
obbediscono alle stesse leggi di costruzione retorica ed esibiscono caratteristiche strutturali analoghe a quelle dei racconti
letterari:
In base ai dati di Labov è necessario spiegare la retorica narrativa in termini che non sono esclusivamente letterari; il fatto che
le espressioni narrative od organizzate mimeticamente possono presentarsi in quasi ogni ambito del discorso extraletterario esige che
noi facciamo lo stesso per la narrativa e la mimesis. In altre
parole, la relazione fra la narratività di un'opera e la sua letterarietà è indiretta 69 •
G. Hartmann, Saving the Text, Baltimore 1981, p. xxr.
Cfr. anche R. Ohmann, Speech, Literature and the Space between, in
« New Literary History », n. 5, 1974, pp. 34 sgg.
68 W. Labov, Language in the Inner City, Philadelphia 1972.
69 M. L. Pratt, Speech Act Theory of Literary Discourse, Bloomington 1977;
ringrazio J. Culler per l'indicazione di questo interessante volume.
66
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Tuttavia la circostanza che il linguaggio normale è compenetrato di elementi fantastici, narrativi, metaforici e in genere
retorici, non dice ancora nulla contro il tentativo di spiegare
l'autonomia dell'opera d'arte linguistica con la messa in parentesi delle forze illocutive. Infatti la caratteristica della narratività
si adatta secondo Jakobson alla delimitazione fra letteratura e
discorsi quotidiani soltanto nella misura in cui la funzione dischiuditrice del mondo del linguaggio giunge a predominare
sulle sue altre funzioni, e determina la struttura della configurazione linguistica. Sotto un certo aspetto è la rottura e la soppressione parziale delle pretese illocutive di validità, che distingue
il racconto dalla testimonianza, le prese in giro dall'ingiuria,
l'ironia dall'inganno, l'ipotesi dall'affermazione, la fantasia desiderante dalla percezione, la manovra dall'azione bellica e la
sceneggiatura dal ragguaglio su una catastrofe effettiva. Ma in
nessuno di questi casi gli atti illocutivi perdono quella loro forza
connettiva che coordina l'azione. Anche nei casi addotti a confronto le funzioni comunicative dell'azione linguistica restano a
tal punto intatte, che gli elementi fittizi non si possono liberare
dai contesti pratico-vitali. La funzione linguistica del dischiudimento del mondo non acquista nessun'indipendenza rispetto alle
funzioni espressive, regolative, informative del linguàggio. Proprio questo può invece essere il caso nella elaborazione letteraria di un processo giudiziario ben noto ed accuratamente indagato da un Truman Capote. Ciò che fonda il primato e la capacità di formare strutture della funzione poetica, non è infatti la divergenza di una esposizione fittizia dalla riproduzione
documentaria di un processo, bensì l'elaborazione esemplare, che
estrae il caso dal suo contesto e ne fa l'occasione di un'esposizione innovativa, che dischiude il mondo e apre gli occhi, nella
quale i mezzi retorici dell'esposizione escono fuori dalle routines
comunicative e acquistano una vita propria.
È interessante vedere come Mary L. Pratt è costretta ad elaborare questa funzione poetica contro la sua volontà. Il suo controprogetto sociolinguistico incomincia con l'analisi della situazione
linguistica che il discorso poetico condivide con altri discorsi:
quel dispositivo nel quale un narratore o un conferenziere si
volge a un pubblico e richiede la sua attenzione per un testo. Il
testo, prima di essere pronto per la presentazione, sottostà a
determinate procedure di preparazione e di scelta. Affinché un
testo possa pretendere alla pazienza e al giudizio degli uditori,
deve infine soddisfare determinati criteri di rilevanza: deve esser
degno di essere raccontato. La narrabilità (tellability) deve ade206
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guarsi alla manifestazione di una esperienza importante, esemplare. Un testo raccontabile nel suo contenuto va oltre il contesto locale della situazione linguistica, è suscettibile di un'ulteriore elaborazione: « Come ci si potrebbe attendere, questi due
tratti distintivi - distaccabilità contestuale e suscettibilità all'elaborazione - sono caratteristiche egualmente importanti della
letteratura ». Tuttavia i testi letterari condividono queste proprietà ancora con ' display texts' in generale. Essi vengono caratterizzati riguardo alle loro speciali funzioni comunicative: « Essi
sono destinati a servire ad un proposito che io ho descritto come
quello del rappresentare verbalmente stati di cose ed esperienze
che si ritengono insoliti o problematici in modo tale che il destinatario risponderà affettivamente nel modo previsto, adotterà la
valutazione e l'interpretazione prevista, prenderà piacere nel farlo
e generalmente troverà che l'intera impresa lo vale» 70 • Si vede
come l'analista pragmatico del linguaggio si accosti per così
dire dall'esterno ai testi letterari. Questi devono indubbiamente
soddisfare un'ultima condizione: nel caso di testi letterari la
narrabilità deve ottenere una prevalenza su altre proprietà funzionali: «Alla fine, la raccontabilità può assumere la precedenza
sulla stessa asseribilità » 71 • Soltanto in questo caso le esigenze
funzionali e le limitazioni strutturali della prassi comunicativa
quotidiana (che Mary L. Pratt determina servendosi dei postulati della conversazione di Grice) cessano di aver vigore. Che
ciascuno si sforzi di dare una forma informativa al suo contributo, di dire cose rilevanti, di essere sincero e di astenersi da
esternazioni oscure, ambigue e prolisse, sono presupposti idealizzanti dell'agire comunicativo linguistico normale, ma appunto
non del discorso poetico: « La nostra tolleranza, o meglio propensione, per l'elaborazione quando tratta il raccontabile suggerisce che, in termini griciani, i criteri della quantità, qualità
e maniera per esibire testi differiscono da quelli che Grice suggerisce per il discorso dichiarativo nelle sue massime ».
Alla fine l'analisi sfocia in una conferma della tesi che essa
vorrebbe contestare. Nella misura in cui la funzione poetica,
dischiudente il mondo del linguaggio acquista priorità e forza
strutturante, il linguaggio si svincola cioè dalle limitazioni
strutturali e funzioni comunicative della quotidianità. Lo spazio
della finzione, che si apre con il divenir riflessivo delle forme
espressive linguistiche, deriva dalla neutralizzazione delle forze
70
71
lvi, p. 148.
lvi, p. 147.
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vincolanti illocutive e di quelle idealizzazioni che rendono possibile un uso linguistico orientato verso l'intesa - e quindi una
coordinazione di piani d'azione che passa per il riconoscimento
intersoggettivo di pretesa di validità criticabili. Si può leggere la
controversia di Derrida con Austin anche come una negazione di
questo settore peculiarmente strutturato della prassi comunicativa quotidiana; le corrisponde la negazione di un regno autonomo della finzione,
IV
Siccome Derrida li nega entrambi, egli può analizzare qualsiasi discorso secondo il modello del linguaggio poetico e fare
come se il linguaggio in genere fosse determinato dall'uso linguistico poetico, specializzato nel dischiudere il mondo. Da questa
prospettiva il linguaggio come tale converge con la letteratura o
appunto con lo 'scrivere'. L'esteticizzazione del linguaggio, che
viene pagata al prezzo della duplice negazione della specificità
del discorso normale e di quello poetico, spiega anche l'insensibilità di Derrida di fronte alla polarità ricca di tensioni fra la
funzione poetica-dischiudente il mondo del linguaggio e le funzioni linguistiche prosaiche intramondane, di cui tiene conto uno
schema funzionale buhleriano modificato 72 •
Processi mediati linguisticamente come l'acquisizione del sapere e la tradizione culturale, la formazione di identità, la socializzazione e l'integrazione sociale risolvono problemi che si pongono nel mondo; al senso proprio di questi problemi ed al
medium linguistico adatto a tali problemi, essi debbono l'autonomia dei processi di apprendimento, che Derrida non può riconoscere. Per lui i processi mediati linguisticamente nel mondo
sono inseriti in un contesto formatore del mondo che tutto pregiudica; sono fatalisticamente rimessi all'incontrollabile accadere
della produzione di testi, sono sopraffatti dal mutamento poeticocreativo del retroscena allestito nello scritto originario, e condannati alla provincialità. Un contestualismo estetico rende Derrida cieco per la circostanza che la prassi comunicativa quotidiana grazie alle idealizzazioni inserite nell'agire comunicativo
rende possibili processi di apprendimento nel mondo, in base ai
quali deve comprovarsi per parte sua la forza dischiudente il
72 Cfr. J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a.
M. 1981, vol. l, pp. 374 sgg. (tr. it. cit., vol. l, pp. 383 sgg.).
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mondo del linguaggio interpretante. Questi processi dispiegano
un senso proprio che trascende tutti i limiti locali, perché le
esperienze e i giudizi si costituiscono soltanto alla luce di pretese di validità criticabili. Derrida trascura il potenziale di negazione della base di validità dell'agire orientato verso l'intesa;
dietro la capacità che il linguaggio ha di produrre il mondo,
egli fa scomparire la capacità di soluzione dei problemi che il
linguaggio possiede come quel medium, per il cui tramite gli
agenti comunicativi sono inseriti in riferimenti al mondo, quando
si intendono fra di loro su qualcosa nel mondo oggettivo, nel
loro comune mondo sociale o in un mondo soggettivo di volta
in volta privilegiatamente accessibile.
Un analogo livellamento lo intraprende Richard Rorty, che
senza dubbio si distingue da Derrida in quanto non rimane fissato idealisticamente alla storia della metafisica come un sovraccadere che determina tutto l'intramondano. Secondo Rorty la
scienza e la morale, l'economia e la politica sono nella stessa
maniera che l'arte e la filosofia affidate ad un processo di sporgenze creatrici del linguaggio. Il flusso delle interpretazioni
pulsa ritmicamente come la storia kuhniana della scienza fra
rivoluzioni linguistiche e normalizzazioni linguistiche. In tutti
gli ambiti della vita culturale Rorty osserva questo andirivieni
fra due situazioni:
La prima è quel tipo di situazione che si incontra quando ci
si accorda press'a poco su ciò che è desiderato, e parla sul modo
in cui meglio lo si può ottenere. In una tale situazione non vi è
bisogno di dire nulla di terribilmente fuori del comune, perché
l'argomento concerne tipicamente la verità di asserzioni piuttosto
che l'utilità dei vocabolari. La situazione opposta è una in: cui ogni
cosa è candidata ad essere colta immediatamente - in cui i motivi e i termini della discussione sono un soggetto centrale dell'argomento [ ... ] In tali periodi si incomincia a far circolare vecchie
parole in nuovi sensi, a introdurre il neologismo occasionale, e
così ad escogitare un nuovo idioma che inizialmente richiama
l'attenzione su di sé e soltanto più tardi viene messo in opera 73.
Come si vede, il pathos nietzschiano di una filosofia della
vita tradotta in termini linguistici annebbia le sobrie vedute del
pragmatismo: nell'immagine schizzata da Rorty, il processo rinnovatore del dischiudimento linguistico del mondo non ha più
73 R. Rorty, Deconstruction and Circumvention, manoscritto, 1983; cfr., dello stesso autore, Consequences of Pragmatism, Minneapolis 1982, in particolare
l'Introduzione ed i capp. 6, 7 e 9.
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nessun contrafforte nel processo che conferma la prassi intramondana. Il ' sì ' e il ' no ' degli attori che agiscono comunicativamente sono a tal punto prevenuti e soverchiati retoricamente dai
contesti linguistici, che le anomalie, le quali si presentano nelle
fasi di esaurimento, rappresentano ancora soltanto sintomi di
vitalità dileguante, come processi di invecchiamento, come svolgimenti analoghi alla natura, e non come la conseguenza di
soluzioni errate di problemi e di risposte non valide.
La prassi linguistica intramondana trae la sua forza di negazione da pretese di verità che mirano oltre l'orizzonte del contesto di volta in volta esistente. Ma la concezione linguistica
contestualistica carica di filosofia della vita è insensibile alla
forza fattuale del controfattuale, che si fa valere nelle presupposizioni idealizzanti dell'agire comunicativo. Perciò Derrida e
Rorty disconoscono anche il peculiare valore di posizione dei
discorsi, che si differenzia dalla comunicazione quotidiana e si
indirizza verso una sola dimensione di validità (verità, o giustezza normativa), verso un solo complesso problematico (questioni di verità o di giustizia). Intorno a queste forme argomentative si cristallizzano nelle società moderne le sfere della scienza, della morale e del diritto. I corrispondenti sistemi d'azione
culturali gestiscono capacità di soluzione di problemi in modo
analogo a quello in cui l'impresa artistica e letteraria gestisce
le capacità del dischiudimento del mondo. Derrida, sovrageneralizzando questa sola funzione linguistica, cioè appunto quella
' poetica ', non bada più al complesso rapporto fra una prassi
quotidiana del linguaggio normale e le due sfere extraquotidiane
differenziate per così dire in direzioni opposte. Mentre la tensione polare fra dischiudimento del mondo e soluzione di problemi resta contenuta nel fascio di funzioni del linguaggio quotidiano, l'arte e la letteratura da un lato, la scienza, la morale e il
diritto dall'altro si specializzano in esperienze e tipi di sapere,
che si possono formare ed elaborare di volta in volta nell'ambito d'incameramento di una sola funzione linguistica e di una
sola dimensione di validità. Derrida appiattisce in senso olistico
queste complicate relazioni, per equiparare la filosofia alla letteratura e alla critica. Egli disconosce lo status speciale che tanto
la filosofia quanto la critica letteraria assumono, ciascuna a suo
modo. come mediatrici fra le culture degli esperti e il mondo
quotidiano.
La critica letteraria formatasi in Europa come istituzione fin
dal XVIII secolo partecipa da un lato alla differenziazione dell'arte. Essa reagisce all'autonomizzazione dell'opera d'arte lin210
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guistica con un discorso che si specializza in questioni di gusto,
e nel quale vengono esaminate le pretese con cui si presentano i
testi letterari; le pretese alla ' verità artistica ', alla pertinenza
estetica, alla validità esemplare, alla forza innovativa ed all'autenticità vi vengono sottoposte ad una verifica. Sotto questo aspetto
la critica estetica imita le forme dell'argomentazione specializzate nella verità proposizionale e nella giustezza normativa, cioè
il discorso teoretico e il discorso pratico. Tuttavia essa è non soltanto elemento esoterico di una cultura di esperti, ma ha inoltre
il compito di mediare fra cultura di esperti e mondo quotidiano.
Questa funzione-ponte della critica d'arte risulta ancor più
chiaramente nei riguardi della musica e dell'arte figurativa che
in quelli delle opere letterarie, le quali sono già formulate nel
medium del linguaggio, anche se di un linguaggio che si riferisce
poeticamente a se stesso. Sotto questo secondo, essoterico aspetto,
la critica compie un lavoro di traduzione sui generis. Essa presenta nel linguaggio normale il contenuto d'esperienza dell'opera
d'arte; soltanto per questa via maieutica il potenziale innovativo
dell'arte e della letteratura può venir messo a disposizione di
forme di vita e storie di vita che si riproducono tramite l'agire
comunicativo quotidiano. Ciò si ripercuote poi sulla mutata composizione del vocabolario valutativo, su un rinnovamento degli
orientamenti valoristici e delle interpretazioni dei bisogni, che
tramite i modi della percezione modifica la colorazione dei modi
di vita.
Una posizione a due livelli analoga a quella della critica
letteraria l'assume anche la filosofia - in ogni caso la filosofia
moderna, che non promette più di soddisfare le pretese della
religione in nome della teoria. Essa rivolge il suo interesse da
un lato verso i fondamenti della scienza, della morale e del
diritto, e collega pretese teoretiche con i loro enunciati. In
quanto si distingue per le sue problematiche universalistiche e
le sue forti strategie teoretiche, essa mantiene un intimo rapporto con le scienze. Eppure la filosofia non è soltanto un elemento esoterico di una cultura di esperti. Essa intrattiene un
rapporto altrettanto intimo con la totalità del mondo della vita
e col sano intelletto umano, anche se scuote in modo apertamente sovversivo le certezze della prassi quotidiana. Di fronte
ai sistemi del sapere differenziati secondo singole dimensioni di
validità, il pensiero filosofico rappresenta l'interesse del mondo
della vita per la totalità delle funzioni e delle strutture che nell'agire comunicativo sono intrecciate e connesse. Tuttavia esso
mantiene in piedi questo riferimento alla totalità con una rifles211
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sività, che manca allo sfondo solo intuitivamente presente del
mondo della vita.
Se si pone mente a questa posizione della critica e della
filosofia, qui soltanto schizzata, da un lato verso la quotidianità,
dall'altro verso le culture particolari dell'arte e letteratura, della
scienza e della morale, risulta chiaro che cosa significhi il livellamento della differenza specifica tra filosofia e letteratura, e
l'equiparazione della filosofia alla letteratura e viceversa affermata con le tesi (2) e (2'). Essa scompiglia le costellazioni nelle
quali gli elementi retorici del linguaggio assumono ruoli del
tutto differenti.· In forma pura l'elemento retorico si presenta soltanto nel riferirsi dell'espressione poetica a se stessa, cioè nel
linguaggio della finzione, specializzato nel dischiudimento del
mondo. Anche il linguaggio normale della quotidianità è inestirpabilmente retorico; ma nell'intreccio di svariate funzioni linguistiche gli elementi retorici passano qui in secondo piano. Negli
usi abitudinari della prassi quotidiana il quadro linguistico che
costituisce il mondo è quasi irrigidito. Lo stesso si può dire dei
linguaggi speciali della scienza e della tecnica, del diritto e della
morale, dell'economia, della politica ecc. Anch'essi vivono della
forza illuminante di locuzioni metaforiche, ma gli elementi retorici per nulla mitigati sono per così dire domati e messi a servizio di scopi speciali della soluzione di problemi.
L'elemento retorico svolge un altro e più importante ruolo
nel linguaggio della critica letteraria e della filosofia, che si trovano di fronte ad un compito altrettanto paradossale. Esse devono ricondurre i contenuti delle culture di esperti, nelle quali
il sapere viene accumulato di volta in volta sotto singoli aspetti
di validità, ad una prassi quotidiana in cui tutte le funzioni linguistiche e tutti gli aspetti di validità si intrecciano ancora fra
loro e costituiscono una sindrome. Questo compito di mediazione
la critica letteraria e la filosofia devono tuttavia attuarlo con
mezzi espressivi, che sono ripresi da linguaggi specializzati in
questioni di gusto e di verità. Questo paradosso esse possono
risolverlo solamente in quanto ampliano e arricchiscono retoricamente i loro linguaggi speciali nella misura in cui è necessario
per collegare programmaticamente comunicazioni indirette con
manifesti contenuti di asserzioni. Ciò spiega il forte tratto retorico, che contraddistingue in egual misura le ricerche dei critici
letterari e dei filosofi. Critici eminenti e grandi filosofi sono anche
scrittori di rango. Nelle loro prestazioni retoriche la critica letteraria e la filosofia sono strettamente unite alla letteratura - e
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perciò anche fra di loro. Ma in c10 si esaurisce la loro affinità.
Infatti nei due tipi di iniziative i mezzi retorici sono sottoposti
alla disciplina di diverse forme di argomentazione.
Il pensiero filosofico, quando, conformemente alle raccomandazioni di Derrida, viene esonerato dal dovere di risolvere problemi, e rifunzionalizzato come critica letteraria, è privato non
soltanto della sua serietà, bensì anche della sua produttività e
capacità di prestazione. All'inverso anche il giudizio critico letterario perde la sua potenza, quando, come vorrebbero i seguaci
di Derrida nei literary departments, viene convertito dall'appropriazione di contenuti estetici d'esperienza a critica della metafisica. La falsa assimilazione dell'una attività all'altra priva entrambe della loro sostanza. Con ciò ritorniamo alla nostra questione iniziale. Chi trasferisce la critica radicale della ragione
nell'ambito della retorica, per disinnescare il paradosso della sua
autoreferenzialità, ottunde la lama della stessa critica della ragione. La falsa pretensione di sopprimere la differenza specifica fra
filosofia e letteratura non può condurci fuori dall'aporia 74 •
74 La nostra riflessione ci ha comunque condotto ad un punto, dal quale
si può vedere come Heidegger, Adorno e Derrida siano in genere incappati in
questa àporia. Essi tutti si difendono ancora come se vivessero, al pari della
prima generazione degli scolari di Hegel, all'ombra dell' ' ultimo ' filosofo; essi
lottano ancora contro quei concetti ' forti ' di teoria, verità e sistema, che pure
già da più che centocinquant'anni appartengono al passato. Essi credono ancora
di dover ridestare la filosofia da ciò che Derrida chiama il << sogno del suo
cuore >>, ritengono di dover strappare la filosofia dall'illusione di formulare una
teoria che detiene l'ultima parola. Un tale sistema di enunciati comprensivo,
chiuso e definitivo dovrebbe essere formulato in un linguaggio, che chiarisce
se stesso, non richiede o non ammette alcun ulteriore commentario, e con ciò
mette a tacere la storia degli effetti, in cui le interpretazioni ·si accumulano all'infinito sulle interpretazioni. In questo contesto Rorty parla dell'esigenza di un
linguaggio, << che non può ricevere alcuna glossa, non richiede alcuna interpretazione, non può essere tenuto a distanza, non può essere dileggiato da generazioni posteriori. È la speranza in un vocabolario che non è soltanto il vocabolario più comprensivo e fecondo che finora abbiamo raggiunto, ma è intrinsecamente e auto-evidentemente finale>> (R. Rorty, op. cit., pp. 93 sg.).
Se la ragione dovesse attenersi, sotto pena del suo tramonto, a questi fini
classici della metafisica, seguiti da Parmenide fino ad Hegel; se la ragione come
tale, ancora secondo Hegel, stesse dinanzi all'alternativa di insistere sui concetti
forti di teoria, verità e sistema, quali erano soliti nella grande tradizione, oppure invece di abbandonare se stessa, allora effettivamente una adeguata critica della ragione dovrebbe attaccare così profondamente le radici, che non
potrebbe più sfuggire al paradosso dell'autoreferenzialità. Così se l'è rappresentata Nietzsche. E sfortunatamente anche Heidegger, Adorno e Derrida sembrano
ancora scambiare le problematiche universalistiche mantenute nella filosofia con
quelle pretese di status da lungo abbandonate, che la filosofia ha una volta reclamato per le sue risposte. Ma oggi è evidente che la portata delle questioni
universalistiche - ad esempio della questione circa le condizioni necessarie
della razionalità di asserzioni, circa i presupposti pragmatici universali dell'agire
comunicativo e dell'argomentazione, deve bensì rispecchiarsi nella forma grammaticale di enunciati universali, ma non nell'incondizionatezza della validità o
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della 'fondazione ultima', che veniva pretesa per lei e per il suo quadro teoretico. La coscienza fallibilistica delle scienze ha da lungo tempo raggiunto anche la filosofia.
Con tale fallibilismo noi, filosofi e soprattutto non-filosofi, non rinunciamo
affatto alle pretese di verità. Queste si possono elevare nell'atteggiamento performativo della prima persona proprio non altrimenti che nel modo in cui come pretese - trascendono spazio e tempo. Ma noi sappiamo anche, che non
vi è nessun contesto zero per pretese di verità. Queste vengono elevate qui ed
ora e sono esposte alla critica. Perciò noi contiamo sulla banale possibilità, che
esse vengano rivedute domani o in altro luogo. La filosofia si intende come prima quale custode della razionalità nel senso di una pretesa razionale endogena
alla nostra forma di vita. Ma nel lavoro essa privilegia una combinazione di
enunciati forti con deboli pretese di status, che è tanto poco totalitaria, che
contro di essa non si deve fare appello ad una critica totalizzante della ragione.
Cfr. in merito J. Habermas, Die Philosophie als Platzhalter und Interpret, in
Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Frankfurt a. M. 1983, pp. 7
sgg. (tr. it., La funzione vicaria e interpretativa della filosofia, in Etica del Discorso, Roma-Bari 1985, pp. 5 sgg.).
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8.
FRA EROTISMO ED ECONOMIA GENERALE:
BATAILLE
I
Dopo la morte di Bataille nel 1962 Michel Leiris, che da molti
anni era suo compagno di viaggio, presentò l'amico con queste
parole:
Dopo che era stato l'Impossibile, affascinato da tutto ciò che
poteva scoprire di realmente inaccettabile [ ... ], ampliò il suo orizzonte (conformemente alla sua vecchia idea, di superare il 'no'
del bambino scalpitante di rabbia), e nella consapevolezza che
l'uomo è realmente uomo solo quando cerca in questa smisuratezza la sua propria misura, divenne l'uomo dell'impossibile, bramoso di raggiungere quel punto in cui nell'ebbrezza dionisiaca il
sopra e il sotto si confondono l'uno nell'altro, e dove la distanza fra
il tutto e il nulla si sopprime 1•
L'attributo positivo 'impossibile' si riferisce evidentemente
all'autore dell' ' opera oscena ', che prosegue la letteratura nera
del marchese de Sade, ma anche al filosofo e allo scienziato,
che tenta di addossarsi l'impossibile eredità del Nietzsche critico dell'ideologia.
Bataille lesse Nietzsche relativamente presto (1923), un anno
prima che Leiris lo introducesse nel circolo intorno ad André
Masson e lo facesse conoscere ai principali surrealisti. E certo
Bataille conferisce al discorso filosofico della modernità una direzione analoga a quella di Heidegger; ma per il suo commiato
dalla modernità, sceglie una via del tutto diversa. Il suo concetto del ' sacro ', Bataille lo sviluppa da una critica del cristianesimo su basi antropologiche, che costituisce una controparte
l
M. Leiris, Hommage à Georges Batai/le, in<< Critique »,nn. 195-196, 1963,
p. 693.
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alla Genealogia della morale di Nietzsche; in una critica immanente della metafisica, non si addentra. Già un primo sguardo
alla doppia vita dell'archivista alla Bibliotéque Nationale e del
bohémien scrittore nel cuore della scena intellettuale parigina
rivela che Bataille e il professore di Marburg vivono su astri
differenti. Ciò che li separa sono soprattutto due esperienze
centrali: l'esperienza estetica nell'ambito del surrealismo e quella
politica nella pratica del radicalismo di sinistra.
Alla fine degli anni Venti, il gruppo intorno alla rivista « La
révolution surrealiste » si sfalda. Nel suo Secondo manifesto surrealista, Breton eleva gravi accuse contro i rinnegati, che rispondono con un pesante contrattacco. D'ora innanzi l'« Associadon » di Breton e il « Cercle Communiste Démocratique » di
Bataille si combattono. Contemporaneamente, Bataille, insieme
a Michel Leiris e Carl Einstein, fonda la celebre rivista « Documents », nella quale vengono pubblicati importanti studi del
direttore. Bataille vi sviluppa dapprima il concetto di ' eterogeneo '; così chiama tutti quegli elementi che si ribellano all'assimilazione a forme di vita borghese ed alle routines della quotidianità, non meno di quanto si sottraggano alla presa metodica delle scienze. In questo concetto Bataille condensa l'esperienza fondamentale dello scrittore e degli artisti surrealisti, che
mira a mobilitare, in modo da suscitare scandalo, le forze estatiche dell'ebbrezza, della vita onirica, dell'impulsivo in genere,
contro gli imperativi dell'utile, della normalità e della sobrietà,
per scuotere i modi convenzionali della percezione e dell'esperienza vissuta. Il regno dell'eterogeneo si apre soltanto in quei
momenti esplosivi dello spavento affascinato, quando crollano
le categorie che garantiscono la familiarità del soggetto con se
stesso e con il mondo. Ma Bataille ha fin da principio applicato
il concetto di eterogeneo anche a gruppi sociali, agli esclusi o
marginalizzati, al contromondo, familiare a partire da Baudelaire, di quegli elementi che vengono estromessi dalla normalità
sociale - siano essi i paria e gli intoccabili, le prostitute o i
sottoproletari, i pazzi, i ribelli e rivoluzionari, i poeti o la
bohème. Così quel concetto ispirato esteticamente diviene anche
lo strumento dell'analisi del fascismo italiano e tedesco: Bataille
attribuisce ai capi fascisti una esistenza eterogenea.
Gli opposti orientamenti biografici, le contrastanti opzioni
politiche e le palesi differenze tra l'attività di scrittore erotico
e di saggista scientifico dell'uno, e la ricerca filosofica e la mistica dell'essere dell'altro - questi contrasti rendono difficile
scorgere a prima vista il progetto comune che collega Bataille
con Heidegger. All'uno come all'altro importa di evadere dalla
216
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png10nia della modernità, dall'universo chiuso della ragione
occidentale vittoriosa su scala cosmico-storica. Entrambi vogliono
superare il soggettivismo che avvolge il mondo con la sua potenza reificante e lo irrigidisce a totalità di oggetti tecnicamente
disponibili ed economicamente utilizzabili. I due pensatori concordano a tal punto in questo progetto, che quanto Foucault
dice sull'idea di Bataille dell'oltrepassamento dei limiti, potrebbe
altrettanto bene venir detto sul concetto di trascendenza nel
tardo Heidegger: « Il gioco di limite e oltrepassamento è oggi
certamente la essenziale pietra di paragone di un pensiero dell'' origine', al quale ci ha consegnato Nietzsche fin dal principio della sua opera - un pensiero, che è al contempo critica
ed antologia, un pensiero, che pensa la finitezza e l'essere» 2 •
Nella frase che poi segue il nome di Bataille si potrebbe sostituire senza dare nell'occhio col nome di Heidegger: «A tutti
coloro ai quali importa mantenere l'unità della funzione grammaticale del 'filosofo ' [ ... ] si potrebbe contrapporre l'impresa
esemplare di Bataille, che ha continuamente e accanitamente
lavorato per infrangere in sé la sovranità del soggetto filosofico.
Perciò il suo linguaggio e la sua esperienza furono un martirio:
una ponderata quadripartizione di ciò che parla nel linguaggio
filosofico; una disseminazione di stelle, che splendono a mezzanotte e vi fanno nascere parole inaudibili » 3 •
Tuttavia risultano differenze sintomatiche dal fatto che Bataille non attacca la ragione in base ai fondamenti della razionalizzazione cognitiva, ai presupposti antologici della scienza e
della tecnica oggettivanti; Bataille si concentra piuttosto sui fondamenti di una razionalizzazione etica, che secondo Weber ha
reso possibile il sistema economico capitalistico e quindi ha
assoggettato la vita sociale in complesso agli imperativi del
lavoro estraniato e del processo di accumulazione. Bataille non
fissa il principio della modernità in un'autocoscienza autoritariamente gonfiata, smisuratamente autonoma, bensì nell'orientamento verso il successo di un agire che ottimizza l'utile, e che
serve a realizzare scopi sempre soggettivi. B vero che Heidegger e Bataille hanno in mente le stesse tendenze, nelle quali il
pensiero oggettivante e l'agire razionale in vista del fine dispiegano la loro potenza storica; ma la critica che deve cogliere il
male alle radici, prende nei due casi direzioni diverse. Heidegger, criticando la metafisica, pratica una galleria nel terreno con2
M. Foucault, Préface à la transgression, in
<<
Critique >>, nn. 195·196, 1963,
p, 757.
3
lvi, p. 761.
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gelato della soggettività trascendentale, per scoprire all'altro
termine i veri fondamenti di un'origine temporalmente fluidificata; per contro, al Bataille critico della morale non importano
i fondamenti ancora una volta approfonditi della soggettività,
bensì l'abolizione dei loro confini, - la forma di alienazione
che il soggetto in sé monadicamente incapsulato riconduce nuovamente nell'intimità di un contesto di vita divenuto estraneo,
ausgegrenzt, tagliato fuori e lacerato con violenza. Per Bataille,
con questa idea dell'abolizione dei confini, si apre una prospettiva del tutto diversa che per Heidegger: la soggettività che
oltrepassa se stessa non viene detronizzata e deposta a favore
di una superfondamentalistica ventura dell'essere, bensì ridarà
alla spontaneità i suoi impulsi proscritti. L'apertura all'ambito
sacrale non significa assoggettamento all'autorità di un destino
indeterminato, e solo accennato nella sua aura; l'oltrepassamento
dei confini verso il sacrale non significa la remissiva rinuncia
a se stessa della soggettività, bensì la sua liberazione verso la
vera sovranità.
Che non l'essere, bensì la sovranità abbia l'ultima parola, non
è un caso - vi si mostra piuttosto una vicinanza, impensabile
per Heidegger, al concetto esteticamente ispirato che Nietzsche
aveva della libertà e dell'autoaffermazione superumana. Per Bataille come per Nietzsche sussiste appunto una convergenza fra
la volontà di potenza che accresce e riempie di senso se stessa
e la fatalità cosmicamente radicata dell'eterno ritorno dell'identico. Con Nietzsche, Bataille è connesso da un fondamentale
tratto anarchico; siccome questo pensiero è rivolto contro ogni
autorità, anche contro il sacro come autorità, la dottrina della
morte di Dio è intesa in senso rigorosamente ateistico. In Heidegger, che ripete questa tesi in tono raffinato, essa perde invece
ogni radicalità. Certo, Dio come un che di ontico viene negato,
ma l'evento della rivelazione antologicamente sistemato orbita
eloquentemente intorno al luogo grammaticale che la distrutta
proiezione di Dio ha lasciato libero - come se ci mancasse
per il momento soltanto il linguaggio, per nominare quello il
cui nome è impronunciabile. Così la domanda di Foucault: «Che
cosa significa uccidere Dio, se egli non esiste, uccidere Dio, che
non esiste? » 4 colpisce soltanto Bataille, non Heidegger. Foucault riconosce che Bataille deve ricercare l'eccesso della soggettività che oltrepassa se stessa nell'ambito di esperienza dell'erotico, perché egli pensa il sacro in modo rigorosamente ateistico. Certo la profanazione del sacro è il modello della trasgres4
lvi, p. 753.
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sione, ma Bataille non si inganna su di ciò, che nella modernità
non vi è più nulla da profanare - e che non può essere compito della filosofia creare ad esso un surrogato di mistica dell'essere. Bataille stabilisce un'intima connessione fra l'orizzonte
dell'esperienza sessuale e la morte di Dio « non per conferire
a gesti assai antichi nuovi contenuti, bensì per rendere possibile
una profanazione senza oggetto, una profanazione vuota, rivolta verso se stessa, i cui strumenti si dirigono soltanto a se
stessi » 5 •
Intendo ora anzitutto mostrare quale significato ha per la
costruzione della modernità l'analisi del fascismo, che Bataille
intraprende nei concetti degli elementi omogenei ed eterogenei
della società. Bataille vede la modernità inserita in una storia
della ragione, in cui le forze della sovranità e del lavoro si contrastano a vicenda. La storia della ragione spazia dagli inizi
arcaici della società sacrale fino al mondo totalmente reificato
del potere economico sovietico, dal quale sono cancellate le
ultime tracce feudali della sovranità. Questa completa dissociazione degli elementi omogenei ed eterogenei apre però la prospettiva su una formazione sociale, che riconcili l'eguaglianza
sociale con la sovranità del singolo. La spiegazione antropologica che Bataille fornisce dell'eterogeneo come della parte esclusa
e proscritta rompe certamente con tutte le figure dialettiche del
pensiero. Si pone pertanto la domanda, come Bataille voglia
spiegare il trapasso rivoluzionario dalla società congelata, totalmente reificata, al rinnovamento della sovranità. Il progetto di
un'economia generale, ampliata al bilancio energetico della natura in complesso, si può intendere come risposta a tale domanda. Questa impresa si impiglia, però, nei paradossi di una
critica della ragione riferita a se stessa. Così Bataille oscilla, alla
fine, fra un incoerente ricollegamento al progetto hegeliano di
una dialettica dell'Illuminismo da un lato, e dall'altro una giustapposizione immediata di analisi scientifica e mistica linguistica.
II
La vittoria del movimento fascista in Italia e la presa del potere
del nazionalsocialismo nel Reich tedesco furono, ancor prima
di Auschwitz, il fenomeno dal quale sono provenute ondate non
soltanto di confusione, ma anche di eccitamento affascinante.
5 lvi, pp. 751-52.
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Non vi era nessuna teoria della sensibilità contemporanea, che
non fosse colpita fin nel più intimo dalla forza d'urto del
fascismo. Ciò vale soprattutto per teorie che alla fine degli anni
Venti o all'inizio degli anni Trenta si trovavano nel loro periodo
di formazione - per l'antologia fondamentale di Heidegger,
come abbiamo visto, non meno che per l'eterologia di Bataille
o la teoria critica di Horkheimer 6 • Nel novembre del 1933,
proprio quando Heidegger tiene il suo discorso elettorale per
il Filhrer, Bataille pubblica una ricerca su La struttura psicolcr
gica del fascismo. In contrasto con i tentativi di spiegazione
marxisti, egli rivolge la sua attenzione non alle cause economiche e socialstrutturali accessibili solo teoreticamente, bensì ai
f~nomeni, in particolare alle tangibili forme fenomeniche socialpsicologiche dei nuovi movimenti politici. Lo interessa soprattutto la dipendenza di masse mobilitate plebiscitariamente da
figure carismatiche di capi, soprattutto il lato spettacolare (richiamato alla memoria dal film di Fest su Hitler) del dominio
fascista - la venerazione cultuale del capo come persona sacrale, il rituale di massa inscenato artisticamente, anche ciò che
vi era di manifestamente violento, ipnotico, l'infrazione della
legalità, la stessa rinuncia all'apparenza della democrazia e della
fraternità: « La corrente affettiva che collega il Filhrer con i
suoi seguaci nella forma dell'identificazione morale [ ... ] è funzione di una coscienza comune di energie che si potenziano,
che crescono violentemente nello smisurato, che si accumulano
nella persona del Fiihrer e divengono per lui illimitatamente
disponibili » 7 •
Bataille era allora abbastanza marxista per non disconoscere
le condizioni oggettive di una crisi, di cui il fascismo era stato
soltanto il beneficiario. L'economia capitalistica e il suo apparato produttivo doveva « disgregarsi per via di contraddizioni
interne », prima che potesse immettersi nelle lacune funzionali
un tipo di violenza che non possedeva nessuna affinità con la
struttura della società esistente. Nel capitalismo industriale a
costituzione democratica era inserito il principio della libertà
elettorale, una libertà soggettiva della scelta tanto per gli imprenditori privati e i produttori quanto per i cittadini (isolati
dinanzi all'urna elettorale): « Il movimento e il trionfo finale
del nazionalsocialismo dipendono non da ultimo dal fatto che
6 Cfr. H. Dubiel, Wissenschajtsorganisation und politische Erfahrung, Frank·
furt a. M. 1978; dello stesso autore: Die Aktualitiit der Gesellschaftstheorie
Adornos, in L. v. Friedeburg, J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz, Frankfurt a. M. 1983, pp. 293 sgg,
7 G. Bataille, CEuvres complètes, Paris 1970, vol. I, p. 348.
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alcuni capitalisti tedeschi giunsero alla coscienza di quanto potesse divenire pericoloso per loro questo principio della libertà
individuale in una crisi» 8 • Indubbiamente la richiesta funzionale di un'abolizione totalitaria di questo principio, presa per
sé, restava 'un vuoto desiderio'; le risorse di cui si nutre il
fascismo non si possono spiegare funzionalisticamente - cioè
la « ricchezza inesauribile delle forme della vita affettiva ». Il
fatto che queste forze che il Fiihrerstaat prende in appalto, derivino evidentem~::nte da. un settore eterogeneo alla società esistente, offre a Bataille la spinta per indagare questo elemento
eterogeneo. Dei tentativi psicologici di spiegazione collegati allo
studio di Freud sulla Psicologia di massa e analisi dell'io, Bataille non è soddisfatto 9 ; piuttosto, è convinto che le radici del
fascismo scendano più a fondo dell'inconscio, al quale ha accesso la forza analitica dell'autoriflessione. Il modello in base
al quale Bataille pensa la scissione dell'eterogeneo non è il modello freudiano della rimozione, bensì l'esclusione e la stabilizzazione di confini, che possono essere sfondati solo per eccesso,
dunque violentemente. Bataille ricerca un'economia del bilancio
sociale complessivo degli impulsi, che deve spiegare perché la
modernità attua senza alternative le sue esclusioni pericolose per
la vita, e perché la speranza in una dialettica dell'Illuminismo,
che ha accompagnato il progetto della modernità fino al marxismo occidentale, è vana: « La società omogenea è incapace di
trovare in se stessa un senso ed uno scopo dell'agire. Perciò
essa cade alle dipendenze delle forze imperative che esclude» 10 •
Bataille si colloca nella tradizione della scuola di Durkheim;
egli riconduce gli aspetti eterogenei della vita sociale, come di
quella psichica e spirituale, a quell'elemento sacrale che Durkheim aveva determinato mediante il contrasto col mondo del
profano: gli oggetti sacrali sono posseduti da una forza auratica, che al contempo alletta e attrae gli uomini, li terrorizza
e li disgusta. Quando vengono toccati, scatenano effetti scandalizzanti e rappresentano un altro, superiore livello della realtà
- sono incommensurabili con le cose profane, si sottraggono
ad un modo di considerazione omogeneizzante, che assimila
l'estraneo al noto, spiega l'imprevisto con l'aiuto del familiare.
Bataille aggiunge ancora la determinazione della spesa improduttiva. Il mondo eterogeneo si rapporta a quello profano come
il superfluo - dai rifiuti e dagli escrementi attraverso i sogni,
I vi, p. 367.
Cfr. A. Mitscherlich, Massenpsychologie und Ich-Analyse, in Gesammelte
Schri/ten, vol. V, Frankfurt a. M. 1983, pp. 83 sgg.
10 G. Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. l, p. 353.
8
9
221
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le estasi erotiche e le perversioni, fino a rappresentazioni sovversive contagiose, dal lusso tangibile fino alle speranze esuberanti-elettrizzanti e alle trascendenze santificate. Per contro,
l'omogeneo e uniforme della normale vita quotidiana è il risultato del metabolismo con la natura esterna, resistente. Nella
società capitalistica opera soprattutto il lavoro astrattamente
misurato in tempo e denaro, cioè il lavoro salariato come forza
omogeneizzante; questo si potenzia nella combinazione con
scienza e tecnica. La tecnica è il nesso connettivo fra scienza
e produzione; analogamente ad Adorno, si dice che « le leggi
che la scienza ha creato, istituiscono relazioni di identità fra i
diversi elementi di un mondo prodotto e misurabile » 11 •
In questo mondo razionalizzato irrompono ora i capi fascisti e le loro masse ipnotizzate. Bataille parla della loro esistenza
eterogenea non senza ammirazione. Hitler e Mussolini gli appaiono sullo sfondo della democrazia di massa orientata verso
interessi, come ' il totalmente altro '. Egli è affascinato della violenza « che eleva Hitler e Mussolini al di sopra degli uomini,
dei partiti e delle stesse leggi: una violenza che infrange il corso
normale delle cose, l'omogeneità pacifica, ma noiosa, impotente
a conservarsi per sua propria forza» 12 • Nel dominio fascista
elementi omogenei ed eterogenei si mescolano in modo nuovo
- quelle qualità, che, come la disponibilità al lavoro, la disciplina, l'amore dell'ordine, appartengono alle esigenze funzionali
della società omogenea, da un lato, e dall'altro l'estasi di massa
e l'autorità del capo, che manifestano un riflesso della vera
sovranità. Lo stato fascista rende possibile l'unità totale degli
elementi eterogenei con gli omogenei, è la sovranità statalizzata.
Esso raccoglie l'eredità di quella sovranità che nelle società tradizionali aveva assunto forma religiosa e militare; entrambi questi elementi sono indubbiamente indifferenziati nella sovranità
del Fiihrer. Il momento essenziale del dominio degli uomini
sugli uomini, nel fascismo è, per così dire, costituito in forma
pura. L'aura del Fiihrer assicura una lealtà di massa, che è sganciata da ogni pressione legittimativa. Analogamente a Carl
Schmitt, Bataille spiega questa accettazione infondata col fatto
che la violenza di un signore è nel suo nucleo di natura carismatica- si radica appunto nell'eterogeneo: « Il semplice fatto
del dominio di uomini su uomini implica l'eterogeneità del signore, per lo meno in quanto è signore: nella misura in cui egli
si richiama per giustificazione della sua autorità alla sua natura,
11
12
I vi, p. 340.
I vi, p. 348.
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alla sua qualità personale, egli designa questa natura come il
totalmente altro, senza paterne rendere conto razionalmente» 13 •
Proprio il momento ammaliante, che requisisce i sensi, nell'esercizio della violenza dei capi fascisti, Bataille lo riconduce ad
una sovranità, alla quale egli attribuisce autenticità - qui diviene chiara la differenza con le teorie del fascismo, analogamente impostate, di Horkheimer e Adorno.
Questi si concentrano, come Bataille, sul prospetto psicologico del fascismo - in ogni caso negli Elementi dell'antisemitismo 14 • Nelle disposizioni per le dimostrazioni di massa
altamente ritualizzate, Horkheimer e Adorno decifrano « la falsa
effigie della mimesi timorosa », cioè il risveglio e la manipolazione di un antichissimo modello di reazione. Il fascismo impiega il comportamento mimetico spacciato civilizzatoriamente
per i propri scopi. La repressione dell'ambivalenza arcaica di
fuga e dedizione, terrore e incanto, diviene ironicamente riflessiva: « Nel fascismo moderno la razionalità ha raggiunto un
livello, in cui non si accontenta più di reprimere semplicemente
la natura; la razionalità ora sfrutta la natura, incorporando nel
suo proprio sistema quelle potenzialità d'essa che si ribellano
contro l'oppressione » 15 • Fino a questo punto l'analisi di Bataille
si può ancora tradurre nei concetti della teoria critica: alla fine
il fascismo serve soltanto a rendere docile la rivolta della natura
interna contro la ragione strumentale dei suoi imperativi. La
differenza decisiva sta nel modo in cui sono determinate le parti
represse o proscritte della natura soggettiva. Per Horkheimer e
Adorno l'impulso mimetico porta con sé la promessa di una
« felicità senza potere » 16, mentre per Bataille nell'eterogeneo
felicità e violenza sono indissolubilmente connesse: nell'erotico
Bataille celebra, come nel sacro, una « attività violenta elementare » 17 • Con l'aiuto della stessa figura di pensiero, egli giustifica nel fascismo anche quell'elemento (Carl Schmitt) del do13 lvi, p. 351.
14 M. Horkheimer ·T. W. Adorno, Dialektik der Aufkliirung, Amsterdam
1949, pp. 199 sgg. (tr. it., Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966, pp. 181 sgg.);
sulla caratterizzazione politico-economica del fascismo come ' capitalismo di
stato' cfr. H. Dubiel- T. Sollner (a cura di), Wirtschaft, Recht und Staat im
Nationalsozialismus, Analysen des Instituts fiir Sozialforschung 1939-1942, Frank·
furt a. M. 1981; M. Wilson, Das Institut fiir Sozia/forschung und seine Faschismusanalysen, Frankfurt a. M. 1982.
15 M. Horkheimer, Kritik der instrumentellen Vernunft, Frankfurt a. M.
1967, p. 118 (tr. it., Eclisse della ragione - Critica della ragione strumentale,
Torino 1969, p. 107).
16 M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialektik der Aufk/iirung, cit., p. 204
(tr. it. cit., p. 185).
17 G. Bataille, L'érotisme, cit., p. 103.
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minio infondato o 'puro', al quale Horkheimer e Adorno contrappongono nel modo più deciso la forza del mimetico.
Lo stesso Benjamin che in un saggio giovanile, richiamandosi al mito soreliano dello sciopero .generale, sembra anticipare la concezione di Bataille dell'immacolato potere sovrano,
tiene fermo al punto di riferimento di un'intersoggettività non
violenta dell'intesa. La violenza fatale di atti rivoluzionari, che
fondano il diritto, che per la loro essenza sono anarchici eppure
stanno alla base di tutte le istituzioni della libertà (e vi debbono
esser tenuti presenti) sprona Benjamin al progetto di una politica del ' puro mezzo '. Questa è separata soltanto per un capello
da ciò che potrebbe essere la violenza fascista. Ma quella violenza fine a se stessa, che non media strumentalmente, bensì
manifesta e attua la giustizia, secondo Benjamin rimane sempre
rìferita alla sfera dell'unificazione non violenta. Questa sfera
dell'accordo umano, che « è del tutto inaccessibile » alla violenza rimane per Benjamin « il linguaggio - l'autentica sfera
dell'intesa» 18 • A questa idea Benjamin è talmente obbligato per
via della sua impresa di una critica che salva, che egli vorrebbe
esemplificare la non violenza del ' puro mezzo ' perfino in base
all'esempio dello sciopero generale proletario.
Senza un tale punto di riferimento che trascende la violenza,
Bataille deve avere difficoltà, per rendere plausibile quella differenza, alla quale pure egli attribuisce tanta importanza - la
differenza fra la rivoluzione socialista e la presa fascista del
potere, che vede soltanto simile ad essa. Ciò che Benjamin afferma per l'impresa del surrealismo in complesso, che esso voleva « acquisire per la rivoluzione le forze dell'ebbrezza» 19 ,
arride anche a Bataille: è il sogno di una politica estetizzata,
poetica, purificata da tutti gli elementi morali. È appunto questo
che nel fascismo lo affascina: « L'esempio del fascismo, che oggi
mette in questione perfino l'esistenza del movimento operaio,
basta per mostrare che cosa ci sarebbe da attendersi da un
ricorso favorevole a rinnovate forze affettive » 20 • Ma allora si
pone la domanda, in che cosa da ultimo si differenziano l'espressione sovversiva-spontanea e la canalizzazione fascista di tali
forze. La domanda è scomoda in ogni caso, quando con Bataille
si parte dall'idea che la differenza deve potersi mostrare già nelle
forme della politica - e non soltanto in base alle loro conseguenze. Nel suo scritto del 1933, Bataille fa il tentativo di trae18 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Angelus Novus, Ausgewiihlte
Schriften 2, Frankfurt a. M. 1966, p. 55.
19 W. Benjamin, Der Surrealismus, in ivi, p. 212.
20 G. ·Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. l, p. 371.
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ciare nello stesso mondo dell'eterogeneo un confine fra elementi
superiori e inferiori. Questo tentativo riesce così poco, che alla
fine Bataille si accontenta della proposta di una rifunzionalizzazione della combattuta politica fascista. Egli raccomanda l'elaborazione di una scienza eterologica, « che consenta di precedere
le reazioni sociali affettive, che assalgono la sovrastruttura forse perfino, fino ad un certo grado, ne dispongono liberamente [ ... ]. Un sapere sistematico dei movimenti sociali di
attrazione e repulsione [cioè delle ambivalenze sentimentali sca.
tenate dall'eterogeneo, J. H.], si dimostra nettamente come arma
in un momento, in cui il fascismo non tanto sta contro il comunismo, quanto piuttosto contro forme radicalmente imperative
[ ... ] della sovversione» 21 •
Nei tre anni successivi Bataille ha svolto i tratti fondamentali della scienza allora postulati. Voglio trattare anzitutto il commiato dalla modernità in termini di filosofia della storia, per poi
addentrarmi nell'economia generale, da cui Bataille sperava una
risposta alla domanda rimasta aperoo, come si debba pensare il
rovesciamento della reificazione in sovranità.
III
Già all'inizio del 1933, Bataille aveva pubblicato una trattazione
sul concetto di spreco 22 , che lascia scorgere i contorni di una
filosofia della storia di tipo manicheo. Come comunista, Bataille
si muoveva nelle figure di pensiero della filosofia della prassi di
Marx. Il lavoro, cioè la produzione sociale, è la forma specifica
del genere della riproduzione. Anzitutto Bataille descrive il moderno antagonismo di classe proprio nel senso dei manoscritti
economico-filosofici del giovane Marx: « Il fine del lavoratore
è di produrre per vivere, ma quello dell'imprenditore è quello
di produrre per consegnare i produttori lavoranti ad una degradazione disgustosa » 23 • Ma Bataille smentisce subito la conseguenza ovvia, che la 'vita', per amor della quale si produce,
sia immanente al lavoro stesso come telos razionale. Lo scopo
della produzione, che Bataille ha in mente, trascende piuttosto
il circolo dell'erogazione produttiva della forza-lavoro e dell'appropriazione consuntiva di quei valori d'uso, in cui si oggetti21
Ibid.
22 In« La ·critique Sociale>>, '1933, n. 7, contenuto anche in CEeuvres complètes, cit., vol. l, pp. 302 sgg., da cui si cita.
23 G. Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. l, p. 315.
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vizza il processo di lavoro. Bataille dà al modello espressivistico
dell'attività umana, da cui egli parte, una piega che ne nega i
presupposti di filosofia della prassi. Egli vede infatti impiantata
nello stesso consumo una profonda scissione fra la riproduzione
della forza-lavoro direttamente necessaria alla vita ed un consumo di lusso, che sottrae dissipatoriamente i prodotti del lavoro
alla sfera di ciò che è necessario alla vita e quindi in genere
all'imposizione del processo metabolico. Soltanto questa forma
improduttiva dell'erogazione, che dalla prospettiva del singolo
possessore di merci rappresenta una perdita, può al contempo
rendere possibile e confermare la sovranità dell'uomo, la sua
autentica esistenza.
Certo, anche Marx parla di una sfera della libertà al di là
della sfera della necessità, al di là dell'ambito della produzione
determinato dal ricambio organico con la natura; Marx, però,
sussume ancora l'uso creativo del tempo libero dal lavoro
sotto il modello dell'alienazione e riappropriazione delle forze
essenziali individuali - il punto di riferimento rimane l'individuo totale, che si realizza universalmente. Del tutto realisticamente, però, Bataille vi subodora il pericolo che le necessità
abitualizzate del lavoro non facciano che continuare sotto la
copertura di una libertà apparentemente autonoma; egli teme
che la vera sovranità venga repressa anche nella sovrabbondanza, finché l'uso razionale - intrapreso secondo il principio
della « compensazione dei pagamenti », di beni materiali e spirituali non faccia posto ad una forma radicalmente diversa del
consumo, appunto ad uno spreco, in cui il soggetto consumante
si aliena da se stesso. Questa forma improduttiva dell'erogazione
avvicina Bataille agli stati tossici dell'autoabbandono, dell'autoprosciugamento, della furia. Questo autosfrenamento lascia dietro di sé ancora le sue tracce economiche nel consumo di lusso:
L'attività umana non può venir ridotta completamente a processi di produzione e riproduzione, e il consumo deve venir diviso
in due ambiti diversi. Il primo, che è riducibile, abbraccia l'uso
minimale necessario alla conservazione della vita e alla prosecuzione dell'attività produttiva per gli individui di una società [ ...].
Il secondo settore abbraccia le cosiddette spese improduttive: lusso,
cerimonie funebri, guerre, culti, la costruzione di edifici sfarzosi,
giochi, teatro, arti, la sessualità perversa (cioè separata dalla genitalità) rappresentano altrettante attività, che, per lo meno in origine,
hanno il loro fine in se stesse 24.
24
lvi, p. 305.
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L'attività dei ceti superiori che vivono nel lusso, determinata
aristotelicamente, sufficiente a se stessa, divenuta fine a se stessa,
tradisce ancora qualcosa della sovranità originaria.
Ma ora il capitalismo è caratterizzato dal reimpiego produttivo di tutto il superfluo; il processo di accumulazione è guidato
da imperativi dell'autovalorizzazione del capitale. In ciò Marx
aveva criticato l'autonomizzazione della produzione di valori di
scambio rispetto alla produzione di valori d'uso; Bataille lamenta l'autonomizzazione dell'impianto produttivo dei guadagni
rispetto all'uso improduttivo del superfluo prodotto. I capitalisti
hanno «mantenuto con la ricchezza l'obbligazione alla spesa
funzionale»; perciò la società moderna manca del lusso pubblico
ostentato; - « l'ostentazione della ricchezza avviene ora dietro
le pareti (private) secondo convenzioni noiose e opprimenti » 25 •
È scomparso l'aspetto generoso, orgiastico, smisurato, che aveva
sempre contraddistinto lo spreco feudale.
In base al filo conduttore di questo' concetto dello spreco,
Bataille sviluppa la sua principale opera teoretica, la cui prima
sezione apparve nel 1949, dopo diciotto anni di lavori preparatori, sotto il titolo La parte proscritta. Un pezzo çlella terza
sezione Bataille lo pubblica nel 1956 sotto il titolo La sovranità.
Il distacco dalla problematica e dalla concettualità della filosofia
della prassi è, nel frattempo, divenuto ancora maggiore. In un
certo qual modo, la teoria di Bataille si può intendere come controparte alla teoria della reificazione, che Lukacs, Horkheimer
e Adorno hanno sviluppato sulla linea di un webermarxismo.
La sovranità è in contrasto col principio della ragione reificata,
strumentale, che procede dalla sfera del lavoro sociale e giunge
al dominio nel mondo moderno. Essere sovrano vuoi dire non
lasciarsi ridurre, come nel lavoro, alla condizione di una cosa,
bensì scatenare la soggettività: il soggetto sottratto al lavoro,
ricolmo del momento, si dissolve nel consumo di se stesso.
L'essenza della sovranità consiste nel consumo inutile, in ciò
« che mi piace». Soltanto, questa sovranità soggiace al giudizio
di un processo storico-mondiale di disincantamento e di reificazione. L'essere sovrano viene spiritualizzato nelle società modeme ed escluso da tin universo che sussume tutto sotto la forma
d'oggetto del valorizzabile e del disponibile, cioè della proprietà
privata, che consiste ancora soltanto di cose: « All'inizio della
società industriale, che si fonda sul primato e sull'autonomia
della merce - della cosa - sta la volontà contrapposta, l'es-
2.5
lvi, p. 313.
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senziale - ciò che ci fa tremare di spavento e di delizia - al di
fuori del mondo dell'attività, del mondo delle cose » 26•
I paralleli col giovane Lukacs sono sconcertanti. Infatti,
sembra anzitutto che questo processo dell'esclusione di un sacrale smondanizzato sia soltanto la conseguenza del modo di
produzione capitalistico: « Per via dell'accumulazione delle ricchezze allo scopo di una produzione industriale di dimensioni
crescenti, la società borghese è la società delle cose. In confronto
con l'immagine della società feudale, essa non è una società
delle persone [ ... ] L'oggetto convertibile in denaro vale più che
il soggetto, il quale, da quando è in dipendenza dagli oggetti (in
quanto li possiede), non esiste più per se stesso e non ha più
alcuna reale dignità» TI. Ma, in effetti, il feticismo della forma
di merce serve soltanto alla diffusione universale del dominio
della ragione già antropologicamente radicata nelle strutture del
lavoro. La tendenza alla reificazione della società risale a tempi
arcaici e al di là del capitalismo raggiunge il futuro del socialismo burocratico, che solo eseguirà il testamento del processo
cosmico-storico del disincantamento.
Ciò rammenta già piuttosto la tarda teoria critica che il
primo Lukacs; ma entrambi i confronti peccano per difetto. Ciò
che Bataille ha in mente, non è una teoria della reificazione,
bensì una filosofia della storia della proscrizione, cioè della progrediente extraterritorializzazione del sacro. Egli vuole esporre
il destino cosmico-storico della sovranità, di quella libertà abissale che consiste nel « consumare senza profitto, ciò che sarebbe potuto restare impigliato nella concatenazione delle opere
utili » 28 •
La forma più pura, empiricamente ancora tangibile, di questa sovranità, Bataille la trova nel sacrificio rituale, che egli analizza accuratamente in base ai ragguagli sui sacrifici umani aztechi: « Il sacrificio distrugge ciò che consacra. Non ha bisogno
di distruggere come il fuoco; soltanto il legame che collega
l'ablazione al mondo dell'attività utile, viene spezzato, ma questa separazione ha il significato di un consumo definitivo; l'ablazione consacrata non può essere restituita all'ordine reale. Questo principio apre la via allo scatenamento, libera la violenza,
concedendole uno spazio in cui può dominare indivisa » 29 • Senza
dubbio il senso del sacrificio rivela, come quello di tutte le reliG. Bataille, op. cit., vol. VII, p. 123.
G. Bataille, La Souveraineté, in « Monde' nouveau - Paru >>, nn. 101-103,
juin-septembre 1956, p. 26.
28 G. Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. VII, p. 63.
29 Ibid.
26
27
228
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gioni, che anche il nucleo rituale del sacrale non è nulla di originario, bensì già reazione alla perdita di un'intima unità dell'uomo con la natura. Ad essa possiamo concludere soltanto se
ci ricordiamo ciò che una volta è stato fatto all'universo delle
cose innocenti dal lavoro delle mani dell'uomo, cioè col primo
atto di un'aggettivazione finalistica. La versione che Bataille dà
della cacciata dal paradiso terrestre si legge così:
Tramite l'introduzione del lavoro al posto dell'intimità, della
profondità della brama e del suo libero scatenamento, subentrò fin
da principio la concatenazione razionale, nella quale non si tratta
più della verità del momento, bensl del risultato finale delle operazioni- il primo lavoro fonda il mondo delle cose [ ... ]. Dalla posizione del mondo delle cose l'uomo stesso divenne una delle cose
di questo mondo, per lo meno per il tempo in cui egli lavora. A
questo destino l'uomo cercò in tutti i tempi di sfuggire. Nei suoi
miti peculiari, nei suoi riti crudeli l'uomo è da allora alla ricerca
della sua intimità perduta [ ... ]. Sempre si tratta di sottrarre qualche cosa all'ordine reale, alla miseria delle cose, e di ridare all'ordine divino qualche cosa 30 •
Come la religione sta già sotto la maledizione del lavoro, e
solo per i momenti dell'autoalienazione rituale del soggetto restituisce l'ordine distrutto delle cose e rende possibile una comunicazione senza parole con essa, così anche la pura sovranità
può essere riconquistata soltanto nei momenti dell'estasi.
Ciò che diviene efficace nella storia come violenza sovrana,
ciò che acquista forma durevole dapprima nel potere sacrale dei
sacerdoti, poi nel potere militare dei nobili, infine nel potere
assolutistico del monarca e della sua corte già fondato su un
apparato statale, è una sovranità derivata, contaminata dalla connessione col potere profano. Tutte le forme storiche della sovranità possono essere riconosciute in base alla loro forza differenziante, che fonda cioè differenze di rango. Il rango sociale del
dominatore e di coloro che partecipano al dominio, è un fenomeno misto, da cui si possono ricavare due cose: l'origine da
una sfera al di là del lavoro e delle cose, nonché la funzione
repressiva e sfruttatrice del dominio entro il sistema del lavoro
sociale. Il mutamento di forma cosmico-storico della sovranità
mostra tuttavia una tendenza alla dedifferenziazione delle differenze di rango: « Nella società arcaica il rango tiene fermo al
presente santificato di un soggetto, la cui sovranità non dipende
dalle cose, ma inserisce le cose nel suo movimento. Nella società
30
Ibid.
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borghese esso dipende ancora soltanto dalla proprietà di cose,
che non sono né sovrane né sacrali » 31 • Ciò non significa ora
che la sovranità sia totalmente scomparsa dal mondo borghese.
Parla in senso contrario già la circostanza che la disposizione
privata sui mezzi di produzione non soltanto scinde la società
oggettivamente in classi, bensì anche fonda un insieme di privilegi, che ripartisce differenzialmente le possibilità di vita, incluse
le possibilità di trovare riconoscimento. Le differenze di rango
perdono il loro carattere politico, ma come tali esse non scompaiono semplicemente per il fatto che non si deducono più dalla
partecipazione al dominio politico, bensì dalla posizione nel
processo produttivo.
Anche il politico delle democrazie occidentali mantiene, nella
forn'la di un prestigio personale stabilizzato dal lavoro pubblico,
ancora qualcosa dello splendore dell'essenza sovrana, benché
questa immagine derivi soltanto dalla disposizione di un potere
burocratizzato fluidificato dai media, e non da qualità carismatiche. Il politico democratico sta fra la soggettività dell'essere,
come è presente nel signore sovrano e ancora nel capo fascista,
da un lato, e l'oggettività del potere, dall'altro: «Unicamente
la serietà di un uomo di stato comunista ci consente di riconoscere, ciò che nella società borghese è soltanto una possibilità,
che viene continuamente intralciata: il potere, che promuove la
crescita delle cose, indipendentemente dall'aspirazione al rango,
per la quale gli uomini tentano di sprecarla » 32 • Secondo l'immagine alquanto estranea alla realtà che Bataille all'inizio degli
anni Cinquanta escogita, in questo socialismo burocratico di
conio sovietico deve compiersi la derlifferenziazione sociale; con
l'abolizione dei ranghi sociali, soltanto qui la sovranità viene
definitivamente scacciata dal territorio del lavoro sociale.
In tutte le figure storiche del dominio, la sovranità resta
legata col potere. Ora soltanto, nel regime sovietico, compare
un potere purificato da ogni commistione con la sovranità, per
così dire decomposto, e in questo senso divenuto 'oggettivo',
che si è sbarazzato dagli ultimi attributi religiosi. Questo potere
oggettivo, senza convalidazione da parte dell'autenticità di un
carisma, è esclusivamente funzionale, definito dal sistema del
lavoro sociale, in breve dal fine dello sviluppo delle forze produttive: « Chi esercita il potere supremo nella sua oggettività,
ha come scopo l'impedimento del dominio della sovranità sulle
cose; esse devono essere subordinate ancora soltanto all'uomo
31
G. Bataille, La Souveraineté, cit., p, 29.
·
32 lvi, p, 31.
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non differenziato » - cioè alla volontà collettiva di una società
rigorosamente egualitaria 33 • Il potere oggettivo, che ha deposto
la scorza della sovranità disincantata, si include nell'universo di
una società completamente reificata, potremmo anche dire coagulata a sistema. L'immagine fittizia del dominio sovietico reificato costituisce l'equivalente di quell'idea che Engels aveva
ripreso da Saint-Simon: al posto del dominio di uomini su
uomini subentra l'amministrazione delle cose. Questo punto sorprende tanto più, quanto più le lagnanze di Bataille sulla negazione borghese dello splendore, dello sfarzo e dello spreco feudali suonano come un piatto rovesciamento della celebre parabola di Saint-Simon 34 • Saint-Simon non mantiene certo l'ultima
parola in Bataille.
La celebrazione di un comunismo militante, che subordina
ogni sentimento umano allo scopo di politica sociale dell'industrializzazione e dà il proprio consenso ad un materialismo
eroico anche sotto l'aspetto « che l'opera della liberazione (dell'uomo) venga interamente ridotta ad una cosa» 35 - questa
locuzione paradossale diviene comprensibile solamente quando
si prenda in considerazione il giudizio sprezzante di Bataille sui
potenziali di critica della civilizzazione della società borghese.
La protesta contro la reificazione del mondo moderno e la trasfigurazione romantica delle forme tradizionali della sovranità
contraddicono troppo profondamente l'impulso sovversivo da cui
pure sono sorrette proprio le esistenze eterogenee - cioè quella
radicalità peculiare all'avanguardia estetica, « di andare in ogni
direzione fino al termine delle possibilità del mondo» 36 • Il fascismo ha solo spifferato il segreto del capitalismo: questo infatti poté fin da principio erigere la sua razionale gabbia di
asservimento soltanto sul fondamento sotterraneo dei residui di
dominio sacrale e militare. Questi relitti dissimulati, ma funzionalmente necessari, della sovranità preborghese vengono eliminati soltanto dalla totale equiparazione degli uomini ai loro prodotti compiuta dal marxismo sovietico. « L'attuazione delle cose
può avere un effetto liberante solo quando i vecchi valori, che
erano legati a spese improduttive, vengono condannati e distrutti
come i valori cattolici nella Riforma» -rr.
Bataille considera dunque lo stalinismo come ultimo stadio
lvi, p. 32.
Saint-Simons G/eichnis, in J. Dautry (a cura di), Saint-Simon, Ausgewiih/te Texte, Berlin 1957, pp. 141 sgg.
35 G. Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. VI, p. 135.
36 lvi, p. 127.
01 lvi, p. 133.
33
34
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di un processo nel quale le due sfere di una prassi reificata e di
una sovranità soltanto alla fine purificata da tutte le funzioni
pratiche si separano gradualmente l'una dall'altra. Stalin segue,
consapevolmente o no, quel messaggio esoterico che Bataille
ricava dalla dottrina essoterica di Marx:
Marx, in quanto ha riservato l'agire alla modificazione delle circostanze materiali [cioè ha ridotto la prassi al lavoro, alla struttura
dell'agire razionale conforme allo scopo, J. H.], ha espressamente
affermato ciò che il calvinismo aveva soltanto accennato, cioè la
radicale indipendenza delle cose (dell'economia) da altre cure (di
genere religioso o del tutto affettive); per contro, però, con ciò
egli ha implicitamente affermato l'indipendenza del ritorno dell'uomo a se stesso (alla profondità, all'intimità del proprio essere)
dall'agire. Questo ritorno, tuttavia, è possibile soltanto quando la
liberazione è compiuta; esso può incominciare soltanto quando
l'agire è concluso 38
- e con ciò il progetto, avviato dalla filosofia della prassi, di
una società del lavoro che si è formata in totalità.
Questo processo cosmico-storico, sospeso fra reificazione e
sovranità, che deve finire con il confronto tra una separazione
di sfere, la decomposizione di elementi omogenei ed eterogenei,
di lavoro e sacrificio, non può certo più essere pensato dialetticamente - in ogni caso, non più con il modello di filosofia
della storia di una dialettica dell'Illuminismo, che si affida alla
costellazione di momenti della ragione. La sovranità è concepita
come l'Altro dalla ragione. Bataille non può rendere plausibile
la sua costruzione della modernità dandole l'apparenza di una
costruzione dialettica. Egli deve anzitutto spiegare due cose: da
un lato la dinamica del processo cosmico-storico della razionalizzazione sociale, dall'altro l'attesa escatologica che la reificazione totale venga ribaltata in libertà. Nella risposta a queste
domande, Bataille pone la sua ambizione scientifica.
IV
Fin dall'inizio dei suoi studi antropologici Bataille si è ripetutamente occupato del fenomeno del potlatsch, quella festa dello
spreco nella quale gli indiani nordamericani riempiono i loro
rivali di doni, per sfidarli, umiliarli e obbligarli a sé con lo sper38
lvi, p. 128.
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pero ostentato della propria ricchezza 39 • Senza dubbio non lo interessano propriamente le funzioni socio-integrative dello scambio
di regali, né la istituzione di reciproche obbligazioni; Bataille
trascura questo aspetto a vantaggio di quello, più vistoso, del
consumo, dell'annientamento e della perdita intenzionale di proprietà, che viene sprecata come dono senza diretta contropartita. Il potlatsch è un esempio del consumo improduttivo in
società tribali. Tuttavia non va disconosciuto che il donatore
non sciupa la sua ricchezza disinteressatamente. In quanto surclassa rivali, che a loro volta concorrono con regali, egli si assicura prestigio e potere, acquista o rafforza il suo rango sociale
entro il collettivo. Il sovrano disprezzo dei valori d'uso viene,
per così dire, già a questo stadio, compensato da una calcolata
acquisizione di potere. Questa prassi porta in sé la contraddizione fra sovranità e razionalità finalistica: essa pone « valore,
prestigio e verità della vita nella negazione dell'uso dei beni,
ma nel contempo fa appunto di questa negazione un uso conveniente» 40 • Dato che proprio questa contraddizione è strutturalmente inserita in tutte le forme di sovranità storicamente
incarnate, per il tramite d'essa Bataille vorrebbe spiegare perché
la sovranità esternantesi in atti di spreco viene sempre più utilizzata per lo sfruttamento della forza-lavoro e perché questa
fonte di vera autorità alla fine si contrae in una «vergognosa
fonte di profitto ».
Ora, però, egli spiega il fatto che sovranità e potere si sono
amalgamati fin da principio e che questo amalgama può essere
utilizzato per gli scopi dell'appropriazione di plusvalore, non
già perché le tendenze storiche all'ampliamento e alla reificazione dell'ambito profano e all'extraterritorializzazione del sacro
si siano effettivamente imposte. In una spiegazione economicopolitica nello stile del materialismo storico Bataille non può
avventurarsi, perché questa si riferisce a modificazioni all'interno
del sistema del lavoro sociale, ma non al gioco combinato dell'economia con un potere che non è radicato nell'economico, e
in genere non in settori della ragione calcolante, bensì trascende
fin da principio, come l'altro dalla ragione, il processo metabolico dell'uomo con la natura esterna. Perciò è conseguente che
Bataille si colleghi alla spiegazione di etica religiosa che Max
Weber fornisce del capitalismo, e lo segua in base al filo conduttore di storia della religione fino a quegli inizi della regola39 Bataille si riferisce alla classica ricerca di M. Mauss, Essai sur le Don,
in « Année Sociologique >>, 1923-24, pp. 30 sgg.
40 G. Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. VII, p. 75.
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mentazione morale degli impulsi che antecedono tutte le forme
storiche della sovranità e dello sfruttamento. Voglio riassumere
la riflessione in tre passi.
La prima idea è di semplicità biblica. Nel processo dell'umanizzazione si costituiscono gli esseri che escono fuori dal contesto animale della vita come soggetti non soltanto mediante il
lavoro, bensl al contempo mediante divieti. Gli uomini si distinguono dagli animali anche in quanto la loro vita impulsiva viene
assoggettata a limitazioni. Egualmente originari al lavoro sorgono
la vergogna sessuale e la coscienza della mortalità. I riti di sepoltura, il fatto del rivestirsi, il tabù dell'incesto mostrano che
i tabù più antichi riguardano il cadavere umano e la sessualità
- il corpo morto e il corpo nudo. Se si considera anche il divieto dell'omicidio, emerge l'aspetto più generale: viene tabuizzata la violenza della morte e della sessualità - una violenza
che si manifesta anche nel culmine rituale della festa e del sacrificio religioso. L'eccesso da cui procede la procreazione e l'eccesso della morte sofferta o violentemente inflitta sono affini agli
eccessi cultuali, dove Bataille intende ' eccesso ' alla lettera:
come oltrepassamento di quei confini che sono tracciati dall'individuazione. Le norme più antiche sono come dighe contro il
turbine di una natura lussureggiante, esuberante, che assicura
la pienezza di vita e la continuità del suo essere, intrecciando le
esistenze isolate: « Se noi ravvisiamo nei divieti essenziali quel
rifiuto che l'individuo contrappone alla natura come uno spreco
di energia vitale e un'orgia di annientamento, non possiamo più
fare nessuna distinzione fra morte e sessualità. Sessualità e morte
sono soltanto i culmini di una festa, che la natura festeggia con
la massa inesauribile. Entrambe significano uno spreco illimitato,
che la natura si permette in contraddizione con il profondo desiderio di ogni essere [individuato, J. H.] della propria continuazione » 41 • La sfera del lavoro deve venir limitata da norme, che
« bandiscono dal corso abituale delle cose » l'attività violenta
di una natura esuberante 42 •
In un secondo passo Bataille rende tuttavia chiaro che i fondamenti normativi della vita sociale rimangono incomprensibili,
se li si interpreta dal punto di vista di ciò che forniscono all'assicurazione della sussistenza del sistema del lavoro sociale. Da
questo angolo visuale funzionalistico non si può spiegare, donde
mai traggano la loro forza obbligatoria in generale i divieti. Già
Durkheim aveva visto che la validità normativa non può essere
41
42
G. Bataille, L'érotisme, cit., p. 69.
I vi, p, 63.
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ricondotta empiristicamente alle sanzioni convenzionalmente,
cioè esteriormente, connesse ai divieti. Piuttosto le norme devono la loro forza vincolante all'autorità di un sacro, al quale
noi ci avviciniamo con l'ambivalenza di terrore e diletto, senza
mai toccarlo. Questo stato di cose Bataille lo interpreta partendo
dal suo orizzonte di esperienza estetica, in modo tale che per
le norme più antiche è costitutiva una profonda ambiguità: la
pretesa di norme alla validità è fondata nell'esperienza della
trasgressione proibita e proprio perciò allettante, cioè nell'esperienza del sacrilegio, nel quale i sentimenti della paura, del
ribrezzo e del terrore si mescolano con la delizia e la felicità
narcotizzante. Bataille parla del profondo affratellamento di legge
e violazione della legge. Il mondo razionale del lavoro viene
limitato e fondato da divieti; tuttavia i divieti stessi non sono
affatto leggi della ragione. Essi aprono piuttosto al mondo profano la porta del sacro e da questa forza illuminatrice traggono
il loro fascino:
In principio una quieta opposizione (dei divieti) contro la violenza [della natura interna, J. H.] non sarebbe bastata, per dividere i due mondi. Se l'opposizione stessa non avesse avuto parte
nell'attività violenta [ ... ], la ragione da sola non avrebbe posseduto
sufficiente autorità, per determinare i limiti del trapasso. Soltanto
la paura e lo spavento irriflessi possono offrire resistenza di fronte
a provocazioni smisurate. Questa è la natura del tabù; esso rende
possibile un mondo della quiete e della ragione, ma nel suo stesso
principio è un tremore, che colpisce non l'intelligenza, bensl
l'animo 43 •
L'esperienza erotica è affine a quella religiosa in quanto collega l'accordo con i divieti più antichi all'estasi del terrore superato, che segue la profanazione: « L'esperienza interiore dell'erotismo richiede da chi la fa una sensibilità verso la paura che
fonda il divieto, non meno grande che per l'esigenza che porta
al suo trasgredimento. È la sensibilità religiosa che collega strettamente fra di loro esigenze e terrore, piacere immenso e paura » 44 • In un altro passo, Bataille descrive le fasi dell'eccesso
che provoca vertigini come disgusto, poi il superamento del
disgusto, cui segue l'ebbrezza 45 •
43
lvi, pp. 71 sgg.
44 lvi, p. 47.
45 Ciò che Bataille chiama l'esperienza interiore dell'erotico, M. Leiris lo
aveva descritto nel 1931 nei << Documents » pubblicati da Bataille, per mezzo di
una fotografia, che rappresenta una donna nuda con maschera di cuoio; questa
maschera era stata confezionata secondo un progetto di W. Seabrock, che da
lungo tempo studiava l'arte dell'avorio. Il testo di Leiris mostra come allora la
235
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Con un terzo passo, infine, Bataille perviene alla critica della
morale, che getta il ponte verso la sociologia della religione di
Max Weber. Egli considera lo sviluppo della religione dai riti
arcaici alle religioni mondiali, dagli inizi giudaici del monoteismo fino al protestantesimo, come una via della razionalizzazione etica. Lutero e Calvino costituiscono il punto prospettico
di una linea evolutiva, sulla quale i concetti religiosi fondamentali vengono moralizzati ed insieme le esperienze religiose spiritualizzate. Il sacro ambivalente, che scatena terrore e delizia,
viene addomesticato e al contempo scisso. L'arcangelo Lucifero
viene scacciato dal cielo. Alla benedizione del cielo si contrappone il male profano; insieme con la parte diabolica del sacro,
anche l'erotico viene aggiudicato al mondo e condannato come
peccato della carne. Con questa disambiguizzazione del sacro
la coscienza del peccato diviene un carattere puramente morale.
Ma quando l'eccesso religioso, come quello sensuale, non possono più avere l'accesso al sacro, allora la validità normativa
delle leggi si affranca dallo sfondo d'esperienza autorizzante dell'eccesso, cioè dell'osata trasgressione sperimentale delle leggi.
Nella tradizione ebraico-cristiana una morale autonoma può formarsi soltanto perché la dialettica di divieto e trasgressione viene
sospesa, perché il sacro non squarcia più il mondo profano con
i suoi fulmini. La critica della morale di Bataille non si rivolge
contro la morale come tale, questa è soltanto il risultato di una
razionalizzazione delle immagini religiose del mondo, che consente l'accesso ad un sacro privato della sua complessità, spiriricerca antropologica sul campo, l'esotismo nell'arte e l'erotismo entrano in alleanza tanto nell'esperienza personale quanto nella letteratura. Leiris si immagina la gioia sacrilega e il piacere satanico che il feticista prova al cospetto del
corpo della donna mascherata e perciò disindividuata ad essere generico: «Con
piena consapevolezza l'amore - siccome il cervello viene simbolicamente soffocato dalla maschera - è ridotto ad un processo naturale e bestiale, la fatalità
che ci atterra è definitivamente domata. Infine questa donna, grazie alla maschera, è nelle nostre mani ancora soltanto la natura stessa, formata da leggi
cieche, senza anima·· o personalità, una natura che tuttavia quest'unica volta ci
è completamente incatenata, come anche la donna è incatenata. Lo sguardo, la
quintessenza dell'espressione umana, è oscurato per un momento, il che conferisce alla donna un significato ancora più infernale e sotterraneo. E la bocca è
ridotta, grazie alla stretta fessura che sola permette di riconoscerla, al ruolo animale di una ferita. La disposizìone corrente degli elementi ornanti infine è del
tutto rovesciata: il corpo è nudo''e. la testa mascherata. Tutti questi sono elementi che fanno del cuoio (una materia da cui si ricavano stivali e fruste)
utensili inauditi, che corrispondono meravigliosamente a ciò che in verità è
l'erotico: un mezzo per uscire da se stessi, per lacerare i vincoli che ci sono
imposti dalla morale, dall'intelletto e dai costumi, al contempo un modo di
bandire le forze malvage, per offrire la fronte a Dio ed ai cerberi del mondo
che lo rappresentano, in quanto si prende in possessÒ'la. sua proprietà, l'intero
universo, in una delle sue parti particolarmente significàtive, ma qui non più
distinte, e la sottopone alla sua coazione » (M. Leiris, Le 'caput mortuum ' ou
la /emme de l'alchemiste, in << Documents », n. 8, 1931, pp. 260-62).
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tualizzato e univocizzato, e concentrato come Dio in un al di là.
Il credente sviluppa una coscienza ancora soltanto morale, nella
misura in cui viene tagliato fuori dalle esperienze religiose e
sessuali di autosuperamento estatico. Pertanto l'evoluzione morale spiega la tendenza alla progrediente differenziazione fra gli
ambiti della religione e dell'economia, del sacrificio e del lavoro
- essa spiega l'espansione e la reificazione dell'ambito profano
della vita sotto una coperta sempre più sottile di potenze sovrane, che si sottraggono sempre più ampiamente alle fonti della
sovranità. In questa prospettiva si inserisce senza sforzo l'interpretazione weberiana dell'etica protestante: « Religione ed economia vengono liberate, in un solo e medesimo movimento, da
ciò che sempre le aggrava, cioè la religione dal calcolo profano
e l'economia da limiti extraeconomici » 46 •
Anche se noi ritenessimo questa strategia esplicativa ricca di
prospettive riguardo al capitalismo, non si può certo scorgere
come essa possa venir resa feconda per l'analisi dell'impresa
totalmente secolarizzata dell'industrializzazione sovietica controllata autoritariamente. Così resta aperta la domanda, perché
la scomposizione pronosticata, la separazione attuata radicalmente delle sfere di una società del lavoro completamente razionalizzata da un lato, e della sovranità divenuta completamente
extraterritoriale, tagliata fuori e inaccessibile dall'altro, debba
ribaltarsi in uno stato che nelle condizioni della società industriale sviluppata liberi nuovamente le energie della sovranità
originaria: « Se la completa formazione che Stalin voleva dare
all'uomo totale del comunismo fosse in qualche misura degna
del nome, allora quest'uomo verrebbe in un tempo, nel quale
le opere della civilizzazione materiale non potrebbero essere
abbandonate, anzitutto quel genere di sovranità che, connesso
al rispetto volontario della sovranità dell'altro, contrassegnava
i pastori e cacciatori primitivi. Se invero questi ultimi rispettavano la sovranità dell'altro, essi lo facevano soltanto di fatto » 47
-mentre l'umanità liberata, così si può ben completare, farebbe
del reciproco rispetto della sovranità di ciascuno da parte di
tutti il fondamento morale della loro convivenza. Bataille deve
spiegare l'avventuroso ribaltamento dello stalinismo in un socialismo libertario, senza poter ricorrere alla figura concettuale di
un movimento in sé dialettico dèlla ragione. Questa sfida egli
la affronta con il suo progetto di un'economia generale.
G. Bataille, CEuvres complètes, cit., vol. VII, p. 123.
G. Bataille, Le Communisme et le Stalinisme,
<< Critique >>, 1953, nn.
72-73, p. 36.
46
47
in
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Finora l'economia, inclusa l'economia politica e la sua critica, è stata condotta dal limitato punto di vista del modo in
cui possano essere effettivamente utilizzate risorse scarse all'interno della circolazione energetica della riproduzione della vita
sociale. A questo punto di vista particolare Bataille contrappone
ora quello, generale, della considerazione di un bilancio energetico cosmicamente ampliato. In base a questo mutamento di
prospettiva, che egli compie in analogia alla trasposizione della
prospettiva di economia aziendale dell'attore a quella economicopolitica del sistema, si rovescia anche la fondamentale questione
economica: non più l'utilizzazione di risorse scarse, bensì l'erogazione disinteressata di risorse superflue diviene il problemachiave. Bataille parte, infatti, dall'ipotesi biologica che l'organismo vivente accumula più energia di quanta ne consuma per la
riproduzione della sua vita. L'energia sovrabbondante viene
usata per la crescita. Quando questa è giunta ad arrestarsi, l'eccedenza non assorbita di energia deve essere erogata improduttivamente - l'energia deve andar perduta senza guadagno. Ciò
può, per principio, accadere in forma 'gloriosa' oppure ' catastrofica '. Anche la vita socioculturale sta sotto la pressione di
energia eccedente.
Questa può venir canalizzata, però, in diverse maniere; p. es.
nell'estensione demografica, spaziale, o sociale, di collettivi o nel
potenziamento della produzione e del tenore di vita, in generale:
nella crescita della complessità. In ciò la crescita organica trova
un equivalente sociale. Più appariscente è l'assorbimento delle
energie vitali eccedenti da parte della morte e della procreazione, dell'annientamento di esistenze individuali e dalla produzione di nuove generazioni, che a loro volta cadono nell'annientamento. A questo sciupìo della natura corrisponde lo sciupìo
degli strati sociali dominanti. Lo spreco sovrano, sia poi nelle
forme economiche del consumo improduttivo o nelle forme erotiche e religiose dell'eccesso, assume così un posto centrale nell'economia dell'universo interpretata nel senso della filosofia
della vita. Per contro, lo scatenamento delle forze produttive e
la crescita capitalistica, in genere lo sviluppo industriale, rafforzano le eccedenze che non possono essere assorbite dal solo
consumo produttivo. Nella stessa direzione operano le forze disciplinanti della morale, l'esecrazione del lusso, la proscrizione
dei poteri sovrani, l'esclusione dell'eterogeneo. Ma quando la
ricchezza eccedente non può essere sprecata in modo glorioso,
cioè potenziante la vita, esaltante, le forme catastrofiche dello
spreco si presentano come unico equivalente - avventure imperialistiche, guerre globali; oggi potremmo aggiungere l'inquina238
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mento ecologico e la distruzione atomica. Speculazioni sull'equilibrio nel bilancio energetico del cosmo e della società cosmica
sono ora ciò che Bataille mette in campo per la sua attesa, che
la reificazione totale debba rovesciarsi in una risurrezione del
puro potere sovrano. Infatti la società del lavoro divenuta universale potenzierà tanto immensamente le eccedenze non assorbite, che la messa in scena di orge di spreco, di spese in grande
stile diviene inevitabile - sia nella forma di catastrofi prevedibili oppure appunto nella forma di una società libertaria, che
libera la sua ricchezza per lo spreco sovrano, il che significa:
per eccessi, per l'autosuperamento dei soggetti, per l'abolizione
dei confini della soggettività in generale.
Non ho bisogno di addentrarmi nel contenuto di questa
immagine del mondo, metafisica in senso cattivo, che viene
svolta nella forma antropologicamente motivata di un superamento dell'economia: si tratti ora però di scienza o di puro
surrogato della metafisica - in entrambi i casi, Bataille si vede
messo a confronto con la medesima difficoltà, di fronte alla
quale si era fermato il Nietzsche che procedeva scientificamente
e come critico dell'ideologia. Se la sovranità e la sua fonte, il
sacrale, si rapportano al mondo dell'agire razionale in vista del
fine in modo del tutto eterogeneo; se il soggetto e la ragione si
costituiscono soltanto in quanto limitano quei poteri; se l'Altro
della ragione è più che l'irrazionale o l'ignoto, cioè l'incommensurabile, che non può venire toccato dalla ragione - nemmeno al prezzo dell'esplosione del soggetto razionale - allora
non si danno le condizioni in base alle quali potrebbe essere
sensatamente rappresentata come possibile una teoria tale da
superare l'orizzonte di ciò che è accessibile alla ragione e da
tematizzare o tantomeno da analizzare l'interazione della ragione
con un potere originario trascendente. Bataille ha bensì sentito
questo dilemma, ma non lo ha risolto. Egli ha meditato a fondo
le possibilità della scienza non-oggettivante fino all'estremo in
cui il soggetto conoscente non è partecipe soltanto alla costituzione dell'ambito oggettuale, non è unito e non comunica con
questo tramite strutture transitorie, non vi è inserito intervenendo, bensì dove il soggetto conoscente ' nel suo punto di ebollizione ' deve abbandonare la propria identità, per recuperare
quelle esperienze, alle quali era esposto nell'estasi, come traendo
ancora la rete dall'oceano scatenato dei sentimenti. Altrimenti
egli ricorre ostinatamente all'oggettività della conoscenza, anche
all'impersonalità del metodo perfino per questa scienza ' da dentro', per un'analisi dell'' esperienza interiore'. Così, in questo
problema centrale, egli rimane in un andirivieni inconcludente.
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In taluni passi Bataille slitta indietro, inavvertitamente, nella
scia di una dialettica dell'Illuminismo - sempre, quando egli
subordina le sue fatiche filosofiche e scientifiche al fine di acquisire vedute riflessive, che, tramite la trasformazione dei cupi
sbigottiti in partecipanti coscienti di sé, devono raggiungere ·
potere pratico. Allora egli si rende conto, di nuovo, del paradosso di una critica della ragione totalizzante, autoriferentesi:
«Noi non possiamo spingerei fino all'ultimo oggetto della conoscenza, senza che la stessa conoscenza che vuoi ridurre l'uomo
a cosa subordinata e utilizzabile si dissolva [ ... ]. Nessuno può
conoscere e al contempo preservarsi dall'annientamento » 48 •
Alla fine della sua vita Bataille sembra voler utilizzare la
possibilità che gli concede la sua duplice esistenza di scrittore
e filosofo, per una ritirata dalla filosofia e dalla scienza. L'erotismo lo conduce alla veduta che la conoscenza dell'essenziale
è riservata ad un'esperienza mistica, al silenzio che apre gli
occhi: « Il linguaggio raccoglie la totalità di ciò che per noi
ha significato, ma lo disperde subito [ ... ] La nostra attenzione
resta diretta a quella totalità, che ci sfugge nella successione
delle proposizioni, ma noi non possiamo mai raggiungere, che
il balenare delle proposizioni successive cede alla grande illuminazione » 49 •
Lo scrittore erotico può sempre usare il linguaggio in modo
tale che il lettore sia sopraffatto dall'oscenità, sia colpito dallo
shock del non-attendibile e irrappresentabile, sia precipitato nell'ambivalenza di disgusto e piacere. Ma la filosofia non può allo
stesso modo evadere dall'universo del linguaggio: « Essa usa il
linguaggio in modo tale, che non gli segue mai il silenzio. Così
che il momento supremo supera necessariamente la problematica filosofica »so. Ma con questa frase Bataille smentisce i suoi
propri sforzi, di attuare la critica radicale della ragione con i
mezzi della teoria.
48
49
so
G. Bataille, CEuvres comp/ètes, ci t., vol. VII, p. 76.
G. Bataille, L'érotisme, cit., p. 304.
Ibid.
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9.
SMASCHERAMENTO CRITICO-RAZIONALE
DELLE SCIENZE UMANE: FOUCAULT
I
Foucault non si trova con Bataille, come Derrida con Heidegger,
in un rapporto di scuola e di successione. Comincia già a mancare il legame esteriore di una disciplina nella cui tradizione
entrambi siano cresciuti insieme. Bataille si è occupato di etnologia e di sociologia senza rivestire mai un incarico accademico;
Foucault era professore per la storia dei sistemi di pensiero al
Collège de France. Tuttavia Foucault definisce Bataille uno dei
suoi maestri. Naturalmente Bataille lo affascina come colui che
si oppone al vortice snaturante dei nostri discorsi senza pregiudizi sulla sessualità e come colui che vuole restituire all'estasi,
quella sessuale come quella religiosa, il suo proprio, specifico,
senso erotico. Innanzitutto, però, Foucault ammira Bataille come
colui che accosta testi d'invenzione e testi analitici, romanzi e
riflessioni, che arricchisce la lingua con gesti della dépanse, dell'eccesso e della trasgressione, per evadere dalla lingua della soggettività trionfante. Interrogato circa i suoi maestri, Foucault
offre una risposta istruttiva:
Per molto tempo c'è stato in me una specie di conflitto mal
risolto fra la passione per Blanchot e Bataille da un lato e, d'altro
lato, l'interesse che nutrivo per certi studi positivi, come quelli di
Dumézil e di Lévi-Strauss, per esempio. Ma in fondo queste due
direzioni, il cui unico denominatore comune era costituito forse dal
problema religioso, hanno contribuito in egual misura a condurmi
al tema della scomparsa del soggetto 1•
1 P. Caruso (a cura di), Conversazioni con Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, facques Lacan, Milano 1969, p, 120.
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La rivoluzione strutturalista ha toccato sia Foucault sia altri
esponenti della stessa generazione; essa ha trasformato tanto lui
come Derrida in critici del pensiero antropologico-fenomenologico imperante da Kojéve fino a Sartre, e successivamente lo ha
anche influenzato nelle scelte metodologiche. Foucault intende,
al tempo stesso, questo ' discorso negativo sul soggetto ' introdotto da Lévi-Strauss come critica alla modernità. I motivi nietzschiani della critica della ragione non raggiungono Foucault
attraverso Heidegger, ma attraverso Bataille. Egli elabora, poi,
questi impulsi non da filosofo, ma da scolaro di Bachelard,
ossia come uno storico della scienza il quale, a differenza di ciò
che è usuale nel campo, si interessi più di scienze umane che
di scienze naturali.
Queste tre tradizioni riferibili ai nomi di Lévi-Strauss, Bataille e Bachelard, si collegano nel primo libro che ha fatto
conoscere Foucault al di fuori della stretta cerchia degli specialisti: la sua Storia della follia nell'età classica (1961), che è
uno studio sugli antecedenti e sulle origini della psichiatria.
Nei procedimenti di analisi del discorso e nella metodica alienazione della propria cultura appare evidente il modello dell'etnologia strutturalistica. Già il sottotitolo avanza pretese critico-razionalistiche, promettendo una « storia della follia nell'età
della ragione ». Foucault vuole mostrare come, a partire dalla
fine del XVIII secolo, il fenomeno della follia si definisca quale
malattia dello spirito. Con questo obiettivo, ricostruisce la storia della genesi del discorso, nella quale gli psichiatri del XIX
e XX secolo parlano della follia. Ciò che eleva questo libro
sopra gli studi d'impianto storico-culturale di uno storico della
scienza, è l'interesse filosofico per la follia come fenomeno complementare alla ragione: una ragione divenuta monologica tiene
a distanza dal corpo la follia per potersi impossessare senza
pericolo di esso come di un oggetto purificato della soggettività razionale. Foucault analizza la clinicizzazione che presenta
la malattia mentale essenzialmente come fenomeno medico,
quale esempio di quei processi di emarginazione, proscrizione
ed estromissione dalle cui tracce Bataille aveva ricavato la storia
della razionalità occidentale.
La storia della scienza si amplia sotto le mani di Foucault a storia della razionalità, poiché essa persegue il costituirsi della follia specularmente al costituirsi della ragione.
Foucault chiarisce programmaticamente- di « voler scrivere la
storia delle delimitazioni [ ... ] con cui una cultura respinge qual-
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cosa che per essa si trova all'esterno » 2 • Egli classifica la follia
nella categoria di quelle esperienze-limite nelle quali il logos
occidentale, in modo sommamente ambivalente, si vede di fronte
ad un eterogeneo. Alle esperienze che superano il limite appartengono il contatto con il mondo orientale e l'immersione in
esso (Schopenhauer), la riscoperta del tragico, in genere dell'arcaico (Nietzsche); la penetrazione nella sfera dei sogni (Freud)
e dei divieti arcaici (Bataille), anche l'esotismo alimentato dalle
relazioni degli antropologi. Foucault ne lascia, invece, fuori il
romanticismo, a prescindere da un accenno a Holderlin 3 •
Al contempo, ancora un motivo romantico, che Foucault più
tardi abbandonerà, attraversa Follia e società. Come Bataille
scopre la penetrazione di violenze eterogenee all'interno del
mondo omogeneo di un quotidiano normalizzato coattivamente,
nelle esperienze paradigmatiche dell'autolimitazione estatica e
dell'autodissolvimento orgiastico, così Foucault, dietro il feno2 M. Foucault, Wahnsinn und Gesellscha/t, Frankfurt a. M. 1969, p. 9 (prefazione dell'autore all'edizione tedesca di Histoire de la Folie).
3 Già Schelling e la filosofia romantica della natura avevano concepito la
follia come un altro dalla ragione, prodotto da una scomunica (Exkommunikation), naturalmente in una prospettiva di riconciliazione estranea a Foucault.
Mentre il legame comunicativo tra il folle (o il colpevole) e la totalità costituita
razionalmente della vita pubblica viene reciso, entrambe le parti risentono di
una deformazione - sono alterati coloro i quali ora sono rigettati sulla normalità coattiva di una ragione ancor solo soggettiva, non meno di coloro che
sono espulsi dalla normalità. La follia ed il male negano la normalità in quanto
diventano pericolosi per essa in un duplice modo - come ciò che disturba la
normalità il cui ordine pone in questione, ma anche come ciò che mette in
luce di fronte alla normalità la sua carenza, mentre si sottrae ad essa. Folli e
delinquenti possono, naturalmente solo come ragione distorta, grazie dunque ai
momenti separati dalla ragione comunicativa, dispiegare questa forza di negazione attiva. Questa figura ·di pensiero idealistica, che deve comprendere una
intrinseca dialettica della stessa ragione, Foucault, Bataille e Nietzsche l'hanno
abbandonata. Discorsi razionali affondano continuamente le radici in strati che
delimitano la ragione monologica. Questi fondamenti di senso muti, che si trovano alla base della razionalità occidentale, sono essi stessi privi di senso; devono venire riesumati come i monumenti muti di un'età arcaica, quando la ragione deve venire alla luce in un rapporto di scambio e di opposizione con il
suo altro. In questo senso l'archeologo è il modello per lo storico della scienza
che opera in modo storico-razionale, posto che costui si sia lasciato insegnare
da Nietzsche che la ragione educa in se stessa la sua struttura solo per la via
dell'estromissione di elementi eterogenei, solo per la via dell'accentramento monadico. Non c'è nessuna ragiorle prima di quella monologica. Perciò la follia non
appare come il risultato di un processo di scissione, nel corso del quale la
ragione comunicativa si sarebbe irrigidita in una ragione incentrata sul soggetto. Il suo processo di formazione è in pari tempo quello della ragione che
non si presenta in alcuna altra forma se non in quella occidentale di una soggettività riferita a se stessa. Quella ' ragione ' dell'idealismo tedesco, che vuole
essere più originaria di ciò che ha preso corpo nella cultura europea, appare
ora proprio come quella finzione con la quale l'Occidente si fa conoscere nella
sua peculiarità, con la quale esso si arroga una universalità chimerica e vela
ed impone, al contempo, la sua globale pretesa di dominio.
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meno della follia, generato psichiatricamente, e in genere dietro
le varie maschere della follia, suppone ancora un autentico,
al quale non resta che d'aprire la bocca sigillata: « Bisognerebbe volgersi con orecchio attento a quel mormorìo del mondo,
e tentare di percepire le tante figure che non hanno trovato la
propria espressione nella poesia, i tanti fantasmi che mai hanno
ottenuto colori nello stato di veglia» 4 •
Certo, Foucault riconosce subito il paradosso del compito
di afferrare la verità della follia « nel suo primo emergere, avanti
di essere afferrato attraverso la scienza »: « La percezione, che
cerca di afferrare queste parole in condizione incontrollata, fa
parte necessariamente di un mondo che essa ha già preso in
pugno ». Nondimeno sta qui dinnanzi all'autore ancora un'analisi del discorso che si riconduce, sul piano di una ermeneutica
del profondo, agli ambiti originari di quella iniziale biforcazione
di follia e ragione, per decifrare nel parlato il non-detto 5 •
Questa intenzione indica la direzione di una dialettica negativa che per mezzo del pensiero identificante, cerca di evadere
dal suo cerchio incantato, per giungere, lungo la storia dell'origine della ragione strumentale, fino al luogo dell'usurpazione
originaria e della separazione di una ragione fortificatasi in monade dalla mimesis, e circoscrivere questo luogo almeno aporeticamente. Se questa fosse la sua intenzione, Foucault dovrebbe
vagabondare come uri archeologo nel paesaggio di rovine di una
ragione obiettiva distrutta, dalle cui mute testimonianze ricavare
retrospettivamente la prospettiva di una speranza (seppure da
tempo ritrattata) di riconciliazione. Ma questa è la prospettiva
di Adorno, non quella di Foucault.
Chi non vuole smascherare nient'altro, se non la nuda figura
della ragione incentrata sul soggetto, non può abbandonarsi ai
sogni, che coglie all'improvviso questa ragione nel suo ' sapore
antropologico '. Tre anni più tardi, nella prefazione alla sua
Nascita della clinica, Foucault si richiama all'ordine da sé. Egli
intende rinunciare in futuro al rapporto commentante con la
parola, ad ogni ermeneutica che preme ancora così profondamente sotto la superficie del testo. Ora cerca dunque dietro il
4 M. Foucault, Wahnsinn und Gesellschaft, cit., p. 13.
Dal momento che ci manca l'originaria purezza, la ricerca della struttura deve ricondurre a quella decisione che separa e lega, al contempo, ragione
e follia. Essa deve tentare di scoprire lo scambio costante, l'oscura radice comune e l'originaria contrapposizione che dà un senso tanto all'unione, quanto
all'opposizione di senso e pazzia. Cosl potrà nuovamente comparire la fulminea
decisione che all'interno del tempo storico è eterogenea, ma all'esterno di
questo è intoccabile, che separa ogni borbottio di insetti scuri dalla lingua della
ragione e dalle promesse del tempo» (lvi, p. 13).
5 <<
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discorso sulla follia non più la follia stessa, dietro la archeologia dello sguardo medico non più quel silenzioso contatto del
corpo con l'occhio, che sembrava precedere ogni discorso. Egli
rinuncia, diversamente da Bataille, all'approccio evocativo all'emarginato ed al proscritto, gli elementi eterogenei non pmmettono più nulla. Un'ermeneutica, pur sempre ancora smascherante, congiunge con la sua critica ancora sempre una promessa;
da questo si deve liberare un'archeologia disincantata:
Non è forse possibile fare un'analisi del discorso, che non presumesse alcuna rimanenza ed alcun avanzo di significato in ciò
che è stato detto, bensl soltanto ancora il fatto del suo comparire
storico? Non bisognerebbe allora trattare appunto i fatti discorsivi
come noccioli autonomi di significati plurimi, bensì come eventi ed
elementi funzionali, che formano un sistema che si costituisce progressivamente. Il senso di una affermazione non sarebbe definito
grazie al patrimonio delle intenzioni in essa contenute, tramite cui
viene subito scoperta e repressa, bensì tramite la differenza che la
affianca ad altre affermazioni reali e possibili, contemporanee o
contrapposte nel tempo. Cosl comparirebbe il contenuto sistematico
del discorso 6,
Qui si dà già ad intendere la concezione di una scrittura
della storia che Foucault, sotto l'influenza di Nietzsche, a partire dalla fine degli anni '60, contrappone come una sorta di
anti-scienza a quelle scienze umane che sono sistemate nella
storia della ragione e pertanto svalutate. Alla luce di questa
concezione, Foucault etichetterà i suoi primi lavori sulla follia (e sul sorgere della psicologia clinica), nonché quelli sulla
malattia (e lo sviluppo della medicina clinica) come dei 'tentativi ciechi', almeno in parte. A questo punto, voglio però
accennare a certi temi che istituiscono una continuità di fatto
tra i lavori iniziali e quelli ultimi.
II
Già in Follia e società, Foucault esamina il legame specifico di
discorsi e pratiche. Non si tratta qui del noto tentativo di spiegare uno sviluppo della scienza ricostruita internamente a partire da condizioni esterne alla scienza. In luogo del punto
di vista interno di una storia della teoria governata problema6 M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéo/ogie du regard médical,
Paris 1963 (tr. it., Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Torino 1969, p. 12).
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ticamente, entra in primo piano la descrizione strutturale di
discorsi fortemente selezionati, singolari, che si inserisce nelle
lacune occultate dalla valutazione storico-problematica, dunque
proprio laddove un nuovo paradigma comincia a contrapporsi
ad uno vecchio. Del resto i discorsi degli scienziati sono vicini
ad altri discorsi, tanto ai discorsi filosofici quanto a quelli delle
professioni accademiche, vale a dire dei medici, giuristi, magistrati, teologi, pedagoghi. Certo, le scienze umane, che costituiscono l'ostinato punto fermo degli studi di Foucault, non si trovano soltanto nel contesto di altri discorsi; ancora più importanti per la storia della loro genesi, sono le mute pratiche, nelle
quali sono introdotte. Tra queste Foucault comprende le regolazioni dei modi d'agire e delle abitudini, istituzionalmente consolidate, spesso anche pervenute a corposità architettonica e a
spessore rituale. Nel concetto di pratica, Foucault ha colto il
momento dell'intervento violento, asimmetrico, sulla libertà di
movimento dei partecipanti all'interazione. Giudizi giuridici,
misure poliziesche, ammaestramenti pedagogici, internamenti,
punizioni, controlli, forme dell'addestramento corporale ed intellettuale rappresentano in modo esemplare l'intromissione di
forze socializzanti, organizzative, nel sostrato naturale di creature viventi. Foucault si concede un concetto del sociale, del
tutto asociale. E le scienze umane lo interessano, in linea di
principio, solo come media, che rafforzano e promuovono, nella
modernità, il mostruoso processo di questa socializzazione, cioè
il depotenziamento di interazioni concrete, mediate corporalmente. Resta, comunque, non chiaro il problema di come siano
in relazione i discorsi con le pratiche: se gli uni governino le
altre; se la loro relazione debba venir concepita come base e
sovrastruttura o piuttosto secondo il modello di una causalità
circolare o ancora come interferenza di struttura ed evento.
Anche alle sezioni epocali in cui si articola la storia della follia,
Foucault è sempre rimasto fedele.
Sullo sfondo, non ben delineato dell'alto Medioevo, che
ancora rimanda agli inizi del logos greco 7 , si profilano più chiaramente i contorni del Rinascimento, il quale, a sua volta, dà
risalto all'età classica, descritta con chiarezza e simpatia (dalla
metà del XVII alla fine del XVIII secolo). La fine del XVIII
secolo segna dunque la peripezia del dramma storico-razionale,
quella soglia alla modernità che è costituita dalla filosofia kan7 M. Foucault, Wahnsinn und Gesellscha/t, cit., pp. 8 sg. Non ho più potuto prendere in considerazione gli or ora pubblicati volumi II e III della Storia
della sessualità.
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tiana e dalle nuove scienze umane. A queste epoche, debitrici
dei loro nomi convenzionali alle cesure storico-culturali e storico-sociali, Foucault dà un significato più profondo a misura
delle mutevoli costellazioni di ragione e follia. Al XVI secolo,
ascrive una certa inquietudine autocritica e una certa apertura
in relazione ai fenomeni della follia. La ragione ha ancora una
permeabilità osmotica, mentre la follia si trova ancora in relazione con il tragico ed il profetico, è luogo di verità apocrife;
ha la funzione di uno specchio che smaschera ironicamente le
debolezze della ragione. La predisposizione per le illusioni fa
parte del carattere della ragione stessa. Durante il Rinascimento,
dalla relazione della ragione con il suo altro non è ancora obliterata ogni reversibilità. Su questo sfondo, due processi assumono il significato di eventi liminari nella storia della ragione:
l'ondata di internamenti alla metà del XVII secolo, quando a
Parigi, per esempio, nell'arco di pochi mesi del 1656, fu arrest~to e internato un abitante su cento; e parimenti, alla fine del
XVIII secolo, la trasformazione di questi ospizi e luoghi di
internamento in veri e propri istituti di reclusione con assistenza
medica per malattie mentali medicamente diagnosticate; vale a
dire, la nascita di quelle istituzioni psichiatriche che sussistono
ancora oggi, ed il cui smantellamento viene propugnato dal
movimento antipsichiatrico.
Entrambi gli eventi, innanzitutto l'internamento indiscriminato di pazzi, criminali, vagabondi, libertini, poveri, eccentrici
di ogni tipo, e più tardi, l'organizzazione di cliniche per il trattamento di malati di mente, evidenziano due tipi di pratiche;
entrambi servono alla emarginazione di elementi eterogenei da
quel monologo gradualmente rinsaldantesi che il soggetto, sollevato infine alla ragione umana comune, conduce con se stesso,
mentre trasforma in oggetto tutto intorno a sé. Come in indagini successive, al punto centrale si trova il confronto dell'età
classica con la modernità. Entrambi i generi di pratiche di esclusione concordano nel fatto che conseguono con la forza una
separazione e cancellano rigorosamente dal quadro della follia
quei tratti che sono simili alla ragione.
Solamente l'internamento indiscriminato di tutto il deviante
significa solo la segmentazione spaziale del diseredato e bizzarro
lasciato a se stesso, non ancora l'addomesticante confronto con
un caotico suscitante angoscia, che deve essere integrato, come
patimento e come patologia, all'ordine della natura come degli
uomini: « Il Classicismo non aveva rinchiuso soltanto una ragione astratta, in cui si confondevano folli e libertini, malati
e criminali, ma anche una prodigiosa riserva di fantastico, un
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mondo addormentato di mostri inghiottiti nella notte di Bosch » 8 •
Solo nel tardo XVIII secolo cresce la paura di fronte ad una
follia che sarebbe potuta fuoriuscire attraverso le fessure del
ricovero, cresce anche la compassione per i malati di nervi ed
una sensazione di colpa per averli associati a luridi malfattori ed
abbandonati alloro destino. La purificazione clinica del ricovero
ormai riservato ai malati procede di pari passo con l'aggettivazione scientifica della pazzia e del trattamento psichiatrico dei
pazzi. Questa clinicizzazione significa al contempo una umanizzazione della sofferenza ed una naturalizzazione della malattia 9 •
Con ciò viene affrontato un ulteriore argomento, che Foucault tratterà con sempre maggior intensità: il legame costitutivo delle scienze umane con le pratiche di un isolamento sorvegliato. La nascita dell'istituto psichiatrico, della clinica in genere, è validamente utilizzabile come esempio di una forma di disciplinamento che più tardi Foucault descriverà senz'altro come
la moderna tecnologia di dominio. L'archetipo dell'istituto chiuso, che in seguito Foucault scopre nel mondo, costruito come clinica, del manicomio, ritorna nelle forme della fabbrica, del carcere, della caserma, della scuola e del convitto di cadetti. In
queste istituzioni totali che eliminano le differenziazioni sorte
naturalmente nella vita della vecchia Europa ed innalzano l'eccezionalità dell'internamento ad una normale procedura di ricovero, Foucault vede i monumenti della vittoria della ragione
regolamentante. Questa non assoggetta a se stessa più solo la
follia, bensì tanto la natura di bisogno dei singoli organismi
quanto il corpo sociale di una popolazione nel suo insieme 10 •
a M. Foucault, Histoire de la Folie, Paris 1961, p. 380 (tr. it., Storia della
follia nell'età classica, Milano 1963, p. 402).
9 Foucault descrive efficacemente un ricovero che, al tempo delle riforme,
alla fine del XVIII secolo, muta profondamente aspetto e funzione per cosl dire
sotto gli sguardi degli psichiatri: «Un tempo, questo villaggio significava che i
folli erano rinchiusi e che l'uomo di ragione ne era protetto; ora testimonia che
il folle (aussortiert, Hb.) è liberato e che in questa libertà che lo riaccosta alle
leggi della natura egli si riunisce all'uomo di ragione. [ ... ] Senza che nulla si
sia ancor sostanzialmente mutato nelle istituzioni, il significato dell'esclusione e
dell'internamento comincia ad alterarsi: esso prende lentamente dei valori po·
sitivi, e lo spazio neutro, vuoto, notturno, in cui un tempo la sragione veniva
restituita al suo nulla, comincia a popolarsi di una natura (dominata medicamente) alla quale la follia, liberata, è obbligata come patologia a sottomettersi>>,
M. Foucault, op. cit., p. 35 (tr. it. cit., p. 375). Mie le aggiunte fra parentesi.
IO << Alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da
larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell'anello; la costruzione
periferica è divisa in celle, che occupano, ciascuna, tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l'interno, corrispondente alla finestra della torre; l'altra, verso l'esterno, permette alla luce di attraversare la cella
da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in
ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno
scolaro. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla torre, stagliandosi
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Per gli Istituti lo sguardo che oggettiva ed esamina, che scompone analiticamente, controlla e tutto compenetra, assume una
funzione formatrice di strutture; è lo sguardo del soggetto razionale, che ha perduto tutti i collegamenti puramente intuitivi
col suo ambiente, ha rotto tutti i ponti dell'intesa intersoggettiva, ed al quale, nel suo isolamento monologico, altri soggetti
sono accessibili ancora solo nella posizione di oggetti d'osservazione non partecipe. Nel Panoptikon progettato da Bentham
questo sguardo si è per così dire coagulato in architettura.
La stessa struttura presiede alla culla delle scienze umane.
Non è un caso che queste scienze, avanti a tutte la psicologia
clinica, ma anche la pedagogia, la sociologia, la politologia e
l'antropologia culturale, possano incastrarsi quasi senza attriti
nella tecnologia del potere che trova espressione architettonica
nell'istituto chiuso. Esse vengono convertite in terapie e tecniche sociali e costituiscono così il medium più efficace della
nuova violenza disciplinatrice che domina la modernità. Devono
questo al fatto che lo sguardo penetrante del cultore d'esse può
assumere quello spazio centrale del Panoptikon, dal quale si
vede senza esser visti. Già nello studio sulla nascita della clinica, Foucault ha concepito lo sguardo dell'anatomista addestrato sul cadavere umano come ' il concreto a priori ' delle
scienze dell'uomo. Già nella storia della follia, egli è sulla pista
di questa originaria affinità tra la struttura del ricovero ed il
rapporto medico-paziente. In entrambi, nell'organizzazione dell'istituto di sorveglianza come nell'osservazione clinica dei pazienti, è attuata la separazione . fra vedere ed esser visti, che
collega l'idea della clinica con quella di una scienza dell'uomo.
! l'idea che altrettanto originariamente perviene al potere con
la ragione incentrata sul soggetto: cioè, che la soppressione di
relazioni dialogiche trasforma i soggetti, resi rispettivamente
monologici, in oggetti, e solo in oggetti.
Dall'esempio d_egli sforzi riformistici dai quali provengono
l'istituto psichiatrico e la psicologia clinica, Foucault sviluppa
conclusivamente quella intima affinità di umanismo e terrore che
esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante
gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile>> (M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris 1975, p. 201; tr. it., Sorvegliare e punire. Nascita della
prigione, Torino 1976, p, 218). Delle funzioni del vecchio carcere - imprigionamento, oscuramento, occultamento - resta solo il primo mantenuto: la limitazione della libertà di movimento è necessaria per soddisfare alle condizioni in
certo qual modo sperimentali per l'installazione dello sguardo concretatosi. « Il
Panoptikon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell'anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre ,centrale,
si vede tutto, senza mai essere visti» (lvi, p, 203; tr. it. cit., p. 220)/
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conferisce alla sua critica della modernità tutta la sua asprezza
e crudeltà. Nella nascita dell'istituto psichiatrico dalle idee umanitarie dell'Illuminismo, Foucault evidenzia, per la prima volta,
quel « doppio movimento di liberazione e asservimento » che più
tardi egli riconosce su un fronte più vasto nelle riforme del
sistema penale, del sistema educativo, della sanità, dell'assistenza
sociale, ecc. La liberazione, su basi umanitarie, dei pazzi dal
mero internamento senza custodia, la creazione di cliniche igieniche con obiettivi medici, il trattamento psichiatrico dei malati
di mente, il diritto che questi acquisiscono alla comprensione
psicologica e al trattamento terapeutico, tutto ciò diventa possibile grazie ad un ordinamento d'istituto che riduce il paziente
ad oggetto di continua sorveglianza, manipolazioni, isolamento
e regolamentazione, ed in primo luogo ad oggetto di ricerca
medica. Le pratiche che si consolidano istituzionalmente nell'organizzazione interna della vita dell'istituto sono la base per
una conoscenza della follia che conferisce a questa anzitutto
l'obiettività di una patologia portata sul concetto, e poi la inquadra nell'universo della ragione. Una liberazione ambigua, nel
doppio senso di emancipazione e di eliminazione, significa la
conoscenza psichiatrica certo non solo per il paziente, ma anche
per il medico, il positivista nella pratica: « La conoscenza della
follia presuppone, per colui che la possiede, un certo modo di
liberarsi di essa, di essersi in anticipo Gtru;cato dai s1,1oi rischi
e dai suoi prestigi [ ... ] Originariamente esso è la fissazione di
un modo particolare di esser fuori dalla follia » 11 •
Non tratterò questi quattro temi singolarmente; piuttosto
seguirò la questione se a Foucault riesca, nella forma di una
storiografia delle scienze umane impostata archeologicamente ed
ampliata a genealogia, di condurre una critica radicale della
ragione, senza impigliarsi nelle aporie di quest'impresa relativa
a se stessa. Nei suoi primi lavori, era rimasto irrisolto, al pari
del rapporto discorsi/pratiche, il problema metodico di come si
possa scrivere la storia delle costellazioni di ragione e follia, se,
da parte sua, il lavoro dello storico deve ancora muoversi nell'orizzonte della ragione. Nelle premesse agli studi apJ?arsi all'inizio degli anni '60, Foucault si pone questa domanda senza
rispondervi; pare esser stata nel frattempo risolta, allorché tiene
la sua prolusione al Collège de France nel 1970. La linea di
confine tra ragione e follia si ripresenta qui come uno dei tre
meccanismi di esclusione in forza dei quali si costituisce il discorso ragionevole. L'eliminazione della follia si trova a metà
11
M. Foucault, Hìstoìre de la Folìe, cit., p. 480 (tr. it. cit., p. 522).
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fra l'operazione più appariscente, da una parte, di tener lontano dal discorso oratori riluttanti, soffocare temi sgradevoli,
censurare espressioni, ecc. e, dall'altra, l'operazione per nulla
rimarcabile, di distinguere fra asserzioni valide o non valide
all'interno di un discorso intrapreso. Foucault ammette che, a
prima vista, non è plausibile intendere le regole per l'eliminazione di asserzioni sbagliate secondo il modello della emarginazione della follia e della proscrizione dell'eterogeneo:
Come si potrebbe paragonare in modo ragionevole la costrizione
della verità con partizioni come quelle, partizioni arbitrarie o che
comunque si organizzano attorno a contingenze storiche, [ ... ] che
si spostano costantemente, che sono sorrette da un intero sistema
di istituzioni che le impongono o le riconfermano; che non si esercitano infine senza costrizione, o senza almeno una parte di violenza? 12 •
Naturalmente Foucault non si lascia impressionare dal riferimento all'ostentata mancanza di costrizione dell'argomento
cogente, con il quale in genere si affermano pretese di verità,
pretese di validità. L'apparente mancanza di violenza dell'argomento migliore scompare non appena ci si colloca ' su un altro
piano ' e si assuma l'atteggiamento dell'archeologo, che orienta
il suo sguardo sui fondamenti di senso seppelliti, sulle infrastrutture da scoprire faticosamente, che pure solo stabiliscono
che cosa, all'interno di un discorso, debba essere considerato,
di volta in volta, vero e falso. La verità è un meccanismo di
esclusione subdolo, perché funziona solo a condizione che rimanga celata la volontà di verità che, di volta in volta, la pervade:
~ come se per noi la volontà di verità e le sue peripezie venissero mascherate dalla verità stessa nel suo necessario svolgimento
[ ... ]. Il discorso vero, che la necessità della sua .forma affranca dal
desiderio e libera dal potere, non può riconoscere la volontà di
verità che lo attraversa; e la volontà di verità, che da molto tempo
si è imposta a noi, è sifiatta, che la verità ch'essa vuole, non può
non mascherarla 13,
I criteri di validità secondo i quali viene separato, di volta
in volta, all'interno del discorso, vero da falso, persistono in
una singolare trasparenza e mancanza d'origine - la validità
deve allontanare da sé tutto il meramente genetico, anche la
12 M. Foucault, L'ordre du discours, Paris 1971, p. 15 (tr. it., L'ordine del
discorso, Torino 1972, p. 13).
13 lvi, p. 215 (tr. it. cit., p. 17).
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provenienza dalle regole costitutive del discorso che stanno alla
base, che l'archeologo dissotterra. Le strutture che rendono possibile la verità, possono esse stesse essere così poco vere o false,
che· si può ricercare unicamente la funzione della volontà pervenuta in esse ad espressione, così come la genealogia di questa
volontà da un intreccio di pratiche di forza. Dall'inizio degli
anni '70, Foucault distingue cioè l'archeologia del sapere, che
scopre le regole di esclusione del discorso costituenti la verità,
dall'esame genealogico delle pratiche che vi appartengono. La
genealogia esamina come si formano i discorsi, perché compaiono e nuovamente scompaiono, col seguire la genesi delle
condizioni di validità storicamente variabili fin dentro alle radici istituzionali. Mentre l'archeologia segue lo stile di una dotta
disinvoltura, la genealogia è dedita ad un « positivismo felice» 14 • Se però, l'archeologia potesse procedere dottamente e
la genealogia con positivismo innocente, sarebbe risolto il paradosso metodico di una scienza, che scrive la storia delle scienze
umane con l'obiettivo di una critica radicale della ragione.
III
Foucault deve il concetto di una storiografia che si presenta
come antiscienza, positivistico-erudita, alla recezione di Nietzsche, che si riflette nella introduzione all'Archeologia del sapere
(1969) e nel saggio su Nietzsche, la genealogia, la storia (1971).
Considerato filosoficamente, questo concetto offre, si direbbe,
un'alternativa promettente a quella critica della ragione che in
Heidegger e Derrida aveva assunto l'aspetto temporalizzato di
una filosofia dell'origine. L'intero peso della problematica ricade
ora naturalmente sul concetto fondamentale di potere, che solo
dà il suo orientamento di critica della modernità ai lavori di
scavo archeologici come alle scoperte genealogiche. L'autorità di
Nietzsche, dal quale è preso a prestito questo concetto di potere
del tutto estraneo alla sociologia, non è naturalmente sufficiente
a giustificarne l'uso sistematico. Il contesto politico della recezione di Nietzsche - la delusione per la rivolta fallita nel
1968 - rende certo comprensibile biograficamente il concetto
di una storiografia critico-razionale delle scienze umane; ma
anch'esso non può legittimare l'uso specifico del concetto di
potere, sul quale Foucault scarica la sua paradossale impresa.
La svolta verso la teoria del potere dev'essere piuttosto intesa
14
lvi, p. 72 (tr. it. cit., p, 53).
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come il superamento, internamente motivato, di problemi di
fronte ai quali Foucault si vede posto dopo aver realizzato, nell'Ordine delle cose, uno smascheramento delle scienze umane
esclusivamente sulla base di mezzi analitico-discorsivi. Anzitutto, però, qualche osservazione sull'adozione, da parte di Foucault, del concetto di ' genealogia '.
La storiografia genealogica può assumere il ruolo criticorazionale di un'anti-scienza solo quando esce dall'orizzonte appunto di quelle scienze dell'uomo orientate storicamente, il cui
vuoto umanesimo Foucault intende smascherare grazie alla teoria del potere. La nuova storia deve rifiutare tutte quelle premesse che sono state costitutive per la conoscenza storica della
modernità, per il pensiero filosofico-storico e per l'Illuminismo
storico, dalla fine del XVIII secolo. Ciò spiega perché la seconda
considerazione inattuale di Nietzsche risulti, per Foucault, una
vera e propria miniera. Appunto con intenzione analoga, Nietzsche aveva sottoposto lo storicismo del suo tempo ad una critica severa.
Foucault vuole a) lasciare dietro di sé la presentistica coscienza del tempo della modernità. Vuole farla finita con il privilegiare un presente caratterizzato dal peso del problema di un
futuro accettato con responsabilità, un presente narcisisticamente
riferito al passato. Foucault chiude i conti con il presentismo
di una storiografia che non supera la sua finale situazione ermeneutica e che si lascia arruolare per provvedere allo stabilizzante accertamento di un'identità peraltro da gran tempo frammentata. Pertanto la genealogia non deve andare alla ricerca di
un'origine, bensl scoprire gli inizi contingenti delle formazioni
del discorso, analizzare la molteplicità delle storie di origine
fattuali, e spiegare l'apparenza d'identità o, a dir meglio, l'identità presunta dello stesso soggetto storiografico e quella dei suoi
coetanei: « Là dove l'anima ha la pretesa di unificarsi, dove
l'Io diventa un'identità o una coerenza, la genealogia va alla
ricerca di un principio [ ... ]. L'analisi della provenienza permette di dissociare l'io e di far pullulare nei luoghi della sua
vuota sintesi migliaia di avvenimenti smarriti » 15 •
Deriva da ciò b) la conseguenza metodica di un commiato
dall'ermeneutica. La nuova historie non serve alla comprensione,
ma alla distruzione ed al ramificarsi di quel contesto storicoeffettuale, che collega presumibilmente lo storico con un oggetto
col quale entra in comunicazione solo per ritrovarvicisi esso
15 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, in Hommage à Jean
Hyppolite, Paris 1971 (tr. it., Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica
del potere, Torino 1977, p. 357).
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stesso: «Bisogna staccare la storia dalla immagine [ ... ] in cui
trovava la sua giustificazione antropologica: quella di una memoria millenaria e collettiva che cerca l'aiuto di documenti [ ... ]
per ritrovare la freschezza del suo ricordo» 16 • Lo sforzo ermeneutico mira all'acquisizione di un senso, intuisce in ogni documento una voce messa a tacere che deve essere nuovamente
richiamata in vita. Questa idea del documento gravido di senso
dev'essere messa in dubbio non meno radicalmente del mestiere
stesso dell'interpretare. Giacché il ' commento ' e le relative finzioni di 'opera' e di ' autore' come prima origine del testo,
anche la riconduzione di testi secondari ai primari, insomma
tutta la produzione di causalità storiografiche sono strumenti di
una inammissibile riduzione di complessità, sono processi di
arginamento del traboccare spontaneo di discorsi che l'interprete postumo vuole adattare solamente a sé, vuole adeguare al
suo provinciale orizzonte intellettivo. L'archeologo, invece, ritrasformerà i documenti eloquenti in monumenti muti, in oggetti
che devono essere liberati dal loro contesto per diventare accessibili ad una descrizione strutturalistica. Il genealogista si avvicina dall'esterno ai monumenti scoperti archeologicamente per
spiegare la loro provenienza dal ritmo contingente di battaglie,
vittorie e sconfitte. Solo lo storico, che disprezza sovranamente
tutto ciò che si rivela alla comprensione del senso, può sfuggire
alla funzione fondativa del soggetto conoscente. Egli ravvisa
come mero inganno quella « garanzia che tutto ciò che gli è
sfuggito, gli potrà essere (anche) reso; [ ... ] la promessa che il
soggetto potrà un giorno - sotto la specie della coscienza storica - impadronirsi nuovamente di tutte le cose che la differenza tiene lontane » 17 •
I concetti fondamentali della filosofia del soggetto non governano solo il tipo di accesso all'ambito dell'oggetto, ma anche la
storia stessa. Pertanto Foucault vuole soprattutto c) farla finita
con una storiografìa globale che concepisce segretamente la storia
come una macra-coscienza. La storia al singolare deve essere
nuovamente risolta, certo non nella molteplicità delle storie narrative, ma in un pluralismo di isole di discorso che, senza regole,
emergono e si inabissano di nuovo. Lo storico critico risolverà,
in primo luogo, le false continuità, e presterà attenzione alle fratture, alle soglie, ai cambiamenti di direzione. Egli non instaura
connessioni teleologiche; non si occupa delle grandi causalità;
non fa i conti con sintesi, rinuncia a principi colleganti come
16 M. Foucault, L'archéologie du savoir, Paris 1969, p. 14 (tr. it., L'archeologia del sapere, Milano 1971, p, 10).
17 lvi, p. 22 (tr. it. cit., p. 18).
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progresso ed evoluzione, non suddivide la storia per epoche:
« Il progetto di una storia globale è quello che cerca di ricostruire nel suo insieme la forma di una civiltà, il principio, materiale o spirituale di una soçietà, il significato comune di tutti
i fenomeni di un periodo, la legge che spiega la loro coesione,
insomma, ciò che, metaforicamente, si chiama il 'volto' di
un'epoca» 18 • Al posto di questo, Foucault prende a prestito
dalla 'storia seriale' della scuola delle Annales, le vedute orientate programmaticamente di un procedimento strutturalistico che
fa i conti con una pluralità di storie sistemiche non simultanee,
e costruisce le loro unità analitiche in base a indicatori lontani
dalla coscienza, comunque rinunciando ai mezzi concettuali
delle prestazioni sintetiche di una coscienza supposta, dunque
alla formazione di totalità 19 • In tal modo viene eliminata anche
l'idea della riconciliazione, un'eredità della filosofia della storia,
a cui aveva disinvoltamente attinto ancora la critica della modernità collegata ad Hegel. Un brusco rifiuto tocca ad ogni storia,
« che avrebbe la funzione di raccogliere in una totalità ben
chiusa su di sé, la diversità [ ... ] del tempo; una storia che ci
permetterebbe di [ ... ] dare a tutte le trasformazioni del passato
la forma della riconciliazione; una storia che getterebbe dietro
di sé uno sguardo da fine del mondo » 20 • Da questa decostruzione di una storiografia che rimane att<J.ccata al pensiero antropologico ed a fondamentali convinzioni umanistiche, si delineano
i confini di uno storicismo trascendentale, per così dire, che contemporaneamente eredita e supera la critica di Nietzsche alla
storia trascendentale, in senso debole; resta la storiografia radicale di Foucault in quanto intende gli oggetti della comprensione di senso ermeneutico-storico come costituiti - cioè come
aggettivazioni di una prassi del discorso di volta in volta fondamentale e troppo ampia strutturalisticamente. La vecchia storia si era occupata di totalità di senso che dischiudeva dalla
prospettiva interna dei partecipanti; da questa visuale non salta
all'occhio ciò che di volta in volta costituisce un simile mondo
del discorso. Solo ad un'archeologia che dissotterra una prassi
del discorso con le sue radici ciò che verso l'interno si pretende
come totalità, si fa riconoscere dall'esterno come un particolare che potrebbe essere anche diverso.
Mentre i partecipanti si concepiscono come soggetti che si
Ivi, pp. 17-18 (tr. it. cit., p. 14).
C. Honegger, M. Foucault und die serielle Geschichte, in « Merkur >>, 36,
1982, pp. 501 sgg.
20 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, cit. (tr. it. cit., pp. 41
sgg.).
18
19
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riferiscono ad oggetti secondo criteri di validità universali, senza
per questo riuscire a trascendere il penetrabile orizzonte del loro
mondo, l'archeologo che proviene dall'esterno mette fra parentesi questa evidenza. Nell'atto in cui ritorna sulle regole costitutive del discorso, egli s'accerta dei confini del rispettivo universo discorsivo; la forma di questo viene cioè circoscritta grazie a quegli elementi che esso inconsapevolmente esclude come
eterogenei - in tale misura le regole costitutive del discorso
hanno anche la funzione di un meccanismo di esclusione.
Ciò che viene escluso dal discorso vigente, rende anzitutto
possibili le relazioni soggetto-oggetto specifiche, ma universalmente valide, vale a dire prive di alternative, all'interno del
discorso. Sotto questo aspetto Foucault, con la sua archeologia
del sapere, accetta l'eredità dell'eterologia di Bataille. Ciò che
lo distingue da Bataille, è lo spietato storicismo, davanti al quale
si annulla anche il punto di riferimento prediscorsivo della
sovranità. Tanto poco, al di qua di tutti i discorsi sui pazzi, il
termine ' follia ' mostra un autentico potenziale di esperienza, a
partire dal Rinascimento fino alla psichiatria positivistica del
XIX secolo, quanto poco l'altro dalla ragione, l'eterogeneo escluso, conserva il ruolo di un referente prediscorsivo che potrebbe
indicare l'imminente avvento di un originario perduto 21 •
Piuttosto è lo spazio della storia, come ora si vede, ad essere
riempito senza soluzione di continuità dal mero accadere contingente del disordinato apparire e scomparire di nuove formazioni del discorso; in questa caotica varietà di universi transeunti del discorso non rimane più posto per un qualsivoglia
senso esteso. Lo storicista trascendentale vede come in un caleidoscopio: « Questo caleidoscopio non richiama figure successive di uno sviluppo dialettico; non le spiega attraverso un progredire della coscienza, del resto neppure con il declino, neppure con la lotta di due principi: desiderio e repressione - ogni
svolazzo deve la sua figura bizzarra allo spazio che le pratiche
adiacenti gli hanno lasciato » 22 •
La storia, sotto lo sguardo stoico dell'archeologo, si indurisce
in un iceberg rivestito delle forme cristalline di arbitrarie for21 Cfr. l'autocritica in M. Foucault, L'archéologie du savoir, cit., pp. 26-27
(tr. it. cit., p. 237): << In generale, la Storia della Follia dava un peso troppo
considerevole, e d'altra parte molto enigmatico, a ciò che vi veniva designato
come ' esperienza '. mostrando in tal modo quanto vicini si fosse ad ammettere
un soggetto anonimo e generale della storia >>.
Z2 P. Veyne, Foucault révolutionne l'histoire, in Comment on écrit l'histoire,
Paris 1978, p. 225 (tr. it. abbr., Foucault e la storia, in «Aut-Aut», n. 181,
gennaio-febbraio 1981, p, 80). La metafora di Veyne ha attinenza con l'immagine
di Gehlen della ' cristallizzazione '.
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mazioni del discorso. Dal momento che, però, a ciascuna di esse
spetta l'àutonomia di un universo privo d'origine, allo storico
resta ancora solo il compito del genealogista, che spiega la nascita casuale di queste immagini bizzarre dalle forme cave delle
formazioni confinanti, cioè dalle circostanze più vicine. Sotto lo
sguardo cinico del genealogista, l'iceberg si mette in movimento:
le formazioni del discorso si spostano e si mescolano, fluttuano
su e giù. Il genealogista spiega questo su e giù con l'aiuto di innumerevoli avvenimenti e di una sola ipotesi - che l'unica cosa
che dura è la potenza, che si presenta sotto maschere sempre
diverse nella vicenda di anonimi processi di sopraffazione: « ' avvenimento' - bisogna intendere con ciò non una decisione, un
trattato, un regno o una battaglia, ma un rapporto di forze che
si inverte, il crollo di una potenza, un vocabolario ripreso e
rovesciato contro quelli che lo usano, una dominazione che si
indebolisce, si allenta, si avvelena lei stessa, un'altra che fa il
suo ingresso, mascherata» 23 • Ciò che fin qui la forza sintetica
della coscienza trascendentale doveva compiere per l'universo
unico e generale degli oggetti dell'esperienza possibile, questa
sintesi ora si dissolve nella volontà priva di soggetto di una
potenza attiva nel contingente e disordinato su e giù delle formazioni del discorso.
IV
Come precedentemente in Bergson, Dilthey e Simmel, la ' vita '
è stata elevata a concetto basico trascendentale di una filosofia
che formava ancora lo sfondo per l'analitica dell'esserci di Heidegger, così ora Foucault eleva ' potere ' a concetto basico storico-trascendentale di una storiografia critico-razionale. Questa
mossa non è in nessun modo banale e certo non è solamente
da motivare con l'autorità di Nietzsche. Davanti allo sfondo contrastato del concetto della storia dell'essere, yoglio, a questo
punto, cercare il ruolo che questo irritante concetto basico
assume in Foucault nella critica della ragione.
Heidegger e Derrida volevano proseguire il programma della
critica della ragione di Nietzsche sulla via di una distruzione
della metafisica, Foucault vuol farlo con una distruzione della
scienza della storia. Mentre quelli hanno superato la filosofia per
mezzo di un pensiero evocativo al di là della filosofia, Foucault
23
M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, cit. (tr. it. cit., pp. 43
sgg.).
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oltrepassa le scienze umane per mezzo di una storiografia che si
presenta come un'anti-scienza. Entrambe le parti neutralizzano le
pretese di validità sollevate appunto d~ quei discorsi filosofici e
scientifici che ricercano, mentre si rif~nno di volta in volta ad
una comprensione epocale dell'essere o alle regole di formazione
di un discorso. L'uno come l'altro devono, prima di tutto, rendere possibile il senso di ciò che esiste e la validità di asserzioni
interne all'orizzonte del mondo dato o di un discorso accordato.
Entrambe le parti si trovano anche d'accordo sul fatto che gli
orizzonti del mondo o le formazioni di un discorso cambiano,
ma in questi cambiamenti mantengono il loro potere su ciò che
svolge all'interno dell'universo da loro, di volta in volta, costituito; in questo modo viene esclusa una ripercussione dialettica
o circolare dell'accadere ontico, come per esempio dei referenti
alla storia delle condizioni di possibilità ontologiche oppure
costitutive del discorso. La storia dei trascendentali o il mutare
degli orizzonti che dischiudono il mondo richiedòno altri concetti da quelli che sono propri dell'ontico e dello storico. Solo
a questo punto i sentieri si diramano.
Heidegger radicalizza le figure di pensiero della filosofia originaria, cui serba un residuo di fiducia. Egli trasferisce l'autorità epistemica del valore di verità al processo di formazione e
trasformazione di orizzonti che dischiudono il mondo. Le stesse
condizioni che rendono possibile la verità non possono essere né
vere né false; cionondimeno, un para-valore viene assegnato al
processo della loro trasformazione che, secondo il modello del
valore di verità delle asserzioni, deve essere concepito come una
forma storicizzata di aumento di verità. A ben vedere, Heidegger presenta con il concetto della storia dell'essere come di un
accadere vero, il seguente curioso legame. L'autorità della storia
dell'essere si deve a una fusione di significato nata da una spontanea pretesa di validità e da una imperiosa pretesa di potere:
questa pretesa conferisce all'energia sovversiva della saggezza la
forma imperatoria di un'illuminazione che mette in ginocchio.
Foucault sfugge ad una svolta pseudoreligiosa di tale tipo con
il fatto che, per un piccolo residuo di fiducia nelle scienze
umane, riattiva ai suoi scopi la figura di pensiero eterologica
dell'esclusione di Bataille. Egli spoglia di ogni autorità di validità la storia delle regole costitutrici del discorso, ed esamina
i mutamenti delle formazioni di discorso dotate di una forza
trascendentale così come si è considerato nella storiografia convenzionale la nascita ed il declino dei regimi.
Mentre l'archeologia del sapere (in ciò simile alla distruzione della storia della metafisica) ricostruisce lo strato delle
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regole costitutive del discorso, la genealogia cerca di spiegare
« la successione discontinua di ordini di segni di per sé infondati, che gli uomini introducono per forza nell'ambito semantico di una specifica interpretazione del mondo » 24 - in altre
parole spiega l'origine delle formazioni di discorso dalle pratiche di potere che si intrecciano tra loro in un ' gioco di azzardo
delle sopraffazioni '.
Nelle sue ricerche posteriori Foucault svilupperà sino all'evidenza questo concetto astratto di potere; egli intenderà il potere come l'interazione di partiti in guerra, come il reticolo
decentrato di confronti personali faccia a faccia, in definitiva
come la compenetrazione produttrice e la sottomissione soggettivante di un interlocutore personale. Nel nostro contesto è però
importante che Foucault pensi questi significati tangibili del potere insieme con il senso trascendentale di rendimenti sintetici
quali Kant aveva ancora ascritto ad un soggetto e che lo strutturalismo intende come un accadere anonimo, cioè come un operare con elementi ordinati di un sistema costruito, soprasoggettivamente decentrato,, governato da regole 25 •
Nella genealogia di Foucault 'potere' è in primo luogo un
sinonimo per questa attività puramente strutturalistica; esso
occupa lo stesso posto che la ' differanza ' per Derrida. Ma questo potere costitutivo del discorso deve essere al contempo
potere di generazione trascendentale e di autoaffermazione empirica. Anche Foucault, come Heidegger, si propone una fusione
di significati opposti. Ad ogni modo sorge con lui un amalgama
che gli consente, sulle orme di Bataille, di collegarsi con il
Nietzsche della critica della ideologia. Nel concetto dell'essere
come potere originario temporalizzato, Heidegger voleva tener
fermo il senso validamente fondato di una spiegazione trascendentale del mondo, ma eliminare nel medesimo tempo la componente di significato idealistica pure contenuta nel concetto
del trascendentale, di ciò che rinvia oltre lo storico, il meramente eventuale, l'invariante. Foucault deve il suo concetto basico storico-trascendentale di potere non solo a quest'unica
operazione paradossale, che riconduce le possibilità sintetiche
a priori nel regno degli avvenimenti storici; egli si propone
altre tre operazioni altrettanto paradossali.
Foucault deve da un lato conservare il senso trascendentale
delle condizioni che consentono la verità al concetto di una
A. Honneth, Kritik der Macht, Frankfurt a. M. 1985, pp. 142 sgg.
H. Fink-Eitel, Foucaults Analytik der Macht, in F. A. Kittler (a cura di),
Austreibung des Geistes aus den Geisteswissenschajten, Paderborn 1980, p. 55.
24
25
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potenza che si nasconde ironicamente ed al contempo si mette
in risalto nel discorso come volontà di verità. D'altro lato
egli ottiene contro l'idealismo del concetto kantiano non solo
una temporalizzazione dell'apriori - cosi che nuove formazioni di discorso, che rimuovono le vecchie, possano emergere come eventi; Foucault, anzi, sottrae alla potenza trascendentale anche le connotazioni che Heidegger lascia saggiamente
ad una storia auratica dell'essere. Foucault non solo storicizza,
ma pensa ad un tempo nominalisticamente, materialisticamente
ed empiristicamente, allorché concepisce le trascendentali prassi
di potere come il particolare che si oppone a tutti gli universali; poi, come l'inferiore sensibile-corporeo, che corre sotto
tutto l'intelligibile; e infine, come il contingente che potrebbe
essere anche altrimenti, non sottostando ad alcun ordinamento
dominante. Nella tarda filosofia di Heidegger le conseguenze
paradossali di un concetto basico contaminato da significati contrari non sono facilmente controllabili, poiché il ricordo di un
essere non prepensabile si sottrae a un giudizio che segue criteri
verificabili. Viceversa Foucault si espone ad energiche obiezioni,
per il fatto che la sua storiografia, nonostante il gesto antiscientifico, vorrebbe procedere ' dottamente ' e ' positivisticamente '
al contempo. La storiografia genealogica, per questo, come vedremo, non può nascondere le conseguenze paradossali di un
concetto basico della potenza contaminato in tal modo. Tanto
più necessaria è una spiegazione del motivo per cui Foucault si
decide ad avviare la sua teoria della scienza impostata in modo
critico-razionale, sulle vie della teoria del potere.
Dal punto di vista biografico in Foucault hanno potuto costituirsi, per una recezione della teoria della potenza di Nietzsche,
motivi diversi da quelli di Bataille. Certo entrambi hanno intrapreso il loro cammino nella sinistra politica, ed entrambi si
allontanano sempre di più all'ortodossia marxista. Ma solo Foucault sperimenta l'improvvisa delusione di un impegno politico.
Foucault rilascia delle interviste, nei primi anni Settanta, che
lasciano trasparire la violenza della rottura con persuasioni
antecedenti. Comunque Foucault allora rafforza il coro dei·
maoisti delusi del 1968 ed è conquistato da quelle 'atmosfere'
alle quali bisogna ricorrere qualora si voglia spiegare il notevole successo dei nouveaux philosophes in Franc.ia 26 • Natura!26 In una recensione entusiastica sul libro Les maitres penseurs, di A. Glucksmann, Foucault scrive ad esempio: «Con il gulag non si vedono i risultati di uno
sventurato errore, bensl gli effetti della più ' vera: teoria dell'ordine della politica. Coloro che cercarono di salvarsi, mettendo sulla vera barba di Marx il
naso finto di Stalin, non erano soddisfatti». Le teorie del potere del pessimismo
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mente si sottovaluterebbe l'originalità di Foucault, se si pensasse
di poter ridurre il suo pensiero centrale a questo contesto. In
ogni caso, queste spinte politiche provenienti dall'esterno non
avrebbero potuto metter nulla in movimento nella parte più
interna della teoria, se la stessa dinamica teorica ben prima
delle esperienze della rivolta fallita del 1968, non avesse motivato la considerazione, che nei meccanismi di esclusione del
discorso non si riflettono solo strutture del discorso autosufficienti, ma si impongono imperativi della crescita di potere.
Questa riflessione ha origine in una problematica con la quale
Foucault si vide messo a confronto dopo la conclusione del suo
lavoro sull'archeologia delle scienze umane.
Nell'Ordine delle cose (1966) Foucault ricerca le moderne
forme di sapere (o epistemi) che determinano per le scienze un
orizzonte, di volta in volta invalicabile, di concetti basici, si
potrebbe anche dire: l'apriori storico della comprensione dell'essere. Come nella storia della follia, si trovano, anche qui, al
centro dell'interesse, nella storia del pensiero moderno, entrambe
le soglie storiche del passaggio dal Rinascimento al Classicismo
e dall'età classica alla modernità. Gli interni motivi del passaggio ad una teoria della potenza si spiegano sulla base delle difficoltà risultanti da questa stessa geniale analisi.
borghese da Hobbes fino a Nietzsche sono anche sempre servite come centri di
raccolta per disertori delusi che avevano sperimentato sull'incarico dell'attuazione politica dei loro .ideali, come il valore umanistico di Illuminismo e marxismo si fosse mutato nel suo barbarico opposto. Anche se l'anno 1968 segna solo
una rivolta, non una rivoluzione come nel 1789 o nel 1917, pure le sindromi
del rinnegamento di sinistra si assomigliano e spiegano, forse, anche la sorprendente circostanza che i nouveaux philosophes hanno trattato in Francia topoi
analoghi a quelli di allievi di comunisti delusi. Da entrambi i lati dell'Atlantico
si incappa negli stessi topoi dell'anti-Illuminismo, nella critica agli esiti, in apparenza, inevitabilmente terroristici di globali interpretazioni storiche, nella critica al ruolo dell'intellettuale che, generalmente, si presenta in nome della ragione umana, nella critica alla conversione di scienze umane teoreticamente esigenti,· in una prassi tecnico-sociale o terapeutica che avvilisce l'uomo. La figura
di pensiero è sempre la medesima: nell'universalismo dell'Illuminismo, nell'umanesimo dell'ideale di libertà, nella pretesa di razionalità del pensiero sistemico
stesso è situata una ottusa volontà di potenza che, non appena la teoria si
dispone a divenire pratica, getta la maschera - dietro la quale viene fuori il desiderio di potere dei ' mai tres à penser ', degli intellettuali, dei mediatori di conoscenza, in breve: la nuova classe. Foucault non sembra rappresentare solo
con un gesto radicale questi motivi conosciuti dell'anti-Illuminismo, bensì sem·
bra inasprirli effettivamente in maniera critico-razionale e generalizzarli secondo
una teoria della potenza. Dietro la naturalezza emancipativa dei discorsi sulle
scienze umane sono in agguato la tattica e la tecnologia di una più schietta
autoaffermazione, che il genealogista tira fuori da sotto il riesumato fondamento
di senso di discorsi autoingannanti, come Solschenyzin, il gulag da sotto la retorica ipocrita del marxismo sovietico. Cfr. Ph. Rippel, H. Munkler, Der
Diskurs und die Macht, in «Poi. Viertçljahresschrift », 23; 1982, pp. 115 sgg.;
sulla 'conversione' degli intellettuali francesi cfr. W. v. Rossum, Thriumph der
Leere, in « Merkur >>, Apri! 1985, pp. 275 sgg.
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v
.Mentre il pensiero del Rinascimento è ancora diretto da una
visione cosmologica, nella quale le cose del mondo possono
essere ordinate, per così dire fisiognomicamente, secondo relazioni di somiglianza poiché nel grande libro della natura ogni
segnatura rimanda ad altre segnature, il razionalismo del XVII
secolo porta nelle cose un ordine completamente diverso. La
logica di Port-Royal, che esprime una semiotica ed una combinatoria generale, è formatrice di struttura. Per Descartes, Hobbes e Leibniz, la natura si trasforma nell'insieme di ciò che
' rappresenta', nel suo doppio senso, cioè significa e come signi·
ficato può essere raffigurato per mezzo di segni convenzionali.
Foucault non considera come il paradigma decisivo né la matematizzazione della natura né la meccanica, bensì il sistema di
segni ordinati. Questo non è più fondato in un ordine precedente delle cose stesse, bensì costruisce solo un ordine tassanomica sulla via della rappresentazione delle cose. I segni combinati, o la lingua, costituiscono un medium assolutamente trasparente, attraverso il quale la rappresentazione può essere collegata
con ciò che è rappresentato. Il significante retrocede fino a tergo
del significato indicato; funziona come un vitreo strumento della
rappresentazione senza vita propria:
La vocazione profonda del linguaggio classico è sempre stata
di far ' quadro': in forma di discorso naturale, raccolta delle verità,
descrizione delle cose, corpo di conoscenze esatte, o dizionario enciclopedico. Il linguaggio classico esiste quindi solo per essere trasparente [ ...] La possibilità di conoscere le cose e il loro ordine
passa, nell'esperienza classica, attraverso la sovranità delle parole.
Queste non sono a rigore né contrassegni da decifrare (come nel
periodo del Rinascimento), né [...] strumenti più o meno fedeli
e padroneggiabili (come nel periodo del Positivismo). Formano
piuttosto il reticolo incolore a partire dal quale [ ...] le rappresentazioni si ordinano TI.
Grazie alla sua autonomia, il segno serve disinteressatamente
alla rappresentazione delle cose: in esso si intrecciano la rappresentazione del soggetto e l'oggetto rappresentato e formano
un ordine nella catena delle rappresentazioni.
Il linguaggio si risolve nella sua funzione di descrittore di
fatti, come diremmo oggi, e riproduce allo stesso livello tutto
ciò che si può rappresentare, - la natura dei soggetti rappre27 M. Foucault, Les mots et les choses, Paris 1966, p. 322 (tr. it., Le parole
e le cose, Milano 1967, p. 335).
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sentanti non diversamente da quella degli oggetti rappresentati.
Dunque la natura degli uomini non gode, in questo quadro,
di alcun privilegio rispetto alla natura delle cose. Natura interna
ed esterna vengono classificate, analizzate, combinate nello stesso
modo - le parole della lingua nella grammatica generale, le
ricchezze ed i bisogni nell'economia politica, non diversamente
dalle qualità delle piante e degli animali nel sistema di Linneo.
Proprio ciò determina naturalmente anche il confine della forma
di sapere non riflessiva dell'epoca classica; il sapere è assolutamente dipendente dalla funzione di rappresentazione della lingua, senza poter includere il procedimento della rappresentazione stessa, il lavoro di sintesi del soggetto rappresentante come
tale. Foucault dà rilievo a questo confine nella sorprendente
interpretazione di un famoso quadro di Velasquez, le ' dame di
corte' 28 •
Questo quadro rappresenta il pittore posto di fronte ad una
tela non visibile allo spettatore; egli guarda, evidentemente,
come le dame di corte che si trovano accanto a lui, in direzione
dei suoi due modelli, il re Filippo IV e sua moglie. Questi due
modelli di persone in piedi si trovano all'esterno dello spazio
del quadro, e possono essere identificate dallo spettatore solo con
l'aiuto di uno specchio riprodotto sul fondo. L'arguzia a cui
giunge evidentemente Velasquez è la circostanza ingannevole di
cui lo spettatore diviene coerentemente consapevole: lo spettatore non può fare a meno di dominare la collocazione e la direzione degli sguardi della coppia reale ritratta, ma assente, che
il pittore fissato nel quadro osserva, come pure la collocazione
e la direzione dello sguardo dello stesso Velasquez, cioè del pit~
tore, che ha effettivamente realizzato questo quadro. Per Foucault, ancora, il punto principale consta nel fatto che lo spazio
classico del quadro è troppo limitato per ammettere la rappresentazione dell'atto del raffigurare come tale - proprio questo
chiarisce a Velasquez, nel mostrare le lacune, che la mancanza
della riflessione lascia tutto al processo di rappresentazione
anche nello spazio classico del quadro 29 •
28 Cfr. H. L. Dreyfus, P. Rainbow, Miche! Foucault: Beyond Structuralism
and Hermeneutics, Chicago 1983, pp. 21 sgg.
29 Foucault costruisce due ordini di assenze. Al pittore raffigurato manca il
suo modello, la coppia reale che si trova al di fuori della cornice del quadro;
ad essa è, d'altro canto, negata la visione del quadro in via di formazione essa vede la tela solo da dietro; infine, manca allo spettatore il punto centrale
della scena, appuntO---il modello della coppia, che solo lo sguardo del pittore ad
esso rivolto e quellÒ'delle dame di corte rimandano. Ancora più smascherante
dell'assenza degli oggetti rappresentati, è quella dei soggetti che rappresentano,
cioè la triplice assenza - del pittore, del modello e dello spettatore che, situato
davanti al quadro, riceve la prospettiva degli altri due. Il pittore, Velasquez,
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Nessuna delle persone che partecipano alla classica scena di
una rappresentazione figurativa della coppia reale (dell'uomo
come sovrano) appare nel ritratto come il soggetto sovrano
capace di autorappresentazione, cioè al contempo come soggetto
ed oggetto, contemporaneamente come rappresentante e rappresentato, come colui che è autopresentatore nell'atto della rappresentazione:
Nel pensiero classico colui che si [ ... ] rappresenta, riconoscendosi come immagine o riflesso, [ ... ] non si trova mai presente di
persona. Prima della fine del XVIII secolo l'uomo non esisteva [ ... ]
Certamente si potrà obiettare che la grammatica generale, la storia
naturale, l'analisi delle ricchezze erano anch'essi in un certo senso
modi di riconoscere l'uomo [ ... ] Ma non esisteva coscienza gnoseologica dell'uomo in quanto tale 30 •
Con Kant si apre l'età della modernità. Non appena si infrange il sigillo metafisico sulla corrispondenza fra lingua e
mondo, la funzione di rappresentazione della lingua diventa essa
stessa un problema: il soggetto rappresentante deve divenire
oggetto per procurarsi chiarezza riguardo al problematico procedimento della rappresentazione stessa. Passa in testa il concetto dell'autoriflessione, e il rapporto del soggetto che rappresenta con se stesso diventa l'unico fondamento alle ultime
certezze. La fine della metafisica è la fine di un'obiettiva coordinazione delle cose e delle rappresentazioni, effettuata per così
dire silenziosamente dalla lingua e perciò rimasta non problematica. L'uomo divenuto presente a sé nella coscienza deve assumere il compito sovrumano di stabilire un ordine delle cose nel
momento in cui diviene cosciente della sua esistenza come al
contempo autonoma e finita. Perciò Foucault vede la moderna
forma di sapere caratterizzata sin dal principio dall'aporia che
il soggetto conoscente si eleva dalle macerie della metafisica per
adempiere nella consapevolezza delle sue forze finite ad un compito che pure richiede una forza infinita. Questa aporia porta
Kant direttamente al principio di costruzione della sua teoria
compare effettivamente nello spazio del quadro, ma non viene direttamente rappresentato nell'atto di dipingere, lo si vede durante una pausa per il pasto e si
sa che svanirà dietro la tenda non appena riprenderà il suo lavoro. I volti dei
due modelli si possono riconoscere in uno specchio in maniera certamente indistinta, ma non possono essere osservati direttamente nell'atto di essere ritratti.
In misura altrettanto minima è rappresentata infine l'azione dell'osservare - lo
spettatore dipinto, che fa ingresso in fondo da destra nello spazio del quadro,
non può assumere questa funzione (cfr. M. Foucault, Les mots et [es choses,
cit., pp. 19·31 e pp. 318-23 [tr. it. cit., pp. 17-30 e pp. 332-36]).
30 M. Foucault, Les mots et [es choses, cit., p. 319 (tr. it. cit., p. 333).
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della conoscenza, nella misura in cui cambia significato alle limi·
tazioni di una finita possibilità di conoscenza vedendole come
condizioni trascendentali di una conoscenza che procede all'infi·
nito: << La modernità inizia con l'incredibile ed in definitiva
impraticabile idea di un essere che è il sovrano esattamente dell'essere asservito, un essere la cui stessa finitezza gli consente
di prendere il posto di Dio » 31 ,
Foucault sviluppa in un grande arco, che da Kant e Fichte
si estende fino a Husserl e Heidegger, il suo concetto dominante,
che la modernità è contrassegnata dalla forma di sapere auto·
contradditoria ed antropocentrica di un soggetto strutturalmente
sovraccarico, di un soggetto finito che trascende nell'infinito. La
filosofia della coscienza obbedisce a costrizioni di strategia con·
cettuale in base alle quali deve sdoppiare il soggetto e prenderlo
in esame di volta in volta sotto due aspetti contrari, incompati·
bili tra di loro. La spinta a staccarsi da questo instabile va e
vieni tra aspetti dell'autotematizzazione tanto inconciliabili quanto inevitabili, si rende allora percettibile come l'indomabile volontà di sapere e di sapere sempre di più. Questa volontà oltrepassa pretenziosamente tutto ciò che è in grado di fare il soggetto strutturalmente sovraccarico e sovraffaticato. In questo
modo la moderna forma di sapere è determinata mediante la
dinamica peculiare di una volontà di verità, per la quale ogni
frustrazione è solo il pungolo per una rinnovata produzione di
sapere. Questa volontà di verità è dunque per Foucault la chiave
del rapporto interno fra sapere e potere. Le scienze umane occupano il terreno che è stq.to scoperto attraverso l'autotematizza·
zione aporetica del soggetto conoscitivo. Esse istituiscono, con
le loro esigenze pretenziose e mai estinte, la facciata di un sa·
pere generalmente valido, dietro il quale si nasconde la effettualità della pura volontà del consapevole autoimpadronimento di una volontà rivolta ad un aumento di sapere smisuratamente
produttivo, sulla cui scia soltanto si formano soggettività ed
autocoscienza.
Foucault dà la caccia all'imposizione dello sdoppiamento
aporetico del soggetto che si riferisce a sé sulla base di tre oppo·
sizioni: dell'opposizione tra ciò che è trascendentale e l'empi·
rico, dell'opposizione fra l'atto riflessivo del divenir consapevole
e il riflessivo irraggiungibile, immemorabile, infine dell'oppo·
sizione tra aprioristica perfezione di un'origine già da sempre
presente ed il futuro avventista dell'ancor mancante ritorno
31 H. L. Dreyfus, P. Rainbow, Miche! Foucault: Beyond Structuralism and
Hermeneutics, cit., p. 30.
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dell'origine. Foucault avrebbe potuto esporre queste opposizioni
ricollegandosi alla Dottrina della scienza di Fichte; si tratta,
in realtà, di quelle costrizioni concettuali della filosofia della
coscienza, che aumentano esemplarmente nell'azione dell'io assoluto. L'io può solo prender possesso di se stesso, auto-' porsi',
mentre pone inconsapevolmente un ' non-io ' e cerca di recuperarlo gradualmente come ciò che viene posto dall'io. Quest'atto
dell'autoporsi mediato è comprensibile secondo tre aspetti differenti, come un processo dell'autoconoscenza, come un processo
del divenir cosciente e come processo di formazione. In ciascuna
di queste dimensioni il pensiero europeo del XIX e XX secolo
serpeggia tra applicazioni teoriche che si escludono a vicenda
- ed ogni volta il tentativo di sfuggire alle spiacevoli alternative finisce negli intrecci di un soggetto che diventa divino, consumandosi negli atti di una vana autotrascendenza.
Allo stesso tempo, da Kant, l'io occupa il posto di un soggetto empirico, nel mondo in cui si trova come oggetto tra altri
oggetti, e il posto di un soggetto trascendentale di fronte al
mondo nel suo insieme, che esso stesso costituisce come l'insieme degli oggetti di una possibile esperienza. Attraverso questa
doppia posizione 32 il soggetto conoscente si vede naturalmente
provocato ad analizzare le stesse prestazioni, che vengono concepite una volta riflessivamente come prestaziont di una sintesi
trascendentale, un'altra volta empiricamente come un processo
(che si attua) secondo leggi della natura, indifferentemente se
l'apparato della nostra conoscenza venga ora spiegato psicologicamente o secondo i criteri di un'antropologia culturale, biologicamente o storicamente. Il pensiero non può naturalmente
accontentarsi di queste alternative inconciliabili. Da Hegel a
Merleau-Ponty abbondano i tentativi di superare questo dilemma
in una disciplina che rende compatibili entrambi gli aspetti, e
di intendere la concreta storia delle forme aprioristiche come un
processo dell'autoproduzione dello spirito o del genere. Dal momento che queste imprese ibride dell'utopia danno ·la caccia ad
una conoscenza completa di se stessi, esse devono sempre nuovamente capovolgersi in positivismo 33 •
Foucault scopre la stessa dialettica nella seconda dimensione
del porre se stesso. Da Fichte in poi l'io come soggetto riflettente
compie la doppia esperienza che da un lato si trova nel mondo
già sempre come un qualcosa divenuto contingente, un che di
32 Dieter Henrich, Fluchtlinien, Frankfurt a. M. 1982, pp. 125 sgg.
33 Con ciò è anche possibile spiegare per quale motivo il materialismo
possa mantenersi in vita con tanto successo nella filosofia analitica, e precisamente in base alla problematica corpo/spirito.
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opaco, ma d'altro lato si dispone anche proprio grazie a questa
riflessione a farsi quel qualcosa di trasparente a-sé ed a portarsi
per-sé alla coscienza. Da Hegel attraverso Freud fino a Husserl
abbondano i tentativi di continuare questo processo del divenire
cosciente a sé grazie a dati di fatto aprioristici e di trovare un
punto di vista metodico dal quale ciò che prima facie si rifiuta
alla coscienza come un extraterritoriale ostinato - sia esso il
corpo, la natura del bisogno, il lavoro o la lingua - pure potrebbe ancora essere riguadagnato alla riflessione, reso familiare
e trasformato in un qualcosa di trasparente. Freud stabilisce
l'imperativo, che dall'Es deve sorgere l'lo, Husserl prefigge alla
pura fenomenologia lo scopo di chiarire e di mettere sotto consapevole controllo tutto ciò che è meramente implicito, antepredicativo, già sedimentato, non attuale, con una parola: il fondamento impensato e nascosto della soggettività produttiva. Anche questi tentativi ibridi di un'emancipazione di incoscienti
enigmi si sono abbandonati all'utopia di una completa autotrasparenza e perciò si ribaltano nella disperazione nichilistica e
nello scetticismo radicale.
Infine sulla scia della stessa dialettica si orienta anche il
desiderio di sottrarsi al terzo sdoppiamento del soggetto come
autore originariamente creativo e al contempo estraniato da quest'origine. L'uomo si riconosce come il lontano prodotto di una
storia che giunge a ritroso nell'arcaico, di cui non è padrone,
sebbene questa faccia riferimento da parte sua alla paternità
dell'uomo produttivo.- Le origini retrocedono tanto più dal pen·
siero moderno, quanto più energicamente le si incalza: « e si
propone paradossalmente di inoltrarsi nella direzione in cui tale
arretramento si compie e non cessa di approfondirsi». A questo risponde da un lato la filosofia della storia da Schelling,
attraverso Marx, fino a Lukacs con la figura di pensiero di un
arricchente ritorno dall'estraneo, l'odissea dello spirito, dall'altro lato il pensiero dionisiaco di Holderlin, attraverso Nietzsche,
fino ad Heidegger con l'idea di un dio che si nega, « che libera
l'origine in ragione stessa del suo regresso » 34 • Ma queste ibride
rappresentazioni storiche possono diventare pratiche solo nella
forma di terrore, automanipolazione e asservimento, dal momento che vivono per un falso impulso escatologico.
A questa idea antropocentrica messa in moto da Kant, che
con le sue utopie della liberazione si impiglia nella prassi dell'asservimento, Foucault subordina anche le scienze umane. Alle
scienze naturali sperimentali egli lascia prudentemente una posi·
34
M. Foucault, Les mots et les choses, cit., p. 345 (tr. it. cit., p, 359).
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zione particolare; esse si sono chiaramente svincolate dall'intreccio delle pratiche da cui provengono (in primo luogo dalle pratiche dell'interrogativo giudiziario), e possono acquisire una
certa autonomia. Diversamente le scienze umane. Vengono colte
da una svolta antropologica, innanzitutto grammatica, storia naturale ed economia, quelle scienze che sono sorte in epoca classica come tassonomiche. La ·grammatica generale cede dinnanzi
alla storia delle lingue nazionali, i quadri della storia naturale
all'evoluzione delle specie, la analisi delle ricchezze a una teoria, che riconduce i valori d'uso e di scambio all'erogazione di
forza lavoro. Con ciò si forma una prospettiva per la quale
l'uomo viene percepito come essere vivente che parla e che
lavora. Le scienze umane si avvalgono di questa prospettiva;
esse analizzano l'uomo come l'essere che si rapporta alle aggettivazioni da lui stesso prodotte in quanto essere vivente che
parla e lavora. Impegnandosi psicologia, sociologia e politologia,
ma anche le scienze della cultura e dello spirito in una sfera
oggettiva per la quale è costitutiva la soggettività nel senso della
autorelazione di uomini sperimentanti, agenti e parlanti, esse
entrano nella scia della volontà di sapere, sulla linea di fuga di
un aumento di sapere smisuratamente produttivo. Esse sono
rimesse alla dialettica di liberazione ed asservimento con ancora meno difese che la scienza della storia, che quantomeno
dispone del potenziale scettico della relativizzazione storica, soprattutto, però, con ancor meno difese dell'etnologia e della psicoanalisi, giacché queste si muovono pur sempre (con LéviStrauss e Lacan) riflessivamente nella giungla dell'inconscio
strutturale ed individuale.
Poiché le scienze umane, prime fra tutte la psicologia e la
sociologia si impegnano, con modelli presi a prestito e con estranei ideali di obiettività, in rapporto a un uomo che viene fissato,
tramite la forma di sapere moderna, anzitutto come oggetto di
ricerche scientifiche, può proditoriamente insorgere in esse uno
stimolo che esse non possono confessare senza danno della loro
pretesa di verità: precisamente quell'insaziabile spinta al sapere,
all'autoimpossessamento e autoaccrescimento con il quale il soggetto dell'età post-classica metafisicamente isolato e strutturalmente sovraccarico, abbandonato da Dio e resosi da sé divino
cerca di scampare alle aporie della sua autotematizzazione:
« Siamo portati a credere che l'uomo si è liberato da se stesso
da quando ha scoperto di non essere più né al centro della crea._
zione, né al centro dello spazio, e forse nemmeno in cima e al
termine estremo della vita; ma se l'uomo non è più sovrano nel
regno del mondo, se non regna più nel cuore dell'essere, le
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scienze umane sono dei pericolosi anelli intermedi » 35 • Semplicemente anelli intermedi, poiché esse non sollecitano immediatamente come le scienze riflessive e la filosofia, quella dinamica
autodis_truttiva del soggetto che pone se stesso, bensì vengono
inconsapevolmente strumentalizzate per questa. Le scienze umane sono e rimangono pseudoscienze, perché non vedono fino in
fondo la coazione alla duplicazione aporetica del soggetto in
relazione con se stesso e non possono riconoscere la volontà di
autoconoscenza e di autoreificazione strutturalmente prodotta e anche per questo non riescono a liberarsi dalla forza che le
muove. Foucault aveva già addotto questo come esempio del
positivismo psichiatrico in Follia e società.
Quali sono allora però le ragioni che inducono Foucault a
reinterpretare questa specifica volontà di sapere e di verità, che
è costitutiva in generale per la moderna forma di sapere e in
particolare per le scienze umane, questa volontà di sapere e
di autopotenziamento che si generalizza in una volontà di po·
tenza, ed a postulare che in tutti i discorsi, non solo ìn quelli moderni, si possa dimostrare un segreto carattere di forza e l'origine da pratiche di potenza? Questa assunzione contrassegna
in effetti soltanto la svolta da un'archeologia del sapere alla
spiegazione genealogica dell'origine, ascesa e caduta di quelle
formazioni di discorso, che riempiono senza lacune e senza
significato lo spazio della storia.
35
lvi, p. 359 (tr. it. cit., p. 373).
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10.
LE APORIE
DI UNA TEORIA DEL POTERE
I
L'archeologia delle scienze umane non solo fornisce, con la
dinamica dell'autopotenziamento produttivo di sapere, il punto
d'attacco per un congiungimento interno del sapere con la
volontà di sapere; l'Ordine delle cose suscita anche le domande
cui alcuni anni più tardi Foucault risponde sviluppando dalla
volontà di sapere quel concetto fondamentale della potenza, su
cui si basa la sua storiografia genealogica. Mi si consenta di
sottolineare tre difficoltà.
a) Innanzitutto Foucault doveva essere irritato per l'affinità
che chiaramente esisteva tra la sua archeologia delle scienze
umane e la critica di Heidegger alla metafisica dell'età moderna. Gli epistemi o forme di sapere del Rinascimento, dell'età
classica e della modernità formano cesure epocali e nello stesso
tempo stadi nello sviluppo dello stesso intendimento dell'essere
incentrato nel soggetto, che Heidegger ha analizzato con concetti analoghi da Descartes attraverso Kant fino a Nietzsche.
Foucault non deve però seguire la via del superamento metafisica-critico della filosofia del soggetto; egli aveva in effetti mostrato che anche il concetto della storia dell'essere non porta
fuori dal circolo della terza autotematizzazione del soggetto che
si rapporta a se stesso, vale a dire del suo sforzo di impadronirsi di un'origine che retrocede sempre di più. La filosofia dello
Heidegger maturo - questa era la tesi - è colta proprio in
quel gioco a sorpresa che Foucault aveva trattato sotto il titolo
di Ritirata e ritorno dell'origine. Per questa ragione Foucault
dovrà del tutto rinunciare, d'ora innanzi, al concetto di episteme.
b) Tanto problematica quanto la vicinanza ad Heidegger è
quella allo strutturalismo. Nell'Ordine delle cose Foucault aveva
voluto incontrare con un filosofico riso liberatore tutti coloro
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« che non vogliono formalizzare, senza antropologizzare, che
non vogliono mitologizzare senza demistificare», tutti i difensori, insomma, della riflessione « maldestra ed alterata » 1• Con
questo gesto, mutuato dal riso dello Zarathustra, egli intende
strappare al sonno antropologico tutti coloro « che non vogliono
pensare senza pensare immediatamente che è l'uomo colui che
pensa». Devono sfregarsi gli occhi e porsi la semplice domanda
se allora l'uomo esista 2 • Evidentemente Foucault, all'epoca,
ritiene che solo lo strutturalismo contemporaneo, l'etnologia di
Lévi-Strauss e la psicoanalisi lacaniana siano adatti « a pensare
il vuoto dell'uomo scomparso». Il sottotitolo progettato originariamente Archeologia dello strutturalismo non era inteso assolutamente in senso critico. Tale prospettiva dovette però dissolversi non appena fu chiaro che lo strutturalismo aveva già segretamente consegnato il modello per la descrizione della forma
di sapere classica del modo di rappresentare semiotico 3 • Un
superamento strutturalistico del pensiero antropocentrico non
avrebbe significato una maggiore offerta della modernità, bensì
solo il rinnovamento esplicito della forma di sapere protostrutturalistica dell'età classica.
c) Sorse infine una difficoltà dalla circostanza che Foucault
aveva condotto i suoi studi sulla nascita delle scienze umane
solo nella forma dell'archeologia del sapere. Come poteva essere
aggiunta a questa analisi dei discorsi scientifici la ricerca delle
pratiche attinenti, già nota per la via di studi giovanili, senza
mettere in pericolo l'autosufficienza delle forme di sapere completatesi in universi? Questo problema impegna Foucault nelle
sue considerazioni metodologiche sull'Archeologia del sapere
(1969). In esse egli non prende una posizione del tutto univoca,
inclina però a sovraordinare discorsi alle pratiche che ne costituiscono il fondamento. La richiesta strutturalistica che ogni
formazione del discorso debba essere rigorosamente compresa
a partire da sé, sembra poter essere soddisfatta solo allorché
le regole costitutive del discorso assumono per così dire autonomamente la regia della loro base istituzionale. Il discorso, in
virtù di questa concezione collega dapprima le condizioni tecniche, economiche, sociali e politiche al reticolato funzionante
delle pratiche, che servono poi alla sua riproduzione.
Certo, questo discorso divenuto pienamente autonomo, svin1 M. Foucault, Les mots et les choses, cit., p. 354 (tr. it. cit., p. 368).
2 lvi, p. 332 (tr. it. cit., p. 346).
3 M. Frank richiama l'attenzione su questa preferenza di Foucault sistematicamente non molto giustificata, del modello di rappresentazione; M. Frank, Was
heisst Neostrukturalismus?, Frankfurt a. M. 1984, pp. 174-215.
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colato da limitazioni contestuali e da condizioni di funzionamento, e che dunque governa le pratiche che stanno alla base,
è affetto da una difficoltà concettuale. Valgono come fondamentali le regole archeologicamente accessibili che rendono possibile
di volta in volta la prassi del discorso. Queste regole, però, possono rendere comprensibile un discorso solo nelle condizioni
della sua possibilità; non bastano a spiegare la prassi del discorso nel suo effettivo funzionamento. Non esistono infatti regole che possano regolare la propria applicazione. Un discorso
governato da regole non può regolare da sé il contesto in cui
è inserito: « Così, sebbene le influenze non-discorsive nella
forma delle pratiche sociali ed istituzionali, delle capacità, delle
pratiche pedagogiche e dei modelli concreti (per esempio nel
Panoptikon di Bentham) costantemente si intromettono nelle
analisi di Foucault [ ... ] egli deve individuare il potere produttivo rivelato dalle pratiche discorsive nella regolarità delle pratiche stesse. Il risultato è la strana nozione delle regolarità che
regolano se stesse » 4,
Foucault sfugge a questa difficoltà quando abbandona l'autonomia delle forme di sapere a favore della loro fondazione in
tecnologie di potere e subordina l'archeologia del sapere ad una
genealogia che spiega la formazione del sapere a partire da
pratiche del potere.
Questa teoria del potere si raccomanda anche per la soluzione degli altri due problemi: Foucault può lasciar con ciò
dietro di sé la filosofia del soggetto, senza doversi appoggiare
a modelli strutturalistici o relativi alla storia dell'essere che (in
base alla sua propria analisi) pure sono ancora vincolati alla
forma di sapere classica o a quella moderna. La storiografia
genealogica toglie di mezzo l'autonomia dei discorsi che si governano da soli altrettanto quanto le successioni epocali e regolate di forme di sapere globali. Il pericolo dell'antropocentrismo
viene allontanato solo quando sotto lo sguardo incorruttibilmente genealogico i discorsi scoppiano ed esplodono come bolle
cangianti dalla palude di anonimi processi sopraffattori. Con
l'energico capovolgimento dei rapporti di dipendenza tra forme
di sapere e pratiche del potere, Foucault si dischiude una problematica teorico-sociale di fronte alla storia rigidamente strutturalistica dei sistemi di sapere, e naturalistica di fronte alla storia
critico-metafisica della comprensione dell'Essere. I discorsi delle
scienze, i discorsi in genere nei quali viene creato e trasmesso
4 H. L. llieyfus, P. Rainbow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and
Hermeneutics, cit., p. 84; cfr. anche A. Honneth, Kritik der Macht, cit., pp.
133 sgg,
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sapere, perdono la loro posizione privilegiata; formano, insieme
con altre pratiche discorsive, complessi di forza che costituiscono un campo oggettivo sui generis. Come coefficiente di penetrazione attraverso i tipi di discorso e le forme di sapere bisogna dunque scoprire le tecnologie della sopraffazione, in base
alle quali si forma, di volta in volta, un complesso dominante
di potere che giunge al comando e viene infine scacciato dal
successivo. La ricerca storica di tecnologie di potere, che strumentalizzano i sistemi di sapere fin nel profondo dei loro criteri di validità, deve potersi muovere sul solido terreno di una
teoria naturalistica della società.
Foucault consegue questo terreno, certo, solo in virtù del
fatto che non pensa in chiave genealogica riguardo alla propria
storiografia genealogica, e che rende irriconoscibile l'origine del
suo concetto trascendentale storicistico di potere.
Nelle scienze umane, Foucault aveva studiato appunto, come
ho mostrato, la forma di un sapere che si presenta con la pretesa di depurare gli intellegibili da tutto l'empirico, casuale e
particolare, e che, per questa pretesa separazione fra valore e
genesi si adatta particolarmente bene a medium di potere: il
sapere moderno, poiché si assolutizza in questo modo, può dissimulare davanti a sé e ad altri quell'impulso che solo stimola
un soggetto metafisicamente isolato e rimandato riflessivamente
a se stesso ad un autopotenziamento senza sosta. Questa volontà di sapere dovrebbe intervenire sulla costituzione dei discorsi scientifici e spiegare perché il sapere dell'uomo attrezzato scientificamente, possa coagularsi direttamente in autorità
disciplinare nella forma di terapie, perizie, tecnologie sociali,
piani d'insegnamento, test, rapporti di ricerca, banche-dati, proposte di riforma, ecc. La moderna volontà di sapere determina
« l'insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal
falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere » 5 •
Nel passaggio alla teoria del potere Foucault libera, però, questa volontà di sapere dal contesto storico-metafisico e lascia che
sia assorbita poi nella categoria di potere. Questa trasformazione è debitrice nei confronti di due operazioni. In primo
luogo Foucault postula una volontà costitutiva di verità per
tutte le epoche e tutte le società: « Ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua 'politica generale' della verità:
essa accetta cioè determinati discorsi, che fa .funzionare come
veri» 6 • Oltre questa generalizzazione spazio-temporale, Foucault
intraprende una neutralizzazione materiale: egli distingue la vos M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, cit., p. 53.
lvi, p. 25.
6
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lontà di sapere rispetto a una volontà di potere che deve essere
insita in tutti i discorsi, assolutamente non solo in quelli specializzati sulla verità, nel modo analogo in cui è insita nelle scienze
umane la specifica volontà del possesso di sé della soggettività
dei tempi moderni. Solo dopo che cancella le tracce di questa
trasformazione, può comparire nuovamente la volontà di sapere
nel sottotitolo al primo volume della Storia della sessualità
(1976), certo ora decaduta a caso specifico: il ' dispositivo di
verità ' appare ora uno dei tanti ' dispositivi di potere '.
La derivazione in tal modo occultata del concetto di potere
dal concetto critico metafisica della volontà di verità e di sapere
spiega anche la utilizzazione sistematicamente ambigua della
categoria ' potere '. Questa conserva cioè, da una parte, l'innocenza di un concetto utilizzabile in modo descrittivo e serve ad
una analisi empirica di tecnologie di potere, che sotto l'aspetto
del metodo non si differenzia in modo vistoso da una sociologia
del sapere procedente in modo funzionalistico e storicamente
orientata. Dall'altra parte, la categoria del potere conserva dalla
sua storia nascosta dell'origine, anche il senso di un concetto
fondamentale di teoria della costituzione, che conferisce essenzialmente alla analisi empirica delle tecnologie di potere il suo
significato critico-razionale ed assicura alla storiografia genealogica il suo effetto demistificante.
II
Tale sistematica ambiguità spiega certamente, ma non giustifica,
quel legame paradossale di disposizione positivistica e pretesa
critica, che contrassegna le opere di Foucault a partire dagli
anni '70. In Sorvegliare e punire (1976) Foucault tratta (prevalentemente in base a materiali francesi) le tecnologie di dominio
che sono sorte in età classica (grosso modo all'epoca dell'assolutismo) e nell'età moderna (cioè a partire dalla fine del XVIII
secolo). Le rispettive forme dell'esecuzione della pena servono
come fili conduttori di una ricerca al cui punto centrale si trova
la ' nascita del carcere '. Quel cOJ;nplesso di potere che si è
concentrato in età classica intorno alla sovranità dello Stato
monopolizzatore di potere, si deposita nei giochi linguistici di
stampo giuridico del moderno diritto naturale, che operano con
i concetti fondamentali di contratto e legge. Il compito effettivo delle teorie assolutistiche dello Stato è, certamente, non
tanto la difesa dei diritti dell'uomo quanto il porre le basi per
la concentrazione di tutti i poteri nelle mani del sovrano. A
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costui spetta la costruzione di un apparato amministrativo pubblico e centralizzato e l'apprestamento di un sapere organizzativo amministrativamente utile. Non il cittadino con i suoi diritti
ed i suoi doveri, ma il suddito in corpo e anima è oggetto del
nuovo bisogno di sapere, che viene innanzitutto appagato con
un sapere fiscale e statistico riguardante nascita e morte, malattia e criminalità, lavoro e commercio, benessere e povertà del
popolo. In ciò Foucault vede i prodromi di una biopolitica che
si forma gradualmente dietro lo schermo ufficiale di discorsi
condotti giuridicamente riferiti alla sovranità dello Stato. In
questo modo emerge un altro potere disciplinare, disgiunto dal
gioco linguistico normativa. Esso si condensa in un nuovo complesso di potere, appunto quello moderno, nella misura in cui
le scienze umane diventano medium di questa potenza e fanno
penetrare la forma panoptica del controllo in tutti i pori del
corpo sottomesso e dell'anima oggettivata.
Foucault tratta il cambiamento di esecuzione della pena dalla
tortura al carcere, come il procedimento esemplare in base al
quale vorrebbe documentare la nascita del pensiero moderno
antropocentrico a partire dalle moderne tecnologie di potere.
Egli intende le punizioni e le torture eccessive alle quali viene
sottoposto il criminale in età classica, come la rappresentazione
teatrale del potere del sovrano vendicativo inscenata senza alcun
riguardo, che viene vissuta in modo ambivalente dal popolo.
Questa afflizione dimostrativa fatta di tormenti corporali viene
sostituita in età moderna dalla pena detentiva che, schermata
verso l'esterno, sottrae libertà. Foucault intende il carcere panoptico come un'apparecchiatura che non solo rende docili i
reclusi, ma li trasforma. L'influsso normalizzante di un potere
disciplinare onnipresente si innesta, al di là dell'addestramento
del corpo, nel comportamento quotidiano, produce un atteggiamento morale modificato, deve comunque esigere le motivazioni per il lavoro regolato e la vita ordinata. Questa tecnologia punitiva può diffondersi rapidamente alla fine del
XVIII secolo, poiché il carcere è solo un elemento nel ricco
insieme di discipline corporali. Queste si affermano, al contempo, in manifatture e case di lavoro, caserme, scuole, ospedali e prigioni. Sono le scienze umane allora che prolungano l'effetto normalizzante di queste discipline corporali, fin
nel più intimo di queste persone e popolazioni scientificamente
oggettivate e insieme sospinte nella loro soggettività 7 • Le scienze
7 « Queste scienze, davanti alle quali si incanta la nostra 'umanità' da più
di un secolo, hanno la loro matrice tecnica nella minuzia pignola e cattiva delle
discipline e delle loro investigazioni. Queste sono forse rispetto alla psicologia,
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umane devono costituire, secondo la loro forma, un amalgama
di potere e sapere - la formazione di potere e quella di sapere
costituiscono un'unità inscindibile. Una tesi tanto forte non si
può naturalmente fondare solo su argomenti funzionalistici. Foucault mostra solo come con l'impiego terapeutico e tecnicosociale di conoscenze umanistiche si possano conseguire effetti
disciplinanti, che sono simili agli effetti delle tecnologie di
potere. Per soddisfare, però, all'obbiettivo della sua dimostrazione, doveva comprovare (ad esempio, nell'ambito di una teoria
trascendental-pragmatica della conoscenza), che specifiche strategie di potere si convertono in corrispondenti strategie scientifiche dell'aggettivazione di esperienze del parlato quotidiano e
con ciò pregiudicano il senso dell'impiego di asserzioni teoretiche circa ambiti oggettivi in tal modo costituiti 8 • Foucault non
ha più ripreso le considerazioni fatte un tempo sul ruolo epistemologico dello sguardo clinico, che conducono pur sempre in
questa direzione. Non gli sarebbe altrimenti rimasto nascosto che
nelle scienze umane degli anni Settanta i principi obiettivistici
non dominano più da gran tempo il campo, ma concorrono con
alla psichiatria, alla pedagogia, alla criminologia, ciò che il terribile potere di
inchiesta fu per il piano sapere sugli animali, le piante o la terra. Altro potere,
altro sapere. Alle soglie dell'età classica, Bacone, l'uomo della legge e dello
Stato, tentò di costruire per le scienze empiriche la metodologia dell'inchiesta.
Quale Grande Sorvegliante farà quell'esame per le scienze umane? A meno che,
precisamente, ciò non sia possibile. Perché, se è vero che l'inchiesta, divenendo
una tecnica per le scienze empiriche, si distaccò dalla procedura inquisitoriale
dove storicamente si radicava, l'esame, al contrario, è rimasto vicinissimo al
potere disciplinare che l'ha creato: ed è ancora e sempre elemento intrinseco
delle discipline. Certamente, esso sembra aver subito un'epurazione speculativa,
integrandosi a scienze come la psichiatria, la psicologia. E, in effetti, sotto
forma di test, conversazioni, interrogatorii, consultazioni, Io vediamo rettificare
in apparenza i meccanismi della disciplina: la psicologia scolare è incaricata
di correggere i rigori della scuola, come il trattamento medico o psichiatrico è
incaricato di rettificare gli effetti della disciplina del lavoro. Ma non bisogna
lasciarsi ingannare; queste tecniche non fanno che rinviare gli individui da
un'istanza disciplinare ad un'altra e riproducono, sotto forma concentrata o formalizzata, Io schema di potere proprio di ogni disciplina. La grande inchiesta
che aveva dato luogo alle scienze della natura, si era distaccata dal suo modello
politico-giuridico; l'esame, al contrario, è sempre preso nella tecnologia disciplinare» (M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, cit., p. 227;
tr. it. cit., p. 246). Questo brano è interessante per un duplice aspetto. In primo luogo, il confronto fra scienze naturali e scienze umane deve insegnare
che entrambe sono scaturite da tecnologie di potere, che, però, solo le scienze
naturali hanno potuto liberarsi dal loro contesto. di origine e, troppo seriamente,
hanno potuto esprimere la loro pretesa alla obbiettività e verità per discorsi
effettivamente disimpegnati. In secondo luogo Foucault è del parere che le
scienze umane non potrebbero affatto svincolarsi dal loro contesto di origine,
perché nel loro caso le pratiche della potenza non si innestano solo casualmente
nella storia dell'origine, ma assumono il ruolo trascendentale della costruzione
del sapere.
8 Cfr. J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt a. M. 1968 (tr. it.,
Conoscenza e interesse, Bari 1970); da ultimo K. O. Ape!, Die Erkliiren/Verstehen Kontroverse, Frankfurt a. M. 1979.
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principi ermeneutici e critici, che secondo la loro forma conoscitiva sono orientati su altre possibilità d'uso anziché sulla manipolazione o sull'automanipolazione. Nell'Ordine delle cose Foucault aveva ricondotto le scienze umane alla forza costitutiva di
una volontà di sapere spiegata con la storia della metafisica. La
teoria del potere, come si è mostrato, deve nascondere questo
rapporto. D'ora innanzi resta perciò libero il luogo delle discussioni fondativo-teoriche. La ' volontà di sapere ' torna nuovamente nel titolo del primo volume sulla storia della sessualità
(1976), ma in una forma completamente mutata grazie alla teoria del potere. Ha perso il senso trascendentale di una volontà
prodotta strutturalmente a favore di un consapevole autoimpossessamento ed ha assunto la forma empirica di una speciale tecnologia di potere, che insieme con altre tecnologie di potere
rende finalmente possibili le scienze dell'uomo.
Questa tangibile positivizzazione della volontà di verità e di
sapere diventa chiara in un'autocritica esposta da Foucault nel
1980 a Berkeley. In questa sede egli ammette che in Sorvegliare
e punire l'analisi delle tecnologie di potere offre un quadro unilaterale: « Se si vuole analizzare la genealogia del soggetto nelle
società occidentali si devono tenere in conto non solo le tecniche
di dominio, ma anche le tecniche dell'Io. Mi si consenta di dire··
che si deve tenere nel dovuto conto l'interazione tra quei due
diversi tipi di tecnica, il punto in cui le tecnologie di dominio
di un individuo sopra un altro sono ricorse al processo attraverso il quale l'individuo agisce su se stesso » 9 • Queste tecnologie, che sollecitano gli individui ad esaminarsi consapevolmente
ed a scoprire la verità su se stessi, Foucault le riconduce alle
pratiche della confessione, e specialmente dell'esame di coscienza
cristiano. Pratiche strutturalmente simili, che nel corso del XVIII
secolo, penetrano in tutti gli ambiti dell'educazione, installano
un'armeria con strumenti d'autosservazione e d'autoconsultazione
intorno al punto centrale della percezione di impulsi sessuali
propri ed estranei. La psicanalisi conferisce poi a queste tecnologie della verità, che non tanto dischiudono l'intimo degli individui quanto principalmente producono un'interiorità mediante
una rete sempre più fitta di autorelazioni, la forma di una terapia scientificamente fondata 10 •
9 Howison Lecture on Truth and Subjectivity, Oct. 20, Berkeley, manoscritto, p. 7.
10 Nella Storia della sessualità, Foucault compie una ricerca dei contesti di
formazione e di utilizzazione nei quali si inserisce la psicoanalisi. Ancora una
volta, argomenti funzionalistici devono stabilire ciò che non possono stabilire,
cioè che le tecnologie di potere costituiscono l'ambito oggettivo scientifico e,
quindi, pregiudicano criteri di validità per ciò che vale come vero o falso all'interno del discorso scientifico.
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In breve, la genealogia delle scienze umane di Foucault entra
in scena in un irritante ruolo doppio. Da un lato recita il ruolo
empirico di un'analisi di tecnologie di potere che debbono spiegare il contesto funzionale sociale della scienza dell'uomo; in
ciò, le situazioni di potere interessano come condizioni di formazione e come effetti sociali del sapere scientifico. D'altro lato
la stessa genealogia recita il ruolo trascendentale di un'analisi
di tecnologie di potere che debbono spiegare come siano in genere possibili discorsi scientifici sugli uomini; in ciò, le situazioni di potere interessano come condizioni costitutive per un
sapere scientifico. Questi due ruoli epistemologici non sono,
dunque, più ripartiti in base a principi in concorrenza, che si
riferiscono soltanto allo stesso oggetto, cioè al soggetto umano
nelle sue manifestazioni di vita. Piuttosto è la storiografia genealogica che deve essere entrambe le cose in uno: sociologia funzionalistica e ricerca storica costituzionale nello stesso tempo.
Nel concetto fondamentale di potere Foucault ha costretto
insieme il pensiero idealistico della sintesi trascendentale con i
presupposti di un'antologia empiristica. Già per questo, tale
principio non può aprire una via d'uscita dalla filosofia del soggetto, perché il concetto di potere, che deve offrire alle due contrarie componenti di significato il comun denominatore, è ricavato esso stesso dal repertorio della filosofia della coscienza. Conformemente ad essa, il soggetto può assumere fondamentalmente
due e solo due relazioni con il mondo di oggetti immaginabili
e manipolabili: relazioni cognitive che sono regolate tramite la
verità dei giudizi, e relazioni pratiche che sono regolate tramite
il successo delle azioni. Potere è ciò con cui il soggetto influisce su oggetti in azioni ricche· di successo; in ciò, il successo
dell'azione dipende dalla verità dei giudizi che entrano nel piano
d'azione; il potere resta dipendente dalla verità in merito al
criterio del successo dell'azione. Foucault capovolge di colpo
questa dipendenza del potere dalla verità in una dipendenza
della verità dal potere. Di conseguenza il potere fondante non
necessita più di essere vincolato alle competenze di soggetti
agenti e giudicanti - la poteni:a diventa priva di soggetto. Nessuno si sottrae tuttavia alle costrizioni di tipo strategico-concettuale della filosofia soggettiva per il semplice fatto di effettuare
su quei concetti fondamentali delle operazioni di capovolgimento.
Foucault non può far sparire tutte quelle aporie, che rinfaccia
alla filosofia del soggetto, in un concetto di potere preso a prestito dalla stessa filosofia soggettiva. Così non desta sorpresa che
le stesse aporie emergano nuovamente in una storiografia proclamata come antiscienza, che poggia su un simile principio
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paradossale. Siccome Foucault non rende conto metodologica·
mente di queste inconciliabilità, anche il motivo dell'unilatera·
lità delle sue analisi empiriche rimane nascosto.
Foucault collega infatti con la sua svolta verso la teoria
del potere l'attesa di condurre le sue ricerche fuori da quel
circolo nel quale le scienze umane sarebbero prigioniere senza
speranza. Mentre il pensiero antropocentrico viene trascinato
nel vortice dell'obiettivismo, cioè dell'aggettivazione dell'uomo
dalla dinamica dello smisurato auto-impossessamento di un
soggetto divenuto riflessivo, la genealogia del sapere deve
innalzarsi alla vera obiettività della conoscenza. Abbiamo già
visto che la storiografia genealogica fondata sulla teoria del
potere deve proporsi tre sostituzioni: in luogo del chiarimento
ermeneutico di contesti di senso subentra l'analisi di strutture
di per sé prive di senso; pretese di validità interessano solo
ancora come funzioni di complessi di potere; giudizi di valore,
e in genere la problematica della giustificazione della critica,
vengono eliminati a favore di spiegazioni storiche avalutative.
Il nome ' anti-scienza ' non si spiega solo per l'opposizione
alle scienze umane dominanti; esso segnala anche il tentativo
ambizioso di superare tali pseudoscienze. Ne prende ora il posto
una ricerca genealogica che, senza inseguire falsi modelli natu·
ralistici, potrà misurarsi un giorno, nel suo status scientifico, con
quello delle scienze della natura. Credo che Paul Veyne colga
l'effettiva intenzione del suo amico, quando descrive Foucault
come lo « storico allo stato puro », che non vuole nient'altro
che dire stoicamente, come è avvenuto: «Tutto è storico [ ... ]
e tutti gli -ismi devono essere sgomberati. Nella storia vi sono
solo costellazioni individuali o del tutto singolari, e ciascuna è
interamente spiegabile in base alla sua propria situazione » 11 •
Naturalmente la drammatica storia effettuale ed il richiamo
iconoclastico di Foucault non sarebbero spiegabili se la fredda
facciata dello storicismo radicale non coprisse le sofferenze del
modernismo estetico. La genealogia muove verso un destino
simile a quello che Foucault aveva letto dalla mano delle scienze
umane: nella misura in cui si ritira nell'irriflessiva obiettività
di una descrizione ascetica ed indifferente di pratiche della forza
che mutano in modo caleidoscopico, la storiografia genealogica
si rivela proprio come la pseudoscienza presentistica, relativistica e criptonormativa, che non vuole essere. Mentre le scienze
umane, secondo la diagnosi di Foucault, si arrendono al movi·
11
P. Veyne, Foucault révolutionne l'histoire, cit., p. 231 (tr. it. cit., p. 85).
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mento ironico di un auto-impossessamento scientifico, e si concludono, o meglio muoiono, in un empio obiettivismo, per la
storiografia genealogica si compie un destino non meno ironico:
essa segue il movimento di una radicale eliminazione storicistica del soggetto e si conclude in un empio soggettivismo.
III
Foucault si pensa come ' positivista fortunato ', perché propone
tre riduzioni gravide di con~eguenze: la comprensione di senso
dell'interprete che prende parte ai discorsi viene ricondotta
dalla prospettiva dell'osservatore etnologico alla spiegazione di
discorsi; pretese di validità vengono ridotte in modo funzionalistico ad effetti di potere; il Dovere viene riferito naturalisticamente all'Essere. Parlo di riduzioni, perché gli aspetti interni
del significato, del valore di verità e del valutare in effetti non
si risolvono pienamente negli aspetti colti esternamente delle
pratiche di potere. I momenti invalidati e rimossi tornano nuovamente e difendono il proprio diritto in primo luogo su un
piano metateorico. Foucault si impiglia in aporie non appena
deve spiegare come si deve intendere ciò che fa lo stesso storiografo genealogico. La pretesa obiettività della conoscenza si
vede allora, cioè, messa in questione: (l) per l'involontario presentismo di una storiografia che rimane legata alla sua situazione iniziale; (2) per l'inevitabile relativismo di un'analisi riferita al presente, che può ancor solo concepire se stessa come
iniziativa pratica dipendente dal contesto; (3) per la arbitraria
partiticità di una critica che non può provare i suoi fondamenti
normativi. Foucault è sufficientemente incorruttibile per riconoscere queste incongruenze, certo non arriva a trame le conseguenze.
1. Come si è visto, Foucault vuole eliminare la problematica
ermeneutica, e con ciò quell'autorelazione che entra in gioco
come ambito oggettuale con un approccio alla comprensione di
senso. Lo storiografo genealogico non deve operare come l'ermeneuta, non deve tentare di render comprensibile ciò che gli
attori via via fanno e pensano a partire da un contesto tradizionale intrecciato con la loro autocomprensione. Deve piuttosto spiegare l'orizzonte all'interno del quale tali manifestazioni possono in genere apparire sensate sulla base di pratiche
poste a fondamento. Così, ad esempio, egli non ricondurrà il
divieto delle competizioni gladiatorie nella tarda Roma alla
influenza umanizzatrice del Cristianesimo, bensì al subentrare
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di una formazione di potere nuova rispetto a quella vigente 12 :
nell'orizzonte del nuovo complesso di potere, è del tutto naturale, per esempio, che nella Roma posi-costantiniana il sovrano
non consideri più il popolo come un gregge di pecore da custodire, ma come una schiera di bambini bisognosi di educazione
(non si devono, dunque, ammettere i bambini a spettacoli sanguinari). I discorsi con cui venne motivata l'istituzione o l'abolizione delle competizioni gladiatorie hanno ancora valore solo
come camuffamento di una prassi di potere inconsapevolmente
posta alla base. Come fonti di ogni senso, tali pratiche sono esse
stesse prive di senso; lo storico deve accostarsi ad esse dall'esterno per poterle cogliere nella loro struttura. Per questo,
non vi è bisogno di alcuna precomprensione ermeneutica, bensì
solo della concezione della storia come di un caleidoscopico mutamento di figure privo di senso, di universi di discorso che non
hanno fra loro nulla in comune, salvo l'unica destinazione di
essere protuberanze di potere.
Contro quest'autocomprensione che persevera nell'obiettività,
la prima occhiata ad uno qualsiasi dei libri di Foucault insegna
che lo storicista radicale può spiegare le tecnologie di potere
e le pratiche di dominio solo mettendole a confronto; assolutamente mai ogni singola come totalità di volta in volta presa di
per sé. Pertanto i punti di vista in base ai quali egli intraprende
dei confronti, sono inevitabilmente connessi alla peculiare posizione di partenza ermeneutica. Ciò risulta, tra l'altro, dal fatto
che Foucault non può sfuggire alla costrizione d'una suddivisione epocale implicitamente riferita al presente. Si tratti della
storia della follia, di quelle della sessualità o delle pene, le formazioni di potere del Medioevo, del Rinascimento e dell'Età
classica rinviano sempre a quel potere disciplinare, a quella
biopolitica, che Foucault considera il destino del nostro presente.
Nella parte conclusiva dell'Archeologia del sapere, egli solleva
quest'obiezione nei confronti di se stesso, ma solo per eluderla:
« Nell'attimo, e senza che io potessi prevedere una fine, il mio
discorso - ben lungi dal definire il luogo da cui esso parla evita il terreno su cui avrebbe potuto poggiare » 13 • Foucault è
consapevole, senza darne la spiegazione, dell'aporia di un procedimento che vuoi essere obiettivistico e deve rimanere diagnostico del tempo.
Foucault s'abbandona alla frusta melodia di un irraziona12 Questo esempio viene trattato da Veyne. lvi, pp. 204 sgg. (trad. it. parz.
cit., pp. 71 sgg.).
13 M. Foucault, L'Archéologie du savoir, cit., p. 267 (tr. it. cit., p. 268).
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lismo confesso solo nel contesto della sua interpretazione di
Nietzsche. Qui, cioè, l'autoestinzione, ovvero « il sacrificio del
soggetto conoscente », che lo storicista radicale deve richiedere
a se stesso per amore dell'oggettività della pura analisi strutturale, sperimenta un'ironica reinterpretazione nell'opposto:
Relativamente all'apparenza o alla sua maschera, la coscienza
storica è neutrale, libera da qualsiasi passione e dedita solo alla
verità. Interrogando però se stessa, e in genere ogni coscienza
scientifica nella sua storia, scopre che le forme e le trasformazioni
della volontà di sapere sono istinto, passione, febbre inquisitoria,
raffinatezza crudele, cattiveria; scopre la violenza delle prese di
posizione. L'analisi storica di questa grandiosa volontà di sapere
dell'umanità rende evidente che non c'è conoscenza che non si basi
sulla ingiustizia (e che, di conseguenza, non esiste nella conoscenza
alcun diritto alla verità ed alcun fondamento del vero) 14 •
Così, il tentativo di spiegare le formazioni di discorso e di
potenza soltanto a partire da se stesse, sotto l'inesorabile sguardo oggettivante dell'analista che viene da lontano opponendosi
senza comprendere a tutto ciò che è del luogo, si rovescia nel
suo contrario. Lo smascheramento delle illusioni obiettivistiche
di ogni volontà di sapere porta ad un accordo con una storiagrafia narcisista che si allinea sulla posizione dello storico, e
strumentalizza la considerazione del passato ai bisogni del presente: « la vera storia » cala « nella sua posizione, lo scandaglio nel profondo » 15 •
2. La storiografia di Foucault può altrettanto poco sfuggire
ad un relativismo, quanto a questo estremistico presentismo. Le
ricerche di Foucault si impigliano appunto in quell'autorelazione
che doveva essere rimossa per mezz-o di un uso naturalistico
della problematica della validità. La storiografia genealogica
deve veramente rendere accessibile ad un'analisi empirica le pratiche di potere proprio nei contributi d'esse alla costruzione del
discorso. Da questa prospettiva le pretese di verità non vengono
limitate solo ai discorsi all'interno dei quali via via compaiono.
Esse esauriscono essenzialmente il loro significato nel contributo
funzionale che offrono all'autoaffermazione di un universo di
discorso vigente. Il senso delle pretese di validità consiste, dunque, negli effetti di potere che esse hanno. D'altra parte, questa assunzione di fondo della teoria di potere è autorelativa;
14
15
F. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, cit. (tr. it. cit., p. 52).
lvi (tr. it. cit., p. 46).
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essa, se giusta, deve distruggere il fondamento di validità delle
ricerche che ispira. Se però la pretesa di verità che Foucault
stesso collega con la sua genealogia del sapere, fosse veramente
illusoria e si risolvesse negli effetti che tale teoria è in grado di
esercitare nella cerchia dei suoi sostenitori, allora l'intera impresa di uno smascheramento critico delle scienze umane sarebbe privata del suo effetto. Foucault professa, tuttavia, la storiografia genealogica con la più seria intenzione di venire a capo
di una scienza superiore alle scienze umane che sono fallite; se
la sua superiorità non potesse, dunque, esprimersi nel fatto che
è subentrato qualche cosa di persuasivo al posto delle pseudoscienze superate; se la sua superiorità si esprimesse solo nell'effetto della reale rimozione di discorsi scientifici finora dominanti, allora la teoria di Foucault si esaurirebbe in una politica
teorica, cioè in una finalità politico-teorica, che chiederebbe
troppo alle forze di un'impresa eroica di un singolo uomo. Di
ciò, Foucault è consapevole. Per questo motivo egli vuole distinguere la genealogia da tutte le altre scienze umane in modo
tale da potersi conciliare con gli assunti di base òella propria
teoria. A questo scopo egli applica a se stesso la storiografia
genealogica; nella storia delle origini, che le è propria, deve
risultare la differenza che può fondare la priorità su tutte le
altre scienze umane.
La genealogia del sapere fa uso di tutti quei generi squalificati di sapere, dai quali si distinguono le scienze consolidate;
essa offre il medium per la ribellione dei « generi deprezzati del
sapere ». Tra questi Foucault non intende in prima linea i sedimenti del sapere erudito ad un tempo occultati e tenuti presenti, bensì le esperienze, mai promosse a sapere ufficiale e mai
sufficientemente articolate, di gruppi assoggettanti. Si tratta del
sapere implicito della ' gente ' che in un sistema di potere costituisce lo strato infimo, e che per prima sperimenta sul proprio
corpo una tecnologia di potere, si tratti delle vittime e degli
operatori di un meccanismo di sofferenza e ad esempio il sapere
degli psichiatrizzati e degli infermieri, dei delinque,nti e dei sorveglianti, dei deportati nei Lager e del personale di guardia, dei
negri e degli omosessuali, delle donne e delle streghe, dei vagabondi, dei bambini e dei pazzi. La genealogia effettua il suo
lavoro di scavo sull'oscura ragione di quel sapere locale, marginale ed alternativo, che « trae vigore solo dalla durezza con
la quale si oppone a tutto ciò che lo circonda». I materiali di
questo sapere normalmente « sono squalificati in quanto impropri o non abbastanza elaborati: sono tipi di sapere ingenui col-
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locati al margine inferiore della gel"archia, al di sotto del livello
richiesto di sapere e scientificità » 16 • In essi sonnecchia, però,
« il sapere storico delle battaglie ». La genealogia, che eleva
questi « ricordi locali » al livello di « conoscenze erudite », si
schiera dunque dalla parte di coloro che oppongono via via resistenza alle varie pratiche del potere. Da tale posizione di potere
antagonista, essa consegue una prospettiva che deve andar oltre
le prospettive di coloro che via via detengono il potere. Da tale
prospettiva, deve poter trascendere tutte le pretese di validità
che si costituiscono solo all'interno del delimitato ambito del
potere. Il legame con il sapere squalificato della ' gente ' deve
procurare al lavoro di ricostruzione del genealogista quella superiorità che « ha fornito alla critica svolta dai discorsi negli ultimi
quindici anni la sua forza essenziale » 17•
Ciò richiama un argomento del primo Lukacs, secondo il
quale la teoria marxista dovrebbe la sua spregiudicatezza ideologica alle privilegiate possibilità di conoscenza di una prospettiva dell'esperienza formatasi grazie alla posizione del lavoratore
salariato nel processo di produzione. L'argomento era plausibile,
in ogni caso, solo nell'ambito di una filosofia della storia che
voleva rinvenire nell'interesse di classe proletario l'interesse generale, nella coscienza di classe del proletariato l'autocoscienza
del genere umano. Ma la concezione del potere di Foucault non
consente un simile concetto del potere antagonista, di stampo filosofico-storico, che privilegi la conoscenza. Ogni contropotere si
muove già nell'orizzonte del potere che combatte, e si trasforma,
una volta vittorioso, in un complesso di potere, che provoca un
altro contropotere. Da questo circolo anche la genealogia della
scienza non può uscire, mentre attiva la ribellione delle forme
di sapere squalificate e mobilita il sapere decaduto contro « la
costrizione di un discorso teoretico, unitario, formale e scientifico » 18 • Chi batte l'avanguardia teoretica di oggi e supera la
vigente gerarchizzazione del sapere, pone per ciò stesso l'avanguardia teoretica di domani, edifica per ciò stesso una nuova
gerarchia del sapere. Non può comunque rendere valida per il
suo sapere alcuna superiorità in ragione di pretese di verità che
trascendano le convenzioni locali.
Fallisce in tal modo il tentativo di salvaguardare coi suoi
stessi mezzi la storiografia genealogica dall'autosmentita relativistica. La genealogia mentre riconosce la propria origine dal16
M. Foucault, Corso del
7
Gennaio 1976, in Microfisica del potere, cit.,
p. 167.
17
18
lvi, p. 168.
lvi, p. 170.
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l'alleanza del sapere erudito con quello squalificato, trova soltanto confermato che le pretese di validità di controdiscorsi non
contano di più o di meno dei discorsi aventi potere - anche
esse non sono nient'altro che gli effetti di potere che si manifestano. Foucault vede questo dilemma, ma si sottrae, ancora una
volta, a una risposta. E di nuovo fa ricorso ad un combattivo
prospettivismo solo nel contesto della sua recezione di Nietzsche: « Gli storici cercano, per quanto possibile, di cancellare
tutto ciò che nel loro sapere possa rivelare il luogo da dove
osservano, il punto temporale in cui si trovano, il partito che
prendono, e l'inevitabilità delle loro passioni. Il senso storico,
come Nietzsche lo intende, sa di essere prospettivistico [ ... ] Esso
guarda da un angolo visuale determinato; è ben deciso a sottovalutare, a dire sì o no, a seguire ogni traccia del veleno, a trovare il controveleno migliore » 19 ,
3. Resta infine da verificare se riesca a Foucault di sfuggire
a quel criptonormativismo, di cui si rendono colpevoli, secondo
la sua concezione, le scienze umane aspiranti alla libertà dai
valori. La storiografia genealogica deve attingere, in assetto rigorosamente descrittivo, alle spalle degli universi del discorso nell'ambito dei quali soltanto si discute di norme e di valori. Essa
mette fra parentesi pretese normative di validità al pari di pretese di verità proposizionale, e si astiene dalla questione se talune
formazioni del discorso e del potere possano venire giustificate
piuttosto che altre. Foucault si oppone alla richiesta di prendere
partito; egli schernisce 'il dogma gauchiste' di considerare il
potere come il cattivo, il brutto, lo sterile, il morto, e viceversa,
« ciò su cui il potere viene esercitato, come il buono, l'autentico, il grande» 20 • Per lui non c'è un 'lato giusto'. Dietro a
queste affermazioni sta la convinzione che la politica avviata,
nel 1789, sotto il segno della rivoluzione, sia ormai alla fine,
e che siano superate le teorie impegnate ad intendere il rapporto tra teoria e prassi.
Già questa fondazione di una libertà di valori di secondo
grado non è, naturalmente, libera da valore. Foucault si considera un dissidente, che oppone resistenza al pensiero moderno
e al potere disciplinare travestito in vesti umanistiche. L'engagement impronta le sue dotte trattazioni sino nello stile e nella
scelta lessicale; il gesto critico domina la teoria non meno che
19 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, cit. (tr. it. cit., p. 46).
20 M. Foucault, Non au sexe roi (conversazione con Bernard-Henry Lévy)
in «Le Nouvel Observateur », 12 marzo 1977, no 644 (tr. ted., Nein zum Konig
Sex, in Dispositive der Macht. Michel Foucault Vber Sexualitiit, Wissen und
Wahrheit, Berlin 1978, p. 191).
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l'autodefinizione dell'intera opera. Per tale via Foucault si differenzia, da un lato, dal positivismo impegnato di un Max Weber, volto a separare la base di valore, scelta decisionisticamente
e apertamente dichiarata, dalle analisi condotte avalutativamente.
La critica di Foucault si fonda piuttosto su una retorica postmoderna della rappresentazione che sugli assunti post-moderni
della sua teoria.
Da un altro lato, Foucault si differenzia anche dalla critica
all'ideologia di un Marx, il quale smaschera l'autocomprensione
umanistica della modernità, nel momento in cui attacca il contenuto normativa degli ideali borghesi. Foucault non ha l'intenzione di continuare quel discorso antagonista che la modernità
ha portato con sé dai suoi inizi; egli non vuole affinare in qualche maniera il gioco linguistico della moderna teoria politica
(con i concetti fondamentali di autonomia ed eteronomia, moralità e legalità, emancipazione e repressione) e volgersi contro le
patologie della modernità - egli vuole passare sotto alla modernità ed ai suoi giochi linguistici. La sua resistenza non deve
giustificarsi come immagine speculare del potere esistente: « Se
tutto si riducesse a questo », risponde Foucault ad una corrispondente domanda di Bernard-Henry Lévy, «non vi sarebbe
resistenza. Poiché la resistenza deve essere come il potere: altrettanto ingegnosa, altrettanto mobile, altrettanto produttiva. Essa
si deve organizzare e stabilizzare allo stesso modo, deve come
quello venire dal basso e distribuirsi strategicamente » 21 •
La dissidenza deriva la sua unica giustificazione dal fatto
che tende trappole al discorso umanistico senza impegolarsi con
esso; Foucault spiega quest'autocomprensione strategica a partire dalle caratteristiche della stessa formazione di potere moderna. Quel potere disciplinare, il cui carattere locale, costante,
produttivo e onnipenetrante, capillarmente intrecciato, che egli
descrive ripetutamente, si installa prima nei corpi che nelle
teste. Esso ha l'aspetto di una biopotenza che prende possesso
piuttosto dei corpi che degli spiriti, e sottopone il corpo ad
una inesorabile costrizione normalizzante - senza avere, per
questo, bisogno di una base normativa. Il potere disciplinare
funziona senza dover passare per una coscienza necessariamente
falsa, che si sarebbe formata nei discorsi umanistici e sarebbe
perciò esposta alla critica dei discorsi antagonisti. I discorsi
delle scienze umane, piuttosto, si fondono con le pratiche della
loro applicazione a formare un complesso di potere opaco, sul
quale deve riflettersi ogni critica dell'ideologia. La critica urna21
lvi (tr. ted. cit., p, 195).
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nistica che poggia, come quella di Marx o Freud, sulla contraddizione superata di potere legittimo ed illegittimo, di motivi
consapevoli ed inconsapevoli, e che entra in guerra contro
istanze della oppressione, dello sfruttamento, della emarginazione, ecc., corre il rischio, da parte sua, di rafforzare l' ' umanesimo ' riportato nel frattempo dal cielo sulla terra e passato
alla violenza normalizzatrice.
Ora, questo argomento può bastare a concepire la storiagrafia genealogica non più come critica, ma come tattica, come
mezzo della strategia contro una formazione di potere normativamente inattaccabile. Se però si tratta ancora solo della
mobilitazione di forze antagoniste, di confronti e di battaglie
ricche di finte, sorge la domanda del perché dovremmo opporre
resistenza a questo potere onnipresente che circola nel sistema
sanguigno del corpo sociale moderno, anziché adattarvisi. In
questo caso, anche il mezzo di lotta della genealogia del sapere sarebbe superfluo. Certo appare chiaro che un'analisi delle
forze e delle debolezze dell'avversario è utile a colui che intenda accettare il combattimento - ma perché lottare?: « Perché la lotta è preferibile .alla sottomissione? Perché si dovrebbe
resistere alla dominazione? Solo introducendo nozioni in qualche modo normative, Foucault potrebbe avviare una risposta a
questa domanda. Solo introducendo nozioni normative, potrebbe
cominciare a dirci cosa c'è di sbagliato nel moderno regime di
potere/conoscenza e perché dovremmo opporci ad esso» 22 • Una
volta, in una intervista, Foucault non riesce a sottrarsi alla domanda; in quest'unico luogo accenna, in modo molto vago, a
criteri di giustizia post-moderni: « Per poter entrare in battaglia
con il potere disciplinare contro le discipline, non si dovrebbe
prendere la direzione dell'antico diritto della sovranità, ma ci
si dovrebbe piuttosto avvicinare ad un nuovo diritto, liberato
non solo dalle discipline, ma anche, al contempo, dal principio
della sovranità » 23 •
Foucault, prescindendo completamente dal fatto che, in collegamento con Kant, sono già state sviluppate concezioni della
morale e del diritto, che non servono più al compito di giustificare semplicemente la sovranità dello stato monopolizzatore di
forza, su questo tema tace. Ma non appena si tenta di ricavare
dall'enfatica denuncia del potere disciplinare i criteri implici22 N. Fraser, Foucault on Modern Power: Empirica{ Insights and Normative Confusions, in « Praxis International >>, vol. l, 1981, p. 283.
23 M. Foucault, Corso del 14 Gennaio 1976, in Microfisica del potere, cit.,
p. 194.
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tamente adoperati, si incontrano determinazioni conosciute che
provengono dal gioco linguistico normativistico esplicitamente
respinto. Sono cioè sconvenienti, per Foucault, anche tanto la
relazione asimmetrica fra c.oloro che detengono il potere e coloro
che vi sono sottomessi, quanto l'effetto reificante delle tecnologie
di potere, che danneggiano l'integrità morale e fisica di soggetti
disposti a parlare e ad agire. N. Fraser ha proposto un'interpretazione, che certamente non mostra alcuna via d'uscita da questo dilemma, ma che spiega, però, da dove trae origine il criptonormativismo d'una storiografia che si dichiara libera da valori 24 •
Il concetto della volontà di potenza di Nietzsche ed il concetto della sovranità di Bataille accolgono, più o meno apertamente, il contenuto di esperienza normativa della modernità
estetica. Al contrario, Foucault ha preso in prestito dalla tradizione empiristica la sua concezione del potere, le ha sottratto
quel potenziale di esperienza di un fascino insieme spaventoso
ed incantevole dal quale ha attinto da Baudelaire fino ai surrealisti l'avanguardia estetica. Tuttavia ' potere ' mantiene anche
nelle mani di Foucault un rapporto letteralmente estetico con la
percezione del corpo, con l'esperienza dolorosa del corpo straziato. Questo momento diviene addirittura determinante per la
moderna formazione del potere, che deve il nome di ' biopotere '
alla circostanza che, per i delicati sentieri dell'oggettivizzazione
scientifica e di una soggettività prodotta tramite tecnologie della
verità, penetra profondamente nel corpo reificato e si appropria
dell'intero organismo. Si chiama biopotere quella forma di socializzazione che mette da parte ogni possibilità di sviluppo di
natura, e trasforma la globalità della vita creaturale in un sostrato del potenziamento. L'asimmetria piena di contenuti normativi, che Foucault vede operante nei complessi di potere, non
si pone propriamente tra volontà che ha potere e sottomissione
forzata, bensì tra i processi di potere e quei corpi che nel corso
di essi vengono lacerati. 'È sempre il corpo che viene scorticato
nella tortura e trasformato in teatro della vendetta sovrana; che
viene afferrato dai congegni, smembrato in un campo di forze
meccaniche, manipolato; che viene oggettivato e controllato dalle
scienze umane; che viene, al contempo, stimolato e messo a nudo
nella sua cupidigia. Se il concetto di potere di Foucault conserva
un residuo del contenuto estetico, lo deve all'interpretazione
vitalistica dell'autoesperienza del corpo. La Storia della sessualità si conclude con l'espressione inconsueta: « Dobbiamo ab24 In un manoscritto dal titolo: Foucault's Body Language: A Post-humanistic Politica[ Rethoric (1982).
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bandonarci al sogno che, un giorno, in un'altra economia del
corpo e dei desideri, forse non si riesce più a capire come [ ...]
ci fosse riuscito a sottometterei alla dura ed esclusiva signoria
del sesso» 25 • Quest'altra economia del corpo e dei desideri,
della quale per il momento, con Bataille, possiamo solo sognare,
non sarebbe una nuova economia del potere, ma una teoria postmoderna, che ora potrebbe chiedere conto delle misure della
critica già implicitamente usate per l'innanzi. Fino a quel punto,
la resistenza può derivare, se non la sua giustificazione, il suo
motivo, solo dai segnali del linguaggio del corpo, da quella lingua non verbalizzata del corpo torturato, che non si presta ad
essere superata nel discorso 26 •
Foucault non può ovviamente far sua questa interpretazione,
che certo poggia su alcuni dei suoi affetti rivelatori. Altrimenti,
come Bataille, dovrebbe accordare all'altro della ragione lo status
che, con buoni motivi, ad e~so nega fin da Follia e società. Foucault si difende da una metafisica naturalistica che esalta il
potere antagonista a referente prediscorsivo: «'Ciò che lei chiama naturalismo », risponde a Bernard-Henry Lévy nel 1977,
« indica l'idea che sotto il potere, sotto le sue azioni di violenza
e le sue malvagità, si debbano ritrovare le cose stesse nella loro
vitalità originaria: dietro le mura del manicomio, la spontaneità
della follia; nel sistema di punizione, l'irrequietezza fruttuosa
della delinquenza; sotto il divieto sessuale, la purezza del desiderio» n. Siccome Foucault non può accettare quest'idea di filosofia della vita, alla domanda sui fondamenti normativi della
sua critica deve parimenti astenersi dalla risposta.
IV
Foucault non può trattare in modo soddisfacente gli ostinati
problemi che si presentano, nel rapporto con l'accesso comprensivo di senso all'ambito oggettivo, alla negazione autoreferenziale di pretese universali di validità ed alla giustificazione normativa della critica. Le categorie di significato, validità, valore
25 M. Foucault, La Volonté de Savoir, Paris 1976, p. 211 (tr. it., La volontll
di sapere, Milano 1978, p. 142).
26 P. Sloterdij~ sviluppa questa alternativa con l'esempio delle forme di protesta mute, con un linguaggio espresso dal corpo, del cinico; Kritik der zynischen
Vernunft, 2 voli., Frankfurt a. M. 1982. Le ricerche personali di Foucault si
sono naturalmente orientate in un'altra direzione. Confronta anche la sua postfazione alla seconda edizione di Dreyfus, Rainbow, Miche! Foucault: Beyond
Structuralism and Hermeneutics, cit., pp. 229 sgg.
TI M. Foucault, Non au sexe roi, cit. (tr. ted. cit., p. 191).
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non devono essere però eliminate solo a livello metateoretico,
bensì anche empirico: la storiografìa genealogica ha a che fare
con un ambito di oggetti, dal quale la teoria del potere ha eliminato tutti i tratti di azioni comunicative inserite in contesti
relativi al mondo della vita. Questa rimozione di concetti fondamentali, che potrebbero tener conto delle circostanze della
prestrutturazione simbolica di sistemi d'azione, carica le ricerche
empiriche di problemi che questa volta Foucault non tratta, ad
ogni modo, esplicitamente. Voglio scegliere due problemi che
hanno una storia onorevole nella teoria della società: come sia
possibile l'ordine sociale, e come individuo e società si comportino reciprocamente.
Quando, come Foucault, si accetta solo il modello di processi di sopraffazione, di confronti mediati corporalmente, di
contesti per un'azione strategica più o meno consapevole; quando si esclude una stabilizzazione di ambiti d'azione tramite valori, norme e processi di intesa e non si indica alcuno degli
equivalenti conosciuti da teorie del sistema o di scambio per
questi meccanismi di integrazione strategica, allora difficilmente
si può spiegare come potrebbero consolidarsi le incessanti battaglie locali contro un potere istituzionalizzato. Axel Honneth
ha sviluppato energicamente questa problematica: Foucault, nelle
sue descrizioni, ammette discipline inspessitesi istituzionalmente,
pratiche di potere, tecnologie della verità e del dominio, ma non
può spiegare « come dalla condizione sociale di un'ininterrotta
battaglia possa essere dedotto lo stato di aggregazione di una
struttura di potenza » 28 • Simili difficoltà concettualmente fondamentali, come la stabilizzazione epocale di formazioni del discorso e del potere preparano inoltre i fenomeni per i quali Durkheim ha introdotto l'espressione di « individualismo istituzionalizzato ».
Se solo si accetta il modello della acquisizione di potere,
anche la socializzazione di generazioni nate più tardi si presenta nel quadro di confronti ingannevoli. Allora, però, la socializzazione di soggetti adatti a comunicare e ad agire non deve
essere in pari tempo intesa come individualizzazione, ma unicamente come progressiva sussunzione di corpi, di sostrati viventi
sotto tecnologie di potere. I processi di formazione sempre più
fortemente individualizzantisi, che, in società con tradizioni divenute riflessive e norme d'azione altamente astratte, penetrano
in strati sociali sempre più ampi, hanno bisogno di un cambio
di interpretazione artificiale, che compensi la miseria categoriale
28
A. Honneth, Kritik der Macht, cit., p. 182.
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del modello di acqutslZlone del potere. Il Foucault teorico del
potere incontra sotto questo aspetto il medesimo problema dell'istituzionalista Gehlen 29 ; in entrambe le teorie manca un meccanismo di integrazione sociale come il linguaggio (con l'intrecciarsi di atteggiamenti performativi di parlanti ed ascoltatori 30,
che potrebbe spiegare l'effetto di individualizzazione della socializzazione). Foucault compensa questa strettoia concettualmente
fondamentale depurando completamente, come Gehlen, il concetto dell'individualità da connotazioni di autodeterminazione e
di autorealizzazione, e riducendolo ad un mondo interiore prodotto mediante stimoli esterni e provvisto di contenuti immaginativi manipolabili ad arbitrio.
-Questa volta la difficoltà non deriva dalla mancanza di un
equivalente per le note costruzioni della relazione fra individuo
e società; la questione è, piuttosto, se il modello di una dilatazione dello psichico, prodotta tramite pratiche del potere (o provocata dal crollo delle istituzioni) non renda indispensabile sottoporre l'aumento di libertà soggettiva a descrizioni che rendono
irriconoscibile l'esperienza di spazi ampliati di una autoraffigurazione ed autonomia espressive.
Foucault potrebbe naturalmente rifiutare obiezioni di questo
tipo come petitio principii. Non si fondano forse su problematiche tradizionali che - insieme con le scienze umane dal cui
orizzonte derivano - da gran tempo sono rimaste prive di
oggetto? Potremmo rispondere negativamente a questa domanda
solo se ciò che dal nostro punto di vista si presenta come un
deficit concettualmente fondamentale, influisse anche sull'impianto e sulla realizzazione delle ricerche empiriche, e si lasciasse arrestare in base a interpretazioni selettive e a parziali
cecità. Vorrei perlomeno menzionare alcuni punti di · vista alla
luce dei quali si potrebbe condurre una critica empirica alla
storia dell'origine del processo penale moderno e della sessualità elaborata da Foucault.
Sorvegliare e punire è progettato come una genealogia del
diritto penale razionalizzato scientificamente e dell'esecuzione
della pena umanizzata scientificamente. Quelle tecnologie del dominio, nelle quali si esprime oggi il potere disciplinare, formano
la matrice comune per «la umanizzazione della pena, come
pure [per] la conoscenza dell'uomo» 31 • La razionalizzazione
29 A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter, Hamburg 1957.
J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M.
1981, vol. Il, pp. 92 sgg. (tr. it., Teoria dell'agire comunicativo, Bologna 1986,
pp. 625 sgg.).
31 M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, cit., p. 28 (tr.
it. cit., p. 27).
30
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del diritto penale e l'umanizzazione dell'esecuzione della pena
furono messe in movimento verso la fine del XVIII secolo sotto
la protezione retorica di un movimento di riforma che si giustifica normativamente nei concetti di diritto e morale. Foucault
vuole mostrare che sotto vi si nasconde un cambiamento brutale
delle pratiche del potere, la nascita di un moderno regime di
potere, «l'adeguamento ed il perfezionamento di apparati che
comprendono e sorvegliano il comportamento quotidiano degli
individui, la loro identità, la loro attività, i loro gesti apparentemente privi di significato » 32 • Foucault può illustrare questa
tesi con riferimenti a casi convincenti; ma questa tesi, tuttavia, è errata nella sua generalizzazione. Essa significa allora
che il panoptismo dedotto nella moderna esecuzione della pena
è caratteristico per la struttura della modernizzazione sociale nel
suo insieme. Foucault può formulare questa tesi generalizzata,
solo perché si muove in concetti fondamentali di teoria del potere, ai quali si sottraggono le strutture normative dello sviluppo
del diritto. Processi di apprendimento pratico-morali devono presentarglisi come intensificazione di processi di acquisizione del
potere. Questa riduzione si compie in più passi.
Anzitutto Foucault analizza i giochi linguistici normativi
del diritto naturale razionale, per mezzo delle funzioni latenti
che il discorso del dominio soddisfa nell'età del classicismo, per
l'attuazione e l'esercizio del potere statale assolutistico. La sovranità dello stato monopplizzatore di forza si esprime anche
nelle forme dimostrative dell'esecuzione della pena, che Foucault presenta in modo chiaro sulla base di procedure di tortura e di supplizio. Quindi descrive per mezzo della stessa prospettiva funzionalistica le prosecuzioni del gioco linguistico classico nella età delle riforme dell'Illuminismo. Queste culminano
da una parte nella teoria della morale e del diritto di Kant, dall'altra parte nell'utilitarismo. ~ interessante rilevare che Foucault non precisa che entrambi servono nuovamente alla attuazione rivoluzionaria di una violenza di stato costituzionalizzata,
cioè ad un ordine politico, che viene ideologicamente trasferito
dalla sovranità dei prìncipi a quella del popolo. A questo tipo
di regime sono infatti conformi quelle forme normalizzanti dell'esecuzione della pena, che costituiscono il vero tema di Sorvegliare e punire.
Dal momento che Foucault esclude gli aspetti interni dello
sviluppo del diritto, egli può compiere inosservatamente il terzo
passo decisivo. Mentre la violenza sovrana della classica forma32
lvi, p. 99 (tr. it. cit., p. 85).
292
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zione di potere si costituisce nei concetti di diritto e legge, il gioco
linguistico normativo deve essere inapplicabile al potere disciplinare della modernità; questa si sottomette ancor solo ai concetti empirici, in ogni caso non giuridici, del controllo fattuale
e dell'organizzazione di modi di comportamento e di motivi di
una popolazione resa sempre più disponibile scientificamente:
« che i procedimenti della normalizzazione colonizzano sempre
di più i procedimenti della legge, è in grado di spiegarlo il funzionamento globale di ciò che io chiamo società della normalizzazione » 33 • Come mostra il passaggio dalla teoria giusnaturalistica a quella della società di natura 34, il complesso contesto di
vita delle società moderne, nell'insieme, si lascia sempre meno
costruire nelle categorie giusnaturaliste di rapporti contrattuali.
Questa circostanza non può, però, naturalmente giustificare la
decisione, ricca di conseguenze dal punto di vista della strategia
teorica, che lo sviluppo di strutture normative sia in gen~re da
trascurare per la moderna formazione di potere. Non appena
Foucault prende il filo della affermazione biopolitica del potere
disciplinare, lascia cadere il filo dell'organizzazione giuridicadella pratica di dominio e della legittimazione dell'ordine autoritario. Per questo motivo, sorge infondatamente la impressione
che lo Stato costituzionale borghese sia un relitto divenuto privo
di funzione dei tempi dell'assolutismo.
Questo livellamento non circostanziato di cultura e politica
sui sostrati immediati della pratica della violenza, spiega le evidenti lacune dell'esposizione.' Può essere ancora motivato con
indicazioni di tecnica raffigurativa il fatto che una storia della
giustizia penale moderna venga staccata dallo sviluppo dello
Stato di diritto. Più dubbia è la limitazione teoretica al sistema dell'esecuzione della pena. Non appena passa dall'età classica a quella moderna, Foucault non presta più alcun tipo di
attenzione al diritto penale ed al diritto della procedura penale. Altrimenti avrebbe dovuto sottoporre anche in questo
campo le evidenti conquiste in liberalità ed in sicurezza giuridica, l'ampliamento delle garanzie dello Stato di diritto ad una
precisa interpretazione di teoria del potere. L'esposizione viene
però completamente distorta per il fatto che Foucault esclude
anche dalla stessa storia dell'esecuzione della pena tutti gli
aspetti della giuridicizzazione. Nella prigione esistono, come
nelle cliniche, scuole e caserme, quei « particolari rapporti di
33
p. 193.
34
M. Foucault, Corso del 14 Gennaio 1976, in Microfisica del potere, cit.,
J, Habermas, Soziologie, in Evangel. Staatslexikon,
293
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1966, pp. 210 sgg.
violenza » che non sono affatto rimasti intatti da una trasformazione nel senso dello Stato di diritto energicamente avanzante: lo stesso Foucault si è impegnato politicamente per questo.
Questa selettività non toglie nulla del suo peso all'affascinante smascheramento degli effetti capillari del potere. La generalizzazione, dalla prospettiva della teoria del potere, di un'in~
terpretazione selettiva impedisce però a Foucault di percepire
il vero fenomeno bisognoso di spiegazione: la struttura dilemmatica della giuridicizzazione, nelle democrazie di stato sociale
dell'Occidente consiste nel fatto che sono gli stessi mezzi giuridici della garanzia di libertà quelli che compromettono la
libertà del presunto beneficiario. Sotto le premesse della sua
teoria del potere, Foucault ha talmente spianato la complessità della modernizzazione sociale, che non possono più saltargli
all'occhio i paradossi inquietanti di questo processo.
La stessa tendenza allo spianamento di fenomeni a doppio
senso si mostra nella storia della sessualità moderna di Foucault.
Questa si riferisce all'ambito essenziale della natura interna che
diviene riflessiva, vale a dire della soggettività nel senso pratoromantico di un'interiorità dotata di espressività. Viene spianata
la struttura dilemmatica di un processo di interiorizzazione e
individualizzazione a lungo termine, accompagnato da tecniche
del disvelamento e strategie di sorveglianza, processo che procura al contempo nuove zone di alienazione e normalizzazione.
Herbert Marcuse ha interpretato come « sublimazione repressiva » le manifestazioni contemporanee di una liberazione sessuale
controllata, socialmente presa in appalto, contemporaneamente
commercializzata e amministrata. Questa analisi lascia aperta la
prospettiva di una desublimazione liberatrice. Foucault procede
da fenomeni del tutto simili di una sessualità squalificata, degradata a mezzo di controllo, svestita di erotismo, - ma vi
vede appunto il telos, il segreto rivelato della liberazione sessuale.
Dietro l'apparente emancipazione si nasconde una potenza che
dispiega la sua produttività tramite una coazione alla confessione
e voyeurismo indotta maliziosamente. ' Sessualità ', per Foucault,
è sinonimo di una formazione del discorso e del potere, che la
pretesa innocente di veridicità fa valere nei confronti dei propri
moti dell'animo, dei desideri istintivi e delle esperienze privilegiatamente accessibili; e mira ad una stimolazione dei corpi non
appariscente, ad una intensificazione dei desideri ed a una formazione di energie spirituali. Dalla fine del XVIII secolo una rete
di tecniche della verità si stringe intorno al bambino che si
masturba, alla donna isterica, all'adulto perverso, alla coppia
procreatrice - tutti luoghi che sono riorganizzati da pedagoghi,
294
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medici, psicologi, pianificatori familiari, ecc., che stanno in
osservazione.
Si potrebbe mostrare particolareggiatamente come Foucault
semplifichi il processo altamente complesso di una progrediente
problematizzazione della natura interna, riducendolo ad una storia che scorre linearmente. Nel nostro contesto interessa prima
di tutto la caratteristica eliminazione di tutti gli aspetti in base
ai quali l'erotizzazione e l'interiorizzazione della natura soggettiva hanno significato anche un guadagno in termini di libertà e
possibilità espressive. C. Honegger mette in guardia dal riproiettare indietro nella storia le presenti manifestazioni di desublimizzazione e dal rimuovere ancora una volta le repressioni passate: « In un tempo non troppo lontano erano correnti le prescrizioni di castità per le donne, la produzione della frigidità femminile, la morale doppia degli uomini, la stigmatizzazione del comportamento sessuale deviante, così come tutte quelle umiliazioni
della vita amorosa che Freud si sentì raccontare nel suo gabinetto medico » 35 • Le obiezioni di Foucault contro il modello di
Freud della repressione degli istinti e della emancipazione mediante la presa di coscienza, hanno una plausibilità evidente; e
questa la devono solo al fatto che la libertà, come principio
della modernità, non si lascia effettivamente cogliere nei concetti fondamentali della filosofia del soggetto.
In tutti i tentativi di cogliere con mezzi della filosofia della
coscienza l'autodeterminazione e l'autorealizzazione, vale a dire
la libertà nel senso morale ed estetico, ci si scontra ad ogni
momento con un ironico rovesciamento di ciò che realmente
si è voluto dire. La repressione dell'identità è il rovescio dell'autonomia infiltrata nei rapporti soggetto-oggetto; la perdita
- e la paura narcisistica davanti alla perdita - dell'identità è il rovescio di un'espressività portata sotto questi concetti.
Il fatto che il soggetto morale si deve trasformare da sé in
oggetto, che il soggetto espressivo come tale si deve ritirare o,
per paura di alienarsi negli oggetti, si deve chiudere in sé, non
corrisponde all'intuizione di libertà e liberazione - porta solo
alla luce le costrizioni di pensiero della filosofia del soggetto.
Foucault lascia però cadere, insieme con soggetto ed oggetto,
anche quell'intuizione che una volta doveva essere concettualizzata con ' soggettività '. Certamente, finché facciamo i conti solo
con soggetti, che rappresentano e trattano oggetti, che si alienano in oggetti o possono riferirsi a se stessi come oggetto, non
35 C. Honegger, Vberlegungen zu Michel Foucaults Entwurf einer Geschi·
chte der Sexualitiit, manoscritto, Frankfurt a. M. 1982, p. 20.
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è possibile comprendere la socializzazione come individuazione
e scrivere la storia della sessualità moderna anche nella prospettiva che l'interiorizzazione della natura soggettiva renda. possibile l'individualizzazione. Foucault, insieme con la filosofia della
coscienza, fa scomparire anche i problemi sui quali quella è naufragata. Al posto della socializzazione individuante che rimane
incompresa, egli colloca il concetto di un potenziamento parcellizzante del potere, che non è adatto alle ambigue apparizioni
della modernità. In questa prospettiva gli individui socializzati
possono essere percepiti solo come esemplari, come i prodotti
standardizzati di una formazione del discorso, come casi particolari. Gehlen, che pensava da opposte suggestioni politiche ma
da una prospettiva teoretica similare, non ha fatto di ciò alcun
mistero: « Una personalità: questa è un'istituzione in un caso >> 36 •
36
A. Gehlen, Die See/e im technischen Zeitalter, cit., p. 118.
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11.
UN'ALTRA VIA D'USCITA
DALLA FILOSOFIA DEL SOGGETTO.
LA RAGIONE COMUNICATIVA
CONTRO LA RAGIONE SOGGETTOCENTRICA
I
Le aporie della teoria del potere lasciano dietro di sé le loro
tracce nelle varianti selettive della storiografia genealogica, si
tratti della procedura penale moderna o della sessualità nell'età
moderna. Nelle carenze empiriche si rispecchiano i problemi
metodologici non chiariti. Foucault aveva bensì criticato in guisa
illuminante la prevenzione delle scienze umane nella filosofia del
soggetto: esse sfuggono all'aporetica dell'autotematizzazione contraddittoria del soggetto che conosce se stesso e con ciò si impigliano tanto più profondamente nello scientismo autoreificantesi.
Ma le aporie della sua propria impostazione Foucault non le ha
pensate così a fon.do, che egli potesse scorgere come la sua teoria del potere viene raggiunta da un destino analogo. La sua
teoria vuole elevarsi al di sopra di quelle pseudoscienze ad una
rigorosa oggettività, e in ciò si avvolge tanto più disperatamente
nelle insidie di una storiografia presentistica, che si vede costretta
all'autosmentita relativistica e non può fornire nessuna informazione sui fondamenti normativi della sua retorica. All'oggettivismo dell'autoimpossessamento corrisponde qui un soggettivismo
dell'oblio di sé. Presentismo, relativismo e criptonormativismo
sono conseguenze del tentativo di trattenere nel concetto fondamentale del potere il momento trascendentale delle operazioni
produttive eppure scacciarne ogni soggettività. Questo concetto
del potere non libera i genealoghi dalla coazione di autotematizzazioni contraddittorie.
È quindi opportuno ritornare ancora una volta sul luogo
dello smascheramento di critica della ragione delle scienze umane, ma questa volta nella coscienza di un fatto, che i successori
di Nietzsche hanno ostinatamente ignorato. Essi non vedono che
già quel controdiscorso filosofico, che è immanente fin da prin-
297
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c1p10 al discorso filosofico della modernità avviato con Kant,
stende la controfattura della soggettività come principio della
modernità 1• Le aporie concettuali della filosofia della coscienza,
che Foucault diagnostica acutamente nel capitolo conclusivo dell'Ordine delle cose, sono appunto state analizzate già una volta
da Schiller, Fichte, Schelling ed Hegel in modo analogo. Certo,
le soluzioni offerte si differenziano. Ma se ora la teoria del
potere mostra altrettanto poco una via d'uscita da questa situazione aporetica, è opportuno ripercorrere la via del discorso filosofico della modernità, fino al punto di partenza, per verificare
ancora una volta ai crocevia la direzione allora imboccata. Questo intento stava dietro alle nostre lezioni. Loro si ricorderanno
che io ho rilevato i posti nei quali il giovane Hegel, il giovane
Marx, e ancora lo Heidegger di Sein und Zeit e Derrida nella
discussione con Husserl si trovarono di fronte ad alternative,
che essi non hanno scelto.
Con Hegel e Marx si sarebbe trattato di non ricuperare ancora una volta l'intuizione della totalità etica nell'orizzonte dell'autoriferimento di soggetti conoscenti e agenti, bensì di esplicarla secondo il modello della libera formazione della volontà
in una comunità di comunicazione sottoposta alle coazioni cooperative. In Heidegger e Derrida si trattava di non imputare gli
orizzonti creatori di senso della esegesi del mondo ad un esserci
che si progetta eroicamente, bensì a mondi della vita strutturati
comunicativamente, che si riproducono attraverso il medium
tangibile dell'agire orientato verso l'intesa. In quei passi io ho
già suggerito che il paradigma della conoscenza di oggetti deve
essere sostituito dal paradigma dell'intesa fra soggetti capaci di
parlare e di agire. Hegel e Marx non hanno compiuto il mutamento di paradigma, Heidegger e Derrida, nel tentativo di lasciare
dietro di sé la metafisica della soggettività, sono rimasti tuttavia
impigliati nell'intenzione della filosofia dell'originario. Anche Foucault, là dove egli ha analizzato triplicemente la coazione allo
sdoppiamento aporetico del soggetto autoriferentesi, ha deviato
in una teoria del potere, che ha dimostrato di essere un vicolo
cieco. Egli segue Heidegger e Derrida nella negazione astratta del
soggetto autoriferentesi, quando con poche e sbrigative parole dichiara ' l'uomo ' inesistente. Ma egli non tenta più, come quelli,
di compensare tramite poteri originari temporalizzati il perduto
ordine delle cose, che vuole invano rinnovare di propria forza
l Cfr. tuttavia la strana lezione tenuta da Foucault all'inizio del 1983 sullo
scritto di Kant Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, in << Magazine
Litteraire >>, maggio 1983 (tr. it., M. Foucault, Che cos'è l'Illuminismo? Che
cos'è la rivoluzione?, in <<Il centauro>>, n. 11-12, maggio-dicembre 1984).
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il suggetto metafisicamente isolato e strutturalmente sovraccaricato. Infatti il ' potere ' trascendental-storicistico, l'unica costante
nell'andirivieni dei discorsi sopraffacenti e sopraffatti, alla fine
rivela di essere soltanto un equivalente per la 'vita' delle obsolete filosofie della vita. Una soluzione più solida si delinea
quando lasciamo cadere il presupposto alquanto sentimentale
dello sradicamento metafisica, quando intendiamo il febbrile andirivieni fra considerazione trascendentale ed empirica, fra autoriflessione radicale e un che di non preconcepibile, che non si
può ricuperare riflessivamente, fra la produttività di un genere
che produce se stesso e un originario che antecede ogni produzione - se noi dunque intendiamo il rebus di quegli sdoppiamenti come ciò che è: come un sintomo di esaurimento. Esaurito è il paradigma della filosofia della coscienza. Se così stanno
le cose, i sintomi dell'esaurimento devono certamente dissolversi
nel trapasso al paradigma dell'intesa.
Se per un momento possiamo presupporre quel modello del-~
l'agire orientato verso l'intesa che io ho sviluppato in altra sede 2,
allora non è più privilegiato quell'atteggiamento oggettivante, in
cui il soggetto conoscente si orienta verso se stesso come ad
entità nel mondo. Nel paradigma dell'intesa è fondamentale piuttosto l'atteggiamento performativo dei partecipanti all'interazione, che coordinano i loro piani d'azione, intendendosi reciprocamente su qualcosa nel mondo. In quanto Ego compie
un'azione linguistica e Alter prende posizione verso di essa,
entrano entrambi in una relazione interpersonale. Questa è strutturata dal sistema di prospettive reciprocamente intrecciate di
parlanti, uditori e presenti attualmente non partecipanti. A ciò
corrisponde sul piano grammaticale il sistema dei pronomi personali. Chi ha familiarità con questo sistema, ha appreso come
ip atteggiamento performativo si assumono di volta in volta e
si trasformano l'una nell'altra le prospettive della prima, della
seconda e della terza persona.
Ora questo atteggiamento di partecipanti ad un'interazione
linguisticamente mediata rende possibile una relazione del soggetto con se stesso diversa da quella puramente oggettivante,
che un osservatore assume di fronte ad entità nel mondo. Quello
sdoppiamento trascendental-empirico dell'autoriferimento è inevitabile solo fin tanto che non vi è alcuna alternativa a questa
prospettiva dell'osservatore: soltanto allora il soggetto deve considerarsi come la controparte dominante al mondo in complesso
2 Per il concetto di agire comunicativo: J. Habermas, Vorstudien und Ergiinzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1984.
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- o come un'entità che si presenta in esso. Fra la pos1z10ne
extramondana dell'io trascendentale e quella intramondana dell'io empirico non è possibile una mediazione. Questa alternativa cade, non appena ottiene il primato l'intersoggettività prodotta linguisticamente. Allora Ego sta in una relazione interpersonale, che gli consente di riferirsi dalla prospettiva dell'Alter
a se stesso come partecipante ad un'interazione. E precisamente,
la riflessione intrapresa dalla prospettiva del partecipante sfugge
a quel genere di oggettivazione, che è inevitabile dalla prospettiva divenuta riflessiva dell'osservatore. Sotto lo sguardo della
terza persona, sia esso rivolto verso l'esterno oppure verso l'interno, tutto si congela in oggetto. La prima persona, che nell'atteggiamento performativo si piega su se stessa dall'-ang_olo
visuale della seconda persona, può tuttavia eseguire in seguito
i suoi atti direttamente compiuti. Una ricostruzione eseguita in
seguito del sapere già sempre applicato subentra al posto di un
sapere riflessivamente oggettivato, cioè dell'autocoscienza.
Ciò che prima spettava alla filosofia trascendentale, cioè
l'analisi intuitiva dell'autocoscienza, ora si inserisce nel circolo
delle scienze ricostruttive, che dalla prospettiva di partecipanti
a discorsi e interazioni cerca di rendere esplicito il sapere procedurale preteoretico di soggetti che parlano, agiscono e conoscono con competenza in base ad un'analisi di esternazioni riuscite o distorte. Siccome tali tentativi di ricostruzione non si
dirigono più verso un regno dell'intelligibile al di là dei fenomeni, bensì al sapere procedurale effettivamente praticato, che
si cristallizza in esternazioni generate a regola, la separazione
ontologica fra trascendentale ed empirico viene a cadere. Come
si può ben mostrare in base allo strutturalismo genetico di Jean
Piaget, assunti ricostruttivi ed empirici possono combinarsi insieme in una stessa teoria 3 • Con ciò l'incanto di un irredento
andirivieni fra due aspetti tanto inevitabili quanto inconciliabili
dell'autotematizzazione è infranto. Perciò non vi è nemmeno più
bisogno di teorie ibride, per colmare la lacuna fra trascendentale ed empirico.
Lo stesso si dica per lo sdoppiamento dell'autoriferimento
nella dimensione del render cosciente l'inconscio. Qui, secondo
Foucault, il pensiero"'della filosofia del soggetto oscilla fra lo
sforzo eroico di trasformare riflessivamente l'essente-in-sé in
essente-per-sé, e il riconoscimento di uno sfondo opaco, che si
3 J. Habermas, Rekonstrukive vs. verstehende Sozialwissenschaften, in Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Frankfurt a. M. 1983, pp. 29 sgg.
(tr. it., Scienze sociali ricostruttive e scienze sociali comprendenti, in Etica del
discorso, Roma-Bari 1985, pp. 25 sgg.).
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sottrae ostinat~mente alla trasparenza dell'autocoscienza. Anche
questi due aspetti dell'autotematizzazione non sono più inconciliabili, quanqo passiamo al paradigma dell'intesa. In quanto
parlante e uditore si intendono frontalmente fra di loro su qualche cosa in un mondo, si muovono all'interno dell'orizzonte del
loro comune mondo della vita; questo rimane alle spalle dei partecipanti come uno sfondo olistico intuitivamente conosciuto,
aproblematico e non scomponibile. La situazione linguistica è
quella sezione di un mondo della vita, delimitata riguardo al
tema relativo, che per i processi di intesa tanto costituisce un
contesto quanto anche appronta risorse. Il mondo della vita
costituisce un orizzonte ed offre al contempo una provvista di
ovvietà culturali, a cui attingono i partecipanti alla comunicazione nei loro sforzi interpretativi di modelli di spiegazione consentiti. Anche le solidarietà dei gruppi integrati tramite valori
e le competenze di individui socializzati appartengono - come
gli assunti di sfondo culturalmente abitualizzati - alle componenti del mondo della vita.
Per poter fare questi o consimili enunciati, dobbiamo indubbiamente intraprendere un mutamento di prospettiva: il mondo
della vita può essere scorto soltanto a tergo. Dalla prospettiva
frontale degli stessi soggetti agenti orientati verso l'intesa, il
mondo della vita, che è sempre soltanto ' dato insieme', deve
sottrarsi alla tematizzazione. Come totalità, che rende possibile
le identità e i progetti di storia di vita di gruppi e individui,
esso è presente soltanto preriflessivamente. Dalla prospettiva dei
partecipanti si può bensì ricostruire il sapere di regole a cui si
è praticamente fatto ricorso, sedimentato in esternazioni, ma non
il contesto arretrato e le risorse del mondo della vita in complesso che rimangono alle spalle. Occorre una prospettiva costituita teoreticamente, per poter considerare l'agire comunicativo
come medium per il cui tramite il mondo della vita si riproduce
in complesso. Anche da questa prospettiva senza dubbio sono
possibili soltanto enunciati pragmatico-formali, che si riferiscono
quindi alle strutture del mondo della vita in genere, non a determinati mondi della vita nella loro concreta formazione storica.
Certo, i partecipanti all'interazione non si presentano più come
gli autori, che dominano situazioni con l'aiuto di azioni imputabili, ma come _i prodotti delle tradizioni, nelle quali si trovano,
dei gruppi solidaristici, ai quali appartengono, e dei processi di
socializzazione, nei quali crescono. Il mondo della vita si riproduce cioè nella misura in cui vengono soddisfatte queste tre
funzioni che travalicano la prospettiva dell'attore: la prosecuzione di tradizioni culturali, l'integrazione di gruppi tramite
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norme e valori e la socializzazione di generazioni che si susseguono. Ciò che in tal modo si riesce a scorgere, sono qualità di
mondi della vita strutturati comunicativamente in generale.
Chi vuole tener presente la totalità individuale di una singola storia di vita o di una particolare forma di vita, deve ritornare alla prospettiva dei partecipanti, abbandonare l'intento
della ricostruzione razionale ex post, e procedere in modo schiettamente storico. In ogni caso i mezzi narrativi si possono stilizzare in un'autocritica dialogicamente avviata, per la quale offre
un modello adatto il colloquio analitico fra medico e paziente.
Questa autocritica, che mira al superamento della pseudonatura,
cioè di limiti percettivi e coazioni ad agire inconsapevolmente
motivati da pseudoapriori, si riferisce alla totalità narrativamente
attualizzata di un corso di vita o di un modo di vita. La dissoluzione analitica di ipostatizzazioni, di apparenza oggettiva autoprodotta, dipende da un'esperienza riflessiva, la cui forza liberante si rivolge contro singole illusioni: essa non può rendere
trasparente il tutto di un corso di vita individuale o di un modo
di vita collettivo.
Le due eredità dell'autoriflessione che escono fuori dai limiti
della filosofia della coscienza hanno differenti scopi e portate.
La ricostruzione razionale ex post si dedica al programma del
render coscienti, ma si rivolge a sistemi anonimi di regole e non
si riferisce a totalità. Per contro l'autocritica metodicamente condotta si riferisce a totalità, però nella coscienza che esse non
potranno mai chiarire interamente l'implicito, l'antepredicativo,
il non-attuale dello sfondo del mondo della vita 4 • Come bene
si mostra in base all'esempio di una psiéoanalisi interpretata in
senso di teoria della comunicazione 5, entrambi i procedimenti,
la costruzione ex post e l'autocritica, si possono inserire nel
quadro di una stessa teoria. Anche questi due aspetti dell'autotematizzazione del soggetto conoscente non sono inconciliabili;
anche sotto questo rispetto le teorie ibride, che dissolvono violentemente le contraddizioni, sono superflue.
Analogamente si dica per il terzo sdoppiamento del soggetto
come un attore originariamente creativo e tuttavia estraniato
alla sua origine. Se il concetto del mondo della vita sviluppato
in senso formalpragmatico deve essere reso fecondo per scopi
4 Cfr. J. Habermas, Erkenntnis und Interesse. Mit einem neuen Nachwort,
Frankfurt a. M. 1973, pp. 411 sgg. (tr. it., Conoscenza ed interesse, cit., p. 299).
5 J. Habermas, Der Universalitiitsanspruch der Hermeneutik, in Zur Logik
der Sozialwissenschaften, Frankfurt a. M. 1982, pp. 331 sgg. (tr. it., La pretesa
di universalità dell'ermeneutica, in Agire comunicativo e logica delle scienze
sociali, Bologna 1980, pp. 281 sgg.).
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di teoria della società, ·allora esso deve essere trasformato in
una concezione empiricamente utilizzabile e integrato con la
concezione del sistema autocontrollato in un concetto della società a due livelli. Inoltre una accurata separazione fra problemi
della logica evolutiva e dinamica evolutiva è necessaria, affinché
l'evoluzione sociale e la storia possano essere metodicamente
tenute distinte e riferite l'una all'altra. Infine la teoria della
società deve restar cosciente del suo proprio contesto d'origine
e della sua collocazione nel contesto del nostro presente; anche
i forti concetti fondamentali universalistici hanno un nucleo
temporale 6 • Ma se con l'aiuto di queste operazioni si riesce a
pilotarsi fra la Scilla dell'assolutismo e la Cariddi del relativismo 7 , non si pone l'alternativ_a fra la concezione della storia
mondiale come di un processo dell'autoproduzione (sia dello
spirito o del genere) da un lato e dall'altro la concezione di una
ventura immemorabile, che fa sentire attraverso la negatività del
rifiuto e della rinuncia il potere dell'origine perduta.
Non posso qui addentrarmi in questi contesti complicati.
Volevo soltanto accennare, come un mutamento di paradigma
può render privi d'oggetto quei dilemmi dai quali Foucault
spiega la fatale dinamica di una soggettività avida di sapere e
vittima di pseudoscienze. Il mutamento di paradigma dalla ragiòne centrata nel soggetto a quella comunicativa può anche
incoraggiare a riprendere ancora una volta quel controdiscorso
fin da principio immanente alla modernità. Siccome la radicale
critica nietzschiana della ragione non si può condurre coerentemente né sulla linea della critica della metafisica né su quella
della teoria del potere, noi siamo rinviati ad un'altra via d'uscita
dalla filosofia del soggetto. Forse qui le ragioni per l'autocritica
di una modernità in sé disgregata si possono considerare sotto
altre premesse, di modo che noi rendiamo giustizia ai motivi,
da Nietzsche in poi virulenti, di un affrettato commiato della
modernità. Deve risultar chiaro, che nella ragione comunicativa
non risorge il purismo della ragion pura.
II
Durante l'ultimo decennio la critica radicale della ragione è
divenuta quasi di moda. Nel tema e nell'attuazione è esem6 Cfr. J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, cit., vol. Il,
pp. 589 sgg. (tr. it. cit., pp. 1083 sgg.).
7 R. J. Bernstein, Beyond Objectivism and Relativism, Philadelphia 1983.
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plare una ricerca di Hartmut e Gernot Bohme, che in base
all'opera ed alla biografia di Kant riprendono il tema di Foucault dell'origine della forma moderna del sapere. Nello stile di
una storiografia della scienza ampliata con la storia della cultura
e della società, gli autori esaminano ciò che per così dire si
svolge dietro le spalle della critica della ragion pura e pratica.
L'autentico motivo della critica della ragione essi lo ricercano
ad esempio nella controversia con il visionario Swedenborg, nel
quale Kant avrebbe incontrato il suo fratello gemello notturno,
la ripudiata immagine inversa di se stesso. Gli autori seguono
questi motivi fino nel personale, fino alla condotta di vita distolta da tutto ciò che è sessuale, corporeo, fantastico, per cosl
dire astratta, di un'esistenza da erudito ipocondriaca, stravagante, immobile. Essi mettono psicostoricamente dinanzi agli
occhi i ' costi della ragione '. Essi intraprendono questo calcolo
dei costi e degli utili disinvoltamente, con argomenti psico-analitici, e lo documentano con dati storici, senza certo poter indicare il luogo in cui tali argomenti e dati possono ancora pretendere un peso, se poi deve aver fondamento la tesi di cui si tratta.
Kant aveva condotto la sua critica della ragione dalla prospettiva che le è propria, cioè nella forma di un'autolimitazione
rigorosamente discorsiva della ragione; se ora gli debbono venir
presentati i costi di produzione della genesi di questa ragione
che si autolimita, ed esclude il metafisica, occorrerebbe un orizzonte della ragione che vada oltre questi tracciamenti di confini,
in cui possa muoversi il discorso trascendente, che redige il
conto. La critica della ragione ancora una volta radicalizzata
dovrebbe postulare una ragione di più ampia portata, comprensiva. Ma i fratelli Bohme non vogliono scacciare il diavolo con
Belzebù; con Foucault essi vedono piuttosto nel passaggio dalla
ragione esclusiva (di conio kantiano) ad una ragione comprensiva semplicemente « il completamento del tipo di potere dell'esclusione con il tipo di potere della compenetrazione» 8 • Di
conseguenza la loro propria indagine sull'Altro dalla ragione
dovrebbe montare una guardia del tutto eterogenea rispetto alla
ragione. Ma che cosa contano ancora le conseguenze in un luogo
che è a priori inaccessibile al discorso razionale? In questo testo
dunque i paradossi sempre di nuovo recitati senza interruzione
da Nietzsche in poi non lasciano dietro di sé nessuna traccia riconoscibile dell'apprensione. L'ostilità metodologica alla ragione
può essere in rapporto con quell'innocenza storica con cui indas H. Bohme, G. Bohme, Das Andere der Vernun/t, Frankfurt a. M. 1983,
p. 326.
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gini di questo tipo oggi si muovono nella terra di nessuno fra
argomentazione, narrazione e finzione 9 • La Nuova Critica della
Ragione rimuove quel controdiscorso presto bicentenario, immanente alla stessa modernità, che io vorrei rammentare con queste lezioni.
Esso ha preso le mosse dalla filosofia kantiana come espressione inconsapevole dell'età moderna e perseguito lo scopo di
illuminare l'Illuminismo sulle limitazioni che gli sono proprie.
La Nuova Critica della Ragione nega la continuità con questo
controdiscorso, in cui pure essa si trova: « Non può più trattarsi di completare il discorso della Modernità (Habermas), deve
trattarsi di rivederlo. E l'Illuminismo non è rimasto incompiuto,
bensì non illuminato » 10 • L'intento di una revisione dell'Illuminismo, che si serve dei mezzi dello stesso Illuminismo, ha però
unito i critici di Kant della prima ora: Schiller con Schlegel,
Fichte con i tubinghesi. Continuiamo a leggere: « La filosofia
di Kant era stata impostata come l'impresa di un tracciamento
di confini. Ma non vien detto nulla su di ciò, che tracciare limiti
è un processo dinamico, che la ragione si ritrae su terreno solido e abbandona l'altro, che il tracciamento di confini significa
autolimitarsi ed escludere l'altro ». Abbiamo visto, all'inizio
della nostra lezione, come Hegel con Schelling e Holderlin
abbiano sentito le operazioni di delimitazione della filosofia
della riflessione, la contrapposizione di fede e sapere, di infinito e finito, la separazione fra spirito e natura, intelletto e
sensibilità, dovere e inclinazione, come altrettante provocazioni,
e come essi abbiano perseguito le tracce di questa estraneazione
di una ragione soggettivamente dilatata dalla natura interna ed
esterna fino nelle ' positività ' dell'eticità distrutta della quotidianità politica e di quella privata. Dalla circostanza che il potere dell'unificazione scompare dalla vita degli uomini Hegel aveva visto procedere addirittura il bisogno oggettivo della filosofia.
Senza dubbio egli ha interpretato il tracciamento di confini della
ragione soggettocentrica non come esclusioni, bensì come scissioni, e affidato alla filosofia l'accesso ad una totalità che comprendeva in sé la ragione soggettiva e il suo Altro. La diffidenza
degli autori si rivolge contro di ciò, quando essi proseguono:
« Ma ciò che è la ragione, rimane oscuro fin tanto che non vi si
pensa insieme il suo Altro (nella sua insopprimibilità). Infatti la
ragione può ingannarsi su se stessa, prendersi per il Tutto (Hegel), o pretendere di abbracciare il Tutto ».
9 Cfr.
IO H.
l'excursus su Derrida, supra, pp. 189 sgg.
Bi:ihme, G. Bi:ihme, Das Andere der Vernunft, cit., p. 11.
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Proprio questa era l'obiezione che un tempo i giovani hegeliani hanno fatto valere contro il maestro. Essi hanno intentato
un processo contro lo Spirito assoluto, nel quale l'Altro dalla
ragione, ciò che le è antecedente, doveva essere riabilitato nel
suo diritto proprio. Da questo processo di desublimazione è derivato il concetto di una ragione situata, che non determina né
per inclusione né per esclusione il suo rapporto con la storicità
del tempo, con la fatticità della natura esterna, con la soggettività decentrata della natura interna e con la materialità della
società, bensì mediante una prassi di immaginazione e formazione di forze essenziali in condizioni finite, « non scelte da se
stessi ». La società è raffigurata come prassi, nella quale la ragione si incorpora. Questa prassi si attua nella dimensione del
tempo storico, essa media la natura soggettiva degli individui
bisognosi con una natura oggettivata nel lavoro entro l'orizzonte
della natura ambiente, cosmica. Questa prassi sociale è il luogo
in cui la ragione storicamente situata, corporeamente incarnata,
messa a confronto con la natura esterna, si media concretamente
con il suo Altro. Se questa prassi mediatrice riesce, dipende
dalla sua costituzione interna, dal grado della scissione e della
conciliabilità del contesto di vita socialmente istituzionalizzato.
Ciò che in Schiller o in Hegel si chiamava sistema dell'egoismo
o dell'eticità scissa, si trasforma in Marx in una società divisa
in classi sociali. Come in Schiller, come nel giovane Hegel, la
forza associante, cioè fondante comunanza, solidarizzante, del
cooperare e convivere non estraniato, dà il colpo decisivo se la
ragione incorporata nella prassi sociale si accorda con la storia
e con la natura. La stessa società scissa è quella che impone la
rimozione della morte, l'appiattimento della coscienza storica e
il soggiogamento della natura esterna come di quella interna.
Nel contesto della storia della ragione, la filosofia della prassi
del giovane Marx ha il significato, che essa ha dissolto il modello hegeliano della scissione di un concetto inclusivo della
ragione, che appunto incorpora in sé l'Altro dalla ragione. La
ragione della filosofia della prassi, che si concepisce come finita,
rimane senza dubbio - nella forma di una teoria critica della
società - obbligata ad una ragione comprensiva in quanto essa
sa che non potrebbe conoscere i limiti storici della ragione soggettocentrica - incarnata nelle forme borghesi di relazione senza superarli. Chi si attiene ostinatamente al modello dell'esclusione, deve chiudersi a questa veduta di Hegel, che, come si _può
vedere in Marx, non si poteva affatto avere soltanto al prezzo
dell'assolutizzazione dello spirito. Considerato da una prospettiva così limitata, il vizio congenito hegeliano della teoria post306
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hegeliana influisce anche là « dove la ragione viene già criticata
come strumentale, repressiva, limitata: in Horkheimer e Adorno.
La cui critica avviene ancora sempre in nome di una ragione
superiore, cioè di quella comprensiva, cui viene concessa quella
pretesa di totalità, che si era contestata alla ragione reale. Non
vi è nessuna ragione comprensiva. Si sarebbe dovuto imparare
da Freud o anche da Nietzsche, che la ragione non è senza il
suo Altro, e che essa - vista funzionalmente - diviene necessaria tramite questo Altro » 11 •
Con questa affermazione i fratelli Béihme rammentano quel
luogo, in cui una volta Nietzsche, ricorrendo all'eredità romantica, ha contrapposto al programma di un Illuminismo in sé dialettico la critica totalizzante della ragione. La dialettica dell'Illuminismo avrebbe perduto soltanto quando la ragione fosse
privata di ogni forza trascendente, e nell'illusione della sua
autonomia rimanesse tuttavia ammaliata impotente entro quei
confini, che Kant aveva tracciato all'intelletto e allo stato dell'intelletto: « Che il soggetto razionale non voglia dipendere da
nessuno e da null'altro che ·se stesso, è al contempo il suo ideale
e la sua illusione » 12 • Soltanto quando la ragione fa conoscere
la sua vera essenza nella figura narcisistica di un potere che
assoggetta tutto intorno come oggetto, identitarie, solo in appa.
renza universale, impegnato solennemente nell'autoaffermazione
e nell'autopotenziamento particolare, l'Altro dalla ragione può a
sua volta essere pensato come una potenza spontanea, auto-istituentesi e fondante, al contempo vitale e non trasparente, che
non viene più rischiarato nemmeno da una scintilla di ragione.
Sqltanto la ragione ridotta alla facoltà soggettiva dell'intelletto
e dell'attività finalistica corrisponde al quadro di una ragione
esclusiva, che, quanto più trionfalmente aspira in alto, sradica
se stessa, finché alla fine cade disseccata in preda al potere della
sua occultata origine eterogenea. La dinamica dell'autodistruzione, in cui deve esprimersi il segreto della dialettica dell'Illuminismo, può funzionare soltanto se la ragione da sé non può
produrre nient'altro che un potere nudo, al quale essa propriamente vuole presentare l'alternativa della coazione non coatta
della veduta migliore.
Questo tratto coattivo spiega del resto il drastico livellamento che una lettura di Kant ispirata da Nietzsche imprime
all'architettonica kantiana della ragione; essa deve cancellare il
rapporto della critica della ragione pura e pratica con la critica
Il lvi, p. 18.
lvi, p. 19.
12
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del giudizio, per far sciogliere quella in una teoria della natura
estraniata, esterna, questa in una teoria del dominio sulla natura
interna 13 •
Mentre il modello della scissione della ragione delinea la
prassi sociale solidaristica come il luogo di una ragione storicamente situata, nel quale confluiscono i fili della natura esterna,
della natura interna e della società, questo spazio utopicamente
aperto nel modello dell'esclusione della ragione viene interamente riempito da una ragione inconciliabile, ridotta a nuda
potenza. La prassi sociale serve qui ancora soltanto come la
scena, sulla quale il potere disciplinare sperimenta sempre nuove
sceneggiature. In ciò imperversa una ragione alla quale viene
negata la forza di acquisire liberamente accesso a ciò che l'antecede. Nella sua supposta sovranità la ragione che si dissolve in
soggettività diviene il trastullo di for:z;e immediate, per così dire
operanti meccanicamente su di essa, della natura esclusa, fatta
oggetto all'interno come all'esterno.
L'Altro dalla sogg~ttività che si dilata non è ora più la totalità scissa - anzitutto dunque ciò che si fa valere nella potenza
vendicante di reciprocità distrutte, nella causalità fatale di
contesti di comunicazione distorti; e poi anche, attraverso la
sofferenza per la totalità sfigurata della vita sociale, la natura
estraniata interna ed esterna. Nel m6dello della esclusione questa struttura complicata di una ragione soggettiva socialmente
scissa e perciò staccata dalla natura viene peculiarmente dedifferenziata: « L'altro dalla ragione, è la natura, il corpo umano,
la fantasia, il desiderio, i sentimenti - o meglio: tutto questo,
nella misura in cui la ragione non ha potuto appropriarselo» 14 •
Dunque ora sono immediatamente forze vitali di una natura
soggettiva scissa e repressa; sono quei fenomeni nuovamente
scoperti nel romanticismo, del sogno, della fantasia, dell'illusione, dell'eccitamento orgiastico, dell'estasi; sono le esperienze
estetiche, centrate nel corpo, di una soggettività decentrata,
13 Dove Schiller ed Hegel vogliono veder realizzata l'idea morale dell'autolegislazione nella società esteticamente riconciliata o nella totalità del contesto
di vita etico, Bohme e Bohme riescono a riconoscere nell'autonomia morale solo
ancora l'opera del potere disciplinare: << Se si dovesse render chiaro l'interno
procedimento giudiziario, che viene condotto per mezzo di massime in nome·
della legge sul buon costume, per il tramite di modelli sociali, allora si dovrebbe
ritornare all'esame di coscienza protestante, che ha anteposto il modello dell'inquisizione delle streghe nell'intimo degli uomini, o meglio ancora andare
avanti: nelle sale d'interrogatorio freddamente igieniche e nei silenziosi, eleganti arsenali di computer della polizia scientificizzata, il cui ideale è quello
dell'imperativo categorico - la comprensione priva di lacune ed il controllo
di tutti i particolari e contrapposti fin dentro all'intimo dell'uomo » (H. Bohme,
G. Bohme, Das Andere der Vernun/t, cit., p. 349).
14 lvi, p. 13.
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che fungono come rappresentanti dell'Altro dalla ragione. Senza dubbio il protoromanticismo voleva collocare l'arte ancora
in forma di una nuova mitologia come istituzione pubblica nel
mezzo della vita sociale, voleva elevare l'eccitazione da essa
emanata ad equivalente della potenza unificante della religione.
Soltanto Nietzsche ha trasposto questo potenziale di eccitazione
nell'al di là della società moderna, della storia in genere. L'origine moderna delle esperienze estetiche avanguardisticamente
esasperate viene celato.
Il potenziale d'eccitazione stilizzato ad altro dalla ragione
diviene esotericamente e pseudonimicamente - si presenta sotto
altro nome - l'Essere, l'Eterogeneo, il Potere. La natura cosmica
della metafisica e il Dio dei filosofi si confondono nella reminiscenza scongiurante, nel ricordo toccante del soggetto metafisicamente e religiosamente isolato. L'ordine dal quale esso si è
emancipato, cioè la natura interna ed esterna nella sua figura
non-estraniata, si presentano ancora soltanto al passato, come
origine arcaica della metafisica in Heidegger, come punto di
rovesciamento nell'archeologia delle scienze umane in Foucault
- o anche alquanto più moderatamente così: «Separata dal
corpo vivente, dalle cui potenze libidinali si sarebbero potute
trarre immagini della felicità; separata da una natura materna,
che conteneva l'imago arcaica di totalità simbiotica e di custodia nutritiva; separata dal femminile, l'essere commistò col quale
spettava alle immagini originarie della felicità - la filosofia
della ragione privata di immagini produsse soltanto la grandiosa
coscienza di una superiorità di principio dell'intelligibile sulla
natura, sulla bassezza del corpo e della donna [ ... ]. La filosofia
attribuiva alla ragione una onnipotenza, infinità e perfezione che
sorgerà in futuro, di fronte alla quale il perduto rapporto di
filiazione con la natura non appariva» 15 •
Comunque questi ricordi originari del soggetto moderno servono quale punto di collegamento per la risposta a quella domanda, alla quale i più coerenti fra i seguaci di Nietzsche non
vollero sottrarsi. Fin tanto che si parla narrativamente dell'Altro
dalla ragione, comunque lo si chiami, fin tanto che questo eterogeneo rispetto al pensiero discorsivo si presenta senza altre misure
come nome in esposizioni di storia della filosofia e della scienza,
l'aria innocente non può compensare l'offerta inferiore del livello
inaugurato da Kant della critica della ragione. In Heidegger e
in Foucault la natura soggettiva è scomparsa come luogotenente
di quell'Altro, perché essa non può più essere dichiarata l'Altro
15 lvi, p. 23.
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dalla ragione, quando come inconscio individuale o collettivo si
sottomette in genere ad un qualche discorso scientifico nei concetti di Freud o di C. G. Jung, di Lacan o di Lévi-Strauss. Heidegger e Foucault vogliono mettere in moto, nella forma della
rimemorazione o della genealogia, un discorso particolare, il
quale pretende di svolgersi al di fuori dell'orizzonte della ragione, senza però essere del tutto irragionevole. Senza dubbio,
con ciò il paradosso non fa che spostarsi.
La ragione deve farsi criticare nelle sue figure storiche dalla
prospettiva dell'Altro da essa escluso; allora è necessario un
ultimo atto dell'autoriflessione che sopravanza se stesso, e precisamente un atto della ragione, nel quale il posto del genitivus
subjectivus dovrebbe essere occupato dall'Altro dalla ragione.
La soggettività come l'autoriferimento del soggetto conoscente
e agente si presenta nella relazione binaria dell'autoriflessione.
La figura viene mantenuta, eppure la soggettività deve potersi
presentare ancora soltanto nel posto dell'oggetto. Questo paradosso Heidegger e Foucault lo trattano in modo strutturalmente
analogo, in quanto producono ciò che è eterogeneo alla ragione
per la via di un auto-esilio della ragione, di una cacciata della
ragione dal suo proprio territorio. Questa operazione si intende
come rovesciamento smascherante di quell'autodivinizzazione,
che la soggettività al contempo pratica e nasconde a se stessa.
Nel frattempo essa si ascrive attributi, che mutua dai frantumati
concetti religioso-metafisici dell'ordine. Per contro il ricercato
Altro, che è eterogeneo alla ragione eppure le resta riferito come
ciò che le è eterogeneo, risulta da una finitizzazione radicale di
quell'assoluto, al quale la soggettività si era falsamente sostituita.
Come dimensione della finitizzazione Heidegger, come si è mostrato, sceglie il tempo, e concepisce l'Altro dalla ragione come
potere originario anonimo, temporalmente fluidificato; Foucault
sceglie la dimensione della centratura spaziale nell'esperienza
del proprio corpo e concepisce l'Altro dalla ragione come fonte
anonima del lascito di interazioni legate al corpo.
Abbiamo visto che questo trattamento del paradosso non ne
significa affatto la soluzione; il paradosso si ritrae nello status
speciale dei discorsi straordinari. Come il rimemorare appartiene
all'essere mistificato, così la genealogia appartiene al potere. Il
rimemorare deve aprire un accesso privilegiato alla verità metafisicamente seppellita, la genealogia subentrare al posto delle
scienze umane, come sembra, rovinate. Mentre Heidegger serba
il silenzio sul genere del suo privilegio, di modo che non si sa
bene secondo che cosa si possa giudicare il genere della sua
tarda filosofia in generale, Foucault ha praticato fino alla fine
310
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i suoi lavori senza presunzioni, nella consapevolezza di non
poter evitare le aporie metodologiche.
III
La metafora spaziale della ragione includente ed escludente
rivela che la supposta critica radicale della ragione rimane ancora impigliata nei presupposti della filosofia del soggetto, dai
quali però essa voleva liberarsi. Soltanto una ragione alla quale
noi attribuiamo potere risolutorio potrebbe includere o escludere. Perciò il dentro e il fuori si collegano con il dominio e
la soggezione - e il superamento della ragione tirannica con
lo spalancamento dei portoni carcerari e con il rilascio protettivo in una indeterminata libertà. In tal modo l'Altro dalla ragione rimane l'immagine speculare della ragione tirannica. Dedizione e lasciar essere restano incatenati alla volontà di disposizione tanto quanto il ribellarsi del contropotere alla vessazione
del potere. Dai concetti della ragione soggettocentrica e della sua
topografia impressionantemente illustrata non potrà liberarsi proprio colui che col paradigma della filosofia della coscienza vorrebbe lasciare dietro di sé tutti i paradigmi in genere ed uscire
nella radura del post-moderno.
A partire dal protoromanticismo per l'oltrepassamento esaltante del soggetto si ricorre sempre di nuovo a esperienze-limite
mistiche ed estetiche. Il mistico è abbagliato dalla luce dell'Assoluto, e chiude gli occhi; l'estasiato esteticamente si aliena nell'elemento inebriante e vertiginoso dello shock. Qui come là
la fonte dello sconvolgimento si sottrae a qualsiasi determinazione. Nell'indeterminato si delinea ancora soltanto il profilo del
paradigma combattuto - il contorno del decostruito. In questa
costellazione, che perdura da Nietzsche fino ad Heidegger e Foucault, sorge una disposizione al risveglio priva d'oggetto; nella
sua scia si formano subculture, che di fronte a verità future
indeterminatamente avvertite al contempo placano e tengono
desta la loro eccitazione con azioni di culto prive di oggetto
cultuale. Il gioco buffonesco con l'estasi di umore religiosoestetico trova spettatori soprattutto nella cerchia di intellettuali,
che sono disposti ad offrire il sacrificium intellectus sull'altare
dei loro bisogni di orientamento.
Soltanto, anche questa volta un paradigma perde la sua forza
solo quando è negato da un altro paradigma in modo determinato, cioè viene svalutato in maniera assennata; in ogni caso
esso resiste alla semplice evocazione della dissoluzione del sog311
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getto. Il lavoro, per quanto appassionato, della decostruzione ha
conseguenze dichiarabili solamente quando il paradigma dell'autocoscienza, dell'autoriferimento di un soggetto solitario conoscente ed agente, viene sostituito da un altro - dal paradigma dell'intesa, cioè della relazione intersoggettiva di individui socializzati comunicativamente e reciprocamente riconoscentisi. Soltanto allora la critica al pensiero disponente della ragione
soggettocentrica si presenta in forma determinata - cioè come
una critica al ' logocentrismo ' occidentale, che non diagnostica
un troppo, bensì un troppo poco di ragione. Invece di surclassare la modernità, essa riprende il contro-discorso immanente
alla modernità e lo trae fuori dalla contrapposizione frontale
senza vie d'uscita fra Hegel e Nietzsche. Questa critica rinuncia
alla esuberante originalità di un ritorno agli inizi arcaici; essa
scatena la forza sovversiva del pensiero moderno stesso contro
il paradigma della filosofia della coscienza applicato da Descartes fino a Kant.
La critica che segue Nietzsche alla caratterizzazione lagocentrica occidentale procede distruttivamente. Essa mostra che
il soggetto legato al corpo, parlante e agente non è padrone in
casa propria; da ciò essa trae certamente la conclusione che il
soggetto che pone se stesso nel conoscere in verità dipende da
un accadere antecedente, anonimo e sovrasoggettivo - sia poi
dalla ventura dell'essere, dal caso della formazione di strutture
oppure dal potere produttivo di una formazione discorsiva. Il
logos del soggetto autocratico si presenta così come la disavventura di una errata specializzazione tanto ricca di successo
quanto fuorviante. La speranza che tali analisi postnietzscheane
risvegliano ha sempre la stessa qualità di indeterminatezza impaziente. Una volta che sarà smantellata la fortezza della ragione
soggettocentrica, crollerà anche il logos, che tanto a lungo ha
tenuto insieme l'interiorità protetta dal potere, vuota all'interno,
aggressiva all'esterno. Esso si dovrà allora arrendere al suo
Altro, quale che esso sia.
Un'altra critica, meno drammatica, ma controllabile passo
per passo, alla caratterizzazione logocentrica occidentale si applica alle astrazioni dello stesso logos libero dal linguaggio, universalistico e senza corpo. Essa intende l'intesa intersoggettiva
come il telos inscritto nella comunicazione del linguaggio corrente, e il logocentrismo acutizzato nel senso della filosofia della
coscienza del pensiero occidentale come riduzione e distorsione
sistematica di un potenziale già sempre efficace ma selettivamente esaurito, nella prassi comunicativa quotidiana. Fin tanto
che l'autocomprensione occidentale vede l'uomo nel suo rapporto
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con il mondo contraddistinto dal monopolio di incontrare l'essente, di conoscere oggetti e trattarli, di fare enunciati veri e di
realizzare intenzioni, la ragione rimane limitata antologicamente,
gnoseologicamente o linguistico-analiticamente ad una sola delle
sue dimensioni. Il rapporto dell'uomo col mondo vi viene ridotto
cognitivisticamente, e cioè antologicamente, al mondo dell'essente in complesso (come la totalità degli oggetti rappresentabili e dei dati di fatto esistenti); gnoseologicamente alla facoltà
di conoscere o di produrre in modo conforme allo scopo dati
di fatto esistenti; e semanticamente al discorso che constata
fatti, in cui vengono impiegate proposizioni assertorie - e non
è ammessa nessuna pretesa di validità oltre quella della verità
proposizionale disponibile al foro interno.
Nella filosofia del linguaggio - da Platone fino a Popper questo logocentrismo si è ristretto all'affermazione che soltanto
la funzione linguistica dell'esposizione di stati di cose è un monopolio dell'uomo. Mentre gli uomini condividono la cosiddetta
funzione appellativa ed espressiva (Btihler) con gli animali, soltanto la funzione rappresentativa deve essere costitutiva per la
ragione 16 • Per contro già le evidenze della più recente etologia,
in particolare gli esperimenti con l'acquisizione linguistica artificialmente indotta di scimpanzé, insegnano che non di per sé
l'impiego di proposizioni, bensì soltanto l'uso comunicativo di
un linguaggio proposizionalmente articolato è peculiare alla nostra forma di vita socioculturale e costituisce il livello della
riproduzione genuinamente sociale della vita. Dal punto di vista
della filosofia del linguaggio, l'eguale originarietà ed equivalenza
delle tre funzioni linguistiche fondamentali la si avverte non
appena noi abbandoniamo il livello analitico del giudizio o della
proposizione ed ampliamo l'analisi ad azioni linguistiche, appunto all'impiego comunicativo di proposizioni. Azioni linguistiche elementari esibiscono una struttura, nella quale sono intrecciate fra loro tre componenti: la parte proposizionale per
l'esposizione (o la menzione) di stati di cose, la parte illocutiva
per l'inserimento di relazioni interpersonali, ed infine le componenti linguistiche che esprimono l'intenzione dei parlanti. La
chiarificazione in termini di teoria degli atti linguistici delle
complesse funzioni linguistiche dell'esposizione, della istituzione
di relazioni interpersonali e dell'espressione di esperienze vissute in proprio di volta in volta ha ampie conseguenze: a) per
la teoria del significato, b) per i presupposti antologici della
16 K. O. Apel, Die Lògosauszeichnung der menschlichen Sprache. Die philosophische Tragweite der Sprechaktheorie, manoscritto, Frankfurt a. M. 1984.
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teoria della comunicazione e c) per lo stesso concetto della razionalità. Voglio accennare a tali conseguenze solamente nella
misura in cui esse d) sono direttamente rilevanti per una nuova
direzione della critica della ragione strumentale.
a) La semantica della verità, quale è stata svolta da Frege
fino a Dummet e Davidson, parte - come la teoria husserliana
del significato - dall'assunto logocentrico, che il riferimento
alla verità della proposizione assertoria (e il riferimento indiretto alla verità della proposizione intenzionale che rinvia alla
realizzazione di intenzioni) offre il punto di attacco adeguato per
l'esplicazione delle operazioni linguistiche di intesa in genere.
Così questa teoria perviene al principio, che noi comprendiamo
una proposizione quando conosciamo le condizioni in base alle
quali la proposizione è vera. (Per la comprensione di proposizioni
intenzionali ed imperative essa richiede in corrispondenza la
conoscenza delle 'condizioni di successo') 17 • La teoria del significato ampliata pragmatisticamente supera questa fissazione alla
funzione del linguaggio raffigurante i fatti. Come la semantica
della verità essa afferma un rapporto interno di senso e validità,
ma non riduce quest'ultima alla validità della verità. In corrispondenza alle tre funzioni fondamentali del linguaggio infatti
ogni azione linguistica elementare può in complesso essere contestata sotto tre diversi aspetti di validità. L'uditore può negare
in toto l'asserzione di un parlante, in quanto contesta o la verità
dell'enunciato in essa affermato (o le presupposizioni di esistenza
del suo contenuto enunciativo), oppure la giustezza dell'atto linguistico riguardo al contesto normativa dell'asserzione (o la legittimità del contesto presupposto stesso), oppure ancora la veridicità dell'intenzione esternata del parlante (cioè la conformità
dell'inteso con il detto). Il rapporto interno fra senso e validità vale perciò per l'intero spettro dei significati linguistici e non soltanto per il significato di espressioni, che si possono
integrare in proposizioni assertorie. Non soltanto per atti linguistici constatativi, bensì per qualsiasi atto linguistico si deve dire
che noi ne comprendiamo il significato, quando conosciamo le
condizioni in base alle quali le possiamo accettare come valide.
b) Ma se non soltanto gli atti linguistici constatativi, bensl
anche quelli regolativi ed espressivi sono collegati con pretese
di validità e possono essere accettati come validi oppure respinti
come non validi, allora la concettualità antologica della filosofia
della coscienza (che con l'eccezione di Austin è rimasta deter17 E. Tugendhat, Einfiihrung in die sprachanalytische Philosophie, Frankfurt
a. M. 1976.
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minante anche per la filosofia analitica) si rivela troppo ristretta.
Il ' mondo ' al quale il soggetto poteva riferirsi con le sue rappresentazioni o proposizioni veniva fino allora concepito come
la totalità di oggetti o di stati di cose esistenti. Il mondo oggettivo è considerato come il correlato di tutte le proposizioni assertorie vere. Ma ora se si introducono come pretese di validità
analoghe alla verità la giustezza normativa e la veracità soggettiva, si devono postulare come relazioni interpersonali legittimamente regolate e come attribuibili esperienze vissute soggettive
' mondi ' analoghi a quello dei fatti - un ' mondo ' non soltanto per l'' oggettivo ', che ci viene incontro nell'atteggiamento
di una terza persona, bensì anche uno per il 'normativa', al
quale ci sentiamo obbligati nell'atteggiamento di destinatari, nonché uno per il ' soggettivo ', che noi scopriamo od occultiamo
ad un pubblico nell'atteggiamento della prima persona. Con ogni
atto linguistico il parlante si riferisce al contempo a qualcosa
nel mondo oggettivo, in un comune mondo sociale e nel suo
mondo soggettivo. La eredità logocentrica si fa tuttavia notare
ancora nelle difficoltà terminologiche, per ampliare in tal mondo
il concetto antologico del mondo.
Di un ampliamento corrispondente abbisogna la concezione
fenomenologica, elaborata specialmente da Heidegger, dei rapporti di rinvio del mondo della vita, che alle spalle dei partecipanti all'interazione costituiscono il contesto indiscutibile del
processo di intesa. Gli interessati attingono da questo mondo
della vita non più soltanto modelli interpretativi consentiti (quel
sapere di sfondo, del quale si nutrono i contenuti proposizionali), bensì anche modelli di relazione normativamente attendibili (le solidarietà tacitamente presupposte, su cui si fondano
gli atti illocutivi) e le competenze acquisite nel processo di socializzazione (il sottofondo delle intenzioni del parlante).
c) Noi chiamiamo 'razionalità' anzitutto quella disposizione
di soggetti capaci di parlare e di agire ad acquisire ed impiegare
·un sapere fallibile. Fin tanto che i concetti fondamentali della
filosofia della coscienza costringono a concepire il sapere esclusivamente come sapere di qualche cosa nel mondo oggettivo, la
razionalità si commisura al modo in cui il soggetto solitario si
orienta verso i contenuti delle sue rappresentazioni e dei suoi
enunciati. La ragione soggettocentrica trova le sue misure in
base a criteri di verità e successo, che regolano le relazioni fra
il soggetto conoscente e agente secondo fini e il mondo di possibili oggetti o stati di cose. Non appena invece noi concepiamo
il sapere come mediato comunicativamente, la razionalità si commisura alla capacità di responsabili partecipanti all'interazione
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di orientarsi verso pretese di validità che sono fondate sul riconoscimento intersoggettivo. La ragione comunicativa trova le
sue misure in base ai procedimenti argomentativi della soddisfazione diretta o indiretta di pretese alla verità proposizionale,
alla giustezza normativa, alla veracità soggettiva ed a]la pertinenza estetica 18 •
Ciò che si può dimostrare in base all'interdipendenza delle
differenti forme dell'argomentazione, cioè con mezzi di una
logica pragmatica dell'argomentazione, è dunque un concetto
procedurale della razionalità, che per via dell'inserimento del
pratico-morale e dell'estetico-espressivo è più ricco che la razionalità finalistica modellata sul cognitivo-strumentale. Questo concetto è l'esplicato del potenziale razionale ancorato nella base di
validità del discorso. Questa razionalità comunicativa rammenta
più antiche raffigurazioni del logos, in quanto porta con sé le
connotazioni della forza, che unifica e produce consenso liberamente, di un discorso nel quale i partecipanti superano le loro
concezioni dapprima soggettivamente prevenute in favore di un
accordo razionalmente motivato. La ragione comunicativa si
esprime in una concezione decentrata del mondo.
d) Da questa prospettiva tanto la messa a disposizione cognitivo-strumentale di una natura (e società) oggettivata, quanto
l'autonomia gonfiata narcisisticamente (nel senso dell'autoaffermazione razionale in vista del fine) sono momenti derivati, che
si sono autonomizzati rispetto alle strutture comunicative del
mondo della vita, cioè dell'intersoggettività di rapporti di intesa
e rapporti di reciproco riconoscimento. La ragione soggettocentrica è prodotto di una scissione e usurpazione, e precisamente
di un processo sociale nel cui corso un momento subordinato
assume il posto del tutto, senza possedere la forza per assimilarsi la struttura del tutto. Horkheimer e Adorno hanno descritto
il processo della soggettività che pretende troppo da se stessa
e reificante analogamente a Foucault come un processo cosmicostorico. Ma entrambe le parti disconoscono la più profonda ironia di questo processo, che consiste in ciò, che il potenziale
comunicativo della ragione doveva prima essere generato nelle
figure dei moderni mondi della vita, affinché gli imperativi scatenati dei sistemi parziali economico ed amministrativo si ripercuotessero sulla vulnerabile prassi quotidiana, e in ciò potes18 Wellmer ha mostrato che la buona riuscita di un'opera d'arte, il cosiddetto ' vero ' dell'arte. non si lascia in nessun modo ricondurre senza difficoltà
all'autenticità o alla veridicità. Cfr.: A. Wellmer, Wahrheit, Schein, Versohnung.
Adornos iisthetische Rettung der Modernitiit, in L. v. Friedeburg, J. Habermas
(a cura di), Adorno-Konferenz 1983, Frankfurt a. M. 1983, pp. 138 sgg.
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sera agevolare il cognitivo-strumentale a raggiungere il dominio
sugli oppressi momenti della ragione pratica. Il potenziale comunicativo della ragione nel decorso della modernizzazione capitalistica viene al contempo dispiegato e deformato.
La paradossale contemporaneità e interdipendenza dei due
processi la si può cogliere soltanto quando è superata la falsa
alternativa, che Max Weber enuncia con il contrasto fra razionalità sostanziale e formale. Alla sua base sta l'assunto che il
disincantamento delle immagini religioso-metafisiche del mondo
toglie alla razionalità, insieme con i contenuti tradizionali, anche tutte le connotazioni di contenuto, e toglie quindi anche
ogni forza per poter esercitare al di là dell'organizzazione razionale dei mezzi in vista del fine, anche un influsso strutturante
sul mondo della vita. Per contro io vorrei insistere che la ragione
comunicativa - nonostante il suo carattere puramente procedurale, sgravato di tutte le ipoteche religiose e metafisiche - è direttamente intrecciata nel processo di vita sociale in quanto gli
atti di intesa assumono il ruolo di un meccanismo di coordinamento dell'azione. L'intreccio delle azioni comunicative si nutre
di risorse del mondo della vita e al contempo costituisce il medium per il cui tramite si riproducono le concrete forme di vita.
Perciò la teoria dell'agire comunicativo può ricostruire il
co11cetto hegeliano del contesto di vita etico (indipendentemente
da premesse della filosofia della coscienzar Essa disincanta la
causalità recondita di un destino che si distingue dalla ventura
dell'essere per via della sua inflessibile immanenza. La dinamica
pseudonaturale di contesti di vita vulnerati mantiene, diversamente che l'' immemorabile' dell'accadere dell'essere o del potere, qualcosa del carattere di una ventura di cui si ha colpa
- anche se si può parlare di ' colpa ' soltanto in un senso intersoggettivo, cioè nel senso dell'involontario prodotto di un intreccio, che gli agenti comunicativamente, senza badare alla loro
responsabilità individuale, devono attribuire ad una responsabilità comunitaria. Non è un caso che i suicidi destano nel prossimo una sorta di scuotimento, che per momenti fa presentire
anche ai più induriti qualcosa della inevitabile comunanza di
un tale destino.
IV
Nella teoria dell'agire comunicativo quel processo circolare che
intreccia fra di loro mondo della vita e prassi quotidiana comunicativa assume il luogo della mediazione, che Marx e il marxi317
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smo occidentale avevano riservato alla prassi sociale. In questa
prassi sociale la ragione storicamente situata, corporeamente incarnata, messa di fronte alla natura, doveva mediarsi col suo
Altro. Se ora l'agire comunicativo deve assumersi queste stesse
funzioni di mediazione, la teoria dell'agire comunicativo si attrae
il sospetto di rappresentare allora soltanto un'altra variante della
filosofia della prassi. Entrambe devono in effetti risolvere lo
stesso compito: concepire la prassi razionale come una ragione
concretizzata nella storia, nella società, nel corpo e nel linguaggio.
Abbiamo seguito come la filosofia della prassi ha sostituito
l'autocoscienza con il lavoro, e si è quindi intricata nelle catene
del paradigma della produzione. La filosofia della prassi rinnovata nella cerchia della fenomenologia e dell'antropologia, cui
stanno a disposizione i mezzi dell'analisi husserliana del mondo
della vita, ha imparato dalla critica al produttivismo marxiano.
Essa relativizza il valore posizionale del lavoro e contribuisce
ai tentativi aporetici di sistemare l'esteriorizzazione dello spirito
soggettivo, la temporalizzazione, socializzazione e incarnazione
di una ragione situata in altre relazioni soggetto-oggetto. Servendosi dei mezzi concettuali fenomenologico-antropologici, la filosofia della prassi rinuncia all'originalità proprio là dove essa
non può permetterselo: nella determinazione della prassi come
di un evento mediatore strutturato razionalmente. Essa infatti
si sottomette di nuovo ai concetti fondamentali dicotomizzanti
della filosofia del soggetto: la storia viene progettata e fatta da
soggetti, che per parte loro si trovano nel processo storico come
gettati e fatti (Sartre); la società appare come una rete oggettiva di relazioni, che o viene calcata in testa come ordine normativo al soggetto trascendentalmente precompreso (A. Schiitz)
oppure viene prodotta da questi stessi soggetti come ordinamenti
strumentali nella lotta di reciproche aggettivazioni (Kojève); il
soggetto si trova o centricamente nel suo corpo vivente (Merleau-Ponty) oppure si rapporta ad esso quale corpo eccentricamente come ad un oggetto (Plessner). Il pensiero legato alla
filosofia del soggetto non può superare queste dicotomie, ma
oscilla disperatamente, come acutamente ha diagnosticato Foucault, da un po!o all'altro.
Nemmeno la svolta linguistica della filosofia della prassi
porta ad un cambiam~nto di paradigmi. I soggetti parlanti sono
o signori o pastori del loro sistema linguistico. O essi si servono
del linguaggio come creatore di senso, per dischiudersi innovativamente il loro mondo, oppure si muovono sempre già entro
un orizzonte che si trasforma dietro le spalle del dischiudimento
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del mondo ad essi procurato dal linguaggio stesso - il linguaggio come medium di una prassi creativa (Castoriadis) oppure
come evento differenziale (Heidegger, Derrida).
Con la sua teoria dell'istituzione immaginaria Castoriadis,
grazie all'impostazione di filosofia del linguaggio, può proseguire
audacemente la filosofia della prassi. Per restituire alla concezione della prassi sociale di nuove forza esplosiva rivoluzionaria
ed un contenuto normativa, egli non concepisce più l'agire in
modo espressivistico, bensì in modo poetico-demiurgico - come
la creazione priva d'origini di figure assolutamente nuove ed
uniche nel loro genere, dove ciascuna di esse apre un inconfrontabile orizzonte di senso. Il garante del contenuto razionale
della modernità - di autocoscienza, autentica autorealizzazione
e autodeterminazione in solidarietà - viene raffigurato come
una forza immaginaria creatrice del linguaggio. Questa si avvicina senza dubbio pericolosamente all'vssere che opera senza
fondamento. Alla fine tra l'« inserimen:;o » volontaristico e il
« destino » (Schickung) fatalistico sussiste ancora soltanto una
differenza retorica.
Secondo Castoriadis la società, al pari della soggettività trascendentale, si scinde nel producente e nel prodotto, nell'istituente e nell'istituito, dove la corrente dell'immaginario fondatore di senso si riversa nelle mutevoli immagini linguistiche del
mondo. Questa creazione antologica di totalità di senso assolutamente nuove, sempre di nuovo diverse e uniche nel loro genere
avviene come una ventura dell'essere; non si può scorgere come
questa demiurgica messa in opera delle verità storiche possa
venir trasposta nel progetto rivoluzionario della prassi di individui consapevolmente agenti, autonomi, autorealizzantisi. Autonomia ed eteronomia devono in definitiva commisurarsi all'autenticità dell'autotrasparenza di una società, che non nasconde la
sua origine immaginaria sotto proiezioni extrasociali, e si sa
esplicitamente come società auto-istituentesi. Soltanto - chi è
il soggetto di questo sapere? Per il rivoluzionamento della società reificata Castoriadis non conosce altro fondamento che la
decisione esistenzialistica - « perché noi lo vogliamo »; dove
egli a sua volta deve lasciarsi chiedere, chi può essere questo
' noi ' della volontà radicale, se poi gli individui· socializzati
sono semplicemente ' inseriti ' dall'immaginario sociale. Castoriadis finisce come Simmel incomincia: con la filosofia della
vita 19 •
Questa conseguenza deriva dalla concezione del linguaggio,
19
Cfr., injra, l'excursus su Castoriadis, pp. 327 sgg.
319
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che Castoriadis mutua tanto dall'ermeneutica quanto dallo strutturalismo. Come ciascuno a suo modo Heidegger, Derrida e Foucault, anche Castoriadis parte dal fatto che fra il linguaggio e
le cose di cui si parla, fra la comprensione costituente del mondo
e l'intramondanità costituita sussiste una differenza antologica.
Questa differenza asserisce che il linguaggio dischiude l'orizzonte
di senso, entro il quale i soggetti conoscenti e agenti interpretano stati di cose, cioè incontrano uomini e cose e fanno esperienze in rapporto con essi. La funzione dischiudente il mondo
del linguaggio viene pensata in analogia con le operazioni produttive della coscienza trascendentale, tuttavia sottraendo il suo
carattere puramente formale e sovratemporale. L'immagine linguistica del mondo è un apriori concreto e storico; essa fissa
prospettive interpretative di contenuto e variabili, dietro le quali
non si può andare. La comprensione costitutiva del mondo si
trasforma in particolare indipendentemente da ciò che i soggetti esperimentano nel mondo sulle condizioni interpretate alla
luce di questa precomprensione, ciò che possono apprendere
dal loro rapporto pratico con l'intramondanità. Non importa se
questa mutazione metastorica delle immagini linguistiche del
mondo è pensata come essere, ' differenza ', potere o immaginazione, e dotata di connotazioni della mistica esperienza della
salvezza, della paura estetica, della pena creaturale o dell'ebbrezza creativa; comune a tutte queste concezioni è il peculiare
sganciamento della produttività formatrice di orizzonti del linguaggio dalle conseguenze di una prassi intramondana, che è
interamente pregiudicata dal sistema linguistico. Viene esclusa
ogni interazione fra il linguaggio dischiudente il mondo e i
processi di apprendimento nel mondo.
Sotto questo rispetto la filosofia della prassi si era differenziata nettamente da tutte le varietà dello storicismo linguistico.
Essa comprende appunto la produzione sociale come processo
di autoproduzione del genere e la trasformazione della natura
esterna fornita dal lavoro come spinta alla autotrasforrr,.azione
apprendente del}a propria natura. Il mondo delle idee, alla cui
luce i produttori socializzati interpretano di volta in volta la
natura storicamente formata, trovata dinanzi a sé, si modifica
a sua volta in dipendenza dai processi di apprendimento connessi all'attività trasformatrice. Questi effetti formatori del mondo
la prassi intramondana non li deve affatto ad una dipendenza
meccanica della sovrastruttura dalla base, bensì a due semplici
fatti: il mondo delle idee rende possibili determinate interpretazioni di una natura quindi cooperativamente elaborata; ma
viene a sua volta affetta dai processi di apprendimento, che il
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lavoro sociale mette in moto. Contro lo storicismo linguistico,
che ipostatizza la forza dischiudente il mondo del linguaggio,
il materialismo storico, come più tardi anche il pragmatismo e
lo strutturalismo genetico, conta su un rapporto dialettico fra
strutture delle immagini del mondo, che rendono possibile la
prassi intramondana tramite un'antecedente comprensione del
senso, da un lato, e dall'altro processi di apprendimento, che
si depositano nel mutamento di strutture delle immagini del
mondo.
Questa azione reciproca risale ad un rapporto interno fra
senso e validità, che senza dubbio non abolisce la differenza
fra di essi. Il senso non deve distruggere la validità. Heidegger
ha sbrigativamente identificato il dischiudimento di orizzonti di
senso con la verità di asserzioni dotate di senso; ma sono soltanto le condizioni per la validità delle asserzioni, che si modificano con l'orizzonte di significato - la modificata comprensione del senso deve comprovarsi ne1l'esperienza e nella pratica
con ciò che può incontrare entro il suo orizzonte. D'altronde la
filosofia della prassi non può utilizzare la superiorità che sotto
questo rispetto essa possiede, giacché, come si è visto, col paradigma della produzione esclude dallo spettro della validità della
ragione tutte le dimensioni, oltre a quelle della validità di
verità e dell'efficienza. Perciò quello che viene appreso nella
prassi intramondana può accumularsi soltanto nel dispiegamento
delle forze produttive. Con questa strategia concettuale produttivistica non si può più ottenere il contenuto normativa della
modernità, bensì in ogni caso valersene senza dimostrarlo, per
isolare la razionalità volta al fine, coagulata in totalità nell'esercizio di una dialettica negativa accusatrice.
Questa incresciosa conseguenza può anche aver indotto Castoriadis a affidare il contenuto razionale del socialismo, cioè di
una forma di vita che deve rendere possibile l'autonomia e
l'autorealizzazione nella solidarietà, ad un demiurgo creatore di
senso, che passa sopra alla differenza fra senso e validità, e non
dipende più dalla verifica profana delle sue creazioni. Una prospettiva del tutto diversa si ha quando noi trasponiamo il concetto della prassi dal lavoro all'agire comunicativo. Allora noi
riconosciamo interdipendenze fra sistemi linguistici che dischiudono il mondo e processi intramondani di apprendimento in
tutta l'ampiezza dello spettro di validità; i processi di apprendimento non vengono più canalizzati soltanto da processi del
lavoro sociale, e in definitiva soltanto dalla pratica cognitivostrumentale con una natura oggettivata. Non appena noi lasciamo cadere il paradigma della produzione, possiamo infatti affer321
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mare un rapporto interno fra senso e validità per l'intera quantità della riserva di significati - non più soltanto per il segmento di significati di espressioni linguistiche che entrano nelle
proposizioni assertorie ed intenzionali. Nell'agire comunicativo,
che richiede prese di posizione sì/no verso pretese di giustezza
e di veracità, non meno che reazioni a pretese di verità e di
efficienza, il sapere di fondo del mondo della vita è esposto su
tutta la linea ad una prova di durata; pertanto l'apriori concreto
di sistemi linguistici che dischiudono il mondo (fin dentro presupposti ontologici ampiamente ramificati) è assoggettato ad una
revisione indiretta alla luce della pratica con l'intramondano.
Questa concezione non significa che il rapporto interno fra
senso e validità debba essere risolto solamente dall'altra parte.
La potenza creativa di senso, che oggi si è ampiamente ritirata
negli ambiti estetici, conserva la contingenza di forze veramente
innovatrici.
v
Più seria è la considerazione se con il concetto dell'agire comunicativo e della forza trascendente di pretese universalistiche di
validità non venga ristabilito un idealismo, che è inconciliabile
con le vedute naturalistiche del materialismo storico. Un mondo
della vita, che deve riprodursi soltanto tramite il medium dell'agire orientato verso l'intesa, non è tagliato fuori dai suoi processi materiali di vita? Naturalmente un mondo della vita si
riproduce materialmente tramite i risultati e le conseguenze delle
azioni rivolte allo scopo, con le quali i suoi membri intervengono nel mondo. Ma queste azioni strumentali sono intrecciate
con quelle comunicative, in quanto rappresentano l'esecuzione
di piani, che sono connessi con i piani di altri partecipanti
all'interazione su comuni definizioni di situazioni e processi di
intesa. Per questa via. anche le soluzioni di problemi acquisite
nella sfera del lavoro sociale vengono collegate al medium dell'agire orientato verso l'intesa. Anche la teoria dell'agire comunicativo conta dunque sul fatto che la riproduzione simbolica
del mondo della vita è accoppiata internamente con la sua riproduzione materiale.
Non altrettanto semplice è replicare al sospetto che con la
concezione di un agire orientato verso pretese di validità si
insinui di nuovo l'idealismo della ragione pura, non-situata, e
si rianimino in altra forma le dicotomie fra l'ambito del tra322
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scendentale e quello dell'empirico. Già Hamann ha elevato
contro Kant l'accusa del 'purismo della ragione'.
Non vi è nessuna ragione pura, che soltanto in seguito indossa abiti linguistici. Essa è fin dall'origine ragione incarnata
in contesti dell'agire comunicativo e in strutture del mondo
della vita 20 •
Nella misura in cui i piani e le azioni di differenti attori si
intrecciano tramite l'uso del linguaggio orientato verso l'azione
nel tempo storico e tramite lo spazio sociale, le prese di posizione sì/no verso pretese di validità criticabili, per quanto rimangano implicite, assumono una funzione-chiave per la prassi quotidiana. L'accordo comunicativamente raggiunto, che si commisura al riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità,
rende possibile l'intrecciarsi di interazioni sociali e contesti del
mondo della vil'a. Senza dubbio le pretese di validità hanno un
duplice volto~ quali pretese esse trascendono ogni contesto locale; al contempo esse devono venir elevate qui ed ora nonché
riconosciute di fatto, se devono sorreggere l'accordo operante la
coordinazione di partecipanti all'interazione. Il momento trascendente di validità universale fa saltare ogni provincialismo; il
momento della obbligatorietà qui ed ora di pretese di validità
accettate ne fa il portatore di una prassi quotidiana legata al
contesto. In quanto gli agenti comunicativamente con i loro atti
linguistici elevano reciprocamente pretese di validità, essi si fondano di volta in volta su un potenziale di ragioni confutabili.
Con ciò un momento di incondizionatezza è inserito nei processi fattuali di intesa - la validità pretesa si distingue dal
valore sociale di una prassi di fatto messa in gioco e le serve
tuttavia come base del consenso effettivo. La validità pretesa per
proposizioni e norme trascende spazi e tempi, ' elimina ' lo spazio e il tempo, ma la pretesa viene elevata di volta in volta qui
ed ora, in determinati contesti, e accettata o respinta con fattuali
conseguenze dell'azione. K. O. Apel parla plasticamente dell'intreccio della comunità di comunicazione reale con quella ideale 21 •
La prassi comunicativa quotidiana è per così dire riflessa in
se stessa. Senza dubbio la ' riflessione ' non è più una faccenda
del soggetto conoscente, che si riferisce a se stesso oggettivando.
Al posto di questa riflessione prelinguistica-isolata subentra la
20 Devo alcuni spunti a Charles Taylor. Cfr. i suoi recenti Philosophical
Papers, voli. I e Il, Cambridge 1985.
21 K. O. Apel, Transjormation der Philosophie, Frankfurt a. M. 1973, vol.
Il, pp. 358 sgg. (tr. it., Comunità e comunicazione, Torino 1977, pp. 205 sgg.).
Cfr. anche la mia replica a M. Hesse in J. Thompson, D. Held (a cura di), Habermas - Criticai Debates, London 1982, pp. 276 sg.
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stratificazione di discorso e azione inserita nell'agire comunicativo. Infatti le pretese di validità elevate di fatto rinviano direttamente o indirettamente ad argomentazioni nelle quali esse possano essere trattate e, se del caso, soddisfatte. Questo conflitto
argomentativo su pretese ipotetiche di validità si può descrivere
come forma di riflessione dell'agire comunicativo - un'autoreferenzialità che può far senza la coazione all'aggettivazione
inclusa nei concetti fondamentali della filosofia del soggetto.
Sul piano riflessivo infatti di fronte a proponenti e opponenti
si riproduce quella forma fondamentale della relazione intersoggettiva, che media l'autorelazione del parlante già sempre mediante la relazione performativa ad un destinatario. Il teso intreccio fra ideale e reale si mostra chiaramente anche e soprattutto nel discorso stesso. Entrando in un'argomentazione i partecipanti non possono fare a meno di supporre il soddisfacente adempimento di condizioni di una situazione linguistica
ideale. Eppure essi sanno che il discorso non è mai definitivamente ' purificato ' dai motivi dissolventi e da coazioni dell'azione. Quanto poco possiamo farcela senza la supposizione
di un discorso purificato, altrettanto dobbiamo però accontentarci con un discorso ' non purificato '.
Alla fine della quinta lezione ho accennato che il nesso interno fra contesti della fondazione e contesti della scoperta, fra
validità e genesi non si lacera mai del tutto. Il compito della
fondazione, cioè la critica delle pretese di validità condotta dalla
prospettiva del partecipante, non si può in ultima istanza separare dalla considerazione genetica, che in una critica dell'ideologia condotta dalla prospettiva della terza persona sfocia nella
commistione di pretese di potere e di validità. La storia della
filosofia da Platone e Democrito jn poi è dominata da due impulsi contrastanti. Gli uni enucleano senza riguardi il potere
trascendente della ragione astraente e l'incondizionatezza emancipante dell'intelligibile, mentre gli altri cercano di smascherare
materialisticamente l'immaginario purismo della ragione.
Per contro il pensi~ro dialettico ha preso a servizio la forza
sovversiva del materialismo, per sfuggire alla falsa alternativa.
All'espulsione di tutto l'empirico dal regno delle idee, essa
risponde non semplicemente con la beffarda riduzione dei contesti di validità alle potenze che trionfano dietro le loro spalle.
La teoria dell'agire comunicativo vede piuttosto la dialettica di
sapere e non sapere inserita nella dialettica dell'intesa che riesce
e quella che fallisce.
La ragione comunicativa si valorizza nella forza connettiva
dell'intesa intersoggettiva e del riconoscimento reciproco: essa
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circoscrive al contempo l'universo di una forma di vita comune.
All'interno di questo universo l'irrazionale non si lascia separare dal razionale allo stesso modo che, secondo Parmenide, il
non sapere da quel sapere che domina come l'affermativo per
eccellenza sul nulla. Seguendo J akob Bohme e Isaak Luria,
Schelling insiste a ragione che l'errore, il delitto e l'illusione
non sono prive di ragione, bensì forme fenomeniche di ragione
rovesciata. La lesione della pretesa alla verità, alla giustezza ed
alla veracità coinvolge il tutto, attraverso il quale ricorre il vincolo della ragione. Non vi è nessuna via d'uscita e nessun al
di fuori per i pochi, che sono nella verità e devono separarsi
dai molti, che restano nell'oscurità dell'accecamento, come il
giorno dalla notte. Una lesione delle strutture da tutti richieste
della convivenza razionale colpisce tutti in eguale misura. Questo aveva inteso il giovane Hegel con la totalità etica, che viene
distrutta dall'atto del criminale e può venir restaurata soltanto
dalla comprensione dell'indivisibilità della sofferenza nell'estraneazione. La stessa idea motiva Klaus Henrich nel suo confronto
fra Parmenide e Giona.
Nell'idea del patto che Jahvé conclude con il popolo di
Israele, vi è il germe della dialettica di tradimento e potenza
vendicatrice:
Mantenere il patto con Dio è il simbolo della fedeltà, infrangere questo patto è il modello del tradimento. Tener fede a Dio
vuol dire tener fede allo stesso essere vivente-creatore, in sé e negli
altri - e in tutti gli ambiti dell'essere. Negarlo in qualche ambito
dell'essere vuol dire infrangere il patto con Dio e tradire il proprio fondamento [ ... ]. Perciò il tradimento fatto ad altri è al contempo autotradimento, ed ogni protesta contro il tradimento non
è solamente protesta nel proprio nome, bensì al contempo in quello
dell'altro [ ... ]. L'idea che potenzialmente ogni essente è ' alleato'
nella lotta contro il tradimento, anche ciò che tradisce me e se
stesso, è l'unico contrappeso alla rassegnazione storica, che già Parmenide formula, separando con un taglio netto i sapienti e la moltitudine ignorante. Il concetto a noi familiare dell'' illuminismo '
non è pensabile senza il concetto di una alleanza potenzialmente
universale contro il tradimento 22 •
Soltanto Peirce e Mead hanno elevato a rango filosofico questo motivo religioso dell'alleanza nelle figure di una teoria consensuale della verità e di una teoria comunicativa della società.
22 K. Heinrich, Versuch iiber die Schwierigkeit nein zu sagen, Frankfurt a.
M. 1964, p. 20; cfr. anche, dello stesso autore, Parmenides und fona, Frankfurt
a. M. 1966.
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La teoria dell'agire comunicativo si riallaccia a questa tradi·
zione pragmatistica; anch'essa si fa guidare, come Hegel nel suo
frammento giovanile sul delitto e la pena, da un'intuizione che
con concetti dell'Antico Testamento si può così esprimere: nel·
l'agitazione dei reali rapporti di vita cova un'ambivalenza, che
·dipende dalla dialettica di tradimento e potenza vendicatrice 23 •
Di fatto noi non possiamo sempre (o anche soltanto spesso)
soddisfare quegli inverosimili presupposti pragmatici, dai quali
tuttavia noi dobbiamo partire nella prassi comunicativa quoti·
diana - e precisamente nel senso di una necessità trascenden·
tale. Perciò le forme socioculturali della vita sottostanno alle
limitazioni strutturali di una ragione comunicativa al contempo
smentita e richiesta.
La ragione che opera nell'agire comunicativo non sta però
sotto limitazioni per così dire esterne, situative; le sue proprie
condizioni di possibilizzazione la costringono alla ramificazione
nelle dimensioni del tempo storico, dello spazio sociale e delle
esperienze centrate nel corpo. Il potenziale razionale del discorso
è infatti intessuto con le risorse di un mondo della vita di volta
in volta particolare. Nella misura in cui il mondo della vita
assume funzioni di risorsa, ha il carattere di un sapere intuitivo, incrollabilmente certo e olistico, che non può essere problematizzato a piacere - e sotto questo rispetto non rappre·
senta nessun ' sapere ' in senso stretto. Questo amalgama di
assunzioni di sfondo, solidarietà e capacità consocializzate costi·
tuisce il contrappeso conservatore contro il rischio del dissenso
dei processi di intesa che corrono attraverso le pretese di validità.
Come risorsa, dalla quale i partecipanti all'interazione alimentano le loro asserzioni capaci di consenso, il mondo della
vita costituisce un equivalente per ciò che la filosofia del sog·
getto aveva attribuito. alla coscienza in genere come operazioni
della sintesi. Le operazioni della produzione qui non si riferiscono certamente alla forma, bensì al contenuto di possibile
intesa. Pertanto al posto della coscienza trascendentale che fonda
l'unità subentrano concrete forme di vita. Tramite le ovvietà
culturalmente ambientate, le solidarietà di gruppo intuitivamente
presenti e le competenze considerate come know how degli individui socializzati, la ragione, che si esprime nell'agire comuni·
cativo, si media con le tradizioni concresciute di volta in volta
in una totalità particolare, le pratiche sociali e i complessi d'esperienza legati al corpo. Le forme di vita particolari che si pre23 H. Brunkhorst, Kommunikative Vernunft und riichende Gewalt, in <<Sozialwissenschaftliche Literaturrundschau », n. 8/9, 1983, pp. 7 sgg.
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sentano soltanto al plurale non sono certo connesse fra loro soltanto dal tessuto della somiglianza familiare; esse rinviano alle
strutture comuni di mondi della vita in genere. Ma queste strutture generali si imprimono alle particolari forme di vita soltanto
tramite il medium dell'agire orientato verso lo scopo, attraverso
il quale devono riprodursi. Ciò spiega perché il peso di queste
strutture generali può rafforzarsi nel corso di processi storici di
differenziazione. Questa è anche la chiave per la razionalizzazione del mondo della vita e per la successiva liberazione del
potenziale razionale implicito nell'agire comunicativo. Questa tendenza storica è in grado di spiegare il contenuto normativa di
una modernità al contempo minacciata di autodistruzione senza
le costruzioni ausiliarie della filosofia della storia.
Excursus su C. Castoriadis:
l'istituzione immaginaria »
«
Che il post-strutturalismo con il suo rifiuto globale di moderne
forme di vita trovi udienza, è una conseguenza anche del fatto'
che gli sforzi della filosofia della prassi per riformulare il progetto della modernità sulla linea del pensiero marxista hanno
perduto di credibilità. Il primo tentativo di un rinnovamento
della filosofia della prassi dallo spirito' di Htisserl e Heidegger
lo ha intrapreso il giovane Marcuse; in ciò lo ha poi seguito
Sartre con la Critica della ragione dialettica; Castoriadis ha dato
un nuovo impulso a questa tradizione con una peculiare svolta
linguistica. La sua opera assume 11na posizione centrale nella
cerchia di quelle impostazioni di filosofia della prassi, che dalla
metà degli anni Sessanta sono state sviluppate soprattutto nell'Europa orientale, a Praga, Budapest, Zagabria e Belgrado e che
per un decennio hanno animato le discussioni della Scuola estiva
di Korcula. Castoriadis ha intrapreso il tentativo più originale,
più ambizioso e più meditato per pensare ancora una volta come
prassi la mediazione liberante fra storia, società, natura esterna
ed interna.
Anche Castoriadis parte dalla ' contraddizione ' fra lavoro
morto e lavoro vivo. Il capitalismo deve al contempo « valersi
dell'attività in senso autentico umana dei soggetti ad esso sottomessi [ ... ] e disumanizzare tale attività» 24 • La cooperazione di
24 C. Castoriadis, L'institution imaginaire de la société, Paris 1975 (tr. ted.,
Gesellschaft als imaginiire Institution. Entwurf einer politischen Philosophie,
Frankfurt a. M. 1984, p. 317).
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operai industriali che amministrano se stessi serve qui quale
modello di una prassi non disumanizzata. Questa attività in
senso enfatico Castoriadis la sviluppa però non in base al filo
conduttore della lavorazione e della produzione tecnica di oggetti. Come il puro e semplice agire per riflesso anche l'agire
strumentale costituisce un caso-limite di contrasto, al quale mancano determinazioni essenziali della prassi come autoattività: in
entrambi i tipi l'agire è ridotto a linee di condotta prevedibili.
Le determinazioni della prassi non ridotta Castoriadis le ricava
(come Aristotele) da esempi della prassi politica, artistica, medica e pedagogica. Essa ha il suo fine in se stessa e non si può
ricondurre all'organizzazione razionale dei mezzi in vista dei fini.
La prassi segue un progetto, che però non precede l'applicazione
come una teoria, bensì può venir corretto e ampliato come anticipazione nella stessa esecuzione pratica. La prassi si riferisce di
volta in volta ad una totalità di attuazioni di vita, nelle quali essa
al contempo è inserita; come totalità essa si sottrae all'intervento
oggettivante. Ed infine la prassi mira ad una promozione dell'autonomia, dalla quale al contempo essa scaturisce: « Ciò a
cui si aspira (lo sviluppo dell'autonomia) sta in un intimo rapporto con ciò mediante cui viene aspirato (l'esercizio di questa
autonomia) [ ... ] "È vero che essa deve mettere in conto la rete
concreta delle relazioni causali che attraversano il suo ambito.
Tuttavia la prassi nella scelta del suo modo di operare non può
mai seguire un puro calcolo - non perché questo sarebbe troppo
complicato, bensì perché esso per definitionem lascia fuori considerazione il fattore decisivo: l'autonomia» 25 •
Castoriadis fa certo saltare il concetto aristotelico, quando
radicalizza la determinazione che la prassi è diretta sempre
ad Altro che ad esseri autonomi, nel senso che nessuno potrebbe voler seriamente l'autonomia, senza volerla per tutti 26 •
Dalla coscienza moderna del tempo dipende anche l'ulteriore
determinazione che la prassi è orientata verso il futuro e produce il nuovo. L'agente, in quanto prende l'iniziativa, trascende
tutte le determinazioni date e avvia un nuovo inizio. La prassi
è creatrice per la sua stessa essenza, essa produce il ' radicalmente Altro'. Creatrice per eccellenza è soprattutto la prassi
emancipativa, che Castoriadis vorrebbe liberare da fraintendimenti teoricistici. La prassi mira alla trasformazione « della società attuale in un'altra, che per la sua organizzazione è diretta
all'autonomia di tutti. E l'attuazione di questa trasformazione
25
26
lvi, p. 129.
lvi, p. 183.
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deve stare nell'agire autonomo degli stessi uomini [ ... ] » ZT. Anche l'Illuminismo della teoria della società è guidato da questo
interesse. Il progetto rivoluzionario guida invero l'analisi dei
processi storici. Ma noi possiamo conoscere la storia sempre soltanto partendo dalla storia stessa: « L'ultimo punto di collegamento di questi due progetti - del comprendere e del modificare - si può ritrovare sempre soltanto nel vivo presente della
storia, che non sarebbe presente storico, se non si trascendesse
verso un futuro, che noi dobbiamo ancora fare » 28 •
Castoriadis rinnova dunque il concetto aristotelico della
prassi, con l'aiuto di una autointerpretazione radical-ermeneutica della coscienza temporale moderna, per elaborare contro
la dogmatica marxista il senso originario di una politica emancipativa. Tuttavia questa interpretazione azionistica della prassi
non porterebbe al di là della posizione di Karl Korsch, diretta
allora contro la ortodossia della Seconda Internazionale, se da
questa posizione Castoriadis non sviluppasse una filosofia politica ed una teoria della società. Inoltre gli interessano concetti
del politico e del sociale, che in un certo senso universalizzino
il senso specifico della prassi rivoluzionaria. Castoriadis dirige lo
sguardo, del resto in modo del tutto simile ad Hannah Arendt 29,
verso quei rari momenti storici, in cui la massa, dalla quale
sono formate le istituzioni, è ancora fluida, cioè ai momenti produttivi della fondazione di nuove istituzioni: « Un'immagine
viva e stimolante [ ... ] dell'ora storico-sociale ce l'offrono quei
momenti nei quali la società istituenda irrompe nella società
istituita, nei quali la società in quanto istituita distrugge se stessa
con l'aiuto della società in quanto istituente, cioè crea se stessa
come un'altra società istituita [ ... ] Anche una società che sembra mirare soltanto alla propria conservazione, sussiste solamente
in quanto si modifica incessantemente» 30 •
Castoriadis sviluppa il caso normale del politico dal caso
limite dell'atto della fondazione di un'istituzione, e interpreta a
sua volta quest'ultimo da un orizzonte estetico di esperienza
come il momento estatico della fondazione di un assolutamente
nuovo che erompe dal continuum del tempo. Soltanto così egli
crede di poter mettere a nudo il nucleo essenzialmente produttivo nella riproduzione della società. Il processo sociale è la
produzione di figure radicalmente diverse, un mettersi-in-opera
lvi, p. 134.
lvi, p. 281.
J. Habermas, H. Arendts Begri[f der Macht, in Philosophisch-Politische
Profile, Frankfurt a. M. 1981.
30 C. Castoriadis, op. cit., pp. 342 sg.
27
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demiurgico, la creazione continuata di nuovi tipi, che vengono
incarnati esemplarmente sempre di nuovo in altro modo, in
breve: autoposizione e genesi ontologica di sempre nuovi ' mondi '. In questa concezione il tardo Heidegger entra con il primo
Fichte in un collegamento marxista. Al posto del soggetto autoponentesi subentra la società auto-istituentesi, dove ciò che viene
istituito rappresenta una ·comprensione creativa del mondo, un
senso innovativo, un nuovo universo di significati. Questo senso
dischiudente il mondo Castoriadis lo chiama l' ' Immaginario
centrale '; esso si effonde come magma di significati dal vulcano
del tempo storico nelle istituzioni sociali: « Senza un Immaginario produttivo, creatore o [ ... ] radicale, quale si rivela nell'unità inseparabile di fare storico e contemporanea formazione
di un universo di discorso, la storia non è né possibile né comprensibile » 31 • L'Immaginario determina lo stile della vita, lo
'spirito del popolo' di una società, di un'epoca. Castoriadis
parla di una « occupazione originaria del mondo e del sé con
un senso, che non è stato dettato alla società da fattori reali,
perché al contrario questo senso è quello che assegna a quei
fattori reali la loro importanza e il loro posto privilegiato nell'universo di questa società» 32 •
Indubbiamente tutto il resto dipende dal modo in cui Castoriadis pensa insieme la società, come istituzione di un mondo,
con la prassi intramondana. L'interesse di Castoriadis vale per
una condotta autocosciente, autonoma della vita, che deve rendere possibile l'autentica autorealizzazione e libertà nella solidarietà. Egli deve risolvere il problema di concepire la funzione
dischiudente il mondo del linguaggio in modo tale, che essa
possa trovare collegamento con un concetto normativamente
ricco di contenuto della prassi. La mia tesi è che Castoriadis
non riesca a trovare la soluzione, perché il suo concetto fondamental-ontologico della società non lascia alcun posto per una
prassi intersoggettiva, imputabile a individui socializzati. Alla
fine la prassi sociale si dissolve nella scia anonima di un'istituzionalizzazione di sempre nuovi mondi attinta all'Immaginario.
Di fronte alla riduzione produttivistica del concetto di prassi,
Castoriadis sottolinea a ragione l'uguale originarietà del dire e
del fare, del parlare e del fare, legein e teukein. In queste due
dimensioni il fare umano è riferito a qualcosa nel mondo - al
materiale bisognoso d'interpretazione, al contempo resistente e
formabile, che si trova nel mondo. Castoriadis ha tuttavia a di31
32
lvi, p, 251.
lvi, p. 220.
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spos1z1one, per questo 'strato primario', cui la società deve
'appoggiarsi', soltanto il concetto del mondo oggettivo; è la
natura o l'insieme dell'essente, che offre al mondo sociale di
volta in volta istituito un contrafforte. Di conseguenza il 'fare'
si riduce all'intervenire conforme allo scopo nel mondo di stati
di cose esistenti, e il ' dire ' alla semantica logica del discorso
constatante i fatti, nella misura in cui esso è costitutivo per
l'ambito funzionale dell'agire strumentale. Legein e teukein sono
forme di espt:essione del pensiero identificante: « Come il legein
incarna la dimensione di logica dell'identità e della quantità del
linguaggio e del rappresentare sociale, così nel teukein si materializza la dimensione di logica dell'identità e della quantità del
fare sociale » 33 • In modo del tutto convenzionale con ciò il
sostrato naturale di ciò che può accadere nel mondo viene sistemato in relazioni soggetto-oggetto e concepito come rappresentabile o producibile. Ma ora la prassi sociale che balena a Castoriadis va oltre un'incarnazione del pensiero identificante e della
razionalità finalistica. Perciò l'intelletto, che qui si presenta come
la facoltà della logica dell'identità e della quantità, non deve
certo operare alla luce della ragione, ma deve pure essere sopraffatto dalla straboccante abbondanza di significati dell'Immaginario. Il mondo degli oggetti concepito dalla filosofia del soggetto
è una armatura che nella dimensione del rappresentare e del produrre assicura semplicemente il contatto con il sostrato intramondano della natura. Tutto ciò che accade in queste zone di
contatto, mediato da legein e teukein, è però già dischiuso entro
un antecedente orizzonte di discorso. E questo dipende soltanto
dall'Immaginario.
Di fronte al potere dì questo magma immaginario di significati, la prassi intramondana non può acquisire nessuna autonomia, perché il concetto di linguaggio che Castoriadis impiega
non ammette una differenza fra senso e validità. Come in Heidegger la ' verità ' del dischiudimento semantico del mondo
fonda ancora la verità proposizionale degli enunciati; essa pregiudica la validità di asserzioni linguistiche in generale. Così la
prassi intramondana non può suscitare nessun processo di apprendimento. In ogni caso non vi è nessuna accumulazione di
sapere, che possa compromettere l'antecedente comprensione del
mondo e far saltare una data totalità di senso - nemmeno nelle
dimensioni della conoscenza scientifica della natura e delle forze
produttive: « È vero che il naturalmente dato delìa società si
presenta sempre come uh resistente, ma anche come un forma33
lvi, p. 442.
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bile; ciò tuttavia che resiste ed è formabile - e come - dipende dal mondo sociale di volta in volta considerato. Che i
nuclei dell'idrogeno si possano fondere, è un enunciato che ha
senso per la società presente, ma per nessun'altra» 34 • Perché
una società istituisca un determinato orizzonte di significati, è
una questione che Castoriadis deve respingere come priva di
contenuto. Non si può indagare sull'origine dell'immemorabile 35•
L'istituzione di ogni mondo è una creazione ex nihilo 36 •
Ma se il rapporto fra l'Immaginario che dischiude il mondo
e il lavoro e l'interazione è impiantato in questo modo, l'agire
autonomo non può più affatto esser pensato come prassi intramondana; Castoriadis deve assimilarla piuttosto alla prassi creatrice del linguaggio, progettante il mondo e divorante il mondo
dello stesso demiurgo sociale. Ma con ciò la prassi perde proprio quei tratti del fare umano, che Castoriadis mette a ragione
in rilievo - i tratti di un'impresa intersoggettiva dipendente dal
contesto in condizioni finite. La finitezza della prassi risale non
soltanto alla resistenza di una natura esterna formabile, bensì
anche alle limitazioni di un'esistenza storica, sociale e corporea.
Una prassi, che coincide con la creatio continua di nuove interpretazioni del mondo, con la genesi antologica, progetta essa
stessa i tempi storici e gli spazi sociali, apre essa stessa le dimensioni per possibili limitazioni. Tuttavia Castoriadis adduce quelle
figure concettuali note dalla teogonia e dalla dottrina della
scienza di Fichte, per tracciare un limite interno all'attualità
infinita di una società che istituisce se stessa nella figura della
società istituita. Come nel modello espressivistico dello spirito,
che si perde nelle sue proprie aggettivazioni, anche nel modello
antologico della società è inserito il punto di rottura previsto
dell'autoestraneazione. Se il flusso di produzione della genesi
antologica ristagna, la società istituita si irrigidisce di fronte alle
sue proprie origini: « L'estraneazione o eteronomia della società
è un'autoestranea?-ione, nella quale la società cela il suo proprio
essere come auto-istituzione e la sua essenziale temporalità » 37 •
Questa concezione ha due conseguenze incresciose. Castoriadis, in quanto assimila la prassi intramondana ad un dischiudimento del mondo linguistico ipostatizzato in storia dell'essere,
non può più localizzare la lotta politica per l'autonoma condotta
della vita - appunto quella prassi emancipativa creativo-progettante, che in definitiva importa a Castoriadis. Infatti egli deve
lvi,
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36 lvi,
37 I vi,
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o, come Heidegger, richiamare gli attori dal loro abbandono
intramondano, avido di soggettività, nell'indisponibile, e quindi
nell'eteronomia auratica di fronte all'accadere originario di una
società che istituisce se stessa: e questo sarebbe soltanto l'ironico rovesciamento della filosofia della prassi in un'altra variante
del post-strutturalismo. Oppure Castoriadis traspone l'autonomia
della prassi sociale, che non si può salvare intramondanamente,
nello stesso accadere originario; ma allora egli deve sottomettere alla produttività dischiudente il mondo del linguaggio un
lo assoluto, e ritornare effettivamente alla filosofia speculativa
della coscienza. A ciò si adatterebbe la personificazione della
società come demiurgo poietico, che genera da sé sempre nuovi
tipi di mondo. In questo caso si ripete il problema della teodicea in nuova forma: a chi dovrebbe venir attribuita la responsabilità per la caduta della società istituita dalle origini della
sua auto-istituzione, se non allo stesso creatore demiurgico del
linguaggio?
La seconda conseguenza, di gran lunga più terrena, mà altrettanto incresciosa, è il ritorno di un problema sul quale la filosofia della coscienza da Fichte fino ad Husserl si era invano affaticata: una spiegazione dell'intersoggettività della prassi sociale,
che è costretta a partire dalla premessa 9i una coscienza solitaria. Una seconda corrente dell'Immaginario Castoriadis la postula
infatti per l'inconscio individuale, che costituisce il nucleo monadico della soggettività della prima infanzia. Qui si mostra che
l'immaginario, la fantasia creatrice d'immagini guidata dall'impulso, antecede ancora perfino il linguaggio come medium formatore del mondo dell'immaginario sociale. Da questa produzione fantastica della natura interna familiare allo psicoanalista
Castoriadis, procede un mondo di volta in volta nuovo e peculiarmente privato, che nel corso clello svilt,rppo .infantile urta
con il mondo socialmente istituito e, dopo la dissoluzione del
conflitto edipico, gli viene coordinato e subordinato. Le correnti
psichiche dell'immaginario scaturiscono dalle fonti della natura
di volta in volta propria soggettiva. Esse concorrono con la corrente collettiva scaturente dalla società dell'immaginario in modo
analogo a come i mondi privati concorrono col mondo pubblico.
Gli individui socializzati non entrano fra di loro in una relazione
intersoggettiva in senso genuino. Nell'immagine del mondo socialmente istituita tutti sono apriori d'accordo, come se ciò fosse
la coscienza trascendentale; contro questa armonia prestabilita
gli individui in crescita cercano ciascuno di affermare i loro
mondi privati come monadi. Una figura per la mediazione fra
individuo e società Castoriadis non può offrirla. La società in333
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frange la monade infantile e la riforma. Il tipo del mondo socialmente istituito viene impresso sul singolo. Il processo di socializzazione viene dunque rappresentato secondo il modello della
produzione artigianale. L'individuo socializzato viene prodotto
e rimane, come in Durkheim, scisso in monade e membro della
società. Quella separazione edipica, che « per l'individuo diviene
l'inserzione stabile, ben distinta fra un mondo privato ed uno
pubblico » 38 , Castoriadis lo chiama un enigma: « Se non si
vogliono chiudere completamente gli occhi di fronte a ciò che
sono la psiche e la società, allora non si deve trascurare, che
l'individuo sociale non cresce come una pianta, bensì viene
creato/fabbricato dalla società. A tale scopo occorre certo sempre una rottura violenta con lo stadio iniziale della psiche e le
sue richieste; una rottura, che sempre soltanto un'istituzione
sociale può compiere» 39 • I conflitti intrapsichici non sono connessi internamente con quelli sociali, piuttosto la psiche e la
società stanno fra loro in una sorta di contrasto metafisica.
Meno ' enigmatica ' è la cercata mediazione fra individuo
e società se con G. H. Mead si intende lo stesso processo di
socializzazione come individuazione. Allora bisogna estendere
senza dubbio il concetto del linguaggio strutturalistico, limitato
alla dimensione logico-semantica, e concepire il linguaggio come
quel medium che al contempo inserisce ogni partecipante all'interazione come membro in una comunità di comunicazione e
inoltre lo sottomette ad una coazione di individuazione inesorabile. Fra i presupposti pragmatici dell'uso a regola d'arte delle
proposizioni grammaticali nelle azioni linguistiche vi è infatti
l'integrazione delle prospettive del parlante, dell'uditore e dell'osservatore, nonché l'intreccio di questa struttura con un sistema di prospettive sul mondo, che coordina il mondo oggettivo
con quello sociale e quello soggettivo 40 •
Se con l'aiuto di questo concetto pragmaticamente ampliato
del linguaggio si riformula il concetto della prassi nel senso dell'agire comunicativo, le caratteristiche universali della prassi non
si limitano al legein e al teukein, cioè alle condizioni bisognose
di interpretazione per il contatto con una natura che si incontra
nell'ambito funzionale dell'agire strumentale. Allora la prassi
opera piuttosto alla luce di una ragione comunicativa, che impone ai partecipanti all'interazione un orientamento verso pretese
lvi, p. 498.
lvi, p, 514.
Cfr. a tal proposito il saggio che dà il titolo a J. Habermas, Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, cit., pp. 152 sgg. (tr. it. cit., pp. 150
sgg.).
38
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di validità e quindi rende possibile un'accumulazione di sapere
che modifica l'immagine del mondo. Certo, anche nell'agire comunicativo i particolari contesti del mondo della vita sono dovuti
alla funzione dischiudente il mondo di un linguaggio, che di
volta in volta viene condivisa dagli appartenenti. E il sistema
linguistico fissa anche le condizioni della validità delle espressioni generate con il suo aiuto. Ma il rapporto interno fra senso
e validità è questa volta simmetrico: il senso di un'espressione
non pregiudica se le condizioni di validità e le corrispondenti
pretese di validità siano soddisfatte o no nella prassi intramondana, che si appropria del mondo. La prassi sociale è costituita
linguisticamente, ma anche il linguaggio deve comprovarsi attraverso questa prassi in base a ciò che avviene entro l'orizzonte
da essa dischiuso. Ma se il dischiudimento del mondo e la prassi
comprovante si presuppongono a vicenda nel mondo, le innovazioni creatrici di senso sono talmente intrecciate con i processi di apprendimento, sono entrambe a loro volta talmente
ancorate nelle strutture universali dell'agire orientato verso l'intesa, che la riproduzione di un mondo della vita si attua sempre
anche grazie alla produttività dei suoi appartenenti.
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12.
IL CONTENUTO NORMATIVO
DELLA MODERNIT A
I
La critica radicale della ragione paga per il congedo della modernità un alto prezzo. Per prima cosa questi discorsi non possono né vogliono render conto della loro propria collocazione.
Dialettica negativa, genealogia, decostruzione si sottraggono in
maniera analoga a quelle categorie, in base alle quali il sapere
moderno si è differenziato nient'affatto casualmente e che noi
oggi mettiamo alla base della nostra comprensione dei testi. Non
le si può classificare né come filosofia o come scienza, né come
teoria morale e giuridica, né come letteratura e arte. Al contempo recalcitrano contro un ritorno alle forme, dogmatiche oppure eretiche, del pensiero religioso. Vi è quindi un'incongruenza anche fra queste ' teorie ', che elevano pretese di validità
soltanto per smentirle, e il tipo della loro istituzionalizzazione
nell'impresa scientifica. Vi è un'asimmetria fra il gesto retorico
con cui questi discorsi esigono comprensione, e la trattazione
critica alla quale essi vengono sottoposti istituzionalmente, p. es.
nel quadro di una lezione accademica. Non importa se Adorno
reclama in modo paradossale valore di verità, o se Foucault si
rifiuta di trarre conseguenze da contraddizioni manifeste; non
importa se Heidegger e Derrida si sottraggono a obbligazioni di
fondazione tramite la fuga nell'esoterico o tramite la fusione del
logico con il retorico: sorge sempre una simbiosi dall'incompatibile, un amalgama, che si contrappone nel suo nucleo alla 'normale ' analisi scientifica. Il materiale ingombrante viene soltanto
trasposto in un altro posto, quando noi cambiamo il sistema di
riferimento e non trattiamo più gli stessi discorsi come scienza
o filosofia, bensì come un pezzo di letteratura. Che la critica
autoriferentesi della ragione si installi in discorsi senza luogo,
per così dire dovunque e in nessun posto, la rende pressoché
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immune contro interpretazioni concorrenti. Tali discorsi rendono
insicuri i criteri istituzionalizzati del fallibilismo; essi consentono, quando l'argomentazione è già perduta, ancor sempre
un'ultima parola: che l'opponente ha frainteso il senso dell'intero gioco linguistico, nella sua maniera di rispondere ha commesso un errore categoriale.
Sono affini fra loro le varianti di una critica della ragione
senza riguardi contro i suoi propri fondamenti anche sotto un
altro rispetto. Esse si fanno guidare da intuizioni normative, che
oltrepassano il segno di ciò che possono collocare nell' ' Altro
dalla ragione ' indirettamente evocato. Sia che la modernità
venga descritta come contesto di vita reificato e sfruttato, reso
tecnicamente disponibile o divaricato totalitariamente, dato in
lascito, omogeneizzato, incarcerato, le denunce sono sempre ispirate da una particolare sensibilità per lesioni complesse e violenze raffinate. In questa sensibilità è inscritta l'immagine di
una intersoggettività inviolata, che era dapprima balenata al
giovane Hegel come totalità etica. Con i controconcetti, impiegati in modo puramente formale, di essere e sovranità, potere,
differenza e non-identico, questa critica rinvia certamente a contenuti dell'esperienza estetica; ma i valori che ne sono derivati,
esplicitamente adoperati, della grazia e dell'illuminazione, del
rapimento estatico, dell'integrità corporea, della soddisfazione
dei desideri e della intimità indulgente, non celano il mutamento
morale, che anche questi autori tacitamente orientano verso
un'intatta prassi vitale - che non concilia soltanto con la natura interna. Tra i fondamenti normativi dichiarati e quelli
occultati, sussiste una sproporzione, che si spiega in base al
rifiuto adialettico della soggettività. Con questo principio della
modernità non vengono respinte soltanto le conseguenze vulneranti di un autoriferimento oggettivante, bensì anche quelle altre
connotazioni, che un tempo la soggettività aveva portato con sé
come promesse non mantenute: la prospettiva di una prassi
autocosciente, nella quale l'autodeterminazione solidale di tutti
dovrebbe potersi collegare con l'autentica autorealizzazione di
ciascun singolo. Viene respinto appunto ciò che una modernità
che si rende conto di se stessa aveva una volta inteso con i concetti di autocoscienza, autodeterminazione ed autorealizzazione.
Dal rifiuto totalizzante delle forme moderne di vita si spiega
un'altra debolezza di questi discorsi: interessanti in linea di
principio, essi restano indifferenziati nei risultati. I criteri in
base ai quali Hegel e Marx, e ancora Max Weber e Lukacs avevano distinto gli aspetti emancipativi-riconcilianti da quelli
repressivi-scindenti della razionalizzazione sociale, sono dive337
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nuti ottusi. La critica ha nel frattempo colto e scomposto anche
quei concetti con cui quegli aspetti si potevano tener staccati
in modo tale che diveniva visibile il loro paradossale intreccio.
Illuminismo e manipolazione, cosciente e inconscio, forze produttive e forze distruttive, autorealizzazione espressiva e desublimazione repressiva, effetti che garantiscono la libertà ed effetti
che la ricusano, verità e ideologia - tutti questi momenti confluiscono ora insieme. Essi non sono affatto connessi fra di loro
controvoglia in funesti rapporti funzionali - complici involontari in un processo contraddittorio, ricorrente attraverso il conflitto dei contraenti. Le differenze e i contrasti sono ora a tal
punto minati, anzi demoliti, che la critica, nel piatto e smorto
paesaggio di un mondo totalmente amministrato, calcolato dato
in lascito non può più comporre contrasti, sfumature, gradazioni
ambivalenti. Certamente la teoria del mondo amministrato di
Adorno o la teoria del potere di Foucault sono più produttive,
più schiettamente informative c.he le esposizioni di Heidegger
o di Derrida sulla tecnica cotpi}- supporto o sull'essenza totalitaria del politico. Ma tutte qàante sono insensibili al contenuto altamente ambivalente della modernità culturale e di quella
sociale. Questo livellamento si fa notare anche nel confronto
diacronico fra forme di vita moderne e premoderne. Gli alti
costi, che sono stati prima tanto più richiesti alla massa della
popolazione (nelle dimensioni del lavoro manuale, delle condizioni materiali di vita, e delle possibilità individuali di scelta,
della sicurezza del diritto e della procedura penale, della partecipazione politica, della formazione scolastica, ecc.), non vengono quasi notati.
È degno di nota che nelle impostazioni della critica della
ragiòne non è previsto un posto sistematico per la prassi quotidiana. Pragmatismo, fenomenologia e filosofia ermeneutica hanno elevato a rango epistemologico categorie dell'agire, del parlare e del convivere quotidiano. Marx aveva perfino caratterizzato la prassi quotidiana come il luogo nel quale il contenuto
razionale della filosofia doveva riversarsi nelle forme di vita di
una società emancipata. Ma Nietzsche ha diretto a tal punto
verso fenomeni dell'extraquotidiano lo sguardo dei suoi successori, che esso ancora soltanto passa sprezzantemente oltre la
prassi quotidiana come qualcosa di puramente derivato o inautentico. Nell'agire comunicativo, come si è visto 1, il momento
creativo della costituzione linguistica del mondo costituisce una
sindrome con i momenti cognitivo-strumentali, pratico-morali ed
l Cfr., supra, pp. 207 sgg.
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espressivi delle funzioni linguistiche intramondane dell'esposizione, della relazione interpersonale e dell'espressione soggettiva.
Nella modernità da ciascuno di questi momenti si sono differenziate ' sfere di valori ' - cioè da un lato arte, letteratura e una
critica specializzata in questioni di gusto sull'asse del dischiudimento del mondo, e dall'altro discorsi che risolvono problemi,
specializzati in questioni di verità e di giustizia, sull'asse dei
processi intramondani di apprendimento. Questi sistemi conoscitivi di arte e critica, scienza e filosofia, diritto e morale si
sono distaccati tanto più ampiamente dalla comunicazione quotidiana, quanto più strettamente e unilateralmente si sono addentrati in una sola funzione linguistica e in un solo aspetto di
validità. A causa di questa astrazione essi non devono però
essere considerati già di per sé come fenomeni sintomatici di
decadenza di una ragione centrata nel soggetto.
Al nietzscheanesimo la differenziazione tra scienza e morale
si presenta come il processo di formazione di una ragione che
ha al contempo usurpato e soffocato la forza poetico-dischiudente il mondo dell'arte. La modernità culturale gli appare come
un regno del terrore contrassegnato dai tratti totalitari di una
ragione centrata nel soggetto che sovraccarica se stessa. Da questo quadro sono esclusi tre semplici fatti. Anzitutto la circostanza, che quelle esperienze estetiche, alla cui luce soltanto
deve svelarsi la vera natura di una ragione esclusiva, dipendono
da quello stesso processo di differenziazione come la scienza e
la morale. Poi il fatto che la modernità culturale deve la sua
scissione in discorsi speciali per le questioni di gusto, di verità
e di giustizia anche ad una crescita del sapere difficile da contestare. E soprattutto il dato di fatto che soltanto le modalità
dello scambio fra questi sistemi di sapere e la prassi quotidiana
decidono se i vantaggi dell'astrazione influiscono distruttivamente
sul mondo della vita.
Dalla prospettiva di singole sfere culturali di valori la sindrome del mondo quotidiano si presenta come ' vita ' o come
'prassi' o come 'eticità', alle quali stanno di fronte l'' arte'
o la ' teoria ' o la ' morale '. Sugli specifici ruoli di mediatori
della critica e della filosofia abbiamo già parlato in un altro
contesto. All'una il rapporto fra ' arte ' e ' vita ' si presenta in
modo altrettanto problematico quanto all'altra il rapporto fra
' teoria ' e ' prassi ' o fra ' morale ' ed ' eticità '. La trasposizione immediata di sapere specializzato nelle sfere private e
pubbliche della quotidianità può da un lato mettere in pericolo
l'autonomia e il senso proprio dei sistemi di sapere, e dall'altro
lato ledere l'integrità dei contesti dei mondi della vita. Un sa339
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pere specializzato soltanto ad una pretesa di validità, che urta
in modo non specifico al contesto contro l'intera ampiezza dello
spettro di validità della prassi quotidiana, squilibra l'infrastruttura comunicativa del mondo della vita. Interventi sottocomplessi di questo tipo portano all'estetizzazione o alla scientificizzazione o alla moralizzazione di singoli ambiti della vita e
suscitano effetti, per i quali offrono esempi drastici le controculture espressivistiche, le riforme attuate tecnocraticamente o i
movimenti fondamentalistici.
Con il complicato rapporto fra culture degli esperti e del
quotidiano, non vengono certo ancora affatto toccati i più profondi paradossi della razionalizzazione sociale. Infatti qui si
tratta di una reificazione della prassi quotidiana indotta sistemicamente, sulla quale ritornerò ancora. Già i primi passi sulla
via delle differenziazioni nell'immagine del mondo della vita
delle società moderne ambiguamente razionalizzato portano però
alla coscienza quel problema, di cui vogliamo occuparci in quest'ultima lezione.
Ad una critica livellante della ragione si possono rinfacciare
le sue dedifferenziazioni soltanto in base a descrizioni che per
parte loro sono guidate da intuizioni normative. Questo contenuto normativa, se non deve rimanere arbitrario, deve potersi
acquisire e giustificare dal potenziale razionale immanente alla
prassi quotidiana. Il concetto, introdotto dapprima provvisoriamente, della ragione comunicativa, che indica oltre la ragione
soggettocentrica, deve condurre fuori dai paradossi e dagli appiattimenti di una critica della ragione che si riferisce a se stessa;
d'altra parte esso deve affermarsi contro l'impostazione concorrente di una teoria sistemica, che mette da parte la problemadca della razionalità in generale, abbandona ogni concetto di
ragione come intralcìo veteroeuropeo, ed eredita sveltamente la
filosofia del soggetto (e la teoria del potere del suo più acuto
avversario). Questa duplice posizione frontale fa della riabilitazione del concetto di ragione un'impresa doppiamente rischiosa.
Essa deve guardarsi da entrambe le parti: dall'impigliarsi nuovamente nelle trappole di un pensiero centrato nel soggetto, al
quale non è riuscito di tener libera la coazione spontanea della
ragione tanto dai tratti totalitari di una ragione strumentale,
che fa oggetto tutto intorno a sé ed anche se stessa, quanto dai
tratti totalizzanti di una ragione inclusiva, che si incorpora tutto
ed alla fine trionfa come unità su tutte le differenze. La filosofia
della prassi voleva ricavare i contenuti normativi della modernità da una ragione incarnata nell'evento mediatore della prassi
sociale. La prospettiva della totalità che è inserita in questo con340
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cetto, si modifica se il concetto fondamentale dell'agire comunicativo sostituisce quello del lavoro sociale?
II
Secondo Marx la prassi sociale si estende nelle dimensioni del
tempo storico e dello spazio sociale e media la natura soggettiva
dei singoli cooperanti nell'orizzonte di una natura in sé circostante, che comprende cosmicamente anche la storia del genere
umano, con la natura esterna oggettivata in interventi mediati
dal corpo. Il processo mediatore del lavoro si riferisce dunque
alla natura sotto tre diversi aspetti - alla vissuta natura bisognosa dei soggetti, alla natura oggettiva colta ed elaborata oggettivamente, ed infine alla natura in sé presupposta nel lavoro
come orizzonte e fondamento. Con ciò il lavoro, come abbiamo
visto nella terza lezione, viene interpretato in senso estetico-produttivo e rappresentato come processo circolare dell'alienazione,
aggettivazione e appropriazione di forze essenziali. Pertanto il
processo dell'automediazione della natura assume in sé l'autorealizzazione dei soggetti attivi che fungono in esso. Entrambi
sono processi dell'autoproduzione; essi si producono dai loro
propri prodotti. In egual modo la società che procede da questa
prassi viene concepita come prodotto delle forze produttive e
delle forme di produzione creati in essa e da essa. La figura
ideale della filosofia della prassi costringe a far dissolvere i momenti dapprima distintamente riferiti l'uno all'altro del lavoro
e della natura nella totalità di un autoriferentesi processo di
riproduzione. È alla fine la natura stessa, che riproduce se stessa
tramite la riproduzione del macrosoggetto della società e dei
soggetti in essa attivi. Anche Marx non si è sottratto all'idea
hegeliana della totalità. Ciò si modifica, se la prassi sociale non
viene più pensata primariamente come lavoro.
Con i concetti, che si integrano a vicenda, dell'agire comunicativo e del mondo della vita, viene introdotta una differenza fra
determinazioni, che - diversamente dalla differenza fra lavoro e
natura - non si dissolvono di nuovo come momenti in un'unità
superiore. Certo, la riproduzione del mondo della vita si nutre
dei contributi dell'agire comunicativo, mentre questo a sua volta
dipende dalle risorse del mondo della vita 2 • Ma noi non dobbiamo rappresentarci questo processo circolare secondo il mo2 Cfr. fig. 23 in
vol. II, p. 217.
J.
Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, cit.,
341
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dello dell'autoproduzione come una produzione dai propri prodotti e associarlo addirittura con l'autorealizzazione. Altrimenti
noi ipostatizzeremmo il processo di intesa - come nella filosofia
della prassi il processo lavorativo - quale accadere di mediazione, e dilateremmo il mondo della vita - come nella filosofia
della riflessione lo spirito - a totalità di un soggetto di livello
superiore. La differenza fra mondo della vita e agire comunicativo non viene ripresa in un'unità; essa si approfondisce perfino
nella misura in cui la riproduzione del mondo della vita non
viene più guidata attraverso il medium dell'agire orientato verso
l'intesa, bensì addossata alle operazioni interpretative degli stessi
attori. Nella misura in cui le decisioni sì/no, che reggono la
prassi comunicativa quotidiana, non risalgono ad un'intesa normativa imputata, bensì provengono dai processi cooperativi di
interpretazione degli stessi partecipanti, le forme di vita concrete e le strutture generali del mondo della vita si separano
fra loro. Tra le totalità che si presentano al plurale delle forme
di vita sussistono certamente somiglianze di famiglia; esse si
sovrappongono e si intrecciano, ma non sono di nuovo ricomprese da una supertotalità. Infatti molteplicità e dispersione si
formano nel corso di un processo di astrazione, per il cui tramite i contenuti dei particolari mondi della vita si distaccano
sempre più fortemente dalle strutture generali del mondo della
vita.
Considerato come risorsa, il mondo della vita si articola
secondo le competenze ' rifornite ' dell'azione linguistica, cioè
dei suoi elementi proposizionali, illocutivi e intenzionali, in cultura, società e persona. Io chiamo cultura 3 quella provvista di
sapere, dal quale gli agenti comunicativamente, nell'intendersi
sopra qualcosa nel mondo, si procurano interpretazioni produttive di consenso. Chiamo società (nel senso stretto di una componente del mondo della vita) quegli ordinamenti legittimi, dai
quali coloro che agiscono comunicativamente, entrando in relazioni interpersonali, attingono una solidarietà fondata su appartenenze di gruppo. Personalità serve quale parola artificiale per
competenze acquisite, che rendono un soggetto capace di parlare
e di agire, e con ciò lo mettono in grado di partecipare, in un
contesto dato di volta in volta, a processi di intesa, e di affermare
la propria identità in rapporti mutevoli di interazione. Questa
strategia concettuale rompe con la concezione tradizionale, mantenuta anche dalla filosofia del soggetto e della prassi, che le
3 Per quanto segue mi baso sulla mia esposizione in
vol. Il, p. 209.
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J. Habermas, op. cit.,
società sono composte da collettivi e questi a loro volta da individui. Individui e gruppi sono soltanto in senso metaforico
' appartenenti ' ad un mondo della vita.
Tuttavia la riproduzione simbolica del mondo della vita si
compie come un processo circolare. I nuclei strutturali del mondo della vita vengono ' resi possibili ' a loro volta da corrispondenti processi di riproduzione, e questi per parte loro da contributi dell'agire comunicativo. La riproduzione culturale assicura che (nella dimensione semantica) situazioni che si presentano di bel nuovo vengono associate alle condizioni del mondo
esistenti: essa assicura la continuità della tradizione ed una
coerenza del sapere sufficiente per il bisogno di intesa della
prassi quotidiana. L'integrazione sociale assicura che situazioni
che si presentano di bel nuovo (nella dimensione dello spazio
sociale) vengono associate alle esistenti condizioni del mondo;
essa procura il coordinamento di azioni tramite relazioni interpersonali legittimamente regolate e perpetua l'identità di gruppi.
La socializzazione degli appartenenti assicura infine che situazioni che si presentano di bel nuovo (nella dimensione del tempo
storico) vengono associate alle esistenti condizioni del mondo;
essa assicura per le generazioni successive l'acquisizione di capacità generalizzate d'azione e procura l'adattamento di storie di
vita individuali e forme di vita collettive. In questi tre processi
di riproduzione si rinnovano dunque schemi interpretativi capaci
di consenso (o 'sapere valido'), relazioni interpersonali legittimamente ordinate (o ' solidarietà') nonché capacità di interazione (o 'identità personali').
Se ciò viene accettato come una descrizione teoretica della
riproduzione simbolica equilibrata e non perturbata del mondo
della vita, noi possiamo, anzitutto, studiare a fondo la questione
in un esperimento mentale: in quale direzione dovrebbero variare le strutture del mondo della vita, se la riproduzione non
perturbata potesse esser garantita sempre meno da scorte tradizionalmente assuefatte, comprovate e consentite di una concreta
forma di vita, bensì dovesse essere sempre più garantita dai
consensi rischiosamente raggiunti, cioè dalle prestazioni cooperative di coloro stessi che agiscono comunicativamente.
Questa è di certo una proiezione idealizzante, ma non del
tutto arbitraria. Infatti dinanzi a questo sfondo idealsperimentale si delineano fattuali linee di sviluppo di moderni mondi
della vita: l'astrazione delle strutture universali del mondo della
vita dalle configurazioni di volta in volta particolari delle totalità di forme di vita che si presentano soltanto al plurale. Sul
piano culturale i nuclei tradizionali che garantiscono l'identità
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si separano dai contenuti concreti, con cui essi una volta erano
strettamente intessuti in immagini mitiche del mondo. Essi si
contraggono in elementi astratti come concetti del mondo, presupposti della .comunicazione, procedimenti argomentativi, valori
fondamentali astratti e così via. Sul piano della società i principi
universali si cristallizzano da quei contesti particolari, nei quali
essi un tempo erano insiti nelle società primitive. Nelle società
moderne si affermano principi dell'ordine giuridico e della morale, che sempre meno sono improntati da forme di vita particolari. Sul piano della personalità, le strutture cognitive acquisite nel processo di socializzazione si sciolgono sempre più dai
contenuti del sapere culturale, con cui una volta erano integrati
nel ' pensiero concreto '. Gli oggetti sui quali si possono esercitare competenze formali diventano sempre più variabili. Se in
queste tendenze noi prendìamo in considerazione soltanto quei
gradi di libertà, che acquisiscono le componenti strutturali del
mondo della vita, ne risultano come punti prospettici: per la
cultura una condizione di continua revisione di tradizioni fluidificate, cioè divenute riflessive; per la società una condizione
di dipendenza degli ordini legittimi da procedimenti formali, e
in ultima istanza discorsivi, della fondazione delle norme; per
la personalità, una condizione del rischioso autocontrollo di
un'altamente astratta identità dell'Io. Ne sorgono coazioni strutturali alla dissoluzione critica di sapere garantito, alla posizione
di valori e norme generalizzati, e all'individuazione autocontrollata (giacché le astratte identità dell'Io rinviano ad un'autorealizzazione in progetti autonomi di vita).
Questa separazione di forma e contenuto rammenta da lontano le determinazioni ricche di tradizione di una ' prassi razionale': l'autocoscienza ritorna nuovamente nella figura di una
cultura divenuta riflessiva, l'autodeterminazione in valori e norme generalizzate, l'autorealizzazione nell'individuazione progredita dei soggetti socializzati. Ma la crescita in riflessività, universalismo e individuazione, che i nuclei strutturali del mondo
della vita sperimentano nel corso della loro differenziazione, ora
non si adatta più alla descrizione di un aumento nelle dimensioni dell'autoriferimento di un soggetto. E soltanto sotto questa
descrizione di filosofia del soggetto la razionalizzazione sociale
del dispiegarsi del potenziale razionale della pmssi sociale poteva essere rappresentata come l'autoriflessione di un macrosoggetto. La teoria della comunicazione può fare a meno di questa
figura ideale. Ora si attuano il divenir riflessivo della cultura,
la generalizzazione di norme e valori, l'acuita individuazione dei
soggetti socializzati, ora si potenziano la coscienza critica, la
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formazione autonoma della volontà, l'individuazione; si rafforzano dunque quei momenti di razionalità, un tempo attribuiti
alla prassi di soggetti, nelle condizioni di una rete sempre più
ampia e sempre più finemente intessuta di intersoggettività linguisticamente prodotta. Razionalizzazione del mondo della vita
significa differenziazione e condensazione al contempo - la condensazione della tessitura fluttuante di un tessuto di fili intersoggettivi, che tiene insieme gli elementi sempre più nettamente
differenziati della cultura, della società e della persona al contempo. La modalità di riproduzione del mondo della vita non
si modifica certamente in modo lineare nella direzione caratterizzata dalle parole-chiave di riflessività, universalismo astratto
e individuazione. Il mondo della vita razionalizzato assicura
piuttosto la continuità di contesti di senso con i mezzi discontinui della critica; tutela il contesto socialintegrativo con i mezzi
rischiosi dell'universalismo individualisticamente isolante; e sublima, con mezzi di una socializzazione estremamente individuante, il potere sopraffattore del rapporto genealogico in una
universalità fragile e vulnerabile. Quanto più astrattamente le
str4tture differenziate del mondo della vita operano nelle sempre più particolarizzate forme di vita, soltanto in questi mezzi
si dii;piega il potenziale razionale dell'agire orientato verso l'intesa. Ciò può esser chiarito dal seguente esperimento ideale"
Nel campo semantico le continuità non dovrebbe~\) lacerarsi
nemmeno se la riproduzione culturale potesse procedere ancora
soltanto tramite la critica. Il dispiegamento dei potenziali di
negazione dell'intesa linguistica nel mondo della vita strutturalmente differenziato diviene la condizione necessaria affinché i
testi si colleghino fra di loro e le tradizioni - che vivono appunto della forza della convinzione - si possano proseguire.
Altrettanto poco nello spazio sociale dovrebbe lacerarsi quella
rete intersoggettiva annodata da reciproci rapporti di riconoscii't1ento, se l'integrazione sociale potesse funzionare ancora soltanto tramite un universalismo astratto e al contempo individualisticamente orientato. I procedimenti della formazione discorsiva
della volontà stabiliti nei mondi della vita strutturalmente differenziati sono destinati ad assicurare appunto mediante l'eguale
considerazione degli interessi di ciascun singolo il legame sociale
di tutti con tutti. Quale partecipante a discorsi infatti il singolo
viene interamente affidato. a se stesso, con il suo insostituibile
sì o no, soltanto in base al presupposto che egli rimanga inserito, tramite la ricerca cooperativa della verità, in una comunità
universale. Nemmeno la sostanza dell'universale nella successione storica delle generazioni dovrebbe dissolversi in nulla, se
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i processi di socializzazione potessero essere validi ancora soltanto sulla soglia di estrema individuazione. Nel mondo della
vita differenziato strutturalmente viene riconosciuto un principio,
efficace fin dall'inizio, semplicemente come tale: che la socializzazione si compie nello stesso rapporto come individuazione,
come all'inverso gli individui si costituiscono socialmente. Col
sistema dei pronomi personali è inserita nell'uso linguistico,
orientato verso l'intesa, dell'interazione socializzatrice una coazione inesorabile all'individuazione; tramite lo stesso medium
linguistico entra però al contempo in azione la forza dell'intersoggettività socializzante.
Le figure di pensiero della teoria dell'intersoggettività rendono dunque comprensibile perché l'esame critico e la coscienza
fallibilistica persino rafforzino la continuità di una tradizione,
che ha perduto la sua naturalità; perché procedimenti astrattiuniversalistici della formazione discorsiva della volontà persino
consolidino la solidarietà in contesti di vita, che non sono più
legittimati tradizionalmente; perché margini ampliati per l'individuazione e l'autorealizzazione perfino condensino e stabilizzino
un processo dell'associazione, che si è distaccato da modelli fissi
della socializzazione.
Se in tal modo si ricupera il contenuto normativo della modernità, che sfugge non già alle intenzioni, ma bensì ai concetti
della filosofia della prassi, si distaccano certo quei tre momenti
che una volta erano stati combinati insieme nella Dialettica dell'Illuminismo: la soggettività dovette determinare, come il principio della modernità, anche il suo contenuto normativo; al contempo la ragione centrata nel soggetto condusse ad astrazioni,
che scissero la totalità etica; e tuttavia unicamente l'autoriflessione emergente dalla soggettività e mirante oltre le sue limitazioni dovette conservarsi come potere della riconciliazione. La
filosofia della prassi aveva fatto proprio questo programma a
modo suo. Per Marx l'analisi dell'antagonismo di classe, il suo
superamento rivoluzionario e la liberazione del contenuto emancipativo delle forze produttive accumulate costituivano tre momenti collegati da concetti fondamentali. Sotto questo rispetto
il concetto di ragione derivato dall'intersoggettività prodotta linguisticamente da strutture, concretizzata in base a processi di
razionalizzazione del mondo della vita, non offre nessun equivalente per il concetto usato nella filosofia della storia di una
prassi in sé razionale. Non appena abbandoniamo la comprensione della società propria della filosofia della prassi come di
un macrosoggetto autoreferenziale, che include i soggetti singoli,
vengono a cadere le corrispondenti rappresentazioni-modello per
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la diagnosi e il padroneggiamento delle crlSl: sctsstone e rivoluzione. Dato che la successiva liberazione del potenziale razionale implicito nell'agire comunicativo non è più pensata come
autoriflessione in grande, questa determinazione del contenuto
normath;o della modernità non può pregiudicare né i mezzi concettuali della diagnosi della crisi né il tipo del padroneggiamento delle crisi.
Con il grado della razionalizzazione di un mondo della vita
non crescono affatto le probabilità di processi di riproduzione
liberi da conflitti - semplicemente si sposta il livello sul quale
i conflitti possono presentarsi. Con la differenziazione delle strutture del mondo della vita si moltiplicano soltanto le forme fenomeniche delle patologie sociali, a seconda di quale componente
strutturale sia insufficientemente procurata: da qualche lato
perdita di senso, condizioni anomiche e psicopatologie sono le
classi più appariscenti, ma non uniche, di sintomi 4 • Così le cause
delle patologie della società, che, nel modello della scissione di
un macrosoggetto, possono essere ancora raccolte intorno all'antagonismo di classe, si scindono in contingenze storiche ampiamente disseminate. I tratti patologici delle società moderne si
combinano in figure ancora soltanto nella misura in cui si rende
osservabile una preponderanza delle forme economiche e burocratiche, in genere cognitivo-strumentali della razionalità. Il profilo dentellato di potenziali di razionalità disegualmente sfruttati scaccia dalla istanza esplicativa il processo circolare paralizzato dell'automediazione di un macrosoggetto scisso 5 •
t chiaro che con tali riflessioni non tocchiamo ancora affatto
la questione da cui la filosofia della prassi ha preso le mosse.
Finché noi, come finora, non prendiamo in considerazione la
riproduzione materiale del mondo della vita, non raggiungiamo
neppure il vecchio livello problematico. Marx aveva appunto
scelto il ' lavoro ' come concetto fondamentale, perché egli poteva osservare come le strutture della società borghese erano
4 Vedi fig. 22 in J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, cit.,
vol. Il, p. 215 (tr. it. cit., vol. Il, p. 737).
5 Le ideologie, che coprono gli antagonismi respinti, non si lasciano più
ascrivere alla falsa coscienza di collettivi; vengono ricondotte ai modelli di
una comunicazione quotidiana sistematicamente distorta. Qui, dove l'organizzazione esterna del discorso (Rede) trasmette all'organizzazione interna un'impronta che non si può nascondere in altro modo, e deforma questa in modo
tale che i nessi interni di significato e validità, significato ed intenzione, significato ed effettuazione dell'azione si dissolvono (cfr. J. Habermas, Vberlegungen
zur Kommunikationspathologie, in Vorstudien, cit., pp. 266 sgg.); qui dunque,
nella comunicazione alterata, la totalità etica scissa di Hegel e la prassi estraniata di Marx si fanno riconoscere come forme di un'intersoggettività mutilata.
Su questo piano dovrebbero essere ricuperate con i mezzi della pragmatica formale anche le analisi del discorso di Foucault.
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sempre più fortemente improntate dal lavoro astratto, cioè dal
tipo di un lavoro retribuito controllato tramite il mercato, valorizzato capitalisticamente e organizzato imprenditorialmente.
Questa tendenza si è nel frattempo chiaramente indebolita 6 •
Ma con ciò il tipo di patologia sociale, che Marx aveva analizzato in base all'astrazione reale del lavoro estraniato, non è
scomparso.
III
L'impostazione della teoria della comunicazione sembra poter
salvare il contenuto normativa della modernità soltanto al prezzo
di astrazioni idealistiche. Ancora una volta si eleva il sospetto
contro il purismo della pura ragione comunicativa - questa
volta contro una descrizione astratta di mondi della vita razionalizzati, che non rende alcun conto delle coazioni della riproduzione materiale. Per dissipare questo sospetto, dobbiamo mostrare che la teoria della comunicazione può fornire il suo contributo alla spiegazione di come nella modernità un'economia
organizzata in base al mercato si intreccia funzionalmente con
lo stato monopolizzatore della violenza, si autonomizza rispetto
al mondo della vita come un pezzo di socialità libera da norme
e contrappone ai suoi imperativi razionali propri imperativi fondati nella conservazione del sistema. Questo conflitto fra imperativi sistemici e imperativi del mondo della vita Marx per primo l'ha analizzato nella forma di una dialettica di lavoro morto
e lavoro vivo, lavoro astratto e concreto, e illustrato efficacemente in base al materiale della storia sociale sull'irruzione del
nuovo modo di produzione nei tradizionali mondi della vita. Il
tipo di razionalità sistemica che è divenuto per la prima volta
evidente nella logica peculiare dell'autovalorizzazione del capitale si è indubbiamente nel frattempo impadronito anche di altri
ambiti d'azione.
I mondi della vita si possono differenziare strutturalmente
ancora così ampiamente, possono formare per gli ambiti funzionali della riproduzione culturale, dell'integrazione sociale e della
socializzazione sistemi parziali altamente specializzati (e parti
di parti di sottosistemi): la complessità di ogni mondo della
vita è strettamente limitata dalla scarsa portata del meccanismo
6 C. O fie, Arbeit als soziologische Schliisselkategorie?, in Arbeitsgesellschaft, Frankfurt a. M. 1984, pp. 13 sgg.
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di intesa. Nella misura in cui un mondo della vita si razionalizza, cresce il dispendio di intesa che viene addossato agli stessi
agenti comunicativi. Con ciò cresce al contempo il rischio di
dissenso di una comunicazione che produce effetti di collegamento soltanto tramite la duplice negazione di pretese di validità. Il linguaggio normale è un meccanismo di coordinamento
dell'azione rischioso, e al contempo dispendioso, immobile, limitato nella sua capacità di prestazione. Il significato di singoli
atti linguistici non si lascia infatti sganciare dal complesso orizzonte di senso del mondo della vita; esso rimane intessuto con
il sapere di sfondo intuitivamente presente dei partecipanti
all'interazione. L'abbondanza di connotazioni, la ricchezza di
funzioni e la capacità di variazione dell'uso linguistico orientato
verso l'intesa è soltanto il rovescio di un riferimento alla totalità, che non ammette nessun ampliamento arbitrario della capacità di intesa della prassi quotidiana.
Dato che i mondi della vita possono permettersi soltanto un
limitato livello di dispendio di coordinazione e di intesa, ad un
determinato livello di complessità il linguaggio corrente deve
essere sgravato con quella sorta di linguaggi speciali, che Parsons
ha indagato in base all'esempio del denaro. Un effetto di sgravio
subentra quando il medium del coordinamento dell'azione non
deve venir messo in opera contemporaneamente per tutte le funzioni linguistiche. Con la sostituzione parziale del linguaggio
corrente si riduce anche il legame delle azioni controllate comunicativamente con contesti del mondo della vita. I processi sociali in tal modo liberati vengono ' smondanizzati ', cioè liberati
da quei riferimenti alla totalità e da quelle strutture dell'intersoggettività, per il cui tramite la cultura, la società e la personalità sono intrecciate fra di loro. Per un tale sgravio si offrono
in particolare funzioni della riproduzione materiale, perché queste non hanno bisogno di essere soddisfatte per sé dall'agire
comunicativo. Modificazioni delle condizioni nel substrato materiale risalgono appunto direttamente ad eventi e conseguenze
aggregate di interventi finalistici nel mondo oggettivo. Certamente anche queste azioni teleologiche abbisognano di coordinazione; esse devono essere integrate socialmente. Ma l'integrazione può procedere soltanto attraverso un linguaggio impoverito e standardizzato, che coordina azioni specificamente funzionali, ad esempio la produzione e distribuzione di beni e servizi,
senza aggravare l'integrazione sociale con il dispendio di processi di intesa rischiosi e antieconomici, né riaccoppiarla attraverso il medium del linguaggio corrente con processi della tradizione culturale e della socializzazione. Per queste condizioni
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di un linguaggio di controllo codificato in modo speciale è evidentemente sufficiente il medium denaro. Esso si è ramificato
dal linguaggio normale come un codice speciale orientato su
situazioni standard (dello scambio), che per via di una inserita
struttura di preferenza (di offerta e domanda) condiziona in
modo efficace alla coordinazione decisioni d'azione, senza dover
ricorrere alle risorse del mondo della vita.
Ma il denaro rende pos'sibile non soltanto forme di interazione specificamente smondanizzate, bensì la formazione di un
sistema parziale specificamente funzionale, che svolge le sue relazioni con l'ambiente tramite il denaro. Dal punto di vista storico,
con il capitalismo è nato un sistema economico che regola tramite canali monetari tanto il traffico interno quanto lo scambio
con le sue circostanze non economiche (il bilancio privato e lo
stato). L'istituzionalizzazione del lavoro salariato da una parte,
dello stato fiscale dall'altra fu per il nuovo modo di produzione
altrettanto costitutivo quanto la forma di organizzazione dell'impresa capitalistica all'interno del sistema economico. Nella
misura in cui il processo produttivo è stato riorganizzato sul
lavoro salariato e l'apparato statale riaccoppiato tramite le entrate fiscali degli occupati con la produzione, si sono formati
ambienti complementari. Da un lato l'apparato statale divenne
dipendente da un sistema economico controllato da media: ciò
condusse fra l'altro a ciò, che il potere legato ad uffici e a persone è stato assimilato alla struttura di un medium di controllo,
che dunque il potere è stato assimilato al denaro. Dall'altro lato
le forme tradizionali del lavoro e della vita si dissolsero sotto
l'intervento del lavoro acquisitivo organizzato in forma di impresa. La plebeizzazione della popolazione contadina e la proletarizzazione delle maestranze concentrate in molti modi nelle
città divenne il primo caso esemplare di una reificazione della
prassi quotidiana indotta dal sistema.
Con i processi di scambio che avvengono tramite media
nasce nelle società moderne un terzo livello di rapporti funzionali divenuti autonomi - sopra il livello delle interazioni semplici come pure al di sopra del livello delle forme di organizzazione ancora legate al mondo della vita. I rapporti di interazione autonomizzati in sottosistemi, che vanno oltre l'orizzonte
del mondo della vita, sì coagulano nella sec~nda natura di una
socialità libera da norme. Questo sganciamento fra sistema e
mondo della vita viene esperito all'interno dei moderni mondi
della vita come una cosificazione di forme di vita. A questa
esperienza fondamentale Hegel ha reagito con il concetto del
'positivo' e con l'idea di una totalità etica scissa; Marx ha
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iniziato più specificamente con il lavoro industriale estraniato
e l'antagonismo di classi. In base a premesse di filosofia del soggetto entrambi sottovalutano senza dubbio il senso proprio degli
ambiti d'azione sistemicamente integrati, che si distaccano da
strutture di intersoggettività nella misura in cui esse non mostrano più nessuna analogia strutturale con gli ambiti d'azione
socialintegrati, differenziati all'interno di un mondo della vita.
Per Hegel e per Marx il sistema dei bisogni o la società capitalistica procedevano da processi di astrazione, che rinviano
ancora a totalità etica o prassi razionale e restano soggetti alle
loro strutture. Le astrazioni costituiscono momenti non indipendenti nell'autoriferimento e nell'automovimento di un soggetto
di grado superiore, nel quale esse devono anche di nuovo sfociare. In Marx questo superamento assume la forma di una
prassi rivoluzionaria, che infrange la peculiarità sistemica dell'autovalorizzazione del capitale, ricupera nuovamente il processo economico autonomizzato nell'orizzonte del mondo della
vita e redime il regno della libertà dall'imposizione del regno
della necessità. La rivoluzione nella proprietà privata dei mezzi
di produzione deve colpire al contempo quel fondamento istituzionale del medium, per il cui tramite si è differenziata l'economia capitalistica. Essa deve restituire la sua spontaneità al
mondo della vita irrigidito sotto la legge del valore; nello stesso
momento l'apparenza oggettiva del capitale si dileguerà in nulla.
Questa fusione degli ambiti d'azione cosificati sistemicamente
nello spontaneo autoriferimento dello spirito o della società si
è già imbattuto, come si è visto, presso gli scolari hegeliani di
destra della prima generazione, in aspre contraddizioni. Contro
la dedifferenziazione di stato e società essi hanno insistito sulla
distinzione oggettiva fra sistema sociale e soggetto statale. I loro
successori neoconservatori imprimono alla tesi già una svolta
verso l'affermativo. Hans Freyer e Joachim Ritter vedono nella
dinamica della cosificazione della cultura e della società soltanto
il rovescio della costituzione di un ambito auspicabile di libertà
soggettiva. Gehlen critica anche questo ancora come una sfera
di vuota soggettività, affrancata da tutti gli imperativi oggettivi.
Perfino coloro che al seguito di Lukacs tengono fermo il concetto della reificazione, concordano sempre di più con i loro
oppositori nella descrizione; sempre più fortemente essi sono
impressionati dall'impotenza dei soggetti di fronte ai processi
circolari non influenzabili di sistemi autoriferentesi. Non fa quasi
più alcuna differenza, se l'uno accusa come totalità negativa ciò
che l'altro celebra come cristallizzazione, se l'uno denuncia come
cosificazione ciò che l'altro fissa per iscritto tecnocraticamente
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come legalità oggettiva. Questa tendenza della diagnosi del nostro tempo in termini di teoria della società corre da decenni
verso il punto che il funzionalismo sistemico eleva a suo principio: esso fa imputridire il soggetto stesso in sistemi. Esso suggella tacitamente 'la fine dell'individuo', che Adorno aveva
ancora isolato negativo-dialetticamente ed esorcizzato come destino autoinflitto. N. Luhmann presuppone semplicemente che
le strutture dell'intersoggettività si disgreghino, che gli individui
siano tratti fuori dal loro mondo della vita - che sistemi sociali
e personali costituiscano ambienti l'uno per l'altro 7 • La condizione barbarica, che Marx aveva predetto per il caso del fallimento della prassi rivoluzionaria, è contrassegnata da una completa sussunzione del mondo della vita sotto gli imperativi di
un processo di valorizzazione sganciato da valori d'uso e dal
lavoro concreto. Il funzionalismo sistemico prende impassibile
le mosse dal fatto che questa condizione è già subentrata, e precisamente non soltanto nell'ambito economico dell'economia
capitalistica, bensì nell'atrio di tutti i sistemi di funzioni. Il
mondo della vita marginalizzato potrebbe sopravvivere soltanto
se esso per parte sua si trasformasse in un sottosistema controllato dai media, e lasciasse dietro di sé come una pelle di serpente
la prassi comunicativa quotidiana.
Nella sua versione luhmanniana, il funzionalismo sistemico
raccoglie da un lato l'eredità della filosofia del soggetto: esso
sostituisce il soggetto autoriferentesi con il sistema autoriferentesi; dall'altro lato esso radicalizza la critica nietzschiana della
ragione: con il riferimento alla totalità del mondo della vita
esso ingloba ogni tipo di pretesa della ragione 8 •
7 Cfr., in/ra, l'excursus su Luhmann, pp. 366 sgg.
8 Che anche Luhmann, come i critici della ragione si trovi a seguire Nietzsche, si può comprendere meglio, se si fa derivare la totalizzazione realizzata
da Nietzsche, della semplice critica dell'ideologia, ancora una volta a partire da
un angolo visuale di filosofia del soggetto. A questo è di grande utilità una riflessione di Dieter Henrich sulla finzione e sulla verità. Punto di partenza è
quel contesto immaginativo, costituito come necessario, valido secondo propri
criteri, in sé coerente, di un soggetto conoscitivo che opera riferendosi a se
stesso. Questo nesso razionale di <<per sé >> può svelarsi <<per noi>>, un osservatore esterno, come un mondo fittizio, solo quando gli << è concesso di essere
descritto >> in .un contesto che gli fa da schermo e che è inaccessibile << non
come conoscenza, bensì solo come strumento per agire efficacemente in un
senso >>. Il critico smascherante può naturalmente distanziarsi da un mondo
fittizio, solo mentre Io conferma come un contesto di senso coattivamente costituito, non criticabile dall'interno e, a tale riguardo, razionale, e se non di
questo criterio, pure si appropria del criterio di razionalità in genere: << L'intenzione critica può predominare soltanto finché la razionalità nella sua propria
legittima pretesa era in fondo ancora naturale. Fino allora la critica delle funzioni poteva esser considerata anche come la via sulla quale alla fine si poteva
aprire la strada ad una razionalità libera da finzioni. Ma questa forma della
critica può anche ritorcersi contro tutto l'insieme delle aspettazioni, che erano
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Che Luhmann esaurisca il contenuto di riflessione di queste
due contrapposte tradizioni e metta insieme i motivi di pensiero
di Kant e di Nietzsche in un gioco linguistico cibernetico, connota il li vello sul quale egli stabilisce la teoria sistemica della
connesse con la razionalità in quanto tale. [ ...] Essa diviene allora una nuova
forma della fondazione giustificante per il fingere le stesse finzioni » (D. Henrich, Versuch iiber Fiktion und Wahrheit, in Poetik und Hermeneutik, vol. X,
Monaco 1984, p. 513).
Il critico totale dell'ideologia che compie questo passo senza riserva, non
può dipingere la sua iniziativa in modo più naiv (primitivo), che regolata secondo verità; egli identifica ora la propria vita cosciente con la produttività e
la libertà di una potenza della vita, creatrice di finzioni, che si trova alla base.
A questo punto si diramano ad ogni modo i sentieri. O il compito della critica
si allarga sull'intero di una ragione ostile alle funzioni, che con grande energia
criminale r.eprime, esclude e proscrive ciò che potrebbe interrompere il circolo
chiuso della sua soggettività autoreferente e che potrebbe distanziarla da se
stessa. Per questa radicale critica della ragione la validità della verità può presentarsi ancora solo in ambito oggettivo - essa stessa si procura la propria
autenticazione dall'orizzonte delle forze vitali, che producono finzioni, vale a
dire dall'orizzonte di esperienza estetico. A questo, fino a Derrida divenir-estetico non confessato, portato avanti paradossalmente, si offre naturalmente un'alternativa. Si può portar avanti il pensiero che si trova al livello che viene
raggiunto con il secondo gradino della critica della ideologia, in un'altra direzione, non appena si abbandona il proposito della stessa critica. Allora l'interesse può rivolgersi in particolare a come i soggetti si auspicano nella loro originaria produttività e libertà, tramite le finzioni convenienti alla vita, di un
mondo di volta in volta costruito in modo autoreferenziale. Questa ricerca
sfrutta, per così dire, frontalmente, la riflessione dedotta per mezzo della seconda riflessione << Dimensione di un accadere, che è per sua natura solo puramente fattuale, ma che ha la caratteristica di necessitare della illusione del discernimento» (lvi, p. 514). L'oggetto non è ulteriormente la ragione negatrice
di finzioni, ma la poiesis dell'autoconservazione che aumenta la vita di soggetti,
i quali vivono con e delle loro finzioni - da affermare solo grazie alla loro
funzione.
Questo significa, nello stesso tempo, una affermazione funzionalistica della
validità della verità, che è assolutamente costitutiva per la riproduzione di una
vita piena di senso. Proprio questa validità della verità, condotta sulla prospettiva del rispettivo soggetto deve - non più, ma neppure di meno - prendere
in considerazione la stessa teoria, che si è specializzata su una tale conoscenza
della riproduzione di un mondo sensato. La teoria deve precisamente intendersi
come prodotto della assicurazione di stabilità autoincrementantesi, che si riproduce solo grazie ad un mondo per sé valido fittiziamente. La visione prospettica del mondo perde una parte del suo sgomento, quando non vi pensiamo
accanto un soggetto qualsiasi, bensì ad un soggetto conoscitivo altamente specializzato, educato all'autoconoscenza. Questo corrisponde, cioè, all'incirca all'autoapplicazione della teoria sistemica, alla qcale la teoria della società, come
compimento di un sistema parziale della società orientato ad una riduzione della
complessità, si relativizza. Luhmann fa questa mossa. Luhmann utilizza i concetti fondamentali della cibernetica e della generale teoria sistemica, custodite
nella biologia, per combinare in modo originale le idee di Kant e di Nietzsche.
Queste prestazioni costitutrici del mondo di un soggetto trascendentale, che ha
perso la sua condizione congedata dal mondo ed è sceso al gradino dei soggetti
empirici, vengono riconcettualizzate come le prestazioni di un sistema conforme
al senso, operante in modo autoreferenziale, capace di una rappresentazione interna del suo ambiente. La produttività creatrice di finzioni dell'autoconservazione dei soggetti, che aumenta la vita, per la quale ha perso senso la differenza
fra verità e illusione, viene riconcettualizzata come l'assicurazione di stabilità
superatrice della complessità, incrementatrice della propria complessità, di un
sistema utilizzatore di senso.
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società. Luhmann trasferisce le stesse qualità, che Foucault aveva
attribuito, servendosi di un concetto trascendental-storicistico di
potere, alle formazioni di discorsi, a sistemi operanti autoreferenzialmente, elaboranti senso 9 • Siccome con il concetto di ragione liquida anche l'intenzione della critica della ragione, egli
può volgere in descrittivo anche tutti quegli enunciati, che Foucault aveva inteso ancora in senso denunciatorio. Sotto questo
rispetto Luhmann spinge all'estremo l'affermazione neoconservatrice della modernità sociale, anche ad un'altezza della riflessione, dove tutto ciò che gli avvocati del postmoderno potrebbero in qualche modo addurre è già stato pensato in anticipo
senza lamentele e differenziatamente. Inoltre il funzionalismo
sistemico non si espone all'obiezione che non può fornire alcun
conto del suo proprio stato: esso si colloca senza esitazione nel
sistema scientifico e si presenta come teoria con pretesa ' specialistica universale'. Altrettanto poco gli si potrebbe rinfacciare
una tendenza al livellamento. La teoria di Luhmann, che oggi
per la sua forza concettualizzatrice, la fantasia teoretica e la
capacità di elaborazione è incomparabile, suscita in ogni caso
dubbi se il prezzo per il suo ' guadagno in astrazione ' non sia
troppo alto. L'instancabile distruttore della riconcettualizzazione
espelle infatti il mondo ' sottocomplesso ' della vita come residuo
indigeribile - cioè proprio quell'ambito fenomenico, che attrae
a sé l'interesse di una teoria della società che non ha ancora
interrotto tutti i ponti con le esperienze di crisi prescientifiche.
Rispetto all'economia capitalistica Marx non aveva distinto
fra il nuovo livello della differenziazione sistemica, che si forma
con un sistema controllato dai media, e le specifiche forme di
classe della sua istituzionalizzazione. Per lui l'eliminazione delle
strutture di classe e la dissoluzione della peculiarità sistemica
di ambiti d'interazione funzionalmente differenziati e cosificati
erano un'unica sindrome. Luhmann commette un errore complementare. Di fronte al nuovo livello della differenziazione sistemica egli non vede che media di controllo come denaro e potere,
per via dei quali i sistemi funzionali si distaccano dal mondo
della vita, devono esser di nuovo istituzionalizzati nel mondo
della vita. Perciò gli effetti di ripartizione specifici di classe di
un ancoramento dei media in norme di .proprietà e costituzionali, non viene alla luce. ' Inclusione', nel senso dell'accesso
paritetico di ciascuno a tutti i sistemi di funzioni, appare cosl
come una conseguenza necessaria al sistema del processo di dif9 Su ciò ha richiamato la mia attenzione A. Honneth, Kritik der Macht,
cit., pp. 214 sgg.
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ferenziazione 10 • Mentre per Marx dopo una rivoluzione riuscita
i contesti funzionali sistemicamente autonomizzati si dissolveranno una volta nel nulla, per Luhmann il mondo della vita
nella società funzionalmente differenziata della modernità ha già
perduto tutto il significato. Da entrambe le prospettive scompare
quell'incontro-scontro fra imperativi del sistema e del mondo
della vita, che spiega il carattere duplice della modernizzazione
sociale.
I paradossi della razionalizzazione sociale, che ho sviluppato
altrove 11 , si possono così riassumere, semplificandoli oltremodo.
La razionalizzazione del mondo della vita dovrebbe aver raggiunto un determinato grado di maturità, prima che in esso possano
essere istituzionalizzati giuridicamente i media denaro e potere.
I due sistemi funzionali dell'economia di mercato e dello stato
amministrativo che crescono al di fuori dell'orizzonte dell'ordinamento statale complessivo di società di classe stratificate, distruggono anzitutto le forme di vita tradizionali della società
paleoeuropea. La dinamica propria dei due sottosistemi intrecciati funzionalmente fra di loro reagisce però sulle forme di vita
razionalizzate della società moderna che li rendono possibili, nella
misura in cui processi di monetarizzazione e burocratizzazione
penetrano negli ambiti centrali della riproduzione culturale, dell'integrazione seciale e della socializzazione. Forme di interazione
in forma di Tr.edia non possono intervenire in ambiti della vita che
per la loro -funzione dipendono dall'agire orientato verso l'intesa,
senza che ne derivino effetti secondari patologici. Nei sistemi
politici delle società capitalistiche sviluppate si delineano strutture di compromesso, che, dal punto di vista storico, si possono
concepire come reazioni del mondo della vita sulla peculiarità
sistemica e la crescita di complessità del processo economico
capitalistico e sull'apparato statale monopolizzatore della violenza. Questa storia dell'origine lascia dietro di sé ancora le
sue tracce nelle opzioni, che oggi il compromesso socialstatale
entrato in crisi manifesta 12 •
Le opzioni sono determinate dalla logica di una politica orientata verso imperativi sistemici economici e statali. I due sottosistemi controllati dai media, che costituiscono a vicenda ambienti
l'uno per l'altro, devono tuttavia riferirsi intelligentemente l'uno
all'altro, e non esternalizzano reciprocamente soltanto i loro costi,
IO
25 sgg.
N. Luhmann, Politische Theorie im Wohlfahrtsstaat, Miinchen 1981, pp.
J.
Il
Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, cit., vol. Il,
12 Cfr. le analisi di C. Offe, Zu einigen Widerspriichen des modernen
~taates, in Arbeitsgesellschaft, cit., pp. 323 sgg.
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cap. 8.
Sozial-
per gravare con ciò un sistema globale incapace di autoriflessione.
Entro il margine di gioco di una tale politica è discutibile soltanto
la ripartizione esattamente dosata degli oneri problematici fra i
sottosistemi stato ed economia. Gli uni vedono le cause della crisi
nella scatenata dinamica propria dell'economia, gli altri nelle
catene burocratiche, che le vengono imposte. Infrenamento sociale del capitalismo oppure ritrasposizione dei problemi dall'amministrazione pianificante al mercato sono le terapie corrispondenti. Gli uni vedono la fonte delle perturbazioni sistemicamente indotte della quotidianità nella forza-lavoro monetarizzata, gli altri nella paralisi burocratica di iniziative proprie. Ma
entrambi i lati concordano in ciò, che gli ambiti di interazione
bisognosi di protezione del mondo della vita di fronte ai motori
della modernizzazione sociale, stato ed economia, giocano soltanto un ruolo passivo.
Nel frattempo i legittimisti dello stato sociale si trovano dovunque in ritirata, mentre i neoconservatori intraprendono senza
pensieri il tentativo di denunciare il compromesso sociostatale
- o per lo meno di ridefinirne le condizioni. I neoconservatori
per un energico miglioramento delle condizioni di valorizzazione
del capitale si assumono costi che a breve termine possono essere
addossati sul mondo della vita dei sottoprivilegiati e separati,
ma anche rischi, che si rovesciano sulla società in complesso.
Sorgono le nuove strutture di classe di una società segmentata
in base a margini che divengono più ampi. La crescita economica viene tenuta in moto da spinte innovative, che per la prima
volta sono collegate intenzionalmente con una spirale degli armamenti uscita fuori da ogni controllo. Al contempo il senso proprio normativa di mondi della· vita razionalizzati, per quanto
selettivi, trova la sua espressione non più soltanto nelle classiche
esigenze di maggior giustizia distributiva, bensì nell'ampio spettro dei cosiddetti valori post-materiali, nell'interesse alla conservazione di fondamenti naturali e infrastrutture comunicative di
forme di vita altamente differenziate. Così fra imperativi sistemici e imperativi del mondo della vita si accendono in nuove
superfici di frizione conflitti, che non possono venir fermati nelle
strutture di compromesso esistenti. Oggi si pone la domanda se
secondo le vecchie regole della politica sistemicamente orientata
può avviarsi un nuovo compromesso - o se il management delle
crisi applicato alle crisi causate sistemicamente e percepite come
sistemiche viene sotteso da movimenti sociali che non si orientano più al bisogno di controllo del sistema, bensì ai tracciati
di confini fra sistema e mondo della vita.
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IV
Con tale domanda tocchiamo l'altro momento - la possibilità
di un padroneggiamento della crisi in grande formato, per cui
una volta la filosofia della prassi aveva offerto il mezzo della
prassi rivoluzionaria. Se la società in complesso non può più
essere rappresentata come quel soggetto di grado superiore, che
sa, determina e realizza se stesso, mancano le vie di quell'autorelazione, in cui i rivoluzionari potrebbero entrare per influire
per il macrosoggetto paralizzato con esso su di esso. Senza un
macrosoggetto autoriferentesi qualcosa come una conoscenza
autoriflessiva della totalità sociale è altrettanto poco pensabile
quanto l'influsso della società su se stessa. Non appena le intersoggettività di grado superiore di processi pubblici di formazione
dell'opinione e della volontà subentrano al posto del soggetto di
grado superiore della società complessiva, le autorelazioni di
questo genere perdono il loro senso. Ci si chiede se in base a
premesse modificate sia in genere ancora sensato parlare di una
« influenza della società su se stessa ».
Auto-influsso richiede da una parte un centro riflessivo, dove
la società in un processo di autocomprensione formi un sapere
di se stesso, dall'altro un sistema esecutivo, che come parte possa
agire per il tutto e influire sul tutto. Le società moderne possono soddisfare queste d"Je condizioni? Di esse la teoria sistemica schizza l'immagine di società acentriche « senza organi
centrali » 13 • Secondo essa il mondo della vita si è decomposto
senza residui in sistemi parziali funzionalmente specificati come
economia, stato, educazione, scienza ecc. Queste monadi sistemiche, che hanno sostituito i rapporti intersoggettivi disseccati
con rapporti funzionali, si rapportano simmetricamente fra di
loro, senza che il loro precario equilibrio possa ancora venir
regolato dalla società globale. Essi devono bilanciarsi a vicenda,
perché nessuna delle funzioni sociali globali che ricevono la
possibilità di agire, ottenga un primato sociale globale. Nessuno
dei sistemi parziali potrebbe assumere il vertice di una gerarchia e rappresentare il tutto come una volta nelle società stratificate l'imperatore il suo regno. Le società moderne non dispongono più di un'istanza centrale di autoriflessione e di controllo.
Dalla prospettiva della teoria sistemica, soltanto i sistemi
parziali, e precisamente riguardo alla loro propria funzione, sviluppano qualcosa come un'autocoscienza. In ciò il tutto si rispec-
13
N. Luhmann, Politische Theorie in Wohlfahrtsstaat, cit., p. 22.
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chia ancora soltanto dalla prospettiva del sistema parziale come
il suo ambiente sociale rispettivo:
Con ciò un consenso fungente per l'intera società su ciò che è
e ciò che vale, diviene difficile e propriamente impossibile; ciò che
viene utilizzato come consenso, funge ne:la forma di un ordinamento provvisorio riconosciuto. Inoltre vi sono le sintesi di reahà
autenticamente produttive in modo specificamente funzionale al livello della complessità, le quali possono permettersi ciascuna per sé
singoli sistemi funzionali, ma che non si possono più sommare nella
veduta d'insieme di un mondo nel senso di una congregatio corporum, di una universitas rerum 14 •
Il ' provvisorio ' Luhmann lo spiega cos1 m una nota in
calce: « Fu una peculiare decisione della fenomenologia husserliana con rilevanti effetti conseguenti nelle discussioni sociologiche, dotare questo provvisorio, col titolo di 'mondo della
vita ', della posizione di una base di partenza di validità ultima
di un concreto apriori ». Sarebbe sociologicamente insostenibile
postulare per il mondo della vita un tipo di « primato dell'essere ».
L'eredità dell'apriorismo husserliano può significare un onere
per diverse varietà della fenomenologia sociale 15 ; ma il concetto
del mondo della vita della teoria della comunic~zjone si è liberato dalle ipoteche della filosofia trascendentale. ~d esso si potrà difficilmente rinunciare, se si vuoi render conto del fatto fondamentale della socializzazione linguistica. I partecipanti all'iuterazione non possono eseguire atti linguistici efficaci per la coordinazione, senza supporre per tutti i soggetti coinvolti un morido
della vita intersoggettivamente condiviso, che sfocia nella situazione linguistica ed è ancorato corpocentricamente. Ogni mondo
della vita costituisce per coloro che agiscono nella prima persona singolare o plurale in modo orientato verso l'intesa, una
totalità di contesti di senso e di rinvio con un p"unto zero nel
sistema di coordinate del tempo storico, dello spazio sociale e
del campo semantico. Inoltre i differenti mondi della vita, che
si scontrano fra loro, non rimangono fermi l'uno accanto all'altro
senza comprendersi. Come totalità essi seguono la scia della loro
pretesa di universalità e completano le loro reciproche differenze
fin tanto che gli orizzonti di intesa, come dice Gadamer, si
'mescolano' fra di loro. Perciò anche le società moderne, ampiamente decentrate, mantengono nell'agire comunicativo quoti14 N. Luhmann, Gesellschaftsstruktur und Semantik, vol. l, Frankfurt a. M.
1980, p. 33 (tr. it., Struttura della società e Semantica, Roma-Bari 1983, p. 31).
15 U. Mathiessen, Das Dickicht der Lebenswe/t, Miinchen 1984.
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diano un centro virtuale di autointesa, dal quale perfino sistemi
d'azione funzionalmente specificati, fin tanto che non crescono
al di là del loro orizzonte di mondo della vita, restano a portata intuitiva. Questo centro è senza dubbio anche una proiezione, ma efficace. I progetti di totalità policentrici, che si agevolano a vicenda, che si sopravanzano e incorporano a vicenda,
producono punti centrali concorrenti. Anche le identità collettive danzano su e giù nel flusso delle interpretazioni e si adattano piuttosto al quadro di una rete fragile che a quello di uno
stabile centro di autoriflessione.
Tuttavia la prassi quotidiana anche nelle società non-stratificate, che dunque non dispongono più di un sapere di se stesse
nelle forme tradizionali di un'autoesposizione rappresentativa,
offrono un luogo per processi naturali dell'autointesa e della formazione di identità. Anche nelle società moderne si forma dai
polifonici e confusi progetti di totalità una vaga coscienza comune. Questa si può concentrare ed esprimere più chiaramente in
base a temi specifici e contributi ordinati; nei processi di comunicazione di grado superiore' e condensati di una sfera pubblica
si giunge a maggiore chiarezza. Tecnologie comunicative, come
dapprima la stampa di libri e la stampa, poi la radio e la televisione, rendono disponibili esternazioni per quasi qualsiasi contesto e rendono possibile una rete altamente differenziata di sfere
pubbliche locali e sovraregionali, letterarie, scientifiche e politiche, intrapartitiche o specifiche di associazioni, dipendenti dai
media o subculturali. Nelle sfere pubbliche vengono istituzionalizzati processi di formazione dell'opinione e della volontà che, per
quanto possano essere specializzati, sono orientati verso la diffusione e la reciproca compenetrazione. I confini sono permeabili: ogni sfera pubblica è anche aperta verso altre sfere pubbliche. Alle loro strutture discorsive esse debbono una tendenza
universalistica appena celata. Tutte le sfere pubbliche parziali
rinviano ad una sfera pubblica generale, nella quale la società
in complesso sviluppa un sapere di sé. L'Illuminismo europeo
ha elaborato questa esperienza e l'ha ripresa nelle sue formule
programmatiche.
Ciò che Luhmann chiama il « consenso fungente per l'intera
società», dipende dal contesto ed è fallibile - in effetti provvisorio. Ma vi è questo sapere riflessivo della società complessiva. Lo si deve ancora soltanto all'intersoggettività di grado
superiore di sfere pubbliche e perciò non può più bastare ai
netti criteri dell'autoriflessione di un soggetto di grado superiore. Un tale centro di autointesa non basta certamente per
l'influsso della società su se stessa; a ciò occorrerebbe ancora
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un'istanza centrale di controllo, che potesse accogliere e trasformare il sapere e gli impulsi della sfera pubblica.
Secondo le rappresentazioni normative della nostra tradizione politica, l'apparato statale democraticamente legittimato,
trasposto dalla sovranità regia a quella popolare, deve poter
eseguire l'opinione e la volontà del pubblico dei cittadini. I cittadini stessi partecipano alla formazione collettiva della coscienza, ma non possono agire collettivamente. Ma può farlo lo stato?
' Agire collettivo ' significherebbe però che lo stato traspose il
sapere intersoggettivamente costituito della società da se stesso
organizzativamente in un'autodeterminazione della società. Di
questa possibilità si deve tuttavia dubitare, già per ragioni di
teoria sistemica. La politica oggi è divenuta effettivamente faccenda di un sistema parziale funzionalmente differenziato; e
questo di fronte agli altri sistemi parziali non può disporre di
quella misura di autonomia, che sarebbe necessaria per un controllo centrale, cioè per un autoinflusso che procede dalla società
come totalità e ritorna ad essa.
Evidentemente nelle moderne società vi è un'asimmetria fra
le (deboli) capacità di autointesa intersoggettiva e le (mancanti)
capacità di auto-organizzazione della società in complesso. Fra
le premesse modificate non vi è per il modello di filosofia del
soggetto nessun equivalente dell'autoeffetto in generale e per la
comprensione hegelo-marxista dell'agire rivoluzionario in particolare.
Questa veduta si è imposta con ampia efficacia alle spalle
di un'esperienza specifica, che soprattutto i partiti operai e i
sindacati hanno potuto fare, dalla fine della seconda guerra
mondiale, con la realizzazione del progetto sociostatale. Non
parlo dei problemi economici conseguenti da una legislazione
sociostatale riuscita durante i periodi di ricostruzione, né dei
limiti del potere di intervento e della capacità di intervento di
amministrazioni pianificatrici, né soprattutto di problemi di controllo. Intendo piuttosto una caratteristica modificazione nella
percezione del potere statale democraticamente legittimato, che
dovrebbe venir introdotto allo scopo dell'' addomesticamento
sociale ' del sistema capitalistico naturalmente crescente, in particolare allo scopo di neutralizzare le conseguenze secondarie
distruttive di una crescita soggetta a crisi per l'esistenza e il mondo della vita dei lavoratori dipendenti 16 • Che lo stato attivo intervenga non soltanto nella circolazione economica, ma anche nella
16 Per quanto segue mi baso sul saggio che dà il titolo al volume in
bermas, Die Neue Unubersichtlichkeit, Frankfurt a. M. 1985.
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J. Ha-
circolazione vitale dei suoi cittadini, gli avvocati dello stato sociale lo consideravano aproblematico - era appunto lo scopo di
riformare le condizioni di vita dei cittadini tramite i riformati
rapporti di lavoro e di occupazione. Alla base di ciò vi era l'idea
della tradizione dempcratica, che la società potesse influire su
se stessa con il mez;w neutrale del potere politico-amministrativo. Ma proprio qut:sta aspettazione è stata delusa.
Frattanto una rete sempre più spessa di norme giuridiche,
di burocrazie statali e parastatali ricopre la quotidianità dei
clienti potenziali ed effettivi. Estese discussioni sulla giuridicizzazione e la burocratizzazione in generale, sugli effetti controproducenti della politica sociale statale in particolare, sulla
professionalizzazione e la scientificizzazione dei servizi sociali
hanno diretto l'attenzione su dati di fatto, che rendono chiara
una cosa: il mezzo giuridica-amministrativo della trasposizione
di programmi socialstatali non rappresentano un medium passivo, per così dire privo di qualità. Piuttosto con essi è connessa
una prassi dell'isolamento dei dati di fatto, della normalizzazione e della sorveglianza, il cui potere reificante e soggettivante
Foucault ha seguito fin dentro le più fini ramificazioni capillari
della comunicazione quotidiana. Le deformazioni di un mondo
della vita regolamentato, disarticolato, controllato e assistito
sono certamente più sublimi che le forme tangibili dello sfruttamento materiale e dell'impoverimento; ma i conflitti sociali
rovesciati sullo psichico e sul corporeo e interiorizzati sono perciò non meno distruttivi.
Oggi si vede la contraddizione che è immanente al progetto
sociostatale come tale. Il suo scopo sostanziale era la liberazione di forme di vita strutturate egualitariamente, che al contempo dovevano aprire margini di gioco per autorealizzazione
e spontaneità individuali; ma con la produzione di nuove forme
di vita il medium del potere era sovraccaricato. Dopo che lo
stato si è differenziato come uno fra molti sistemi funzionali
controllati dai media, esso non può più essere considerato come
l'istanza centrale di controllo, nella quale la società raccoglie insieme le sue capacità di auto-organizzazione. Ai vaghi processi,
però ancora centrati nella società in complesso, di formazione
dell'opinione e della volontà di una sfera pubblica generale,
si contrappone un sistema di funzioni cresciuto oltre l'orizzonte
del mondo della vita e divenuto autonomo, che si preclude prospettive sociali globali e per sua parte può percepire la società
globale ancora soltanto dalla prospettiva di un sistema parziale.
Dal disinganno storico su un progetto sociostatale coagulato
burocraticamente scaturisce un nuovo sguardo, per così dire ste361
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reoscopicamente affinato, sul ' politico '. Accanto alla caparbietà
sistemica di un medium di potere solo in apparenza applicabile
in modo razionale in vista di uno scopo, diviene visibile un'altra
dimensione. La sfera pubblica politica, nella quale società complesse prendono normativamente distanza da sé e possono elaborare collettivamente esperienze di crisi, acquista dal sistema politico un'analoga distanza come prima dall'economico. Quello ha
assunto un carattere analogamente problematico, in ogni caso
ambiguo come questo. Ora lo stesso sistema politico viene percepito come fonte di problemi di controllo, non solo come mezzo
per la soluzione di problemi. Ciò che in tal modo perviene alla
coscienza, è la differenza fra problemi di controllo e problemi
di intesa. Diviene visibile la differenza fra squilibri sistemici e
patologie del mondo della vita, cioè fra perturbazioni della
riproduzione materiale e cadute nella riproduzione simbolica
del mondo della vita. Diviene conoscibile la differenza fra i
deficit che strutture inflessibili del mondo della vita (tramite
sottrazione di motivazione o di legittimazione) possono suscitare nella provvidenza del sistema di occupazione e di dominio,
e i fenomeni di una colonizzazione del mondo della vita da
parte degli imperativi di sistemi funzionali, che esternalizzano
i loro costi. In base a tali fenomeni si mostra a sua volta che
le operazioni di controllo e di intesa rappresentano risorse, che
non possono essere sostituite l'una con l'altra in misura arbitraria. Denaro e potere non possono né comprare né imporre
solidarietà e senso. In breve, il risultato del processo di disinganno è una nuova condizione della coscienza, in cui il progetto sociostatale in una certa misura diviene riflessivo e si
dedica a domare non soltanto l'economia capitalistica, ma lo
stesso stato.
Ma se non più soltanto il capitalismo, bensì anche lo stesso
stato interventista deve essere ' socialmente domato ', questo
compito deve essere ridefinito. Il progetto dello stato sociale
aveva affidato alla capacità pianificatrice dell'amministrazione
pubblica l'influenza stimolante sul meccanismo di autocontrollo
di un altro sottosistema. Se questa ' regolamentazione ' altamente
indiretta si deve ora -estendere alle stesse operazioni organizzative dello stato, il modo dell'influenza non può di nuovo essere
determinato come controllo indiretto; un nuovo potenziale di
controllo potrebbe essere approntato infatti solamente tramite
un altro sottosistema. Anche se un tale sistema collegato in serie
lo si potesse trovare, dopo una ripetuta spinta di delusione e
distanziamento, si porrebbe però il problema che le percezioni
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di crisi del mondo della vita non si possono tradurre senza residuo in problemi del controllo riferiti al sistema.
Invece di ciò si tratta della costruzione di soglie d'arresto
nello scambio fra sistema e mondo della vita e dell'inserimento
di sensori nello scambio fra mondo della vita e sistema. In ogni
caso si pongono problemi limite di questo tipo, non appena un
mondo della vita altamente razionalizzato deve essere protetto
contro insopportabili imperativi del sistema di occupazione o
contro le penetranti conseguenze di una provvidenza esistenziale
amministrativa. L'incanto sistemico che il mercato capitalistico
del lavoro stende sulla storia di vita dei capaci al lavoro, che
la rete di autorità operanti, regolanti e sorveglianti sulla forma
di vita dei clienti e la gara divenuta autonoma all'armamento
nucleare sospende sulle attese di vita dei popoli, non viene interrotta perché i sistemi apprendono a funzionare meglio. Piuttosto impulsi dal mondo della vita devono poter influire nell'autocontrollo dei sistemi funzionali 17 • Ciò richiede senza dubbio un mutato rapporto fra sfere pubbliche autonome, auto-organizzate da un lato, e gli ambiti d'azione controllati da denaro
e potere dall'altro, in altre parole: una nuova divisione del potere nella dimensione dell'integrazione sociale. Il potere socialintegrativo della solidarietà dovrebbe potersi affermare contro
i media di controllo integrativi del sistema denaro e potere.
Chiamo autonome quelle sfere pubbliche che non sono prodotte e trattate dal sistema politico a scopi di procurarsi la legittimazione. I centri di comunicazione condensata che nascono
spontaneamente dai microsettori della prassi quotidiana possono dispiegarsi a sfere pubbliche autonome e fissarsi come
intersoggettività autoportanti, di livello superiore, solo nella
misura in cui il potenziale del mondo della vita viene usato
per l'auto-organizzazione e l'uso auto-organizzato di mezzi di
comunicazione. Forme dell'auto-organizzazione rafforzano la capacità collettiva di azione. Organizzazioni vicine alla base non
pos~ono senza dubbio oltrepassare la soglia verso l'organizzazione formale, autonomizzata nel sistema. Altrimenti esse pagano
l'incontestabile acquisto di complessità in quanto gli scopi dell'organizzazione si staccano dagli orientamenti e dagli atteggiamenti dei membri e cadono invece nella dipendenza da imperativi della conservazione e ampli;;mento del patrimonio orga17 Le riflessioni su una <<teoria societaria del controllo>> di H. Willke,
Entzauberung des Staates, Konigstein 1983, pp. 129 sgg. sono interessanti prima
di tutto perché l'autore procede in modo sufficientemente incoerente da analizzare l'influenza reciproca di sistemi autopoietici secondo il modello della comprensione intersoggettiva.
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nizzativo. L'asimmetria fra capacità di autoriflessione e autoorganizzazione che noi abbiamo attribuito alle società moderne
in complesso, si ripete sul livello dell'auto-organizzazione dei
processi di formazione dell'opinione e della volontà.
Ciò non deve essere un ostacolo, se si riflette sul fatto che
l'influenza indiretta su singoli meccanismi dell'autocontrollo di
sistemi parziali funzionalmente differenziati significa tutt'altra
cosa che l'influenza orientata verso scopi della società su se
stessa. La chiusura autoreferenziale rende il sistema funzionale
politico e quello economico immuni contro tentativi di intervento, nel senso di interventi diretti. Tuttavia questa stessa qualità
rende anche nuovamente sensibili i sistemi per stimoli che mirano
ad un potenziamento della loro capacità di autoriflessione, cioè
alla sensibilità per le reazioni dell'ambiente sulle loro proprie
attività. Sfere pubbliche auto-organizzate dovrebbero sviluppare
la saggia combinazione di potere e intelligente autolimitazione,
che è necessaria per sensibilizzare i meccanismi di autocontrollo
dello stato e dell'economia rispetto agli eventi orientati allo
scopo della formazione radicaldemocratica della volontà. Al
posto del modello dell'autoinfluenza della società subentra quindi il modello di un conflitto di confine, tenuto sotto controllo
dal mondo della vita, fra essa e i due sottosistemi superiori per
complessità, e solo molto indirettamente influenzabili, alle cui
prestazioni essa tuttavia è affidata.
Sfere pubbliche autonome possono trarre la loro forza soltanto dalle risorse di mondi della vita ampiamente razionalizzati. Ciò vale soprattutto per la cultura, cioè per il potenziale
interpretativo del mondo e di sé della scienza e della filosofia,
per il potenziale illuministico di idee giuridiche e morali rigorosamente universalistiche, non da ultimo per i radicali contenuti d'esperienza della modernità estetica. Che oggi movimenti
sociali assumano tratti di rivoluzione culturale, non è un caso.
Peraltro qui si fa osservare una debolezza strutturale, che è
immanente a tutti i mondi della vita moderni. Movimenti sociali
ricevono la loro forza d'urto dalla minaccia di identità collettive ben sviluppate. Benché tali identità rimangano sempre vincolate al particolarismo di una speciale forma di vita, esse
devono assumere in sé il contenuto normativa della modernità
- quel fallibilismo, universalismo e soggettivismo che mina la
forza e la figura concreta di ciascun particolare. Lo stato democratico costituzionale e nazionale derivato dalla rivoluzione
francese era finora l'unica formazione di identità riuscita su
scala cosmico-storica, che poteva conciliare fra di loro senza
sforzo questi momenti del generale e del particolare. Il partito
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comunista non è stato in grado di dissolvere l'identità dello
stato nazionale. Se non più nella nazione, in quale terreno potrebbero oggi affondare le radici gli orientamenti universalistici
verso i valori 18 ? La comunità atlantica dei valori, che si cristallizza intorno alla NATO, non è ormai più che una formula di
propaganda per i ministri della difesa. L'Europa di Adenauer
e di De Gaulle fornisce soltanto la sovrastruttura per la base
di un'unione economica. Come controimmagine a questa Europa
del Mercato Comune, nei tempi più recenti gli intellettuali di
sinistra tracciano tutt'altro disegno.
Il sogno di questa identità europea di tutt'altro genere, che
riprende energicamente in sé l'eredità del razionalismo occidentale, si forma in un momento in cui gli Stati Uniti, sotto la bandiera di una ' seconda rivoluzione americana', si accingono a
ritornare nelle illusioni del primo modernismo. Nelle utopie d'ordine dei vecchi romanzi di Stato, le forme di vita razionali sono
entrate in una simbiosi ingannevole con il padroneggiamento
tecnico della natura e con una spregiudicata mobilitazione della
forza-lavoro sociale. Questa equiparazione di felicità ed emancipazione col potere e la produzione ha confuso fin da principio
l'autocomprensione del moderno- e messo all'ordine del giorno
duecento anni di critica alla modernità.
Ma lo stesso gesto di dominio, utopico in senso cattivo, continua ora a vivere in una caricatura che muove le masse. La
fantascienza delle guerre stellari per i pianificatori dell'ideologia
è appunto abbastanza buona, per dissolvere, con la macabra visione di uno spazio cosmico militarizzato, la spinta innovativa,
che rimette in piedi il colosso del capitalismo mondiale per la
prossima ripresa tecnologica. La vecchia Europa troverà la via
verso una nuova identità solamente quando a questo corto circuito fra crescita economica, gara degli armamenti e ' antichi valori', contrapporrà la visione di una evasione dalle coazioni sistemiche autoimpostesi, quando porrà termine alla confusione, come
se il contenuto normativa della modernità alimentato in mondi
della vita razionalizzati potesse essere liberato unicamente in sistemi che divengono sempre più complessi. Che la capacità internazionale di concorrenza - sui mercati o nello spazio cosmico sia irrinunciabile per la pura sopravvivenza, è una di quelle
certezze quotidiane, nelle quali si condensano le coazioni siste18 J. Habermas, Konnen komplexe Gesel/schaften eine vernunftige Identitiit
ausbilden?, in Zur Rekonstruktion des historischen Materialismus, Frankfurt a.
M. 1976, pp. 92 sgg. (tr. it., Possono le società complesse formarsi un'identità
razionale?, in Per la ricostruzione del Materialismo storico, Milano 1979, pp.
74 sgg.).
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miche. Ognuno giustifica espansione e intensificazione delle proprie forze con l'espansione e intensificazione delle forze dell'altro, come se non fossero le regole del gioco socialdarwinistico,
che stanno alla base del gioco delle forze. L'Europa moderna
ha creato i presupposti spirituali e le fondamenta materiali per
un mondo nel quale questa mentalità ha assunto il posto della
ragione - questo è il vero nucleo della critica della ragione
esercitata a partire da Nietzsche. Chi, altrimenti che l'Europa,
potrebbe attingere da tradizioni proprie il discernimento, l'energia, il coraggio della visione - tutto ciò che sarebbe necessario
per togliere alle premesse da gran tempo non più metafisiche,
bensì metabiologiche, di una cieca coazione alla conservazione
e al potenziamento del sistema, la forza formatrice della mentalità?
Excursus sulla appropriazione dell'eredità
della filosofia del soggetto
da parte della teoria dei sistemi di Luhmann
N. Luhmann ha presentato il ' profilo ' di una teoria generale
della società 19 : traccia così il bilancio provvisorio di una espansione teoretica che conquista spazio e rimane salda per decenni,
in modo che il progetto appaia ora chiaro nel suo insieme. Si
crede, comunque, di comprendere meglio che cosa succede.
L'impresa di Luhmann cerca un collegamento non tanto con
la tradizione specialistica della teoria della società da Comte
fino a Parsons, quanto con la storia problematica della filosofia
della coscienza da Kant fino a Husserl. Questa teoria sistemica
non conduce in qualche modo la sociologia ·sul sicuro sentiero
della scienza; piuttosto si presenta come candidata alla successione di una filosofia congedata: vuole ereditare concetti fondamentali e problematiche della filosofia del soggetto, e al contempo sorpassarne la capacità di risolvere i problemi. Con ciò
essa effettua un cambio di prospettiva che rende inconsistente
l'autocritica di una modernità che non è in pace con se stessa.
La teoria sistemica della società, applicata a se stessa, non può
fare a meno di adeguarsi positivamente all'aumento di complessità delle società moderne. Mi interessa, a questo punto, se con
tale mutamento d'attribuzione, attuato con distacco, dell'eredità
della filosofia soggettiva, passino alla teoria sistemica anche quei
19
N. Luhmann, Soziale Systeme, Frankfurt a. M. 1984.
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problemi del testatore che dalla morte di Hegel hanno prodotto
i dubbi esaminati circa la ragione soggettocentrica come principio della modernità 20 •
I
Se si volesse introdurre il concetto sistemico sviluppato in contesti cibernetici e biologici, senza perdita di grado per il concetto del soggetto conoscitivo sviluppato da Descartes fino a
Kant, devono essere intraprese le seguenti modifiche. Al posto
del rapporto interno-esterno fra il soggetto che conosce ed il
mondo - come l'insieme di oggetti conoscibili - , subentra il
rapporto sistema-ambiente. Per le prestazioni della coscienza del
soggetto, la conoscenza del mondo e di sé hanno costituito il
problema di riferimento. Ora questo problema viene subordinato
a quello del mantenimento e dell'ampliamento della stabilità del
sistema. L'autoriferimento del ·Sistema è modellato su quello del
soggetto. I sistemi non possono riferirsi ad altro senza riferirsi
a se stessi, ed accertarsi riflessivamente di essa. In ogni caso
lo ' stesso ' del sistema si distingue da quello del soggetto, perché non si concentra sullo ' io' dello 'io penso' appercettivo
che, secondo la formulazione di Kant, deve poter accompagnare
tutte le mie rappresentazioni. La teoria sistemica deve tener lontano dallo ' stesso ' dell'autorelazione tutte le connotazioni di
un'identità dell'autocoscienza realizzata tramite prestazioni sintetiche. L'autorelazione caratterizza le singole prestazioni sistemiche nel loro modo di operare; ma dalle puntuali autorelazioni
non scaturisce alcun centro in cui il sistema come intero si renda
presente per se stesso e sappia di sé nella forma dell'autocoscienza. In questo modo il concetto della riflessività viene sganciato da quello della coscienza. Naturalmente ci vorrebbe un
equivalente per il sostrato coscienziale di quella autorelazione
tramite la quale si definisce il gradino della vita socioculturale.
Come risultato emergente, che corrisponde alla coscienza, Luhmann introduce un peculiare concetto di ' senso '. Per farlo si
serve delle descrizioni fenomenologiche di Husserl, per il quale
il significato di una espressione simbolica rinvia ad un'intenzione
che si trova alla base; ' intenzione ' è, rispetto a ' significato ', il
concetto più primitivo. In modo conforme, Luhmann definisce il
20 In quanto abituato alla sofferenza so naturalmente che non si rende giustizia alla ricchezza di una teoria, se la si affronta decisamente sotto un solo
aspetto; ma solo sotto questo aspetto essa ha interesse nel nostro contesto.
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' senso ' sul piano prelinguistico come un contesto di rimando di
possibilità attualizzabili, riferito all'intenzionalità di esperienza
e di azione. Al posto di soggetti atti all'autocoscienza subentrano, così, sistemi che elaborano il senso o che lo utilizzano.
Da questa sostituzione concettuale che mantiene figure di
pensiero di filosofia della coscienza nella forma di analogie strutturali, derivano conseguenze illuminanti sullo sfondo del movimento di pensiero che si snoda da Kant, attraverso Hegel, fino a
Marx. La prima tocca l'inversione empirica dell'impostazione filosofico-trascendentale. La relazione sistema-ambiente viene cioè
assolutamente pensata secondo il modello di un mondo costituito
tramite una coscienza trascendentale. Il sistema mentre si separa
dal suo ambiente, lo costituisce come orizzonte di senso universale. Ma sistemi elaboratori di senso si presentano solo al plurale; essi sorgono e si mantengono sotto le contingenti condizioni marginali di un ambiente ipercomplesso, e non sono precedentemente armonizzati come soggetti empirici nella forma
unitaria di una coscienza trascendentale. In luogo di quel mondo fondato trascendentalmente, subentrano i molti ambienti relativi al sistema 21 • Il teorico del sistema incontra svariate relazioni sistema-ambiente nel suo ambito aggettivale. Pertanto la
distinzione tra trascendentale ed empirico perde per lui significato.
Con questa decisione, la teoria del sistema oltrepassa, in
secondo luogo, in modo analogo a quello di Hegel ai suoi tempi,
i confini dell'idealismo soggettivo. Hegel non si era procurato
solo un accesso alla dimensione temporale della storia della
nascita del soggetto trascendentale; egli aveva visto divenire
concreta la struttura fondamentale dell'autocoscienza, anche al
di là del soggetto conoscente nell'ambito dello spirito oggettivo
(ed assoluto). Non solo lo spirito soggettivo è caratterizzato dai
tratti della soggettività, ma anche l'oggettivo (e l'assoluto). Come
aveva fatto Hegel con il concetto dello spirito, così Luhmann
con il concetto del sistema elaboratore di senso ottiene la libertà
di movimento per sottoporre la società come sistema sociale ad
una ricerca similare a quella concernente la coscienza come
sistema psichico. Sistemi elaboratori di senso coincidono tanto
poco con sistemi che dipendono dalla coscienza, quanto lo spirito con lo spirito soggettivo. D'altra parte, le premesse empiristiche rendono necessaria una chiara linea di separazione fra
21 << Ogni sistema autoreferenziale ha solo il contatto con l'ambiente, che si
rende da sé possibile, e nessun ambiente in sé» (N. Luhmann, Soziale Systeme,
cit., p. 146).
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eventi interni ai sistemi ed eventi nell'ambiente sistemico. Per
questo motivo, tutti i sistemi costituiscono l'uno per l'altro ambienti e rafforzano reciprocamente la complessità dell'ambiente,
che essi devono di volta in volta padroneggiare. Essi non possono, come soggetti, collegarsi l'uno con l'altro in aggregazioni
di sistemi di grado più elevato; essi sono ancora collocati come
momenti, fin da principio, in una simile totalità. Sotto questo
riguardo la teoria sistemica non compie poi il passo dall'idealismo soggettivo a quello oggettivo.
Ma in terzo luogo emerge un parallelo con Marx, che aveva
sostituito ' autocoscienza ' con ' prassi ' e aveva impresso una
svolta naturalistica al processo di formazione dello spirito. Il
lavoro sociale dovrebbe mediare il processo di metabolismo fra
il ' genere ' e la natura esterna, oggettivata nell'ambiente. Così
il processo ciclico che proviene dal dispendio della forza-lavoro
e che, passando per la produzione e l'uso dei beni prodotti,
ritorna nella rigenerazione della forza-lavoro, potrebbe essere
presentata come autoproduzione riproduttiva del genere. La teoria dei sistemi lo tratta come un caso speciale di autopoiesis.
Ciò che secondo Marx riguardava la riproduzione materiale della
società, riguarda sistemi autoreferenziali in generale; ogni elemento impiegato nel sistema deve essere prodotto da questo
stesso sistema e non può venir ripreso « pronto per l'uso » dal
suo ambiente. L'autoreferenzialità delle operazioni di sistemi
elaboratori del senso ha anzitutto il senso pratico· dell'autoproduzione, e non il senso teoretico dell'autopresentificazione.
In base a queste premesse la teoria sistemica condivide con
la teoria marxista della società anche la riflessione sul proprio
contesto d'origine e d'impiego. La prestazione conoscitiva della
teoria sistemica si riflette come elemento e funzione dei processi
sociali, verso i quali essa si rivolge al contempo come suo oggetto. Qui del resto la teoria marxiana tiene fermo ad un concetto di ragione, che le consente di stabilire il rapporto interno
di autoriflessione e valore di verità con un'emancipazione dalle
potenze della natura esterna ed interna 22 • La teoria sistemica fa
dissolvere gli atti conoscitivi, anche i propri, in una prestazione
sistemica che riduce la complessità, e toglie con ciò alla conoscenza qualsiasi momento di incondizionatezza. La teoria sistemica si concepisce come analisi funzionale e si sa, grazie al
problema di riferimento scelto con questo metodo, inserita senza
soluzione di continuità nei contesti funzionali dell'autoafferma22 J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt a. M. 1968, pp. ,59 sgg.
(tr. it., Conoscenza e Interesse, Roma-Bari 1973, pp. 46 sgg.).
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zione sistemica - senza l'intenzione e la forza di trascendere
in qualche modo questi contesti 23 •
La conversione filosoficamente riflessa al paradigma sistemico
ha in quarto luogo come conseguenza un'ampia revisione della
concettualità della tradizione occidentale, fissata su essere, pensiero e verità. Il quadro di riferimento non-ontologico diviene
comprensibile quando ci si chiarisce che la stessa ricerca di teoria dei sistemi si concepisce come un sotto-sistema (del sistema
della scienza e della società) con un. proprio ambiente. In questo ambiente le relazioni sistema-ambiente trovate formano la
complessità, che la teoria sistemica ·deve comprendere e modificare. Con questo, le premesse ontologiche di un mondo dell'essente razionalmente ordinato, che si autosupporta, così come
le premesse epistemologiche di un mondo di oggetti rappresentabili, che si riferisce a soggetti conoscitivi, oppure le premesse
semantiche di un mondo di dati di fatto esistenti, che si riferisce
a proposizioni assertorie, vengono d'un sol colpo invalidate. Tutte
le premesse che in metafisica, in gnoseologia o in analisi del
linguaggio postulano l'impossibilità di eludere un ordine cosmico,
la relazione soggetto-oggetto o la relazione tra proposizioni e
dati di fatto, vengono messe da parte senza essere discusse. La
teoria sistemica di Luhmann mette in atto un movimento di
pensiero che va dalla metafisica fino alla metabiologia. Per fortuitamente che possa essere nato il termine ' metafisica-', si potrebbe ascrivergli il significato di un pensiero che parte dal ' pernoi ' delle manifestazioni fisiche e che dietro queste torna a
porre i suoi interrogativi. Possiamo dunque chiamare ' metabiologico ' un pensiero che parte dal ' per-sé ' della vita organica,
e ritorna dietro a questa, intendo dire il fenomeno fondamentale, descritto ciberneticamente, dell'autoaffermazione di sistemi
relativi a se stessi di fronte ad un ambiente ultra-complesso.
La differenza nei confronti dell'ambiente, che è mantenuta
dal sistema stesso viene valutata come qualcosa che non si può
eludere. L'autoconservazione del sistema, che aumenta da sola,
rimpiazza la ragione determinata in rapporto all'essere, al pensare, all'asserire. Con questo principio Luhmann supera anche
una critica della ragione che vuole smascherare la potenza dell'autoaffermazione come l'essenza latente di una ragione incentrata sul soggetto. Sotto il nome di razionalità sistemica, la ragione liquidata come irragionevole si riconosce proprio come
questa funzione: essa è l'insieme delle condizioni' di possibilità
23 A questo riguardo Luhmann segue Nietzsche e non la filosofia del soggetto. Cfr., supra, pp. 352 sg., nota 8.
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per il mantenimento del sistema. La ragione funzionalistica si
esprime nell'ironica autosmentita di una ragione ristrettasi alla
riduzione di complessità. Ridotta per il fatto che l'ambito di
riferimento metabiologico non sopravanza, bensì sottende la limitazione logocentrica di metafisica, filosofia trascendentale e semantica - come la teoria della comunicazione con il suo concetto della ragione comunicativa, sviluppato dalle funzioni linguistiche o dalle pretese di validità. La ragione diventa, ancora
una volta, sovrastruttura della vita. Al proposito non si cambia
nulla con la promozione della ' vita ' al livello di organizzazione
del ' senso '. Poiché con il concetto di senso inteso funzionalisticamente, viene dissolto, come vedremo, il nesso interno di
significato e valore. È come in Foucault: nella verità (e in genere
nella validità) interessano solo ancora gli effetti del tener-pervero.
Da ultimo, il passaggio dal soggetto al sistema ha ancora una
quinta conseguenza, che è rilevante nel nostro contesto. Con il
concetto di soggetto viene assegnato ad ogni possibile autorelazione un Sé costituito nel sapersi. Anche dentro l'autodeterminazione e l'autorealizzazione è immanente quella forza centripeta che fa culminare e acquietare tutti i movimenti dello spirito solo nella autocoscienza. Non appena, tuttavia, il sistema
occupa il posto del 'sé' nell'autoriferimento, cade la possibilità di un riepilogo centralizzante del tutto nel sapersi; la struttura dell'autoriferimento rimane legata solo ancora al singolo
elemento. Essa assicura la chiusura del sistema apertosi al contempo all'ambiente non tramite un centro, ma tramite collegamenti periferici: « Il sé dell'autoreferenza non è mai la totalità
di un sistema chiuso, e non è mai il riferirsi stesso» - l'automediazione di Hegel elevata ad assoluto - « Si tratta sempre
soltanto di momenti del contesto costitutivo di sistemi aperti,
che portano la sua autopoiesis [ ... ] La legittimità di parlare qui
di autoreferenza (parziale o concomitante) deriva dal fatto che
si tratta delle condizioni di possibilità di un'autoproduzione
autopoietica » 24 •
Questa mancanza di sé di sistemi autoreferenziali si rispecchia ora nel carattere a-centrico delle società che si sono completamente adattate alla differenziazione funzionale: « Questo ha
come conseguenza che non si può più stabilire alcun punto
fermo dal quale il tutto, si preferisca ora chiamarlo Stato o
società, possa essere correttamente osservato » 25 • L'unità delle
24
25
N. Luhmann, Soziale Systeme, cit., p. 630.
lbid.
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società moderne si mostra ogni volta diversamente dalle prospettive dei loro sistemi parziali. Non può più esserci la prospettiva centrale di una coscienza sistemica socialmente collettiva, già per ragioni analitiche. Se però le società moderne non
hanno affatto la possibilità di sviluppare un'identità ragionevole, manca ogni punto di riferimento per una critica alla modernità. Qualora si volesse poi rimanere fedeli senza un preciso
orientamento a questa critica, essa dovrebbe naufragare di fronte
alla realtà di un processo di differenziazione che si è da gran
tempo allontanato dalle concezioni veteroeuropee della ragione.
Certo, proprio nel pathos di Luhmann, in questo senso della
realtà legato alle razionalità parziali istituzionalizzate, appare
un'eredità molto tedesca, trasmessasi dagli hegeliani di destra
divenuti scettici sino a Gehlen. Ma guardiamo, ancora una volta,
all'indietro.
Dal momento che l'autorelazione pensata nel senso della filosofia del soggetto presuppone l'identità del soggetto che si sa
come punto di riferimento più alto, il movimento di pensiero da
Kant ad Hegel può richiamarsi ad una logica interna: alla fine,
la differenza fra la sintesi fondatrice di unità e la multiformità
compresa in essa, continua 11 postulare una identità ultima, comprensiva di identità e non-identità. Questo era il tema dello
scritto di Hegel sulla differenza. Dalla stessa prospettiva concettuale Hegel aveva elaborato l'esperienza fondamentale della
modernità culturale e sociale - tanto la pretesa eccessiva dei
rendimenti socio-integrativi di mondi della vita vetero-europei
mediante la critica illuministica della religione, quanto l'invadenza delle relazioni sociali oggettivate sistemicamente nella economia capitalistica e nello stato burocratico. Che la ragione dovesse entrare nel ruolo socio-integrativo della religione - questo motivo basilare della filosofia della conciliazione crebbe contemporaneamente da una coeva esperienza di crisi f! da quella
tendenza insita nel pensiero filosofico-soggettivo. La diagnosi del
tempo doveva la sua particolare formulazione del problema ad
una dialettica dell'aggettivazione, che era insita nel concetto filosofico-soggettivo dell'autocoscienza e che è stata elaborata da
Fichte per primo. Dal momento che l'autoriflessione deve promuovere qualcosa ad oggetto, ciò che, come sorgente spontanea
di ogni soggettività, si sottrae alla forma di oggetti in genere, la
ragione conciliante non può essere intesa secondo il modello dell'autorelazione oggettivante del soggetto che conosce, cioè secondo la « filosofia della riflessione ». Altrimenti una facoltà finita
sarebbe posta come assoluta ed il posto della ragione verrebbe
usurpato dall'intelletto idolatrato. Secondo questo modello Hegel
372
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ha concepito le astrazioni della vita culturale e sociale come
qualcosa di ' positivo '. Esse dovrebbero poter essere superate
solo per la via dell'autoriflessione radicalizzata, mediante un
movimento che aveva come suo telos il sapere assoluto, il saperesé del tutto.
Poiché con lo spostamento dal soggetto a sistema, viene a
mancare il Sé dell'autoriferimento, la teoria sistemica non dispone però di alcuna figura di pensiero che corrisponda all'atto
lesivo e repressivo della reificazione. Nel concetto filosofico-soggettivo dell'autoriferimento, la reificazione è applicata strutturalmente dalla soggettività come possibilità di errore. Un errore
categoriale paragonabile potrebbe consistere qui in ciò che un
sistema si fraintendesse come ambiente; ma tale possibilità è
esclusa per definizione. Anche i processi di estromissione legati
ad ogni costruzione di sistema, non possono essere caricati della
connotazione di 'esclusione', o, addirittura, di 'proscrizione '.
:È procedura del tutto normale che un sistema, mentre si forma,
distanzi qualcosa come suo ambiente. Considerate storicamente,
l'imposizione dello status di lavoratore salariato e la nascita di
un proletariato industriale, nonché la subordinazione della popolazione ad amministrazioni centralizzate, non si sono certo compiute in modo indolore. Ma la teoria sistemica, anche qualora
potesse ridurre tali processi a formule di problemi, dovrebbe
contestare alle società moderne 11'1 possibilità di prendere atto
di una crisi non immediatamente ridotta alla prospettiva di uno
speciale sistema parziale.
Quando società funzionalmente differenziate non dispongono
di alcuna identità, non possono neppure formare alcuna iden·
tità razionale:
la razionalità sociale richiederebbe che i problemi ambientali creati
dalla società, fin dove riguardano la società stessa, venissero rappresentati nel sistema sociale, vale a dire introdotti nel processo
sociale di comunicazione. Questo può accadere, in misura limitata,
nei singoli sistemi funzionali - come quando i medici riescono
a vedere le malattie da loro stessi causate. È più tipico, tuttavia,
che un sistema funzionale addebiti all'ambiente altri sistemi fun·
zionali. Anzitutto, manca, però, un sottosistema sociale che prenda
atto delle interdipendenze ambientali. Non ce ne può essere uno
simile, data la differenziazione funzionale: significherebbe che la
società stessa figura ancora una volta nella società. Il principio di
differenziazione rende al contempo più urgente ed irresolubile la
questione della razionalità 26 •
26
lvi, p. 645.
373
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Non senza sarcasmo, Luhmann rifiuta i corrispondenti ten~
tativi di soluzione della filosofia del soggetto: « Animi semplici
vogliono combattere qui con l'etica. Non molto meglio lo Stato
di Hegel. E non meglio la speranza di rivoluzione di Marx »v.
Abbiamo discusso sopra (nella lezione XII) i motivi che depongono contro la costruzione di una coscienza dell'intera società da parte della filosofia del soggetto. Se gli individui vengono
ordinati e subordinati come parti al soggetto di grado superiore
della società come un tutto, si determina un azzeramento, in cui
fenomeni moderni, come i crescenti spazi di movimento e gradi
di libertà degli individui, non possono essere correttamente sistemati. Difficoltà presenta anche una coscienza dell'intera società,
che viene raffigurata come autoriflessione di un grande sogg~tto.
In società differenziate, una conoscenza esigente orientata verso
la totalità della società, approda comunque a sistemi di sapere
specializzati, però non nel centro della società come un sapere
di sé dell'intera società: Ad ogni modo, abbiamo imparato una
strategia concettuale alternativa, che ci risparmia dal dover lasciar cadere il concetto di un'autorappresentazione della società.
Le sfere pubbliche si possono intendere come intersoggettività
di grado superiore. In esse si possono articolare autoattribuzioni
collettive che formano identità. E anche nella sfera pubblica
aggregata di grado superiore, una coscienza dell'intera società.
Questa non ha più bisogno, allora, di soddisfare le richieste di
precisione, che la filosofia del soggetto presenta all'autocoscienza. Non è né la filosofia né la teoria della società ciò in cui il
sapere della società si concentra da sé.
La società totale può guadagnare a suo favore una distanza
normativa mediante questa coscienza comune, seppure vaga ed
in sé controversa, e reagire alle constatazioni di crisi, dunque
realizzare proprio ciò che Luhmann le contesta come possibilità sensata: « Che cosa significherebbe se la società moderna
si interrogasse sulla sua razionalità», è chiaro per Luhmann;
ad ogni passo della riflessione « la questione della razionalità »
diverrebbe « ad un tempo più urgente e più irresolubile ». Proprio per questo, non dovrebbe neppure essere posta: « Lo schizzo del problema della razionalità non significa che la società
debba risolvere problemi di questa portata per garantirsi la
sopravvivenza. Per la sopravvivenza è sufficiente l'evoluzione » 28 •
I processi di formazione dell'opinione e della ·volontà, altamente aggregati, pubblicamente condensati, ma vicini àl mondo
27
28
I vi, p. 599.
lvi, p. 654.
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della vita, mostrano lo stretto intreccio fra socializzazione e individuazione, identità di io e di gruppi. Luhmann, che non ha
a disposizione il concetto della intersoggettività prodotta linguisticamente, può raffigurarsi tali connessioni interne solo secondo
il modello di inclusione delle parti contenute nel tutto. Egli considera questa figura di pensiero come ' umanistica ' 29 e si distanzia da essa. Proprio la vicinanza tecnico-concettuale alla filosofia
del soggetto raccomanda addirittura, come mostra l'esempio di
Parsons, di imitare semplicemente l'esempio classico e di applicare il sistema sociale (in Parsons: il sistema d'azione) come il
tutto che contiene i sistemi psichici come sistemi parziali. In tal
modo, però, i difetti rimproverati a ragione alla filosofia del soggetto passerebbero alla teoria sistemica. Per questo Luhmann
adotta una soluzione, della cui portata in termini di strategia
della teoria è pienamente consapevole: « Se si guarda all'essere
umano come parte dell'ambiente della società (invece che parte
della società stessa), ciò cambia le premesse di tutte le problematiche della tradizione, quindi anche le premesse dell'umanesimo classico » 30 • E viceversa: « Chi rimane fedele a questa( e)
premessa(e) e con (queste) cerca di rappresentare una richiesta
umanitaria, deve perciò comparire come oppositore della pretesa di universalità della teoria sistemica » 31 •
Effettivamente tale antiumanismo metodico 32 non si indirizza
contro una figura di pensiero sbagliata perché racchiude nel
tutto parti concretistiche, ma contro una ' richiesta umanitaria',
che potrebbe risolversi anche senza il concretismo del tutto e
delle sue parti; intendo la ' richiesta ' di concettualizzare la società moderna in modo tale che, per la possibilità di fare completa rinuncia normativa di sé e di elaborare percezioni di crisi
nei processi di comunicazione più avanzati della sfera pubblica,
non sorgano pregiudizi negativi già attraverso la scelta dei concetti fondamentali. Il costrutto di una sfera pubblica che potrebbe svolgere questa funzione, non trova naturalmente più
posto, non appena l'agire comunicativo ed il mondo vitale
ripartito intersoggettivamente si insinuano tra tipi sistemici che,
come il sistema psichico ed il sistema sociale, formano l'uno
29 Luhmann sottolinea « che per la tradizione umanistica, l'essere umano si
trovò all'interno e non all'esterno dell'ordine sociale. Egli ebbe valore di parte
essenziale dell'ordine sociale come elemento della stessa società. Quando fu chiamato individuo fu a cagione del fatto che era un elemento ultimo non ulteriormente risolubile >> (N. Luhmann, Soziale Systeme, cit., p. 286).
30 I vi, p. 288.
31 lvi, p. 92.
32 Affettività di un antiumanesimo normativa, come quelle che hanno influenzato l'opera di Gehlen, sono quasi totab;nente assenti in Luhmann.
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per l'altro degli ambienti e mantengono reciprocamente ormai
solo relazioni esterne.
II
Il fiume di atti fra autorità ministeriali e la coscienza monadicamente incapsulata di un Robinson fornisce le rappresentazioniguida per il disaccoppiamento concettuale di sistema sociale e
sistema psichico, per cui l'uno deve essere unicamente basato
sulla comunicazione, e l'altro solo sulla coscienza 33 •
In questa separazione astratta fra sistema psichico e sociale
si inserisce anche un'eredità della filosofia del soggetto: il rapporto soggetto-oggetto offre altrettanto poco che il rapporto sistema-ambiente, connessioni concettuali con la intersoggettività
genuinamente linguistica di intesa e senso diviso comunicativamente. Luhmann oscilla, ad ogni modo, tra la costruzione
della intersoggettività a partire dall'intreccio di singole prospettive catturate soggettivamente un mutamento teoretico-evolutivo
dei risultati filosofico-soggettivi realizzati da Fich te fino ad Husserl e d'altra parte, dalla eguale originadetà evoluzionistica di coscienza individuale e di un sistema autoportante di
prospettive 34 •
Anche questa seconda concezicne come qu,ella classica soffre della mancanza di adeguati concetti fonèamentali di tipo
teoretico-linguistico. Luhmann deve introdurre ' senso ' come
concetto neutro opposto a ' comunicazione ' e a ' coscienza ', ma
così che il senso possa diramarsi in modi tipologicamente sva33 N. Luhmann, Sazia/e Systeme, cit., p. 142.
34 In più occasioni, Luhmann conclude che sistemi psichici conquistano,
nel processo evolutivo, un posto tra sistemi organici e sociali, cioè, geneticamente ' prima ' si presentano quali sistemi sociali. Solo i sistemi psichici dispongono della coscienza, e le persone come portatrici di coscienza, stanno a fondamento di sistemi sociali. Questo quadro si offre, in particolare, in relazione con
le riflessioni che riguardano i sistemi sociali. Quando l'ordine sociale (nel senso
di Lewis) viene con ciò realizzato, cosicché uno degli attori preparati solipsisticamente spezza in due il circolo critico della doppia contingenza per mezzo di
una autodeterminazione unilaterale, persone o ' portatori di coscienza ' devono
essere postulati, i quali, prima che ad ogni altra partecipazione a sistemi sociali,
sono adatti a giudicare ed a decidere - anzitutto da questa realtà 'fisico-chimioc-organica-psichica ' si distacca successivamente il sistema sociale emergente.
D'altro Iato, i due tipi sistemici non possono trovarsi su gradini differenti della
scala evoluzionistica, se entrambi devono in egual misura distinguersi dai sistemi
organici per mezzo dell'emergente progresso dell'elaborazione di senso. Così, in
altri luoghi, Luhmann parla di una co-evoluzione della formazione di sistemi
elaboratori di senso di uguale origine, che si presuppongono scambievolmente
(nel loro ambiente), che da una parte si basano sulla coscienza, dall'altra sulla
comunicazione.
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riati di elaborazione del senso. Altrimenti, i sistemi che lavorano sulla base di coscienza e comunicazione non potrebbero
formare reciprocamente degli ambienti. Sebbene la teoria sistemica fornisca alle stesse domande risposte strutturalmente analoghe come a suo tempo la filosofia del soggetto, la teoria della
società si trova oggi di fronte ad una situazione argomentativa
mutata. Non solo nella tradizione delle scienze dello spirito di
Humboldt, ma anche nella filosofia analitica del linguaggio,
come nel pragmatismo e nello strutturalismo (che già attraverso
G. H. Mead e C. Lévi-Strauss hanno esercitato un grosso influsso
sulla teoria della società), è stato enucleato lo status sovrasoggettivo della lingua che ha priorità rispetto ai soggetti. Su questo sfondo storico-teorico appare chiaro quali gravose conseguenze si addossi una teoria con la divisione di queste strutture
linguistiche, includenti lo psichico e il sociale, che si estendono
a due sistemi diversi. Ora, configurandosi più chiaramente il
profilo della teoria luhmanniana, si vede anche quante energie
devono essere utilizzate per il superamento del problema conseguente, cresciuto a partire da quell'unica decisione basilare.
Strutture sovrasoggettive del linguaggio intreccerebbero troppo strettamente società e individuo. Una intersoggettività della
comprensione fra attori, prodotta mediante espressioni identiche
per significato e pretese di validità criticabili, sarebbe una parentesi troppo forte tra il sistema psichico e quello sociale, come
pure tra sistemi psichici diversi. I sistemi devono agire contingentemente solo dal di fuori l'uno sull'altro; al loro rapporto
manca ogni regolazione interna. Perciò Luhmann deve innanzitutto ridurre la lingua e l'agire comunicativo a formati così piccoli che si perde di vista la connessione interna di riproduzione
culturale, integrazione sociale e socializzazione.
Rispetto al concetto di senso intr"odotto fenomenologicamente,
all'espressione linguistica viene assegnato uno status subordinato.
La lingua serve solo alla generalizzazione simbolica di circostanze di senso precedenti, essa qu,antizza, per così dire, il flusso
di esperienza in identità di nuovo riconoscibile 35 • In"oltre il linguaggio rimane secondario rispetto alla coscienza. La vita solitaria dell'anima, compreso il pensiero discorsivo, non ha fin da
principio la forma linguistica. La strutturazione della lingua articola solo lo svolgimento spontaneo della coscienza tramite cesure
e ad esso conferisce la facoltà di costruire avvenimenti 36 • Oltre
35 N. Luhmann, Soziale Systeme, cit., pp. 136 sgg. Rimane, naturalmente,
un problema aperto come il senso prediscorsivo possa anche essere preordinato
all'intenzionale struttura della coscienza.
36 lvi, pp. 367 sgg.
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a_ciò, però, la lingua non è costitutiva per processi di comprensione; essa opera 'nello spirito', anche prima di ogni comunicazione. Nella misura in cui la lingua è partecipe della organizzazione di decorsi rappresentativi e di processi di pensiero, non
funziona affatto come derivato interiorizzato del discorso 37 • Ciascuna di queste tesi è altamente controversa; esse dovrebbero
essere fondate in particolari contesti della filosofia del linguaggio. Queste domande non possono, ad ogni modo, essere risolte
con riferimenti fenomenologici o addirittura definizioni.
Certo la strategia di Luhmann è chiara: se la prestazione
dei simboli linguistici si esaurisce nell'ordinare, astrarre e generalizzare processi di coscienza e contesti di senso prelinguistici, la comunicazione condotta con mezzi linguistici non può
essere spiegata a partire da condizioni di possibilità specificamente linguistiche. E se la lingua non viene più calcolata
come una struttura che rende possibile il nesso interno di comprensione di senso, significato identico e validità intersoggettiva,
allora anche la comprensione di espressioni identiche per significato, l'intesa (o il dissenso) riguardo alla validità di manifestazioni linguistiche, la comunanza di un contesto di senso e di
rimando, suddiviso intersoggettivamente, vale a dire la partecipazione comunicativa ad un mondo della vita rappresentato
in una concezione linguistica del mondo, non può essere spiegata per la via dell'analisi della lingua. Gli aspetti di un'intersoggettività prodotta linguisticamente devono, piuttosto, essere
deviati, come manufatti autoprodotti, dalle reazioni scambievoli
di sistemi elaboratori di senso. Luhmann si serve qui di note
figure del pensiero empiristico.
Così, ad esempio, la comprensione di senso sorge, al di sotto
del livello della comprensione linguistica, dalla osservazione
scambievole di sistemi psichici, che sanno che ciascuno di essi
opera relativamente a se stesso e che perciò compare da solo
nell'ambienle percepito del sempre diverso. In tal modo si sviluppa una spiraie di riflessi che si ripetono arbitrariamente, di
osservazioni estranee ed autosservazioni. Sull'osservazione del
reciproco osservare si forma allora una comprensione delle differenze tra prospettive di concezione. Questa dimensione sociale
di senso non si attua dunque tramite una convergenza di orizzonti di comprensione, che si formano intorno a significati identici e pretese di validità riconosciute intersoggettivamente, e che
si fondono nel consenso su qualcosa di inteso o di detto. Tra
sistemi psichici diversi non può inserirsi un terzo comune, sia
:r; lvi, p. 137 e p, 367.
378
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pure un sistema sociale sorto autocataliticamente, che si richiude
subito di nuovo in proprie prospettive sistemiche e che rimanda
ai propri punti di osservazione egocentrici:
Per le poche considerazioni offerte dal rapporto (di sistemi autoreferenziali che si osservano reciprocamente), è sufficiente la loro
capacità di elaborare informazioni. Esse rimangono separate, non si
fondono insieme, non si capiscono fra di loro meglio di prima; si
concentrano su ciò che possono osservare come input ed output
nell'altro come sistema-in-un-ambiente, ed imparano di volta in
volta autoreferenzialmente nella loro propria prospettiva di osservazione. Ciò che osservano, possono cercare di influenzarlo attraverso il loro proprio agire, e possono di nuovo imparare con il
feed-back. In questo modo può realizzarsi . un ordine emergente.
Questo lo chiamano [... ] sistema sociale 38 •
Sistemi sociali elaborano il senso nella forma della comunicazione. Perciò viene introdotta la lingua. Questa, però, non
mette a disposizione espressioni in qualche modo identiche per
significato, bensì permette solo di sostituire segni al posto del
senso. Come prima, il senso è orientato sulla differenza di prospettive di concezione. Alter ed Ego possono certo « essere rafforzati nella idea di intendere la stessa cosa grazie all'uso di
segni di uguale significato » 39 • La lingua è così scarsamente definita come medium di comunicazione, che non è adatta a superare l'egocentrismo delle singole prospettive sistemiche attraverso
una prospettiva comune avanzata, sopra - o infra - sistemica.
Quanto poco più sistemi dispongono degli stessi significati, tanto
poco la comprensione termina in un accordo stricto sensu. La
separazione di dimensione sociale e materiale deve escludere proprio ciò che si è inclini a considerare come telos della lingua:
fondare la mia comprensione di una cosa con riferimento alla
possibilità di un consenso, che noi otteniamo insieme su questa
cosa. Così anche la validità di una asserzione non deve fondarsi
sul riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili, bensì in un consenso che si ha di volta in volta solo per
Ego o solo per Alter. La lingua non offre alcun terreno solido,
sul quale Ego potrebbe incontrarsi con Alter nel consenso su
qualcosa: « Il mio consenso è consenso solo in relazione al tuo
consenso, ma il mio consenso non è il tuo consenso, e non vi è
neppure alcuna sorta di argomenti materiali o fondamenti razio38
39
lvi, p. 157.
I vi, p. 220.
379
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nali che potrebbero infine assicurare questa coincidenza (di
nuovo: a partire dalla dimensione materiale) » 40 • Il 'miscuglio ' di dimensione sociale e materiale, che permette di pensare proprio questo, Luhmann lo considera come l'« errore principale dell'umanesimo » 41 •
Il complesso di problemi conseguenti finora considerato si
riferisce, in generale, al fatto di risolvere empiricamente i fondamenti sovrasoggettivi dei processi di intesa, per correre sotto
le strutture di un'intersoggettività prodotta linguisticamente, con
un concetto linguistico minimale. La coscienza individuale e la
società conseguono infatti l'autarchia dei singoli sistemi che possono formare l'ambiente reciprocamente, solo quando il loro movimento non viene regolato atttaverso relazioni interne, quando
cioè cultura, società e persona non sono più collegate internamente nelle strutture del mondo della vita. Ad ogni modo, ricresce subito un secondo complesso di problemi conseguenti, non
appena il primo sia stato elaborato e sin stata assicurata la premessa che sistemi psichici e sociali si imbattono ancora solo contingentemente l'uilO nell'altro, e finiscono nel tipo di interdipendenze che derivano da relazioni esterne. Giacché, a questo punto,
deve essere ricomposto nuovamente per gradi, ciò che al primo
passo è stato separato. Quelle connessioni di individuo e società,
di storia della vita individuale e forma di vita collettiva, di individuazione e costituzione sociale, che abbiamo spiegato sotto gli
aspetti della riproduzione culturale, della integrazione sociale e
della socializzazione a partire dalla cooperazione di componenti
del mondo della vita internamente intrecciate, devono essere
resi plausibili con l'ausilio di ipotesi aggiuntive che provengono
dalla compenetrazione di relazioni esterne.
Serve, per esempio, a questo scopo, il concetto di interpenetrazione, che si riferisce al dato di fatto che due sistemi, che
formano reciprocamente ambienti, limitano· spontaneamente il
grado di libertà di un tal nesso esterno per rendersi reciprocamente dipendenti nelle loro formazioni strutturali. L'interpenetrazione sociale e inter-personale esiste quando « entrambi i sistemi
si rendono reciprocamente possibili in quanto inseriscono ciascuno nell'altro la loro propria complessità precostituita » 42 • Con
l'aiuto di quest'idea si devono spiegare ad esempio le relazioni
intime o le aspettative morali. Così devono essere spiegati tutti
i fenomeni che continuano a stupire finché si parte dal fatto che
40
41
42
lvi, p. 113.
lvi, p. 119.
I vi, p. 290.
380
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sistemi psichici e sociali non sono fin da princ1p10 coordinati
fra loro. In base a queste premesse, ad esempio, il processo
della socializzazione può- essere inteso solo come una prestazione
propria del sistema psichico: « Socializzazione è sempre autosocializzazione » 43 • Il concetto di individualità presenta difficoltà
simili. Una volta che è stato reciso il nesso interno fra socializzazione ed individuazione, il concetto di individualità normativamente ricco di contenuto può trovare ancora utilizzazione solo
come riproducibile « formulario dell'autodescrizione » 44 •
La strategia della formazione concettuale, cui posso qui
accennare solo velocemente, si spiega con il fatto che la teoria
si impiglia cumulativamente nei problemi conseguenti di una
unica, decisione basilare. Con gli aspetti del sociale e dello psichico Luhmann scompone, per così dire, la vita del genere e
quella dei suoi esemplari, per ripartirla in due sistemi esteriori
l'uno all'altro, benché il nesso interno di entrambi gli aspetti
sia costitutivo per forme di vita linguisticamente costituite. Certamente, indicazioni non possono sostituire argomenti e controargomenti. Ma già il livello sul quale gli argomenti potrebbero essere scambiati, non è facile da definire. Questa teoria
sistemica non si adatta, in realtà, contro l'autocomprensione del
suo autore, al formato relativamente modesto di una teoria valida per ogni genere e ritagliata su una singola disciplina. Essa
non è veramt!nte sociologia 1 ma piuttosto è da confrontare con
progetti metateoretici, che realizzano funzioni di concezione del
mondo.
Considero la teoria di Luhmann come l'ingegnosa prosecuzione di una tradizione che caratterizza spiccatamente l'autocomprensione dell'età moderna europea, e che in tal modo
ha riflesso, a sua volta, il modello selettivo del razionalismo
occidentale. L'unilateralità cognitivo-strumentale della razionalizzazione culturale e sociale trovò espressione anche nei tentativi filosofici di stabllire un'autocomprensione obbiettivistica
dell'uomo e del suo mondo - in immagini del mondo meccanicistiche dapprima, più tardi materialistiche e fisicalistiche,
che con teorie più o meno complesse ricondussero lo spirituale
al corporeo. Nei paesi anglosassoni il materialismo analitico
tiene fino ad oggi vive le discussioni sul rapporto di spirito e
corpo; fino ad oggi convinzioni di fondo fisicalistiche o comunque
scientistiche rafforzano la pretesa di rendere estraneo dalla prospettiva di un osservatoré naturalistico tutto il conosciuto intui43
44
lvi, p. 327.
lvi, pp. 360 sgg.
381
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tivamente: di comprenderci a partire dagli oggetti. Per quanto
concerne l'autocomprensione obbiettivistica, non si tratta di questa o quella spiegazione particolare, ma dell'evento straordinario di un capovolgimento dell'ordine naturale del mondo.
Lo stesso mondo della vita deve essere addestrato in una
prospettiva dell'auto-oggettivazione, di modo che tutto ciò che
normalmente all'interno di un orizzonte ci appare per così dire
performativo, appaia, da un angolo di visuale extramondano,
come un accadere per eccellenza estraneo al senso, esteriore ed
accidentale, che si spiega solo secondo modelli naturalistici.
Finché meccanica, biochimica o neurofisiologia hanno fornito
i linguaggi ed i modelli, si dovette restare naturalmente su correlazioni generalr ed astratte e su discussioni basilari circa spirito
e corpo. Sistemi descrittivi di origine scientifico-naturale sono
troppo lontani dalle esperienze quotidiane rispetto a quanto si
sarebbero proposti per introdurre clandestinamente nel mondo
della vita in modo differenziato e su un fronte ampio autodescrizioni estranianti. Questo cambia con la lingua della teoria
sistemica generale, che si è sviluppata a partire dalla cibernetica e dell'utilizzo dei modelli d'essa in diverse scienze biologiche. Le rappresentazioni esemplari intuite nelle prestazioni
dell'intelligenza ed orientate ad una vita organica, si avvicinano
molto più alle forme socioculturali della vita, che alla meccanica classica. Come dimostrano i sorprendenti esercizi di traduzione di Luhmann, questa lingua può essere maneggiata ed allargata così flessibilmente, da consentire anche per i sottili fenomeni del mondo della vita, nuove descrizioni non solo obbiettivizzanti, ma obbiettivistiche. Bisogna fare attenzione al fatto che
teorie innovative della società restavano sempre ancorate .nella
società stessa con i loro paradigmi, e non hanno mai fatto parte
esclusivamente del sistema scientifico. Un effetto pell'oggettivazione si realizza, ad ogni modo, nella misura in cui la teoria
sistemica penetra nel mondo della vita, introduce in questa una
prospettiva metabiologica dalla quale impara a conoscere come
un sistema - con altri-sistemi-in-un-ambiente - , come se il processo del mondo non si compiesse con nessun altro mezzo se
non mediante differenze sistema-ambiente.
In questo modo, la ragione soggettocentrica viene risolta
tramite una razionalità sistemica. Con ciò, alla critica della ragione condotta çome critica della metafisica e del potere, che
abbiamo rammentato -in queste lezioni, si sottrae l'oggetto.
Nella misura in cui non fornisce il suo contributo specialistico
solo all'interno del sistema scientifico, bensì penetra anche all'interno del mondo della vita con la sua pretesa di universa-
382
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lità, la teoria sistemica sostituisce le convinzioni di sfondo con
convinzioni metabiologiche. Così anche la disputa fra oggettivisti e soggettivisti perde il suo spirito. Forse l'intersoggettività
prodotta linguisticamente e il sistema chiuso autoreferenziale .
forniscono spunti per una controversia che si pone al posto della
problematica svalorizzata di spirito-corpo.
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INDICI
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INDICE DEI NOMI
Adenauer, Konrad, 365.
Adorno, Theodor W., 53-4, 58, 69
e n, 70, 89n, 108, 110 e n, 115,
117, 119-26, 130-3, 135-6, 188192, 213n, 222, 223 e n, 224,
227, 244, 307, 316, 336, 338,
352.
Alighieri, Dante, 191.
Apel, Karl 0., 276n, 313n, 323 e n,
Arac, J., 194n.
Arendt, Hannah, 49 e n, 329.
Aristotele, 97n, 156, 191, 328.
Austin, John L., 141, 197 e n, 198200, 202, 204, 208, 314.
Bloom, Harold, 194n.
Blumenberg, Hans, 8 e n.
Béihme, Gernot, 304en, 305n, 307,
308n.
Bohme, Hartmut, 304 e n, 305n,
307, 308n.
Bohme, Jakob, 325.
Bohrer, K. H., 93n, 94n, 95n, 109n,
160n.
Bosch, Ieronimus, 248.
Bourdieu, P., 165n.
Breton, André, 104, 216.
Brunkhorst, H., 78n, 326n.
Brunner, Otto, 8n.
Bruns, M., 9.
Bubner, R., 33n ..
Biihler, K,-, 203 e n, 313.
Bachelard, Gaston, 54, 242.
Bacone, Francesco, 276.
Baier, H., 123n.
Barthes, Roland, 195.
Bataille, Georges, 4, 57, 77, 89n,
100, 103 e n, 104-8, 135, 215-9,
220 e n, 221 e n, 223 e n, 224 e n,
225 e n, 226, 228-43, 245, 256,
258-60, 288-9.
Baudelaire, Charles, 9 e n, 10-11,
99, 216, 288 ..
Bauer, Bruno, 53, 63.
.
Becker, Oskar, 102n, 160n.
Beissner, F., 95n.
Benjamin, Walter, 10-6, 59, 102,
104, 109, 120, 126, 188, 224 e n.
Benn, Gottfried, 4.
Bentham, Jeremy, 249, 272.
Berger, Peter, 78, 79 e n, 80-1.
Bergson, Henry, 146, 257.
Bernstein, R. J ., 64n, 303n.
Blanchot, Maurice, 195, 241.
Bloch, Ernst, 67.
Calvino, Giovanni, 236.
Capote, Truman, 205-6.
Caruso, P., 241n.
Castoriadis, Cornelius, 64n, 157n,
319 e n, 320-1, 327 e n, 328-34.
Coleman, James, 3.
Colli, Giorgio, 88n, 101n.
Comte, Auguste, 366.
Conze, W., 8n.
Creuzer, Georg F., 95.
Culler, Jonathan, 183n, 187n, 195,
196n, 197-202, 205n.
Darwin, Charles, 53.
Dautry, J., 231n.
Davidson, D., 314.
De Gaulle, Charles, 365.
Deleuze, Gilles, 126, 128n, 130.
de Man, Paul, 194n, 195 e n.
de Man, Hendrik, 4n.
387
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Democrito, 324.
Derrida, Jacques, 57, 100, 107,
164-71, 175-85, 187-202, 205,
208-10, 213 e n, 241-2, 252, 257,
298, 305n, 319-20, 336, 338,
353n.
Descartes, René, 19, 105, 137-8,
262, 270, 312, 367.
Dewey, John, 64n, 152, 257.
Dilthey, Wilhelm, 146, 191.
Dreyfus, H. L., 263n, 265n, 270n,
289n.
Droysen, Johann G., 191.
Dubiel, Helmut, 70n, 121 e n, 220n,
223n.
Dumézil, Georges, 241.
Dummett, Michael, 314.
Durkheim, Emil, 2, 112, 221, 234,
290, 334.
Godzich, W., 194n.
Gramsci, Antonio, 64, 77.
Grice, H. P., 207.
Gumbrecht, H. V., 8n.
Habermas, Jiirgen, 1n, 9n, 16n,
32n, 66n, 74n, 78n, 98n, 109n,
118n, 125n, 143n, 171n, 190n,
208n, 214n, 220n, 276n, 291n,
293n, 299n, 300n, 302n, 303n,
~05, 329n, 334n, 341, 342n,
347n, 355n, 360n, 365n, 369n.
Hamann, Johann G., 191, 323.
Handelmann, Susan, 187n, 188.
Hartmann, Geoffrej', 194n, 195,
205 e n.
Hartmann, Nicolai, 145.
Hegel, G. W. F., 4-7, 8 e n, 13n,
15 e n, 16-45, 49, 52-4, 57, 59-60,
62-5, 67, 69-71, 76-9, 86-7, 92
e n, 102, 112, 123, 132, 135-7,
140-1, 143, 156, 213n, 255, 266267, 298, 305-6, 308n, 312, 325326, 337, 347n, 350-1, 367-8,
371-2, 374.
Heidegger, Martin, 4, 14, 53-4, 57,
77, 82, 89 e n, 95, 100, 101 e n,
102 e n, 104-8, 136-70, 175, 180,
183-5, 187, 188n, 189-91, 193,
213n, 215-9, 241-2, 252, 257-60,
265, 267, 270, 298, 309-11, 315,
319-20, 327, 330-1, 333, 336, 338.
Held, T. D., 323n.
Heller, Agnes, 79, 80 e n, 81 e n.
Henrich, Dieter, 33, 35n, 41n, 42
e n, 266n, 352n, 353n.
Henrich, Klaus, 110, 111n, 325 e n.
Herder, Johann G., 65, 79, 179.
Hess, Moses, 53, 59.
Hesse, Mary B., 323n.
Hitler, Adolf, 158, 220, 222.
Hobbes, Thomas, 109, 261n, 262.
Héilderlin, F., 23, 33-5, 94 e n, 95
e n, 138, 170, 188n, 243, 267,
305.
Holthusen, H. E., 4n.
Honegger, C., 255n, 295 e n.
Honneth, Axel, 81n, 131n, 259n,
272n, 290 e n, 354.
Horkheimer, Max, 54, 69, 77, 89n,
108, 110-5, 117, 119-21; 122n,
123-5, 130-3, 135-6, 220, 223 e n,
224, 227, 307, 316.
Horstmann, R. P., 41n.
Einstein, Cari, 216.
Engels, Friedrich, 61n, 62n, 231.
Euripide, 94.
Farias, Victor, 160n.
Feuerbach, Ludwig; 53, 55, 63,
79-80.
Fichte, Immanuel H., 55.
Fichte, Johann G., 22, 24, 32, 34,
44, 265-6, 298, 305, 330, 332-3,
372, 376.
Fink-Eitel, H., 131n, 259n.
Forsthoff, E., 73n.
Foucault, Michel, 54, 57-8, 59n,
100, 107, 131, 217 e n, 218, 241267, 269-98, 300, 303-4, 309-11,
316, 320, 336, 338, 347n, 354,
371.
Frank, M., 91n, 94 e n, 271n.
Fraser, N., 287n, 288.
Frege, Gòttlob, 174, 314.
Freud, Sigmund, 15, 53, 131, 221,
243, 267, 287, 295, 307, 310.
Freyer, Hans, 14, 73 e n, 351.
Friedeburg, L. von, 9n, 190, 220n,
316n.
Gadamer, Hans G., 14, 141, 191,
201, 358.
Gehlen, Arnold, 3, 4 e n, 179, 256n,
291 e n, 296 e n, 351, 372, 375
e n.
Gelb, I. J ., 166 e n.
Glucksmann, André, 260n.
388
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Huber, E. R., 73n.
Humboldt, Karl W. von, 65,
157, 191, 377.
Husserl, Edmund, 54, 77-81,
142, 146-8, 150, 153, 155-6,
170 e n, 171-82, 192, 265,
298, 327, 333, 366-7, 376.
Liibbe, H., 59n, 71n, 72n, 73n.
Luckmann, T., 78-81.
Luhmann, Niklas, 352 e n, 353 e n,
354-5, 357n, 358-9, 366-8, 370
e n, 371n, 372, 373n, 374-8, 380382.
Lukacs, Gyorgy, 49, 54, 64n, 67,
77-9, 195, 227-8, 267, 284, 337,
351.
Luria, Isaak, 325.
Lutero, Martin, 18, 236.
142,
141169,
267,
Jacobi, Friedrich H., 24, 32.
Jacobson, Roman, 195, 203 e n,
205-6.
J amme, C., 33n.
Jaspers, Karl, 167.
Jauss, H. R., 8n, 9n, 35 e n.
Joas, H., 131n.
Jung, Karl G., 310.
Jiinger, Ernst, 137.
Machiavelli, Niccolò, 109.
Maimonide, Mosé, 186.
Mallarmé, S., 96, 126.
Mandeville, Bernard de, 109.
Marcuse, Herbert, 49 e n, 50 e n,
67-8, 73n, 77-8, 294, 327.
Markus, GiOrgy, 81en, 82en, 8384.
Martin, W., 194n.
Marx, Karl, 11, 14, 47, 49, 53, 55,
57, 60, 61en, 62en, 63en,
64-8, 70, 72, 77-9, 81, 109, 131,
141, 225-7, 232, 260n, 267, 286287, 298, 306, 317, .337-8, 341,
346, 347 e n, 348, 350-2, 354-5,
369, 374.
Masson, André, 215.
Mathiesen, U., 358n.
Matthes, J., 81n.
Maurer, R., 130n.
Mauss, Marcel, 233n.
Mead, George H., 2, 64, 141-2,
152, 325, 334, 377.
Merleau-Ponty, Maurice, 64, 318.
Miller, Hillis, 194n, 195.
Mitscherlich, A., 221n.
Montinari, Mazzino, 88n, 101n.
Morris, William, 67.
Miinkler, H., 261n. ,
Mussolini, Bènito, 222.
Kant, Immanuel, 16, 19, 20e n,
21-2, 24, 26, 32, 34, 44, 49 e n,
53, 80, 127, 146-7, 155-6, 259,
264-7, 270, 287, 292, 298 e n,
304-5, 307, 309, 312, 323, 353
e n, 366-8, 372.
Kautsky, Karl, 59.
Kierkegaard, S~ren, 53, 55, 149,
153, 160.
.
Kittler, F. A., 259n.
Kojéve, Alexandre, 242, 318.
Korsch, Karl, 14, 59, 77, 329.
Koselleck, Reinhardt, 5n, 6 e n,
7n, 8n, 12, 13 e n, 15.
Krapnick, M., 187n.
Kristeva, Julia, 185n.
Kuhn, H., 8n.
Labov, W., 205 e n.
Lacan, Jacques, 57, 100, 268, 310.
Lange, W., 94n.
Larenz, X., 73n.
.
Lask, Emil, 20, 51.
Leibniz, Gottfried W., 262.
Leiris, Michel, 215 e n, 216, 235n,
236n.
Lessing, Gotthold E., 26.
Levinas, Emanuel, 168, 185, 187n,
188n.
Lévi-Strauss, Claude, 241-2, 268,
271, 310, 377.
Leyy, Bernard-Henry, 285n, 286,
289.
Linneo, Carlo, 263.
Littré, Emil, 166.
Lowith, Karl, 53, 55 e n.
Nietzsche, Friedrich, 14, 45, 52-3,
57-60, 77, 87-91, 95-110, 113,
115, 123-30, 132, 135, 137-41,
143, 145, 156-7, 163, 165, 169,
187-9, 192, 213n, 215-8, 239,
243 e n, 245, 252-3, 255, 257,
259-60, 261n, 267, 270, 282,
285, 288, 297, 303-4, 307, 309,
311-2, 338, 352n, 353 e n, 366,
370n.
389
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Norris, Christopher, 195n.
Novalis, 95.
Scheler, Max, 145-6.
Schelling, Friedrich W. J., 6, 22-3,
25, 33-5, 49, 55, 65, 91, 92 e n,
93, 95 e n, 182, 243n, 267, 298,
305, 325.
Schiller, Johann C. F., 33, 35-6,
46-51, 65, 97n, 127, 298, 305-6,
308n.
Schlegel, Friedrich, 19, 35-6, 91,
92n, 93 e n, 143, 305.
Schmitt, Cari, 73, 222-3.
Schniidelbach, H., 53n, 76n, 133n,
190n.
Schneeberger, G., 160n, 161n,
162n.
Schneider, H., 33n.
Scholem, Gershom, 186 e n, 188.
Schopenhauer, Arthur, 96, 98,
109, 243.
Schreiber, M., 159n.
Schroter, M., 91n.
Schulz, W., 145n, 153 e n.
Schi.irmann, Reiner, 144n, 145n,
163n.
Schi.itz, Alfred, 79, 318.
Seabrok, W., 235n.
Searle, John, 197 e n, 198, 199 e n,
200, 202.
Simmel, Georg, 146 e n, 257.
Sloterdijk, P., 289n.
Socrate, 90, 97n, 126.
Sollner, T., 223n.
Spengler, Oswald, 137.
Stalin, Josef V. Giugasvili detto,
232, 260n.
Stein, Lorenz von, 70 e n.
Steinfels, H., 70n.
Storr, Gottlieb C., 25.
Strauss, David F., 63.
Swedenborg, Emanuel, 304.
Szondi, Peter, 94n.
Offe, Claus, 81 e n, 348n, 355n.
Ohmann, Richard, 204en, 205en.
Omero, 111-2.
Oppenheim, H. B., 70, 71n, 72n.
Ott, Hugo, 159n.
Ottmann, H., 16n.
Paci, Enzo, 64n.
Parmenide, 213n, 325.
Parsons, Talcott, 349, 366, 375.
P az, Octavio, 97.
Peirce, Charles S., 141, 152, 325.
Peukert, H., 16n.
Piaget, Jean, 118, 300.
Platone, 313, 324.
Plessner, H., 318.
Poggeler, 0., 145n, 157n.
Popper, Karl R., 174, 313.
Pratt, Mary L., 197, 205 e n, 206-7.
Protagora, 137.
Protti, M., 78n.
Piitz, H., 124n.
Rainbow, P., 263n, 265n, 272n,
289n.
Rehinold, Karl L., 22.
Rickert, Heinrich, 145.
Ringer, F. K., 143n.
Rippel, Philip, 261n.
Ritter, Joachim, 73 e n, 74 e n, 75
e n, 76 e n, 351.
Robertson, William, 163n.
Robespierre, M.-F.-J. de, 11.
Rohrmoser, G., 130n.
Rorty, Richard, 209 e n, 210, 213n.
Rosenkranz, Karl, 70, 71n, 72,
73n.
Rossum, W. von, 261n.
Rousseau, Jean-Jacques, 26, 192.
Ruge, J\rnold, 52-3.
Ruskin, Johrì, 67.
Rymanow, Mèndel von, 186.
Taubes, Jacob, 95n.
Taylor, Charles, 64n, 66n, 79 e n,
323n.
Thompson, J., 323n.
Tugendhat, E., 155n, 157 e n, 171n,
176, 314n.
Saage, Q.., 70n.
Sade, D, A. F. de, 109, 115.
Saint-Simon, C. H. de Rouvroy
conte di, 231.
Sartre, Jean-Paul, 64n, 78, 242,
318, 327.
Saussure, Ferdinand de, 166, 171,
182, 183 e n, 192.
Velasquez, 263 e n.
Veyne, Paul, 256n, 279 e n, 281n.
Vico, Giambattista, 191.
390
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Wagner, Richard, 90 e n, 91, 96,
126, 139..
Weber, Max, 1 e n, 2, 4-5, 51, 54,
72, 73n, 77, 113 e n, 116, 118,
217, 233, 236, 286, 317, 337.
Weiss, Peter, 126.
Wellmer, A., 316n.
Wiedmann, F., 8n.
Willke, H., 363n.
Wilson, M., 223n.
Wittgenstein, Ludwig, 53, 141-2,
157, 174, 189.
Yorck yon Wartenburg, Paul, 14.
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INDICE DEL VOLUME
Premessa
1.
VII
La coscienza temporale della modernità e la sua esigenza di rendersi conto di se stessa
Excursus sulle« Tesi di filosofia della storia» di W alter Benjamin, p. 12
2.
Il concetto hegeliano della modernità
Excursus sulle « Lettere sull'educazione estetica dell'uomo » di Schiller, p. 46 ·
3.
Tre prospettive: gli hegeliani di sinistra, gli hegeliani
di destra e Nietzsche
Excursus sull'obsolescenza del paradigma della produzione, p. 77
4.
5.
6.
7.
L'entrata nel post-moderno: Nietzsche quale piattaforma girevole
L'intrico di mito e illuminismo:
Adorno
1
24
52
86
Horkheimer e
L'infiltrazione della critica della metafisica nel razionalismo occidentale: Heidegger
Il sopravanzamento della filosofia temporalizzata dell'originario: la critica di Derrida al fonocentrismo
Excursus sul livellamento della differenza specifica
tra filosofia e letteratura, p. 189
393
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109
135
164
8.
Fra erotismo ed economia generale: Bataille
215
9.
Smascheramento critico-razionale delle scienze urnane: Foucault
241
10. Le aporie di una teoria del potere
270
11. Un'altra via d'uscita dalla filosofia del soggetto. La
ragione comunicativa contro la ragione soggettocentrica
Excursus su C. Castoriadis: «l'istituzione immaginaria », p. 327
297
12. Il contenuto normativa della modernità
Excursus sulla appropriazione dell'eredità della filosofia del soggetto da parte della teoria dei sistemi di
Luhmann, p. 366
336
Indice dei nomi
387
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