Ecc.ma Corte Costituzionale memoria illustrativa ex art. 10 Deliberazione C. cost. 7 ottobre 2008 nella causa n. 339/2015 r.o. I sottoscritti Avv. Andrea Soliani e Prof. Avv. Gaetano Insolera, difensori e procuratori speciali del sig. [… omissis … ], giusta procura speciale allegata all’atto di costituzione depositato in data 1 febbraio 2016 e come da nomina e procura speciale depositata presso la Cancelleria di Codesta Ecc.ma Corte in data 6 settembre 2016 ad integrazione del collegio difensivo, imputato nel giudizio a quo (n. 6421/14 RG App. Milano, pendente avanti la Corte d’appello di Milano, sez. II Penale) e parte costituita nel giudizio di costituzionalità, promosso dalla Corte d’appello di Milano, sez. II Penale, con ordinanza emessa in data 18 settembre 2015, annotata al Reg. Ord. n. 339/2016 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 13 gennaio 2016, formulano le seguenti osservazioni a sostegno delle conclusioni rassegnate con l’atto di costituzione dell’1 febbraio 2016. nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare l’art. 325, § 1 e 2, TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 08/09/2015, causa C – 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, comma 3, e 161, comma 2, cod. pen., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con l’art. 25, comma 2, Cost. ********* 1 1. Facendo seguito alle conclusioni rassegnate nell’atto di costituzione, ci si permette di portare all’attenzione di Codesta Ecc.ma Corte, in via preliminare, un profilo che parrebbe determinare l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata dalla Corte d’appello milanese. Anzitutto, pare riscontrarsi un’ipotesi di inammissibilità per difetto di rilevanza in relazione a quei capi di imputazione – la grande maggioranza nel caso di specie – per reati la cui prescrizione era già giunta a maturazione alla data di pubblicazione della pronuncia Taricco della CGUE (8 settembre 2015). Infatti, dopo la pronunzia della sentenza di condanna in primo grado sono venuti a scadenza i termini massimi previsti, nonostante le interruzioni, per l’estinzione per prescrizione della quasi totalità dei reati contestati, secondo quanto previsto dagli artt. 157, 160 e 161 c.p. e 17 d.lgs. n. 74/2000, quest’ultimo nella formulazione vigente prima di quanto aggiunto dal co. 1-bis, del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, conv. con modificazioni nella l. 14 settembre 2011 n. 148. Il comma 1-bis dell’art. 17 cit. - con cui i termini di prescrizione per i reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74/2000 sono elevati di un terzo - è stato infatti introdotto con legge entrata in vigore successivamente alla commissione dei reati contestati e, quindi, è inapplicabile nella fattispecie - alla luce dei consolidati orientamenti giurisprudenziali - in ragione della natura giuridica sostanziale delle norme in materia di prescrizione e della estensione alle stesse del vincolo intertemporale dell’art. 25 co. 2 Cost. e della norma di cui all’art. 2 co. 2 c.p. Considerato, quindi, che nel giudizio a quo, in applicazione delle norme di cui agli artt. 157-161 c.p., per tutti gli imputati cui non è stata contestata la recidiva il termine non può essere prorogato oltre i 7 anni e 6 mesi dal fatto oppure (per l’organizzazione dell’associazione per delinquere) oltre gli 8 anni e 9 mesi, i reati oggetto delle imputazioni su cui la Corte è stata chiamata a decidere sarebbero tutti prescritti (ad eccezioni di alcuni), nonostante le interruzioni (l’ultima delle quali è costituita dalla sentenza di condanna in data 14.1.2014) e in assenza di cause di sospensione della prescrizione. Riguardo a tali delitti, si prospetta una “inammissibilità per erroneità del presupposto interpretativo”. Da un’attenta lettura della pronuncia della CGUE e valorizzando opportunamente i primi orientamenti applicativi dei giudici nazionali, ci si avvede di come per tali ipotesi – reati la cui prescrizione era già maturata alla data di emissione della sentenza Taricco – l’applicazione del disposto di diritto primario dell’UE, di cui all’art. 325 § 1 e 2, con conseguente obbligo di disapplicazione della più favorevole disciplina 2 nazionale del regime di interruzione del termine prescrizionale prevista dagli artt. 160 u.c. e 161, c. 2, c.p., allorquando sia verificata la sussistenza di una delle due circostanze indicate nella sentenza della CGUE (“numero considerevole di casi di frode grave” sistematicamente impuniti o tutela più intensa/efficace delle finanze nazionali rispetto alle finanze dell’UE), non può essere fatta valere. La portata degli obblighi sanciti dalla sentenza Taricco pare essere infatti circoscritta soltanto a quei casi in cui la prescrizione non sia ancora maturata al momento della pubblicazione della sentenza; ciò è d’altra parte confermato dal fatto che la stessa sentenza della CGUE è stata emessa in una fattispecie in cui la prescrizione non era ancora maturata. L’affermazione dell’obbligo di disapplicazione degli artt. 160 u.c. e 160, c. 2 c.p. da parte della CGUE non riguarda i reati già prescritti alla data di pubblicazione della sentenza, come si evince dalla lettura della decisione, al punto 53: “Occorre aggiungere che se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale”. E ancora, al punto 57: “La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 49 della Carta, avvalora tale conclusione. Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non siano ancora prescritti [v., in tal senso, Corte eur D.U., sentenze Coëme e a. c. Belgio, nn. 32942/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 149 CEDU 2000- VII; Scoppla c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563, 564 e 570 e giurisprudenza ivi citata]. La stessa pronuncia Coëme e a. c. Belgio, nn. 32942/96, 32547/96, 32548/96 § 149 della Corte Edu, richiamata dalla CGUE al fine di sostenere che la disapplicazione delle norme 3 sull’interruzione della prescrizione con effetto retroattivo sfavorevole non vulnera la garanzia dell’art. 49 CDFUE (come interpretato in base alla clausola ex art. 52 CDFUE, che fa riferimento alla giurisprudenza convenzionale in materia di legalità penale), riguardava un caso in cui i fatti di reato addebitati non si erano ancora prescritti, marcando così un significativa differenza rispetto alle imputazioni del procedimento principale. Ulteriori elementi a supporto dell’inapplicabilità del decisum della sentenza Taricco a fatti di reato per i quali sia già maturata la prescrizione al momento della pubblicazione della pronuncia possono desumersi dalle conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott, integralmente condivise dalla Corte di Giustizia. In particolare, ai punti 119-122, si legge: 119. Dal principio della legalità delle pene non è dato desumere che le norme applicabili sulla durata, sul decorso e sull’interruzione della prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al momento della commissione del reato. Non sussiste un affidamento meritevole di tutela in tal senso. 120. Piuttosto, l’intervallo di tempo all’interno del quale può essere perseguito un reato può mutare anche successivamente alla commissione di quest’ultimo, fintantoché non sia intervenuta la prescrizione (75). In definitiva, accade nella specie lo stesso che nel caso dell’applicazione di norme processuali nuove a situazioni che, pur createsi nel passato, non si sono ancora concluse (76). 121. Nell’ambito dell’autonomia procedurale degli Stati membri, ciò apre, in tutti i casi in cui non è ancora intervenuta la prescrizione (77), un margine discrezionale ai fini della considerazione di valutazioni di diritto dell’Unione che i giudici degli Stati membri devono sfruttare completamente in sede di applicazione del rispettivo diritto nazionale, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività”. Tramite una corretta interpretazione della pronuncia è possibile cogliere l’erroneità delle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III, n. 2210 del 20.1.2016, Pennacchini, rv. 266121), dando attuazione, per la prima volta, all’affermato obbligo di disapplicazione degli artt. 160, u.c. e 161, c. 2 c.p. per contrasto con l’art. 325, § § 1 e 2 TFUE. In particolare, la Corte, una volta ritenuta sussistente nel caso di specie una delle circostanze delineate dalla CGUE (“numero considerevole di casi di frode grave” per i quali la disciplina degli atti interruttivi causava una impossibilità di giungere a una sentenza di condanna definitiva e di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive) e non 4 riscontrando profili di contrasto con la Costituzione (§§ 17, 18, 21, 22 Cons. in diritto)1, ha nondimeno precisato che tale dictat non è applicabile soltanto a quei reati per i quali la prescrizione era già stata dichiarata alla data di pubblicazione della sentenza Taricco, imponendo dunque la disapplicazione della normativa interna contrastante agli obblighi di tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea anche qualora il termine prescrizionale sia già spirato, ma non sia ancora intervenuta formale dichiarazione di avvenuta estinzione del reato per prescrizione (la Corte non ha infatti dichiarato la prescrizione di un reato che era maturata fin dal 16 gennaio 2015, in data ben precedente rispetto all’8 settembre 2015). Tale orientamento, che fa rientrare nella spettro di operatività dell’obbligo di disapplicazione anche le c.d. “situazioni giuridiche esaurite” – nelle quali il soggetto ha legittimamente acquisito diritto ad essere “lasciato definitivamente in pace” dalla giustizia penale, prevalente rispetto all’istanza punitiva statuale – facendo leva sulla natura meramente dichiarativa della sentenza della Corte lussemburghese, è stata opportunamente criticata in dottrina2, anche da parte di chi, come si vedrà, ha mostrato aperture verso il superamento della legalità nazionale. 1 Si noti che il Supremo collegio ritiene di potere agevolmente superare in senso negativo il dubbio circa la necessità di azionare il controlimite del principio di legalità penale di cui all’art. 25, c. 2 Cost., nell’estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza costituzionale interna, nei confronti dell’obbligo di disapplicazione delle disposizioni interne di cui agli artt. 160, u.c. e 161 c. 2, c.p., con effetto retroattivo in malam partem, per contrasto con l’art. 325, §§ 1 e 2, TFUE, facendo leva precipuamente su una pronuncia della Corte costituzionale, la sentenza n. 236/2011. Come è stato rilevato in dottrina, tale ragionamento non convince. Nella sent. n. 236/2011, la Corte costituzionale, valutava infatti il distinto problema della legittimità costituzionale del regime transitorio dettato dall’art. 3, l. n. 251/2005, con riferimento al principio della lex mitior, così come desunto dall’art. 3 della Costituzione e, nella sua versione più “ampia”, elaborata nella giurisprudenza della Corte Edu e recepito nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, c. 1 Cost. Affrontando un tema dunque del tutto diverso rispetto ad un’eventuale opponibilità del controlimite di cui all’art. 25, c. 2, Cost. ad una norma euro unitaria con effetti retroattivi in malam partem, la Corte costituzionale “negò la ‘copertura’ convenzionale sotto l’ombrello dell’art. 7 CEDU della materia della prescrizione, allo specifico scopo di evitare la conseguenza, altrimenti inevitabile, della estensione anche a tale materia del principio di retroattività della legge penale più favorevole, che la Corte EDU aveva enunciato a chiare lettere nella sentenza Scoppola c. Italia del 2009. […] La Corte costituzionale non aveva in quell’occasione, proprio alcuna necessità di azionare i controlimiti, dal momento che – stante l’estraneità della materia della prescrizione al nullum crimen convenzionale – le fonti sovranazionali pertinenti erano del tutto irrilevanti rispetto alla soluzione della questione allora sottoposta alla sua attenzione”, così VIGANÒ F., La prima sentenza della Cassazione post Taricco: depositate le motivazioni della sentenza della Terza Sezione che disapplica una prescrizione già maturata in materia di frodi IVA, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 22 gennaio 2016; cfr. anche BASSINI M., Prescrizione e principio di legalità nell’ordine costituzionale europeo. Note critiche alla sentenza Taricco, in Consulta Online, 2016, 1, 94 ss., 103-105. 2 VIGANÒ F., Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale: qualche riflessione sul merito delle questioni, e sulla reale posta in gioco, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 9 maggio 2016, 26-28; LUPO E., La primauté del diritto dell'UE e l'ordinamento penale nazionale (Riflessioni sulla sentenza Taricco), in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 29 febbraio 2016, 12-13; FARAGUNA P.-PERINI P., L’insostenibile imprescrittibilità del reato. La Corte d’appello di Milano mette la giurisprudenza “Taricco” alla prova dei controlimiti, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 30 marzo 2016, 10; GAMBARDELLA M., Caso Taricco e garanzie costituzionali ex art. 25 Cost., in Cass. pen., 2016, 4, 1462 ss., 1477-1479. 5 Per altro la richiamata prima sentenza della Corte di Cassazione non sembra negare l’intangibilità delle fattispecie nelle quali il decorso del tempo abbia già fatto maturare l’estinzione del reato: l’errore della decisione sta piuttosto nel condizionare l’effetto ad una intervenuta pronuncia dichiarativa (cfr. § 23 Considerato in diritto: “Nemmeno può determinare la revoca della dichiarazione di estinzione del reato già intervenuta, perché il soggetto al quale l’autorità giurisdizionale abbia dichiarato estinto il reato acquisisce un diritto soggettivo che prevale sulle istanze punitive dello Stato. Nella specie, quindi, il contrasto con la norma del Trattato non incide sui periodi di imposta 2003 e 2004 già dichiarati estinti per prescrizione nei due gradi di merito”). E infatti, in una pronuncia di poco successiva (Cass. Pen., Sez. IV, n. 7914 del 26.2.2016, Tormenti, rv. 266078) i giudici di legittimità hanno proceduto a delimitare correttamente i confini di applicabilità della sentenza della Corte lussemburghese, escludendo dal novero delle situazioni processuali non soltanto quelle in cui la prescrizione sia già stata dichiarata al momento della pubblicazione della sentenza Taricco, ma anche allorquando il termine prescrizionale sia maturato, ma l’effetto estintivo non sia stato formalmente dichiarato dal giudice. Pur avendo ritenuto di non disapplicare il più favorevole disposto degli art. 160, u.c. e 161, c. 2, c.p., in ragione della riscontrata carenza del requisito della gravità delle frodi nel caso sub iudice, la Suprema Corte ha rilevato che l’obbligo di disapplicazione sancito dalla pronuncia della CGUE dell’8 settembre 2015 non deve essere applicato ai fatti già prescritti alla data della sentenza3. In motivazione (§ 7.4) la Corte Suprema richiama opportunamente le conclusioni dell’Avvocato Generale (§§ 121-122), per affermare conclusivamente in termini inequivoci la necessità di limitare l’applicabilità del dictum Taricco ai soli fatti-reato non ancora prescritti alla data di pubblicazione della sentenza (8 settembre 2015), al fine di tutelare “una sorta di diritto quesito dell’imputato all’estinzione del reato per il quale fosse già intervenuto il termine di prescrizione” 4 . Questa soluzione è per altro coerente con il 3 “In tema di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, i principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, Taricco e altri del 8 settembre 2015, C-105/14, in ordine alla possibilità di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen. se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, non si applicano ai fatti già prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia (8 settembre 2015)”. 4 v. § 7.4 della pronuncia: “Se dunque tali profili sono stati affrontati avanti alla Corte di Lussemburgo nei termini appena detti, non può non ravvisarsi (come parte della dottrina ha d’altronde osservato all’indomani della sentenza Taricco) una sorta di “diritto quesito” dell’imputato all’estinzione del reato per il quale fosse già intervenuto il termine di prescrizione, diritto che non appare pregiudicabile per effetto di una forma atipica di ius superveniens come quella introdotta dalla Corte lussemburghese con la più volte citata pronunzia. In tal senso, appare ragionevole sostenere che 6 pacifico operare della causa estintiva, nel nostro sistema, in termini oggettivi: la prescrizione viene infatti rilevata dal giudice d’ ufficio e doverosamente, una volta che sia constato il necessario decorso del tempo [ argomento che si ricava pianamente dall’ art. 129, 1° comma c.p.p., in termini generali e dalla disciplina dei casi di proscioglimento predibattimentale: art. 469 c.p.p.]. Sulla scorta di tutte le considerazioni sopra svolte, e considerando che per la grande maggioranza dei reati oggetto di giudizio risultava già maturata la prescrizione alla data dell’8 settembre 2015, occorre osservare che il giudice rimettente non avrebbe dovuto dare applicazione al principio statuito nella sentenza della CGUE. Pertanto, conclusivamente, la questione di costituzionalità sollevata deve ritenersi inammissibile per “erroneità del presupposto interpretativo” 5 quanto ai reati per i quali la prescrizione era già maturata a far data 8 settembre 2015, fatti salvi dunque soltanto quelli elencati a pagg. 8-9 dell’ordinanza di rimessione: - reato di cui all’art. 416 comma 1 c.p. attribuito al capo 1 a [ … omissis … ], in qualità di promotori e organizzatori dell’associazione per delinquere (reato commesso da gennaio 2005 a luglio 2007; termine di prescrizione pari a 8 anni e 9 mesi in scadenza nel marzo 2016); - reato di cui all’art. 2 D. Lvo n. 74/2000, limitatamente alla dichiarazione fraudolenta per l’anno 2007, attribuito al capo 28 a [ … omissis … ] (il reato di cui al capo 28 concerne la violazione dell’art. 2 D. Lvo 74/2000 in relazione all’utilizzo da parte di [ … omissis … ] di F.O.I. emesse da [ … omissis … ], negli anni 2005-2006-2007, le date di consumazione coincidono con quelle di presentazione delle dichiarazioni fraudolente, rispettivamente il 30.10.2006 per l’anno 2005, il 28.9.2007 per l’anno 2006, il 26.9.2008 per l’anno 2007, per quest’ultimo reato il termine di prescrizione verrebbe a scadenza il 24.3.2016; - reati di cui agli artt. 10 e 5 D. Lvo n. 74/2000 contestati a [ … omissis … ] ai capi 4, 5 e 24 (per effetto della recidiva reiterata infraquinquennale); - reati di cui all’art. 5 D. Lvo n. 74/2000, contestati a [ … omissis … ] ai capi 13 e 16 (per effetto della recidiva reiterata); reato di cui all’art. 10 D. Lvo n. 74/2000 contestato a [ … omissis … ] al capo 42 (per effetto della recidiva reiterata); la disapplicazione degli artt. 160 e 161 cod. pen., per assicurare la tenuta dei principi ispiratori del sistema penale nazionale (a cominciare dall’art. 25, comma 2, Cost.) e al tempo stesso il rispetto dell’ordinamento dell’Unione europea (art. 117, comma 1 Cost.) debba valutarsi rispetto a fatti non ancora prescritti alla data della pubblicazione della sentenza Taricco (8 settembre 2015), fra i quali non rientra il caso in esame”. 5 Cfr. nella recente giurisprudenza costituzionale: C. cost., sent. n. 49/2015, punto 6 considerato in diritto; C. cost., sent. n. 241/2015; ord. n. 187/2015. 7 - reato di cui agli artt. 10 e 5 D. Lvo n. 74/2000 contestati a [ … omissis … ] ai capi 33 e 34 (per effetto della recidiva reiterata infraquinquennale); - reato di cui all’art. 10 D. Lvo n. 74/2000 contestato a [ … omissis … ] al capo 48 (la distruzione e/o occultamento della documentazione sociale obbligatoria risulta accertata in data 7.5.2008; il termine di anni 7 e mesi 6 di prescrizione verrebbe quindi a scadenza il 7.11.2015) ). 2. Con riferimento a tutti i reati appena elencati, per i quali il termine di prescrizione non era ancora maturato alla data di emissione dell’ordinanza di rimessione (18 settembre 2015), la questione parrebbe porsi come “meramente prospettica” e pertanto priva di rilevanza, dovendosi attendere il momento in cui i termini prescrizionali siano effettivamente scaduti e la “norma”, nell’interpretazione della CGUE In re Taricco, debba essere applicata al caso di specie, perché la questione si ponga concretamente. Ciò nondimeno, l’estrema importanza della posta in gioco (principi di civiltà giuridica) – è significativo come questa espressione sia utilizzata da uno dei più attenti studiosi dei rapporti tra Legge fondamentale e sistema penale6 – ed il fatto che numerose questioni non tarderanno a presentarsi, impongono di valutare nel merito le violazioni lamentate nell’ordinanza della Corte d’appello milanese (con una decisione di c.d. inammissibilità vestita o sentenze d’inammissibilità interpretative). Non può non osservarsi, infatti, come la dottrina, non soltanto penalistica, all’indomani della decisione Taricco, si sia mostrata insolitamente compatta e ferma nell’evidenziare la necessità di azionare l’ “arma” dei controlimiti per scongiurare il vulnus profondo ed irrimediabile che soffrirebbe il principio di legalità penale – per come esso viene interpretato nella dimensione interna – se i giudici nazionali dovessero dare piena attuazione all’obbligo di disapplicazione degli artt. 160, u.c. e 161, c. 2, c.p. sancito dalla sentenza europea7. 6 PULITANÒ D., La posta in gioco nella decisione della Corte costituzionale sulla sentenza Taricco, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 5 ottobre 2016, 1 ss. 7 Deve notarsi, infatti, che, a parte alcune eccezioni, la reazione alla decisione Taricco della “cultura giuridica”, tanto penalistica, quanto costituzionalistica, sia stata fortemente critica e insolitamente compatta, raggiungendo approdi sostanzialmente condivisi: cfr, senza alcuna pretesa d’esaustività, PULITANÒ D., La posta in gioco; cit., 1 ss.; LUCIANI M., Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, 2016, 2, 15 aprile 2016, 1 ss.; BIN R., Taricco, una sentenza sbagliata: come venirne fuori?, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 4 luglio 2016; EUSEBI L., Nemmeno la Corte europea può erigere il giudice a legislatore, in Dal giudice garante al giudice disapplicatore delle garanzie, a cura di Paonessa-Zilletti, Pisa, 2016, 93 ss.; CAMON A., La torsione d’un sistema. Riflessioni intorno alla sentenza Taricco, in www.latribuna.it, 1 ss.; MANES V., La “svolta” Taricco e la potenziale 8 Si è messo in luce che l’applicazione della “norma” europea determinerebbe una vera e propria “sovversione di sistema”8, provocando conseguenze sul lungo periodo difficili da prevedere e certamente non conciliabili con il volto garantistico del diritto penale costituzionalmente orientato e con i principi supremi che marcano l’identità del nostro ordinamento costituzionale. Non può poi condividersi l’opinione, pur sostenuta in dottrina9, secondo la quale la Corte costituzionale dovrebbe, per ragioni di opportunità “politica”, connesse alla necessità di non “interrompere” bruscamente il processo d’integrazione giuridico-politica eurounitario, orientarsi alla ricerca di una soluzione che le offra un commodus discessus processuale, per dichiarare l’inammissibilità della questione 10 . Da condividere totalmente, invece, l’osservazione secondo la quale “criticando la sentenza Taricco – già al livello del diritto europeo – la dottrina ha fatto il suo mestiere”11. E siamo certi che non resterà inascoltata dal Giudice delle leggi. E’ noto che nel corso degli anni si è ampliato significativamente il novero delle tipologie decisorie attraverso cui la Corte si pronuncia (c.d. autopoiesi della giurisprudenza costituzionale); ciò risulta particolarmente vero per quanto concerne le pronunce d’inammissibilità (in particolare da quando, con la sentenza n. 356/1996, fu imposto al giudice comune l’onere di esperire il tentativo di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, quale condizione necessaria per potere sollevare la questione di costituzionalità, a pena d’inammissibilità della stessa, in base al principio secondo cui “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne “sovversione di sistema”: le ragioni dei controlimiti, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 6 maggio 2016; MAIELLO V., Prove di resilienza del nullum crimen: Taricco versus controlimiti, in Cass. pen., 2016, 3, 1250 ss.; CUPELLI C., Il caso Taricco e il controlimite della riserva di legge in materia penale, in Dal giudice garante al giudice disapplicatore delle garanzie, Zilletti-Paonessa (a cura di), Pisa, 2016, 151 ss. 8 MANES V., La “svolta” Taricco e la potenziale “sovversione di sistema”, cit.; CAMON A., La torsione d’un sistema, cit. 9 VIGANÒ F., Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale, cit., 4-9. 10 Occorre osservare, peraltro, che la Corte costituzionale, pur in altro contesto, con la nota sentenza n. 119/2015, ha avuto modo di ampliare le sfere di incidentalità e di rilevanza, soprattutto in materia di tutela dei diritti fondamentali, per evitare che ostacoli di natura processuale precludano una pronuncia nel merito. Cfr. sul punto RUOTOLO M., Principio di diritto nell’interesse della legge e questioni di legittimità costituzionale: tra le astratte simmetrie formali del diritto processuale e l’esigenza di “rendere giustizia costituzionale”, in Rivista Aic, 1/2015, 6, secondo il quale “quando è in gioco l’incremento della tutela di un diritto o la stessa possibilità di esercitarlo le maglie del controllo sulla rilevanza devono farsi più larghe in funzione dell’obbiettivo principale del giudizio della Corte, che è quello di “rendere giustizia costituzionale”, contribuendo, al di là del concreto interesse delle parti del giudizio a quo, a rendere l’ordinamento, attraverso le sue singole norme, conforme a Costituzione”. Si noti inoltre che la rilevanza viene motivata ampiamente nell’ordinanza della Corte d’appello di Milano (§ 7 Cons. in diritto). 11 PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 13. 9 interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”)12. La flessibilità delle tipologie decisorie a disposizione della Corte, sviluppata in sede pretoria, ha determinato un incremento delle decisioni di inammissibilità che però vanno a interferire con il merito della questione, fornendo indicazioni interpretative al giudice a quo. Tale tipologia di pronuncia, definita anche interpretativa di inammissibilità “di merito”, “lungi dal poter essere ‘confinata’ nel novero delle decisioni processuali, lambisce per non dire che tocca davvero il merito della questione di costituzionalità: in altri termini, tale decisione di inammissibilità è simile in tutto e per tutto ad un’interpretativa di rigetto in quanto ‘evidenzia … la pista interpretativa che consente, anche con qualche forzatura, di evitare i dubbi di costituzionalità messi sul tappeto dal giudice rimettente”13. Questa tipologia decisoria è stata impiegata di recente anche in materia penale, nell’importante sentenza n. 49/2015, in tema di confisca urbanistica ex art. 44, c. 2, d.P.R. n. 380/2001, specificamente sulla compatibilità di detta misura con i principi della giurisprudenza-fonte della Corte EDU (art. 7, § 1, CEDU), nel caso in cui non vi sia stata una formale sentenza di condanna ma sia intervenuta la prescrizione del reato. La Corte costituzionale, pur ritenendo inammissibile, in ragione di una pluralità di vizi, la questione sollevata, si è diffusa in un’ampia argomentazione nel merito. Anche nel presente giudizio, qualora la Corte intenda dichiarare l’inammissibilità della questione, ad esempio motivando che la Corte rimettente abbia omesso un tentativo di interpretazione conforme a Costituzione – anche se nell’ordinanza l’impossibilità di tale interpretazione del dictat della CGUE è motivata in maniera esaustiva – ovvero abbia preso le mosse da un “erroneo presupposto interpretativo”, dovrà in ogni caso intervenire sul merito della questione, ovverosia risolvere il dubbio circa la compatibilità con il principio di legalità penale “interno” della disposizione di cui all’art. 325, §§ 1 e 2 e art. 2 L. 2 agosto 2008, n. 130, nell’interpretazione fornitane nel caso Taricco. 12 V. BONI M., Le pronunce di inammissibilità della Corte, in www.cortecostituzionale.it; sulla svolta determinata dalla sentenza n. 356/1996 e sugli sviluppi giurisprudenziali successivi v. LUCIANI M., Interpretazione conforme a Costituzione (voce), in Enciclopedia del Diritto, Annali IX, Milano, 2015, 391 ss., 466-473, che mette in guardia rispetto al rischio di una “polverizzazione del giudizio di costituzionalità”. 13 Così ad es. BONOMI A., Le interpretative di inammissibilità “processuali” e “di merito”: natura decisoria e effetto preclusivo ?, in www.forumcostituzionale.it, 13-14. 10 3. La Corte rimettente dubita che l’obbligo di disapplicazione della disciplina sull’interruzione del termine prescrizionale interna, imposto dalla CGUE al verificarsi di determinate circostanze, che provocano una “sistematica impunità” di gravi frodi Iva in danno degli interessi finanziari dell’UE, sia compatibile con il principio di legalità in materia penale previsto dall’art. 25, c. 2, Cost. nella sua duplice declinazione, da un lato, di diritto fondamentale dell’individuo a non subire conseguenze in malam partem non previste né prevedibili al momento della commissione della condotta delittuosa, dall’altro, sul piano delle fonti, di garanzia che le scelte che comunque incidono sull’an della punibilità in senso peggiorativo debbano restare esclusivamente appannaggio del Parlamento nazionale, il solo soggetto istituzionale espressivo della volontà politica della comunità e che gode della legittimazione popolare. In particolare, l’art. 25, c. 2, Cost., nella summenzionato duplice accezione – ad avviso di questa difesa – deve essere opposto quale “controlimite” rispetto alla limitazione di sovranità cui l’ordinamento interno ha consentito ex artt. 11 e 117, c. 1 Cost. a vantaggio dell’Unione Europea, in quanto la norma fornita dall’interpretazione della CGUE si pone in contrasto con quei “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” e “diritti inalienabili della persona” che costituiscono l’identità dell’ordinamento giuridico nazionale. Ben pochi dubbi possono manifestarsi sul fatto che il principio di legalità sia di rango tale da atteggiarsi a controlimite, come è stato messo in luce da autorevole dottrina, in quanto “il fondamento garantistico, secondo cui sono riservate al Parlamento nazionale le scelte comunque concernenti la libertà e la dignità personale, ne fa addirittura un diritto fondamentale dell’uomo”14. La categoria dei controlimiti è stata elaborata anche nella giurisprudenza costituzionale italiana (cfr. le tre “storiche” sentenze Corte cost. n. 183/1973; n. 170/1984; n. 232/1989), venendo azionata solamente in pochi casi. Come vedremo, i controlimiti non sono stati 14 PALAZZO F.C., Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2013, 128; cfr. GRASSO G., Relazione di sintesi, in Le sfide dell’attuazione di una Procura europea: definizione di regole comuni e loro impatto sugli ordinamenti interni, a cura di Grasso-Illuminati-Sicurella-Allegrezza, Milano, 2013, 733, il quale evidenzia che le limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. non devono mai intaccare le scelte di fondo che caratterizzano il sistema costituzionale di riferimento, ed in materia penale si intende “quell’insieme di limiti e garanzie, che caratterizzano il sistema penale in uno Stato di diritto e che rappresentano un momento essenziale dei rapporti tra autorità e libertà (anzitutto quindi il principio di legalità), costituiscano una componente ineliminabile di quel nucleo di principi fondamentali che debbono necessariamente riflettersi nella struttura costituzionale dell’organizzazione sovranazionale alla quale sia conferita una potestà penale”. 11 posti, ma la Corte ha affrontato il tema, in riferimento al processo di integrazione tra sistema interno e ordinamento comunitario prima ed eurounitario poi. In due occasioni, la Corte costituzionale ha individuato ed azionato come controlimite il principio supremo della tutela giurisdizionale dei diritti (art. 24 ed art. 2 Cost.), nell’un caso rispetto ad una previsione di diritto concordatario (sent. n. 18/1982), nell’altro rispetto ad una norma di diritto internazionale consuetudinario (sent. n. 238/2014). Proprio nella recente pronuncia da ultimo citata (sent. n. 238/2014), la Corte ha avuto occasione di riaffermare contenuto e portata della c.d. dottrina dei controlimiti, elaborata in letteratura15 e nella giurisprudenza precedente16. Nell’ambito specifico dei rapporti tra sistema costituzionale nazionale ed ordinamento comunitario (e poi eurounitario), caratterizzato dalla prevalenza del diritto sovranazionale nelle materie di competenza europea, la Corte ha vigilato attentamente, affermando a più riprese la necessità di una sua penetrante verifica del rispetto dei c.d. controlimiti nel processo di integrazione tra ordinamenti. Fin dalla nota sentenza Frontini (n. 183/1973, § 9) è stata riconosciuta “la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con 15 Cfr. di recente BARBERA A., Costituzione della Repubblica italiana (voce), in Enciclopedia del Diritto, Annali VIII, Milano, 2015, 263 ss., 268-269, secondo il quale si tratta dei “‘principi fondamentali’ che marcano l’identità dell’ordinamento costituzionale e racchiudono le informazioni genetiche attorno a cui si modella l’ordinamento costituzionale e, attraverso questo, l’intero ordinamento giuridico. Essi fondono e sostengono l’ordinamento costituzionale, ne assecondano le trasformazioni possibili e individuano i confini entro cui queste possono realizzarsi. Per queste caratteristiche tali principi sono individuati dalla Corte, e dalla dottrina pressoché unanime, quali possibili ‘limiti’ alla revisione e quali ‘contro-limiti’ all’ingresso di norme di altri ordinamenti (i ‘principi supremi’ nel linguaggio della Corte). Non solo essi sono invalicabili da parte di altri ordinamenti (europeo, concordatario, internazionale), pur collegati a quello italiano, ma stabiliscono altresì i confini invalicabili dello stesso potere di revisione costituzionale. Rappresentano quei tratti identitari alterati i quali tale potere perderebbe legittimazione e darebbe vita non ad una ‘revisione’ ma ad un ‘mutamento costituzionale’, trasformandosi da ‘costituito’ a ‘costituente’. Al pari di tutti i principi, essi possono essere anche inespressi. Come affermato dalla Corte, sono da considerarsi ‘supremi’ tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quanto i principi che, ‘pur non essendo espressamente menzionati […] appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. 16 “Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un ‘limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione’ (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali ‘controlimiti’ all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988). In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. (…) Anche di recente, poi, questa Corte ha ribadito che la verifica di compatibilità con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale e di tutela dei diritti umani è di sua esclusiva competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed ancora, precisamente con riguardo al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), che il rispetto dei diritti fondamentali, così come l’attuazione dei principi inderogabili, è assicurata dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120 del 2014)” (§ 3.2). 12 i predetti principi fondamentali” dell’assetto costituzionale e con i “diritti inalienabili della persona umana”. Successivamente, nella sentenza Granital (n. 170/1984, § 7), la Corte ha riaffermato che “la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondanti del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana”, con riferimento alle disposizioni che “si assumano costituzionalmente illegittime (…) in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi”. Nella sentenza n. 1146 del 1988 (§ 2.1), la dottrina è stata ribadita: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell'ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare fornita dall'art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all'accertamento della loro conformità ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” (v. sentt. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte “in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana” (v. sentt. nn. 183 del 1973, 170 del 1984)”. Anche nella importante sentenza n. 232 del 1989 (§ 3.1), la Corte costituzionale si è espressa in tal senso: “Vero è che l'ordinamento comunitario - come questa Corte ha riconosciuto nelle sentenze sopra ricordate ed in altre numerose - prevede un ampio ed efficace sistema di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei singoli, di cui il ricorso incidentale alla Corte di Giustizia ex art. 177 del Trattato C.E.E. costituisce lo strumento più importante; ed è non meno vero che i diritti fondamentali desumibili dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri costituiscono, secondo la giurisprudenza della Corte delle Comunità europee, parte integrante ed essenziale 13 dell'ordinamento comunitario. Ma ciò non significa che possa venir meno la competenza di questa Corte a verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana. In buona sostanza, quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile; inoltre, va tenuto conto che almeno in linea teorica generale non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale si ritrovino fra i principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi nell'ordinamento comunitario”. Le stesse fonti di diritto primario dell’UE, le disposizioni dei Trattati, riconoscono espressamente che il processo di integrazione ed i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto europeo debbono arrestarsi di fronte ad un contrasto e ad una potenziale lesione dei principi supremi e dei diritti inalienabili della persona che si configurano come “tratti identitari” immodificabili degli ordinamenti costituzionali nazionali. In particolare, l’assorbimento nel tessuto ordinamentale eurounitario dell’identità nazionale degli Stati membri si fonda su alcune disposizioni: l’art. 4.2 TUE (“l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale”); l’art. 6.3 TUE (“i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”); l’art. 67.1 TFUE (ove si afferma che lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia viene realizzato dall’UE “nel rispetto dei diritti fondamentali, nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”). A tale proposito si parla già da tempo di “europeizzazione dei controlimiti”17; occorre ribadire però che spostare integralmente sul versante europeo la verifica circa il rispetto 17 Con alcune precisazioni necessarie: cfr. ad es. LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 9, il quale sostiene “l’identità nazionale (recte: costituzionale) che l’Unione deve rispettare è solo quella che viene dichiarata tale dallo Stato interessato, nelle forme e nei modi che la sua Costituzione stabilisce. Così, del resto, si darebbe un senso al riferimento al fatto che quell’identità è ‘insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale’: essendo ‘insita’ in quella ‘struttura’, infatti, è solo secondo le regole procedurali di quella struttura che può essere pienamente identificata”. 14 dell’identità costituzionale degli Stati membri da parte dello stesso diritto euro unitario (tramite il suo interprete privilegiato, la CGUE) rappresenta una contraddizione in termini, dovendo tale facoltà permanere in capo alle Corti costituzionali nazionali 18 . Solo tale prospettiva riesce infatti a preservare la vera ratio della categoria dei controlimiti: la necessità di riappropriarsi della sovranità allorquando questa non viene soltanto legittimamente limitata, come previsto dall’art. 11 Cost., ma di fatto ceduta. In quest’ottica – quale opportuna riaffermazione della necessità che il “nucleo duro” dell’identità costituzionale nazionale non venga intaccata dal primato del diritto UE – debbono essere lette allora le note sentenze del BundesVerfassungsGericht del 30 giugno 2009, del 7 settembre 2011, del 19 giugno 2012 e del 12 settembre 2012. Ancor più recentemente, un’importante presa di posizione dello stesso BundesVerfassungsGericht (sent. 15.12.2015, RG. 2 BvR 2735/14) ha ritenuto la protezione dei diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione tedesca (il supremo principio della dignità umana, ex art. 1 della Costituzione, e il connesso principio di colpevolezza) prevalente sull’applicazione della legislazione eurounitaria, in una fattispecie relativa ad un MAE esecutivo emesso dall’autorità giudiziaria italiana a seguito di una condanna a trenta anni di pena detentiva all’esito di un processo celebrato in contumacia. Al contrario, appare criticabile, proprio perché inidonea a proteggere il “nucleo duro” dell’identità costituzionale nazionale, la posizione espressa dalla Grande Sezione della CGUE nella sentenza Melloni del 26 febbraio 201319. Tale decisione, improntata al c.d. “primato a tutti i costi del diritto europeo”, conferma come sia inaccettabile demandare integralmente all’opera della Corte di Giustizia il 18 Cfr. in dottrina LUCIANI M., Interpretazione conforme, cit., 455 e nt. 480, laddove si contesta l’idea, pur autorevolmente sostenuta, che i controlimiti siano di fatto incorporati nel diritto eurounitario, in forza dell’art. 4.2 TUE, e dunque la verifica sul loro rispetto debba essere condivisa tra Corti costituzionali degli Stati membri e CGUE, facendo riferimento al “dato di fondo che la natura e la funzione stesse dei controlimiti, posti a presidio dell’identità (appunto) nazionale, impongono la giurisdizione di un’autorità parimenti nazionale: nessun ordinamento può logicamente affidare l’identità propria precisamente all’altro nei cui confronti quell’identità va protetta”; CARDONE A., La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano, 2012, 51, secondo il quale la “interpretazione integrativa” non può spettare “direttamente e solipsisticamente” alla CGUE “salvo travalicare i suoi compiti istituzionali, visto che ad essa è precluso il sindacato di conformità del diritto interno al diritto dell’Unione”; sull’importanza di evitare “lo spettro di una tirannia della Costituzione europea, di fatto esercitata dalla Corte europea”, v. PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 13. 19 In tale decisione la CGUE ha risposto al quesito posto in via pregiudiziale dal Tribunal Constitucional spagnolo, denegando la possibilità di fare valere un grado più elevato di garanzia costituzionale interna rispetto quanto previsto dal diritto dell’Unione, in un caso di cooperazione giudiziaria in materia penale, nel quale la Spagna – invocando il criterio del Best Standard di tutela dei diritti fondamentali ex art. 53 CDFUE – intendeva dare piena attuazione al più intenso diritto costituzionale di difesa e ad un processo equo così come previsto dalla Carta fondamentale nazionale (art. 24), rifiutando l’esecuzione di un MAE emesso dall’autorità giudiziaria italiana, a seguito di un processo svoltosi in absentia, e che non prevedeva alcuna possibilità di revisione della sentenza di condanna irrogata. Cfr. tra i tanti, sulla pronuncia, CUPELLI C., Il caso Taricco, cit., 152-153, e letteratura ivi citata alla nt. 5. 15 bilanciamento tra diritti fondamentali, nella loro estensione riconosciuta dalle fonti europee, e elementi che contrassegnano l’identità costituzionale degli Stati membri, nel processo di integrazione tra i due ordinamenti. La definizione e l’esatta delimitazione di questi ultimi, infatti, non può che spettare alle Corti costituzionali nazionali, nell’ottica della protezione dei propri principi supremi e diritti inalienabili, che contribuiscono a formare l’identità dell’ordinamento costituzionale. 4. Occorre ora valutare attentamente quali sono le argomentazioni utilizzate dalla CGUE nella sentenza Taricco per sostenere che il mutamento retroattivo in peius della disciplina dell’interruzione del termine di prescrizione, imposto alla luce della sistematica impunità di gravi frodi a danno degli interessi finanziari dell’UE, non viola il principio di legalità in materia penale, così come inteso nella “minore” estensione riconosciutagli dalle fonti di diritto eurounitario. Tale analisi risulta necessaria per comprendere appieno come l’estensione del principio di legalità penale, nonché la natura giuridica dell’istituto della prescrizione, non siano coincidenti tra dimensione europea ed interna. I giudici della Corte lussemburghese escludono ogni vulnus al principio di legalità europeo, constatando come l’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) – secondo cui “Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima” – che recepisce, ai sensi dell’art. 52 CDFUE, il principio del nullum crimen nell’estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte EDU sul corrispondente art. 7 della Convenzione, non copra l’istituto della prescrizione, attinente alle condizioni di procedibilità del reato ed estraneo al diritto penale sostanziale. Così, l’applicazione di un termine di prescrizione più lungo ad un fatto di reato in precedenza commesso non violerebbe la garanzia di cui all’art. 49 CDFUE, limitandosi quest’ultima soltanto al binomio precetto-sanzione stricto sensu. Riconoscendo tale, più ridotta, portata al principio di legalità, si afferma al § 55 che “la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di 16 assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana. Una disapplicazione siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’art. 49 della Carta”, proseguendo al § 56 “non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale (v., per analogia, sentenza Niselli, C457/02, EU:C:2004:707, punto 30), né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista per tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste”. La CGUE conclude il suo ragionamento (§57) con il decisivo riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 7 della Convenzione, che sancisce diritti corrispondenti a quelli dell’art. 49 CDFUE, secondo cui “la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’art. 7 della suddetta Convenzione, dato che suddetta disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti”. Dunque, la natura eminentemente processuale della prescrizione, nell’interpretazione fatta propria dalla Corte Edu, e recepita dalla CGUE, pone la disciplina dell’interruzione del termine al di fuori del perimetro di garanzia del nullum crimen convenzionale e consente una disapplicazione imposta da una pronuncia giurisdizionale, da attuare sulla base di parametri indeterminati e rimessi sostanzialmente alla discrezionalità del singolo giudice nazionale, e con effetti retroattivi in malam partem. Tale obbligo di disapplicazione della normativa interna, che trova la sua origine e la sua legittimazione nella nozione “ristretta” di legalità penale europea, deve tuttavia confrontarsi con una giurisprudenza costituzionale interna univocamente orientata nella opposta direzione di riconoscere natura sostanziale a tutte le disposizioni in materia di prescrizione (che ne disciplinano durata, sospensione, interruzione), facendo dunque integralmente ricadere l’istituto nello spettro di protezione dell’art. 25, c. 2 , Cost. (irretroattività-riserva di legge). La frontale inconciliabilità tra la soluzione imposta dalla CGUE, in nome della più efficace repressione e punizione di condotte delittuose gravi lesive degli interessi economicofinanziari dell’Unione, ed il principio costituzionale di legalità penale nazionale, nel suo duplice corollario, va ad intaccare la struttura identitaria ed i principi supremi sui quali si 17 fonda l’ordinamento costituzionale interno, e richiede la declaratoria di illegittimità della fonte normativa che dà ingresso all’obbligo di disapplicazione degli artt. 160, u.c. e 161, c. 2 c.p statuito dalla CGUE. 5. I corollari del principio di legalità nell’ art. 25, 2° comma della Costituzione 5.1 Il corollario della irretroattività della legge penale quale controlimite Nella giurisprudenza costituzionale italiana si è affermato limpidamente lo statuto, inderogabile e non suscettibile di alcun bilanciamento, del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole. In particolare, nella sentenza n. 394/2006 (§6.4.), laddove si distingue in maniera netta il principio della lex mitior rispetto a quello dell’irretroattività della legge penale sfavorevole20 . Non può sfuggire quindi che l’istituto della prescrizione, rientrante tra i presupposti e le condizioni della punibilità in astratto ed avente natura sostanziale, debba essere coperto dalla garanzia dell’irretroattività. In questo senso si è sempre espressa, oltre che la dottrina assolutamente prevalente21, la giurisprudenza costituzionale. La sentenza n. 393/2006, valutando la costituzionalità della disciplina transitoria della prescrizione introdotta dalla l. 251 del 2005, ha precisato che “la locuzione ‘disposizioni più favorevoli al reo’ si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 del 1999, n. 219 20 “il principio di retroattività della lex mitior ha una valenza ben diversa, rispetto al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Quest’ultimo si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell’esigenza della ‘calcolabilità’ delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale. Avuto riguardo anche al fondamentale principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall’art. 27 Cost., ognuno dei consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente all’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione (al riguardo, v. sentenza n. 364/1988): aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all’epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente. In questa prospettiva, è dunque incontroverso che il principio de quo trovi diretto riconoscimento nell’art. 25, secondo comma, Cost. in tutte le sue espressioni: e, cioè, non soltanto con riferimento all’ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale pure la formula costituzionale risulta all’apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto già in precedenza penalmente represso. In questi termini, il principio in parola si connota, altresì, come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali (…) assolutamente inderogabile (…)”. 21 Con poche, pur autorevoli, eccezioni: MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso di diritto penale, III ed., 2001, 263 ss.; GREVI V., Garanzie individuali ed esigenze di difesa sociale nel processo penale, in AAVV., Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, 1997, 279; PULITANÒ D., Diritto penale, VI ed., 2015, 600. 18 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996). Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione (sentenza n. 275 del 1990) e con l’effetto da essa prodotto, in quanto ‘il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva’ (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l’interesse generale di non perseguire più i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno, o notevolmente attenuato (…) l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del materiale probatorio” (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999)”. Più recentemente, la natura sostanziale della prescrizione è stata riaffermata a chiare lettere dalla sentenza n. 143/2014 della Corte costituzionale, che ha censurato il raddoppio dei termini di prescrizione per la fattispecie di incendio colposo (§ 3), ove si statuisce che “Sebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale – concorrendo, in specie, a realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) – la prescrizione costituisce, nell’attuale configurazione, un istituto di natura sostanziale (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 393 del 2006), la cui ratio si collega preminentemente, da un lato, all’ “interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza comune” (sentenze n. 393 del 2006 e n. 202 del 1971, ordinanza n. 337 del 1999); dall’altro, al “diritto all’oblio” dei cittadini, quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela” (sentenza n. 23 del 2013). Sul presupposto della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione, la Corte costituzionale ha sempre dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale in malam partem, poiché il nostro principio di legalità impedisce di incidere in senso sfavorevole su tutti i presupposti e le condizioni di punibilità, essendo quest’ultimo un dominio esclusivo riservato alla discrezionalità del legislatore. Come precisato da Corte costituzionale, sent. n. 324 del 2008, “la costante giurisprudenza di questa Corte che, in più occasioni, ha ribadito che il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. rende inammissibili pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti, o, comunque, “di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano 19 quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi” (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)”22. In virtù della diversa estensione riconosciuta al principio di legalità penale nella dimensione interna rispetto a quella eurounitaria, la conclusione cui è pervenuta la sentenza Taricco pare porsi in contrasto frontale anche con l’art. 53 CDFUE23, disposizione che prevede il c.d. criterio del best standard del livello di protezione dei diritti fondamentali tra dimensione sovranazionale e ordinamenti interni. Conformemente alle disposizioni della CDFUE, dunque, qualora vi sia una differente livello di protezione di un diritto fondamentale previsto dall’ordinamento europeo rispetto a quello nazionale, deve prevalere quello caratterizzato da maggiore estensione, dal momento che la protezione assicurata dalle fonti di diritto primario dell’UE costituisce il livello minimo di tutela, in riferimento ad una molteplicità di diversi ordinamenti costituzionali. Per quel che rileva nel caso di specie, è evidente che il fondamentale principio di irretroattività delle norme penali dovrebbe essere riconosciuto nella sua portata più ampia ed estesa, idonea a comprendere non soltanto il binomio precettosanzione, ma ogni disposizione che vada ad incidere in peius sulle condizioni ed i presupposti della punibilità, e dunque anche sulla disciplina degli atti interruttivi della prescrizione. Questa pare essere peraltro lo spirito che ha portato la Corte costituzionale, in una recente pronuncia (Sentenza n. 49 del 2015, § 4 Cons. in diritto) – seppur nel diverso contesto del rapporto tra giurisprudenza-fonte della Cote Edu e interpretazione conforme alla stessa del diritto interno – ad affermare il “predominio assiologico” della Costituzione sulla CEDU: “il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007). Il più delle volte, l’auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti 22 Cfr. anche Corte cost., Ord. n. 65/2008, la quale ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione volta ad estendere effetto interruttivo all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, argomentando che il principio di riserva di legge ex art. 25, c. 2 Cost., “rimettendo al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, inibisce alla Corte tanto la creazione di nuove fattispecie criminose o l’estensione di quelle esistenti a casi non previsti, quanto ‘di incidere o sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità’ […]: aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi” (conformemente, in relazione all’introduzione di nuove ipotesi di interruzione del corso della prescrizione, v. Ord. nn. 245/1999, 412/1998, 178/1997, 315/1996, 144/1994, 193/1993 e 188/1993). 23 “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”. 20 costituzionali ed internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana” (enfasi nostra): e questa sembra proprio un buona occasione in cui operare in questi termini! Un’ultima considerazione: il tema della natura e dell’operare della prescrizione, attualmente oggetto di un serrato dibattito e di progetti di modifica legislativa, riguarda un istituto caratterizzato da molteplici intersezioni sistemiche, condizionate dalle caratteristiche proprie, e differenziate, dei diversi ordinamenti europei. Da ciò consegue una forte limitazione di prospettive comparatistiche finalizzate a trovare soluzioni omogenee: senza entrare nell’analisi dei molteplici snodi e dell’impatto diversificato che le varie opzioni producono nei singoli ordinamenti nazionali, basti citare la peculiarità del nostro sistema, caratterizzato dalla previsione costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. 5.2 Il corollario della riserva di legge quale controlimite Oltre a vulnerare il principio di irretroattività della legge penale – nella estensione riconosciutagli dall’ordinamento costituzionale italiano – l’arresto Taricco ed il conseguente obbligo di disapplicazione delle più favorevoli norme nazionali sull’interruzione del termine prescrizionale si pone in contrasto insanabile anche con il versante puramente “ordinamentale” del principio di legalità, la riserva di legge. E’ ormai noto che nel processo di integrazione giuridica europea la nozione di legalità penale ha assunto connotati eccentrici, estranei e completamente imprevedibili rispetto a quanto era stato previsto dai redattori della Carta fondamentale italiana24. In particolare, l’esigenza di fare coesistere ordinamenti continentali con sistemi di common law ha portato all’elaborazione, in seno alla giurisprudenza della Corte EDU sul nullum crimen sine lege di cui all’art. 7 – recepita ex art. 52 CDFUE dal diritto eurounitario – della concezione sostanzialistica di “materie penale” e di una “legalità convenzionale”, tale da 24 Anche se da diverse prospettive, sottolineano di recente l’ importanza di applicare anche al testo della Costituzione criteri interpretativi che preservino il valore del dato linguistico utilizzato, la sua direzione di senso, LUCIANI M., Interpretazione conforme, cit., 435 ss.; BARBERA A., Costituzione, cit., 325 ss. A questo proposito si deve cogliere la forza che, in materia di riserva di legge penale, esprime il lemma “punito” a cui si è fatto ricorso: esso è capace di raccogliere tutte la vicende che convergono sulla sanzione penale. 21 includere tanto il diritto di formazione legislativa, quanto il diritto di produzione giurisprudenziale. Tale rivoluzione ha comportato talvolta ampliamenti delle garanzie pro reo, talaltra – come nell’occasione che qui ci occupa – stravolgimenti del tutto incompatibili con l’architettura istituzionale complessiva e con la ripartizione dei poteri che caratterizzano nelle fondamenta l’ordinamento giuridico italiano. Occorre rimarcare infatti come l’obbligo di disapplicazione in malam partem imposto dalla decisione Taricco si mostri del tutto inconciliabile con la dimensione di valore essenziale dell’identità costituzionale del principio di riserva assoluta di legge in materia penale, per come esso viene ricostruito nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Recentemente è stata messa in luce con lucidità la minore estensione del principio di legalità “europeo” – inclusivo anche della giurisprudenza-fonte – se posto a confronto con il principio di legalità “formale” interno, da intendersi quale garanzia di monopolio parlamentare assoluto sulle scelte normative d’incriminazione, di aggravamento del regime sanzionatorio o che comunque determinano una modifica in peius per il reo. Nella nota pronuncia n. 230/2012 – riguardante l’irrevocabilità del giudicato penale in caso di mutamento giurisprudenziale in bonam partem – la Corte costituzionale ha ribadito l’inderogabilità della riserva di legge, nella conformazione ed ampiezza tradizionalmente riconosciutale nel sistema nazionale25. La modifica retroattiva in peius della disciplina penale sull’interruzione del termine di prescrizione, per come introdotta attraverso l’obbligo di disapplicazione della disciplina 25 Nella pronuncia si statuisce infatti: “L’altra affermazione – che riflette, per contro, un orientamento della Corte europea da tempo consolidato – è quella in virtù della quale la nozione di “diritto” (“law”), utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura “sostanziale”, e non già “formale”, del concetto di “legalità penale”, se pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte (…) è stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche per gli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia). Proprio tale seconda affermazione dimostra, peraltro, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione”. Una opportuna valorizzazione delle istanze espresse nella sentenza n. 230/2012, come ostacolo all’ingresso nel sistema interno del dictum della pronuncia Taricco, in PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 12-13. 22 favorevole, sancito da un fonte giurisdizionale, ovverosia da giudici europei privi di qualsivoglia legittimazione democratica, si pone in rotta di collisione con l’intera impalcatura politica, ideologica ed assiologica sulla quale si regge il principio di riserva di legge, la quale è stata limpidamente ricostruita in un fondamentale pronunciamento della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sentenza n. 487 del 1989). Alla luce delle considerazioni sviluppate più approfonditamente in tale sede, due debbono essere ritenuti i valori fondamentali protetti dal principio di riserva di legge: anzitutto, in stretta connessione con il principio di divisione dei poteri e con l’istanza di evitare prevaricazioni da parte del potere esecutivo e giudiziario, la garanzia di mantenere un elevato coefficiente di democraticità nell’adozione di scelte d’incriminazione, o di aggravamento del regime punitivo, ovvero di modifiche in senso deteriore della punibilità lato sensu, giacché il bene inciso da tali opzioni, la libertà personale, si pone al vertice della “gerarchia” costituzionale. Soltanto un libero confronto tra forze politiche di maggioranza e minoranza, con il controllo, seppur indiretto, dell’opinione pubblica, dovrebbe riuscire a garantire un sufficiente controllo di razionalità e adeguatezza sulla trasparenza di tali deliberazioni. In secondo luogo, rileva l’esigenza di riservare queste scelte esclusivamente all’organoParlamento, l’unico legittimato, in quanto rappresentativo degli interessi della comunità tutta, ad esercitare la sovranità nazionale in nome del popolo. Proprio questo aspetto risulta centrale, in quanto il Parlamento, per composizione e posizione istituzionale, è l’unico organo in grado di assicurare adeguati bilanciamenti tra interessi/valori sottesi alle scelte d’incriminazione o di modifica deteriore del trattamento sanzionatorio/punitivo, essendo rappresentativo dell’intera comunità politica nazionale ed avendo una visione complessiva su tutto il fascio di valori/interessi che il presidio statuale di massima afflittività, il diritto penale, ha lo scopo di tutelare. L’obbligo di disapplicazione imposto dalla CGUE nella decisione Taricco sembra essere difficilmente conciliabile con entrambe le “anime” ordinamentali della riserva di legge in materia penale. Per quanto concerne la “democraticità” della norma che impone l’obbligo di disapplicazione (art. 325 TFUE), benché il Parlamento italiano abbia fatto proprio il diritto primario dell’Unione (Art. 2 L. n. 130/2008), approvando la legge di esecuzione dei trattati nel nostro paese, va tuttavia rilevato che l’interpretazione fornita dalla CGUE si mostra del tutto eccentrica e innovativa rispetto alla giurisprudenza precedente, al limite 23 dell’eccesso di potere, facendo ricadere sul singolo, con una pronuncia resa in sede di rinvio pregiudiziale, un inadempimento imputabile allo Stato membro, soggetto al quale (recte: al cui Parlamento) è direttamente rivolto il precetto, aperto, indeterminato e privo di precisione, dell’art. 325 TFUE. Ancora più complesso fare quadrare il principio statuito nella sentenza Taricco con la necessità che la normazione penale costituisca espressione della sovranità nazionale: come è stato osservato da più parti, l’insieme di valori ed interessi sottesi al ragionamento della CGUE, forse astrattamene sostenibile, espressivi di una perdurante logica “economicistica” o “mercantilistica”, che continua a caratterizzare la struttura dell’ordinamento eurounitario, costituiscono di fatto l’antitesi delle fondamenta personalistiche del sistema assiologico consacrato dalla Costituzione italiana. In altri termini, il percorso argomentativo e l’esito dei giudici eurounitari ha come presupposto un’operazione di bilanciamento valoriale che potrebbe apparire irragionevole alla stregua dei valori costituzionali interni, che pongono invece al centro del sistema la persona, e non l’integrità delle finanze statali. Si è acutamente osservato che, nella struttura argomentativa della pronuncia, “Nessun peso è assegnato alla diversa natura degli interessi in giuoco (libertà personale e riserva di legge penale da un lato; interesse finanziario dell’Unione e – dunque – delle sue istituzioni, Corte di giustizia compresa, dall’altro). La centralità dei diritti della persona, tante volte proclamata a dimostrazione dell’alto livello di protezione raggiunto dal diritto europeo, non la si ravvisa”26. Ed è questo un profilo di rilievo. L’avere affrontato in maniera quanto meno riduttiva l’istituto della prescrizione (dal solo punto di vista della tutela delle finanze dell’Unione), omettendo del tutto di tenere in considerazione e porre in bilanciamento quella molteplicità di valori, molti dei quali personalistici, alla cui tutela è preposto l’istituto, nella sua conformazione italiana, fa si che la disposizione, come interpretata, si ponga in contrasto con una disciplina che sarebbe stata verosimilmente frutto di deliberazione parlamentare, intesa come esercizio di sovranità nazionale, come scelta fondata sulla condivisione di una, pur approssimativa, “mappa assiologica”. 26 LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 13. Osservazione che si ricollega a quanto lo stesso autore sottolinea a proposito della necessità che i percorsi interpretativi non si riducano ad una partita a tre (legislatore, giuristi e giudici), dimenticando “il quarto e più importante giocatore, che è il comune soggetto di diritto” (LUCIANI M., Interpretazione conforme, cit., 415); cfr. anche, per una serrata critica alle operazioni di bilanciamento tra valori effettuate dalla CGUE nel caso Taricco, CIVELLO G., La Cassazione “rinvia” alla Consulta la sentenza Taricco, cit., 6. 24 Come vedremo tra poco la decisione della CGUE stravolge i valori in gioco: se una “norma” simile fosse partorita dal legislatore nazionale, verrebbe con ogni probabilità censurata dalla Corte costituzionale27. Il fondamento ed i presupposti della responsabilità penale, ivi inclusa la punibilità, debbono rimanere riservati esclusivamente alla legge statale, concetto da intendersi in senso più restrittivo rispetto alla nozione di law, comprensiva anche del diritto giurisprudenziale, sulla quale è invece edificata la concezione europea della legalità penale. 5.3 Il principio di legalità, nel suo corollario di tassatività- determinatezza, come controlimite28 Il parametro costituito dall’art. 25, c. 2, Cost., attentato dalla soluzione imposta dai giudici eurounitari, risulta azionabile come controlimite, anche sotto un ulteriore profilo, oltre ai principi di irretroattività e di riserva di legge. E’ fin troppo evidente infatti che i parametri individuati nella sentenza Taricco, che dovrebbero costituire presupposto della disapplicazione nel caso concreto, si caratterizzano per estrema vaghezza ed indeterminatezza, lasciando al giudice nazionale un potere sostanzialmente incontrollato e, in definitiva, arbitrario. Enunciati linguistici come “la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE” e il “numero considerevole di casi di frode grave”, che costituiscono i presupposti, da accertare in sede giudiziale, ai quali dovrebbe seguire la disapplicazione della normativa interna più favorevole e l’espansione di una normativa con effetti di sfavore e retroattivi, anche se, in quanto leggi, rispettassero la riserva, attribuirebbero al giudice un potere esorbitante rispetto a quanto previsto dall’ordinamento costituzionale interno. Nessun criterio quantitativo determinato viene indicato dalla pronuncia in punto di “gravità”; esso viene rimesso integralmente ad una valutazione del giudice, priva di parametri normativi guida. Non può infatti essere presa a riferimento la soglia di 50.000,00 €, indicata nella Convenzione PIF quale indice di gravità della frode, discostandosi la stessa nettamente dalle soglie di rilevanza (non di gravità) previste per 27 E’ l’ “esercizio” svolto da PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 6. Sull’arbitrarietà di fondo della scelta del GIP di Cuneo, condivisa acriticamente dalla CGUE, di addossare integralmente sulla disciplina sull’interruzione del termine di prescrizione e sulle presunte strategie dilatorie degli avvocati difensori l’effetto di sistematica impunità dei reati commessi a danno delle finanze dell’UE, escludendo numerosi altri fattori parimenti rilevanti, vedi ad es.: PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 2; LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 14; MICHELETTI D., Premesse e conclusioni sulla sentenza Taricco, in Dal giudice garante, cit., 61 ss. 28 25 alcuni reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74/2000, tipicamente commessi nell’ambito delle attività criminose fraudolente ai danni delle finanze dell’Unione (ad es. l’omessa dichiarazione, di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74/2000, che indica la soglia di rilevanza penale in 50.000,00 € ovvero l’omesso versamento di IVA, previsto dall’art. 10 ter dello stesso corpo normativo, il quale risulta penalmente rilevante soltanto se pari o superiore alla cifra di € 250.000,00). Significative problematiche sono ingenerate anche dall’ambigua locuzione “la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE”, che lascia permanere consistenti dubbi su quali fattispecie incriminatrici debbano effettivamente ricadere nell’ambito dell’obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di Lussemburgo, demandando ancora al giudice nazionale un compito complesso e privo di riferimenti precisi; un invito al soggettivismo ed all’arbitrio, che esorbita dalle prerogative che l’ordinamento costituzionale italiano assegna alla funzione giurisdizionale29. E tornano alla mente le pionieristiche considerazione di uno degli artefici della riflessione costituzionale sul nostro sistema penale30. Nel caso all’ esame della Corte non è chiaro se l’obbligo di disapplicazione debba ritenersi operativo soltanto riguardo a quelle condotte delittuose nelle quali la fraudolenza è espressamente prevista dal dettato normativo (artt. 2, 3 e 11 d.lgs. n. 74/2000), o anche ai reati fiscali che non prevedono esplicitamente un elemento di fraudolenza nella condotta (artt. 4, 5, 8, 10, 10 bis, 10 ter, 10 quater d.lgs. n. 74/2000), ovvero, infine, a tutti gli illeciti penali potenzialmente lesivi di interessi economico/finanziari eurounitari (tra cui ad es. l’art. 640 bis c.p.). Ulteriore requisito fondante l’obbligo di disapplicazione, affidato all’accertamento del singolo giudice, attiene all’apprezzamento dell’ineffettività delle sanzioni penali previste (“sistematica impunità”) “in un numero considerevole di casi di frode grave”. Pure relativamente a tale presupposto, sulla base delle indicazioni della pronuncia, non è dato evincere con chiarezza come debba essere interpretato dal singolo giudice. Sarebbe prospettabile, ma difficilmente percorribile, considerarlo “in astratto”, ovverosia con riguardo alla totalità di procedimenti per delitti tributari pendenti dinnanzi alle autorità 29 In dottrina evidenziano con lucidità l’espansione illimitata (e per questo inaccettabile) del potere giudiziario nell’applicazione del dictum Taricco, sottolineando anche come l’intero iter procedimentale della vicenda, a partire dal rinvio pregiudiziale del GIP di Cuneo, lasciasse prevedere un esito di questo tipo: EUSEBI L., Nemmeno la Corte europea, cit., 94-96; CAMON A., La torsione d’un sistema, cit., 7, secondo il quale si assiste ad un “innalzamento del potere giudiziario, che in buona sostanza s’inserisce tra gli autori della normazione penale: la fonte del trattamento deteriore che sarà riservato agli imputati di frodi in materia di IVA non è il TFUE, bensì la sinergia fra il giudice di Cuneo e la Corte di giustizia”; LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 15. 30 BRICOLA F., La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 290 ss; Idem, voce, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., Torino, 1974, 46 ss. dell’ estratto. 26 giudiziarie nazionali. Un’opzione, questa, che tuttavia travalica i limiti cognitivi del singolo giudice, implicando una prognosi empirico-statistica fondata su dati di dubbia affidabilità. Meglio allora intendere il requisito “in concreto”, limitato ai fatti di causa, ai fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (art. 187 c.p.p.), rilevanti nel singolo processo. Pur dovendosi preferire quest’ultima interpretazione, la valutazione sull’ineffettività delle sanzioni penali rimane sempre affidata alla esclusiva decisione del singolo giudice, dalla quale dipenderà un’estensione retroattiva della punibilità. Un’opera d’accertamento giudiziale incontrollabile sul “numero considerevole di casi di frode grave”, che oltrepassa di gran lunga i limiti dell’attività interpretativa e/o discrezionale, segnati dalla presenza di specifici criteri, per trasformarsi in una pura valutazione di politica criminale31 – legittimata da una norma, quella elaborata dalla CGUE in re Taricco, assolutamente carente in punto di tassatività, promanante da una fonte giurisdizionale, che nel nostro ordinamento è riservata esclusivamente al Parlamento, ex art. 25, c. 2, Cost. In dottrina32 si sono opportunamente colti i profili di inconciliabilità con i principi supremi del nostro ordinamento della strada imposta dalla CGUE, che implica la permeabilità della disciplina della prescrizione a una modifica per via giurisprudenziale che non passi per una modifica legislativa. Tale strada – si osserva – “altera, su un punto specifico, la stessa separazione dei poteri in ambito penale, attribuendo al giudice una valutazione sul merito dell’adeguatezza della disciplina della prescrizione. Se l’orizzonte della questione fosse quello del diritto italiano, una ‘legge Taricco’ sarebbe tranquillamente dichiarata illegittima, per l’attribuzione al giudice di un potere sostanzialmente normativo (in violazione dell’art. 101) e per contrasto col principio penalistico di legalità (art. 25) sotto i profili della riserva di legge e della determinatezza della legge penale”. Un esito di questo tipo, d’altra parte, è coerente con la natura di norma “programmatica” o norma-principio dell’art. 325, §§ 1 e 2, TFUE, che costituirebbe la fonte di diritto primario dell’UE dell’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale contrastante. 31 Cfr. sul punto le condivisibili critiche di PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 7, secondo cui “E’ in gioco un potere che eccede quello del giudice interprete della legge e responsabile del giudizio sul fatto. La questione dei poteri attribuiti al giudice, rilevante ex art. 101 Cost., si rispecchia anche nelle questioni sollevate con riferimento al principio penalistico di legalità (art. 25): la riserva di legge e la determinatezza della legge penale sarebbero incrinate anche se il dictum della sentenza Taricco fosse pronunciato dal legislatore. Sarebbe il giudice, e non il legislatore, a decidere in ultima analisi sulla norma applicabile in materia di prescrizione. Il vulnus formale alla riserva di legge, e il vulnus sostanziale alla determinatezza della norma, deriverebbero dalla incompetenza del giudice a effettuare valutazioni di politica legislativa, del tipo di quelle che nel caso in esame gli sono state richieste”. 32 PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 11-12. 27 Sebbene la CGUE si sforzi di puntualizzare, al § 51 della decisione, che “Tali disposizioni del diritto primario dell’Unione pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola in esse enunciata, ricordata al punto precedente”, la disposizione dell’art. 325 TFUE, stante il suo carattere generale e la sua intrinseca indeterminatezza, non risulta suscettibile di applicazione giudiziale automatica, e va correttamente intesa quale regola sulla produzione di norme, indirizzata all’UE ed ai legislatori degli Stati membri, ma non ai singoli giudici. L’eventuale inadempimento dell’obbligo stabilito dall’art. 325 TFUE potrebbe essere tutt’al più sanzionato con la procedura d’inadempimento dello Stato membro (art. 258 ss. TFUE), non con una disapplicazione della normativa nazionale più favorevole con effetti retroattivi, tale da fare ricadere negativamente l’inadempimento statale sulla sfera di diritti fondamentali del singolo. Un’altra opzione legittimamente percorribile dall’UE sarebbe quella di esercitare i poteri conferiti dall’art. 83 TFUE, adottando direttive – previo inserimento delle frodi nei c.d. euro crimes – oggetto delle competenze penali indirette dell’UE. La disposizione di cui all’art. 83, § 1, TFUE prevede infatti che “Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni. Dette sfere di criminalità sono le seguenti: terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata. In funzione dell'evoluzione della criminalità, il Consiglio può adottare una decisione che individua altre sfere di criminalità che rispondono ai criteri di cui al presente paragrafo. Esso delibera all'unanimità previa approvazione del Parlamento europeo”. All’evidenza le condotte criminose fraudolente a danno degli interessi finanziari dell’UE esulano dall’elenco dei gravi reati per i quali è prevista la competenza indiretta dell’Unione in materia penale. In definitiva, l’interpretazione della Corte di Giustizia nella pronuncia Taricco, assumendo l’art. 325 TFUE come “base legale” per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione, costituisce un “eccesso di potere”, in contrasto con la natura “programmatica” e di “norma28 principio” dell’art. 325 TFUE, che finisce per attribuire all’Unione una competenza diretta in materia penale non contemplata nei Trattati33. P.T.M. Si chiede a Codesta Ecc.ma Corte: - di dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, non dovendosi applicare al caso di specie l’obbligo di disapplicazione sancito nella sentenza Taricco, essendo la prescrizione dei reati già maturata alla data dell’8 settembre 2015; - di accogliere la questione di legittimità costituzionale proposta e dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, l. n. 130/2008, di Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325, §§ 1 e 2 TFUE dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C – 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 comma 2 c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche nel caso in cui dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost. - nell’ eventuale contesto di una pronuncia di inammissibiltà per difetto di rilevanza - in quanto questione meramente prospettica - affermare la sussistenza del controlimite costituito dall’ art. 25, 2° comma nei confronti del “diritto” di produzione giurisprudenziale della CGUE, con decisione interpretativa di inammissibilità cosiddetta “di merito”. Con osservanza Bologna, lì 33 EUSEBI L., Nemmeno la Corte europea, cit., 97-99. 29 Prof. Avv. Gaetano Insolera Avv. Andrea Soliani 30