Memoria Avv.ti Soliani ed Insolera

Ecc.ma Corte Costituzionale
memoria illustrativa ex art. 10 Deliberazione C. cost. 7 ottobre 2008
nella causa n. 339/2015 r.o.
I sottoscritti Avv. Andrea Soliani e Prof. Avv. Gaetano Insolera, difensori e procuratori
speciali del sig. [… omissis … ], giusta procura speciale allegata all’atto di costituzione
depositato in data 1 febbraio 2016 e come da nomina e procura speciale depositata presso
la Cancelleria di Codesta Ecc.ma Corte in data 6 settembre 2016 ad integrazione del
collegio difensivo, imputato nel giudizio a quo (n. 6421/14 RG App. Milano, pendente
avanti la Corte d’appello di Milano, sez. II Penale) e parte costituita nel giudizio di
costituzionalità, promosso dalla Corte d’appello di Milano, sez. II Penale, con ordinanza
emessa in data 18 settembre 2015, annotata al Reg. Ord. n. 339/2016 e pubblicata in
Gazzetta Ufficiale del 13 gennaio 2016, formulano le seguenti osservazioni a sostegno delle
conclusioni rassegnate con l’atto di costituzione dell’1 febbraio 2016.
nel giudizio
di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina
l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art.
2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di
applicare l’art. 325, § 1 e 2, TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di
Giustizia, 08/09/2015, causa C – 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice
nazionale di disapplicare gli artt. 160, comma 3, e 161, comma 2, cod. pen., in presenza
delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità
delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente
prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato,
per contrasto di tale norma con l’art. 25, comma 2, Cost.
*********
1
1. Facendo seguito alle conclusioni rassegnate nell’atto di costituzione, ci si permette
di portare all’attenzione di Codesta Ecc.ma Corte, in via preliminare, un profilo che
parrebbe determinare l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di
costituzionalità sollevata dalla Corte d’appello milanese.
Anzitutto, pare riscontrarsi un’ipotesi di inammissibilità per difetto di rilevanza in
relazione a quei capi di imputazione – la grande maggioranza nel caso di specie – per reati
la cui prescrizione era già giunta a maturazione alla data di pubblicazione della
pronuncia Taricco della CGUE (8 settembre 2015).
Infatti, dopo la pronunzia della sentenza di condanna in primo grado sono venuti a
scadenza i termini massimi previsti, nonostante le interruzioni, per l’estinzione per
prescrizione della quasi totalità dei reati contestati, secondo quanto previsto dagli artt. 157,
160 e 161 c.p. e 17 d.lgs. n. 74/2000, quest’ultimo nella formulazione vigente prima di
quanto aggiunto dal co. 1-bis, del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, conv. con modificazioni nella l.
14 settembre 2011 n. 148. Il comma 1-bis dell’art. 17 cit. - con cui i termini di prescrizione
per i reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74/2000 sono elevati di un terzo - è
stato infatti introdotto con legge entrata in vigore successivamente alla commissione dei
reati contestati e, quindi, è inapplicabile nella fattispecie - alla luce dei consolidati
orientamenti giurisprudenziali - in ragione della natura giuridica sostanziale delle norme
in materia di prescrizione e della estensione alle stesse del vincolo intertemporale dell’art.
25 co. 2 Cost. e della norma di cui all’art. 2 co. 2 c.p. Considerato, quindi, che nel giudizio a
quo, in applicazione delle norme di cui agli artt. 157-161 c.p., per tutti gli imputati cui non è
stata contestata la recidiva il termine non può essere prorogato oltre i 7 anni e 6 mesi dal
fatto oppure (per l’organizzazione dell’associazione per delinquere) oltre gli 8 anni e 9
mesi, i reati oggetto delle imputazioni su cui la Corte è stata chiamata a decidere
sarebbero tutti prescritti (ad eccezioni di alcuni), nonostante le interruzioni (l’ultima
delle quali è costituita dalla sentenza di condanna in data 14.1.2014) e in assenza di cause
di sospensione della prescrizione.
Riguardo a tali delitti, si prospetta una “inammissibilità per erroneità del presupposto
interpretativo”. Da un’attenta lettura della pronuncia della CGUE e valorizzando
opportunamente i primi orientamenti applicativi dei giudici nazionali, ci si avvede di come
per tali ipotesi – reati la cui prescrizione era già maturata alla data di emissione della
sentenza Taricco – l’applicazione del disposto di diritto primario dell’UE, di cui all’art.
325 § 1 e 2, con conseguente obbligo di disapplicazione della più favorevole disciplina
2
nazionale del regime di interruzione del termine prescrizionale prevista dagli artt. 160 u.c.
e 161, c. 2, c.p., allorquando sia verificata la sussistenza di una delle due circostanze
indicate nella sentenza della CGUE (“numero considerevole di casi di frode grave”
sistematicamente impuniti o tutela più intensa/efficace delle finanze nazionali rispetto alle
finanze dell’UE), non può essere fatta valere.
La portata degli obblighi sanciti dalla sentenza Taricco pare essere infatti circoscritta
soltanto a quei casi in cui la prescrizione non sia ancora maturata al momento della
pubblicazione della sentenza; ciò è d’altra parte confermato dal fatto che la stessa sentenza
della CGUE è stata emessa in una fattispecie in cui la prescrizione non era ancora
maturata.
L’affermazione dell’obbligo di disapplicazione degli artt. 160 u.c. e 160, c. 2 c.p. da parte
della CGUE non riguarda i reati già prescritti alla data di pubblicazione della sentenza,
come si evince dalla lettura della decisione, al punto 53: “Occorre aggiungere che se il
giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi,
egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli
interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere
sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle
suddette disposizioni di diritto nazionale”.
E ancora, al punto 57: “La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
relativa all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti
corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 49 della Carta, avvalora tale conclusione.
Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua
immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7
della suddetta Convenzione, dato che tale
disposizione
non
può
essere
interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di
prescrizione quando i fatti addebitati non siano ancora prescritti [v., in tal
senso, Corte eur D.U., sentenze Coëme e a. c. Belgio, nn. 32942/96, 32547/96, 32548/96,
33209/96 e 33210/96, § 149 CEDU 2000- VII; Scoppla c. Italia (n. 2) del 17 settembre
2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya
Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563, 564 e 570 e giurisprudenza
ivi citata].
La stessa pronuncia Coëme e a. c. Belgio, nn. 32942/96, 32547/96, 32548/96 § 149 della
Corte Edu, richiamata dalla CGUE al fine di sostenere che la disapplicazione delle norme
3
sull’interruzione della prescrizione con effetto retroattivo sfavorevole non vulnera la
garanzia dell’art. 49 CDFUE (come interpretato in base alla clausola ex art. 52 CDFUE, che
fa riferimento alla giurisprudenza convenzionale in materia di legalità penale), riguardava
un caso in cui i fatti di reato addebitati non si erano ancora prescritti, marcando così un
significativa differenza rispetto alle imputazioni del procedimento principale.
Ulteriori elementi a supporto dell’inapplicabilità del decisum della sentenza Taricco a fatti
di reato per i quali sia già maturata la prescrizione al momento della pubblicazione della
pronuncia
possono
desumersi
dalle
conclusioni
dell’Avvocato
Generale
Kokott,
integralmente condivise dalla Corte di Giustizia.
In particolare, ai punti 119-122, si legge:
119. Dal principio della legalità delle pene non è dato desumere che le norme applicabili
sulla durata, sul decorso e sull’interruzione della prescrizione debbano necessariamente
orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al momento della commissione del
reato. Non sussiste un affidamento meritevole di tutela in tal senso.
120. Piuttosto, l’intervallo di tempo all’interno del quale può essere perseguito un reato
può mutare anche successivamente alla commissione di quest’ultimo, fintantoché non
sia intervenuta la prescrizione (75). In definitiva, accade nella specie lo stesso che
nel caso dell’applicazione di norme processuali nuove a situazioni che, pur createsi nel
passato, non si sono ancora concluse (76).
121. Nell’ambito dell’autonomia procedurale degli Stati membri, ciò apre, in tutti i casi
in cui non è ancora intervenuta la prescrizione (77), un margine discrezionale ai
fini della considerazione di valutazioni di diritto dell’Unione che i giudici degli Stati
membri devono sfruttare completamente in sede di applicazione del rispettivo diritto
nazionale, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività”.
Tramite una corretta interpretazione della pronuncia è possibile cogliere l’erroneità delle
conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III, n. 2210 del
20.1.2016, Pennacchini, rv. 266121), dando attuazione, per la prima volta, all’affermato
obbligo di disapplicazione degli artt. 160, u.c. e 161, c. 2 c.p. per contrasto con l’art. 325, § §
1 e 2 TFUE. In particolare, la Corte, una volta ritenuta sussistente nel caso di specie una
delle circostanze delineate dalla CGUE (“numero considerevole di casi di frode grave” per i
quali la disciplina degli atti interruttivi causava una impossibilità di giungere a una
sentenza di condanna definitiva e di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive) e non
4
riscontrando profili di contrasto con la Costituzione (§§ 17, 18, 21, 22 Cons. in diritto)1, ha
nondimeno precisato che tale dictat non è applicabile soltanto a quei reati per i quali la
prescrizione era già stata dichiarata alla data di pubblicazione della sentenza Taricco,
imponendo dunque la disapplicazione della normativa interna contrastante agli obblighi di
tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea anche qualora il termine prescrizionale
sia già spirato, ma non sia ancora intervenuta formale dichiarazione di avvenuta estinzione
del reato per prescrizione (la Corte non ha infatti dichiarato la prescrizione di un reato che
era maturata fin dal 16 gennaio 2015, in data ben precedente rispetto all’8 settembre
2015).
Tale orientamento, che fa rientrare nella spettro di operatività dell’obbligo di
disapplicazione anche le c.d. “situazioni giuridiche esaurite” – nelle quali il soggetto ha
legittimamente acquisito diritto ad essere “lasciato definitivamente in pace” dalla giustizia
penale, prevalente rispetto all’istanza punitiva statuale – facendo leva sulla natura
meramente
dichiarativa
della
sentenza
della
Corte
lussemburghese,
è
stata
opportunamente criticata in dottrina2, anche da parte di chi, come si vedrà, ha mostrato
aperture verso il superamento della legalità nazionale.
1
Si noti che il Supremo collegio ritiene di potere agevolmente superare in senso negativo il dubbio circa la necessità di
azionare il controlimite del principio di legalità penale di cui all’art. 25, c. 2 Cost., nell’estensione riconosciutagli dalla
giurisprudenza costituzionale interna, nei confronti dell’obbligo di disapplicazione delle disposizioni interne di cui agli
artt. 160, u.c. e 161 c. 2, c.p., con effetto retroattivo in malam partem, per contrasto con l’art. 325, §§ 1 e 2, TFUE,
facendo leva precipuamente su una pronuncia della Corte costituzionale, la sentenza n. 236/2011. Come è stato rilevato
in dottrina, tale ragionamento non convince. Nella sent. n. 236/2011, la Corte costituzionale, valutava infatti il distinto
problema della legittimità costituzionale del regime transitorio dettato dall’art. 3, l. n. 251/2005, con riferimento al
principio della lex mitior, così come desunto dall’art. 3 della Costituzione e, nella sua versione più “ampia”, elaborata
nella giurisprudenza della Corte Edu e recepito nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, c. 1 Cost. Affrontando un
tema dunque del tutto diverso rispetto ad un’eventuale opponibilità del controlimite di cui all’art. 25, c. 2, Cost. ad una
norma euro unitaria con effetti retroattivi in malam partem, la Corte costituzionale “negò la ‘copertura’ convenzionale
sotto l’ombrello dell’art. 7 CEDU della materia della prescrizione, allo specifico scopo di evitare la conseguenza,
altrimenti inevitabile, della estensione anche a tale materia del principio di retroattività della legge penale più
favorevole, che la Corte EDU aveva enunciato a chiare lettere nella sentenza Scoppola c. Italia del 2009. […] La Corte
costituzionale non aveva in quell’occasione, proprio alcuna necessità di azionare i controlimiti, dal momento che –
stante l’estraneità della materia della prescrizione al nullum crimen convenzionale – le fonti sovranazionali pertinenti
erano del tutto irrilevanti rispetto alla soluzione della questione allora sottoposta alla sua attenzione”, così VIGANÒ F.,
La prima sentenza della Cassazione post Taricco: depositate le motivazioni della sentenza della Terza Sezione che
disapplica una prescrizione già maturata in materia di frodi IVA, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 22 gennaio 2016;
cfr. anche BASSINI M., Prescrizione e principio di legalità nell’ordine costituzionale europeo. Note critiche alla
sentenza Taricco, in Consulta Online, 2016, 1, 94 ss., 103-105.
2
VIGANÒ F., Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale: qualche riflessione sul merito delle questioni, e sulla
reale posta in gioco, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 9 maggio 2016, 26-28; LUPO E., La primauté del diritto dell'UE
e l'ordinamento penale nazionale (Riflessioni sulla sentenza Taricco), in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 29 febbraio
2016, 12-13; FARAGUNA P.-PERINI P., L’insostenibile imprescrittibilità del reato. La Corte d’appello di Milano mette la
giurisprudenza “Taricco” alla prova dei controlimiti, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 30 marzo 2016, 10;
GAMBARDELLA M., Caso Taricco e garanzie costituzionali ex art. 25 Cost., in Cass. pen., 2016, 4, 1462 ss., 1477-1479.
5
Per altro la richiamata prima sentenza della Corte di Cassazione non sembra negare
l’intangibilità delle fattispecie nelle quali il decorso del tempo abbia già fatto maturare
l’estinzione del reato: l’errore della decisione sta piuttosto nel condizionare
l’effetto ad una intervenuta pronuncia dichiarativa (cfr. § 23 Considerato in
diritto: “Nemmeno può determinare la revoca della dichiarazione di
estinzione del reato già intervenuta, perché il soggetto al quale l’autorità
giurisdizionale abbia dichiarato estinto il reato acquisisce un diritto
soggettivo che prevale sulle istanze punitive dello Stato. Nella specie, quindi,
il contrasto con la norma del Trattato non incide sui periodi di imposta 2003
e 2004 già dichiarati estinti per prescrizione nei due gradi di merito”).
E infatti, in una pronuncia di poco successiva (Cass. Pen., Sez. IV, n. 7914 del 26.2.2016,
Tormenti, rv. 266078) i giudici di legittimità hanno proceduto a delimitare correttamente
i confini di applicabilità della sentenza della Corte lussemburghese, escludendo dal novero
delle situazioni processuali non soltanto quelle in cui la prescrizione sia già stata
dichiarata al momento della pubblicazione della sentenza Taricco, ma anche allorquando
il termine prescrizionale sia maturato, ma l’effetto estintivo non sia stato formalmente
dichiarato dal giudice.
Pur avendo ritenuto di non disapplicare il più favorevole disposto degli art. 160, u.c. e 161,
c. 2, c.p., in ragione della riscontrata carenza del requisito della gravità delle frodi nel caso
sub iudice, la Suprema Corte ha rilevato che l’obbligo di disapplicazione sancito dalla
pronuncia della CGUE dell’8 settembre 2015 non deve essere applicato ai fatti già prescritti
alla data della sentenza3.
In motivazione (§ 7.4) la Corte Suprema richiama opportunamente le conclusioni
dell’Avvocato Generale (§§ 121-122), per affermare conclusivamente in termini inequivoci
la necessità di limitare l’applicabilità del dictum Taricco ai soli fatti-reato non ancora
prescritti alla data di pubblicazione della sentenza (8 settembre 2015), al fine di tutelare
“una sorta di diritto quesito dell’imputato all’estinzione del reato per il quale fosse già
intervenuto il termine di prescrizione” 4 . Questa soluzione è per altro coerente con il
3
“In tema di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, i principi affermati dalla sentenza della
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, Taricco e altri del 8 settembre 2015, C-105/14, in ordine alla
possibilità di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen. se ritenuta
idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, non si applicano ai
fatti già prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia (8 settembre 2015)”.
4
v. § 7.4 della pronuncia: “Se dunque tali profili sono stati affrontati avanti alla Corte di Lussemburgo nei termini
appena detti, non può non ravvisarsi (come parte della dottrina ha d’altronde osservato all’indomani della sentenza
Taricco) una sorta di “diritto quesito” dell’imputato all’estinzione del reato per il quale fosse già intervenuto il termine
di prescrizione, diritto che non appare pregiudicabile per effetto di una forma atipica di ius superveniens come quella
introdotta dalla Corte lussemburghese con la più volte citata pronunzia. In tal senso, appare ragionevole sostenere che
6
pacifico operare della causa estintiva, nel nostro sistema,
in termini oggettivi: la
prescrizione viene infatti rilevata dal giudice d’ ufficio e doverosamente, una volta
che sia constato il necessario decorso del tempo [ argomento che si ricava pianamente dall’
art. 129, 1° comma c.p.p., in termini generali e dalla disciplina dei casi di proscioglimento
predibattimentale: art. 469 c.p.p.].
Sulla scorta di tutte le considerazioni sopra svolte, e considerando che per la grande
maggioranza dei reati oggetto di giudizio risultava già maturata la prescrizione alla data
dell’8 settembre 2015, occorre osservare che il giudice rimettente non avrebbe dovuto dare
applicazione al principio statuito nella sentenza della CGUE.
Pertanto, conclusivamente, la questione di costituzionalità sollevata deve ritenersi
inammissibile per “erroneità del presupposto interpretativo” 5 quanto ai reati per i quali la
prescrizione era già maturata a far data 8 settembre 2015, fatti salvi dunque soltanto
quelli elencati a pagg. 8-9 dell’ordinanza di rimessione:
- reato di cui all’art. 416 comma 1 c.p. attribuito al capo 1 a [ … omissis … ], in qualità di
promotori e organizzatori dell’associazione per delinquere (reato commesso da gennaio
2005 a luglio 2007; termine di prescrizione pari a 8 anni e 9 mesi in scadenza nel marzo
2016);
- reato di cui all’art. 2 D. Lvo n. 74/2000, limitatamente alla dichiarazione fraudolenta per
l’anno 2007, attribuito al capo 28 a [ … omissis … ] (il reato di cui al capo 28 concerne la
violazione dell’art. 2 D. Lvo 74/2000 in relazione all’utilizzo da parte di [ … omissis … ] di
F.O.I. emesse da [ … omissis … ], negli anni 2005-2006-2007, le date di consumazione
coincidono con quelle di presentazione delle dichiarazioni fraudolente, rispettivamente il
30.10.2006 per l’anno 2005, il 28.9.2007 per l’anno 2006, il 26.9.2008 per l’anno 2007,
per quest’ultimo reato il termine di prescrizione verrebbe a scadenza il 24.3.2016;
- reati di cui agli artt. 10 e 5 D. Lvo n. 74/2000 contestati a [ … omissis … ] ai capi 4, 5 e 24
(per effetto della recidiva reiterata infraquinquennale);
- reati di cui all’art. 5 D. Lvo n. 74/2000, contestati a [ … omissis … ] ai capi 13 e 16 (per
effetto della recidiva reiterata); reato di cui all’art. 10 D. Lvo n. 74/2000 contestato a [ …
omissis … ] al capo 42 (per effetto della recidiva reiterata);
la disapplicazione degli artt. 160 e 161 cod. pen., per assicurare la tenuta dei principi ispiratori del sistema penale
nazionale (a cominciare dall’art. 25, comma 2, Cost.) e al tempo stesso il rispetto dell’ordinamento dell’Unione
europea (art. 117, comma 1 Cost.) debba valutarsi rispetto a fatti non ancora prescritti alla data della pubblicazione
della sentenza Taricco (8 settembre 2015), fra i quali non rientra il caso in esame”.
5
Cfr. nella recente giurisprudenza costituzionale: C. cost., sent. n. 49/2015, punto 6 considerato in diritto; C. cost., sent.
n. 241/2015; ord. n. 187/2015.
7
- reato di cui agli artt. 10 e 5 D. Lvo n. 74/2000 contestati a [ … omissis … ] ai capi 33 e 34
(per effetto della recidiva reiterata infraquinquennale);
- reato di cui all’art. 10 D. Lvo n. 74/2000 contestato a [ … omissis … ] al capo 48 (la
distruzione e/o occultamento della documentazione sociale obbligatoria risulta accertata in
data 7.5.2008; il termine di anni 7 e mesi 6 di prescrizione verrebbe quindi a scadenza il
7.11.2015) ).
2. Con riferimento a tutti i reati appena elencati, per i quali il termine di prescrizione
non era ancora maturato alla data di emissione dell’ordinanza di rimessione (18
settembre 2015), la questione parrebbe porsi come “meramente prospettica” e
pertanto priva di rilevanza, dovendosi attendere il momento in cui i termini
prescrizionali siano effettivamente scaduti e la “norma”, nell’interpretazione della
CGUE In re Taricco, debba essere applicata al caso di specie, perché la questione si
ponga concretamente.
Ciò nondimeno, l’estrema importanza della posta in gioco (principi di civiltà giuridica) – è
significativo come questa espressione sia utilizzata da uno dei più attenti studiosi dei
rapporti tra Legge fondamentale e sistema penale6 – ed il fatto che numerose questioni
non tarderanno a presentarsi, impongono di valutare nel merito le violazioni lamentate
nell’ordinanza della Corte d’appello milanese (con una decisione di c.d. inammissibilità
vestita o sentenze d’inammissibilità interpretative).
Non può non osservarsi, infatti, come la dottrina, non soltanto penalistica, all’indomani
della decisione Taricco, si sia mostrata insolitamente compatta e ferma nell’evidenziare la
necessità di azionare l’ “arma” dei controlimiti per scongiurare il vulnus profondo ed
irrimediabile che soffrirebbe il principio di legalità penale – per come esso viene
interpretato nella dimensione interna – se i giudici nazionali dovessero dare piena
attuazione all’obbligo di disapplicazione degli artt. 160, u.c. e 161, c. 2, c.p. sancito dalla
sentenza europea7.
6
PULITANÒ D., La posta in gioco nella decisione della Corte costituzionale sulla sentenza Taricco, in Dir. pen. cont.
(rivista on-line), 5 ottobre 2016, 1 ss.
7
Deve notarsi, infatti, che, a parte alcune eccezioni, la reazione alla decisione Taricco della “cultura giuridica”, tanto
penalistica, quanto costituzionalistica, sia stata fortemente critica e insolitamente compatta, raggiungendo approdi
sostanzialmente condivisi: cfr, senza alcuna pretesa d’esaustività, PULITANÒ D., La posta in gioco; cit., 1 ss.; LUCIANI
M., Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, 2016, 2, 15 aprile
2016, 1 ss.; BIN R., Taricco, una sentenza sbagliata: come venirne fuori?, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 4 luglio
2016; EUSEBI L., Nemmeno la Corte europea può erigere il giudice a legislatore, in Dal giudice garante al giudice
disapplicatore delle garanzie, a cura di Paonessa-Zilletti, Pisa, 2016, 93 ss.; CAMON A., La torsione d’un sistema.
Riflessioni intorno alla sentenza Taricco, in www.latribuna.it, 1 ss.; MANES V., La “svolta” Taricco e la potenziale
8
Si è messo in luce che l’applicazione della “norma” europea determinerebbe una vera e
propria “sovversione di sistema”8, provocando conseguenze sul lungo periodo difficili da
prevedere e certamente non conciliabili con il volto garantistico del diritto penale
costituzionalmente orientato e con i principi supremi che marcano l’identità del nostro
ordinamento costituzionale.
Non può poi condividersi l’opinione, pur sostenuta in dottrina9, secondo la quale la Corte
costituzionale dovrebbe, per ragioni di opportunità “politica”, connesse alla necessità di
non “interrompere” bruscamente il processo d’integrazione giuridico-politica eurounitario,
orientarsi alla ricerca di una soluzione che le offra un commodus discessus processuale,
per dichiarare l’inammissibilità della questione 10 . Da condividere totalmente, invece,
l’osservazione secondo la quale “criticando la sentenza Taricco – già al livello del diritto
europeo – la dottrina ha fatto il suo mestiere”11. E siamo certi che non resterà
inascoltata dal Giudice delle leggi.
E’ noto che nel corso degli anni si è ampliato significativamente il novero delle tipologie
decisorie attraverso cui la Corte si pronuncia (c.d. autopoiesi della giurisprudenza
costituzionale); ciò risulta particolarmente vero per quanto concerne le pronunce
d’inammissibilità (in particolare da quando, con la sentenza n. 356/1996, fu imposto al
giudice comune l’onere di esperire il tentativo di un’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione, quale condizione necessaria per potere sollevare la questione
di costituzionalità, a pena d’inammissibilità della stessa, in base al principio secondo cui
“le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne
“sovversione di sistema”: le ragioni dei controlimiti, in Dir. pen. cont. (rivista on-line), 6 maggio 2016; MAIELLO V.,
Prove di resilienza del nullum crimen: Taricco versus controlimiti, in Cass. pen., 2016, 3, 1250 ss.; CUPELLI C., Il caso
Taricco e il controlimite della riserva di legge in materia penale, in Dal giudice garante al giudice disapplicatore delle
garanzie, Zilletti-Paonessa (a cura di), Pisa, 2016, 151 ss.
8
MANES V., La “svolta” Taricco e la potenziale “sovversione di sistema”, cit.; CAMON A., La torsione d’un sistema,
cit.
9
VIGANÒ F., Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale, cit., 4-9.
10
Occorre osservare, peraltro, che la Corte costituzionale, pur in altro contesto, con la nota sentenza n. 119/2015, ha
avuto modo di ampliare le sfere di incidentalità e di rilevanza, soprattutto in materia di tutela dei diritti fondamentali,
per evitare che ostacoli di natura processuale precludano una pronuncia nel merito. Cfr. sul punto RUOTOLO M.,
Principio di diritto nell’interesse della legge e questioni di legittimità costituzionale: tra le astratte simmetrie formali
del diritto processuale e l’esigenza di “rendere giustizia costituzionale”, in Rivista Aic, 1/2015, 6, secondo il quale
“quando è in gioco l’incremento della tutela di un diritto o la stessa possibilità di esercitarlo le maglie del controllo
sulla rilevanza devono farsi più larghe in funzione dell’obbiettivo principale del giudizio della Corte, che è quello di
“rendere giustizia costituzionale”, contribuendo, al di là del concreto interesse delle parti del giudizio a quo, a rendere
l’ordinamento, attraverso le sue singole norme, conforme a Costituzione”. Si noti inoltre che la rilevanza viene
motivata ampiamente nell’ordinanza della Corte d’appello di Milano (§ 7 Cons. in diritto).
11
PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 13.
9
interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è
impossibile darne interpretazioni costituzionali”)12.
La flessibilità delle tipologie decisorie a disposizione della Corte, sviluppata in sede
pretoria, ha determinato un incremento delle decisioni di inammissibilità che però vanno a
interferire con il merito della questione, fornendo indicazioni interpretative al giudice a
quo. Tale tipologia di pronuncia, definita anche interpretativa di inammissibilità “di
merito”, “lungi dal poter essere ‘confinata’ nel novero delle decisioni processuali, lambisce
per non dire che tocca davvero il merito della questione di costituzionalità: in altri
termini, tale decisione di inammissibilità è simile in tutto e per tutto ad un’interpretativa
di rigetto in quanto ‘evidenzia … la pista interpretativa che consente, anche con qualche
forzatura, di evitare i dubbi di costituzionalità messi sul tappeto dal giudice rimettente”13.
Questa tipologia decisoria è stata impiegata di recente anche in materia penale,
nell’importante sentenza n. 49/2015, in tema di confisca urbanistica ex art. 44, c. 2, d.P.R.
n. 380/2001, specificamente sulla compatibilità di detta misura con i principi della
giurisprudenza-fonte della Corte EDU (art. 7, § 1, CEDU), nel caso in cui non vi sia stata
una formale sentenza di condanna ma sia intervenuta la prescrizione del reato. La Corte
costituzionale, pur ritenendo inammissibile, in ragione di una pluralità di vizi, la questione
sollevata, si è diffusa in un’ampia argomentazione nel merito.
Anche nel presente giudizio, qualora la Corte intenda dichiarare l’inammissibilità della
questione, ad esempio motivando che la Corte rimettente abbia omesso un tentativo di
interpretazione conforme a Costituzione – anche se nell’ordinanza l’impossibilità di tale
interpretazione del dictat della CGUE è motivata in maniera esaustiva – ovvero abbia
preso le mosse da un “erroneo presupposto interpretativo”, dovrà in ogni caso
intervenire sul merito della questione, ovverosia risolvere il dubbio circa la
compatibilità con il principio di legalità penale “interno” della disposizione di cui all’art.
325, §§ 1 e 2 e art. 2 L. 2 agosto 2008, n. 130, nell’interpretazione fornitane nel caso
Taricco.
12
V. BONI M., Le pronunce di inammissibilità della Corte, in www.cortecostituzionale.it; sulla svolta determinata dalla
sentenza n. 356/1996 e sugli sviluppi giurisprudenziali successivi v. LUCIANI M., Interpretazione conforme a
Costituzione (voce), in Enciclopedia del Diritto, Annali IX, Milano, 2015, 391 ss., 466-473, che mette in guardia
rispetto al rischio di una “polverizzazione del giudizio di costituzionalità”.
13
Così ad es. BONOMI A., Le interpretative di inammissibilità “processuali” e “di merito”: natura decisoria e effetto
preclusivo ?, in www.forumcostituzionale.it, 13-14.
10
3. La Corte rimettente dubita che l’obbligo di disapplicazione della disciplina
sull’interruzione del termine prescrizionale interna, imposto dalla CGUE al
verificarsi di determinate circostanze, che provocano una “sistematica impunità” di
gravi frodi Iva in danno degli interessi finanziari dell’UE, sia compatibile con il
principio di legalità in materia penale previsto dall’art. 25, c. 2, Cost. nella sua
duplice declinazione, da un lato, di diritto fondamentale dell’individuo a non subire
conseguenze in malam partem non previste né prevedibili al momento della
commissione della condotta delittuosa, dall’altro, sul piano delle fonti, di garanzia
che le scelte che comunque incidono sull’an della punibilità in senso peggiorativo
debbano restare esclusivamente appannaggio del Parlamento nazionale, il solo
soggetto istituzionale espressivo della volontà politica della comunità e che gode
della legittimazione popolare.
In particolare, l’art. 25, c. 2, Cost., nella summenzionato duplice accezione – ad avviso di
questa difesa – deve essere opposto quale “controlimite” rispetto alla limitazione di
sovranità cui l’ordinamento interno ha consentito ex artt. 11 e 117, c. 1 Cost. a vantaggio
dell’Unione Europea, in quanto la norma fornita dall’interpretazione della CGUE si pone in
contrasto con quei “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” e “diritti
inalienabili della persona” che costituiscono l’identità dell’ordinamento giuridico
nazionale.
Ben pochi dubbi possono manifestarsi sul fatto che il principio di legalità sia di rango tale
da atteggiarsi a controlimite, come è stato messo in luce da autorevole dottrina, in quanto
“il fondamento garantistico, secondo cui sono riservate al Parlamento nazionale le scelte
comunque concernenti la libertà e la dignità personale, ne fa addirittura un diritto
fondamentale dell’uomo”14.
La categoria dei controlimiti è stata elaborata anche nella giurisprudenza costituzionale
italiana (cfr. le tre “storiche” sentenze Corte cost. n. 183/1973; n. 170/1984; n. 232/1989),
venendo azionata solamente in pochi casi. Come vedremo, i controlimiti non sono stati
14
PALAZZO F.C., Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2013, 128; cfr. GRASSO G., Relazione di sintesi, in Le
sfide dell’attuazione di una Procura europea: definizione di regole comuni e loro impatto sugli ordinamenti interni, a
cura di Grasso-Illuminati-Sicurella-Allegrezza, Milano, 2013, 733, il quale evidenzia che le limitazioni di sovranità
consentite dall’art. 11 Cost. non devono mai intaccare le scelte di fondo che caratterizzano il sistema costituzionale di
riferimento, ed in materia penale si intende “quell’insieme di limiti e garanzie, che caratterizzano il sistema penale in
uno Stato di diritto e che rappresentano un momento essenziale dei rapporti tra autorità e libertà (anzitutto quindi il
principio di legalità), costituiscano una componente ineliminabile di quel nucleo di principi fondamentali che debbono
necessariamente riflettersi nella struttura costituzionale dell’organizzazione sovranazionale alla quale sia conferita
una potestà penale”.
11
posti, ma la Corte ha affrontato il tema, in riferimento al processo di integrazione tra
sistema interno e ordinamento comunitario prima ed eurounitario poi.
In due occasioni, la Corte costituzionale ha individuato ed azionato come controlimite il
principio supremo della tutela giurisdizionale dei diritti (art. 24 ed art. 2 Cost.), nell’un
caso rispetto ad una previsione di diritto concordatario (sent. n. 18/1982), nell’altro
rispetto ad una norma di diritto internazionale consuetudinario (sent. n. 238/2014).
Proprio nella recente pronuncia da ultimo citata (sent. n. 238/2014), la Corte ha avuto
occasione di riaffermare contenuto e portata della c.d. dottrina dei controlimiti, elaborata
in letteratura15 e nella giurisprudenza precedente16.
Nell’ambito specifico dei rapporti tra sistema costituzionale nazionale ed ordinamento
comunitario (e poi eurounitario), caratterizzato dalla prevalenza del diritto sovranazionale
nelle materie di competenza europea, la Corte ha vigilato attentamente, affermando a più
riprese la necessità di una sua penetrante verifica del rispetto dei c.d. controlimiti nel
processo di integrazione tra ordinamenti.
Fin dalla nota sentenza Frontini (n. 183/1973, § 9) è stata riconosciuta “la garanzia del
sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con
15
Cfr. di recente BARBERA A., Costituzione della Repubblica italiana (voce), in Enciclopedia del Diritto, Annali VIII,
Milano, 2015, 263 ss., 268-269, secondo il quale si tratta dei “‘principi fondamentali’ che marcano l’identità
dell’ordinamento costituzionale e racchiudono le informazioni genetiche attorno a cui si modella l’ordinamento
costituzionale e, attraverso questo, l’intero ordinamento giuridico. Essi fondono e sostengono l’ordinamento
costituzionale, ne assecondano le trasformazioni possibili e individuano i confini entro cui queste possono realizzarsi.
Per queste caratteristiche tali principi sono individuati dalla Corte, e dalla dottrina pressoché unanime, quali possibili
‘limiti’ alla revisione e quali ‘contro-limiti’ all’ingresso di norme di altri ordinamenti (i ‘principi supremi’ nel
linguaggio della Corte). Non solo essi sono invalicabili da parte di altri ordinamenti (europeo, concordatario,
internazionale), pur collegati a quello italiano, ma stabiliscono altresì i confini invalicabili dello stesso potere di
revisione costituzionale. Rappresentano quei tratti identitari alterati i quali tale potere perderebbe legittimazione e
darebbe vita non ad una ‘revisione’ ma ad un ‘mutamento costituzionale’, trasformandosi da ‘costituito’ a
‘costituente’. Al pari di tutti i principi, essi possono essere anche inespressi. Come affermato dalla Corte, sono da
considerarsi ‘supremi’ tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere
di revisione costituzionale, quanto i principi che, ‘pur non essendo espressamente menzionati […] appartengono
all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.
16
“Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un ‘limite all’ingresso […] delle
norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art.
10, primo comma della Costituzione’ (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali ‘controlimiti’
all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 232 del 1989,
n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti lateranensi e
del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi
identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione
costituzionale (art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988). In un sistema accentrato di controllo di
costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di
qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. (…) Anche di recente, poi,
questa Corte ha ribadito che la verifica di compatibilità con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale e di
tutela dei diritti umani è di sua esclusiva competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed ancora, precisamente con riguardo
al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), che il rispetto dei diritti fondamentali, così come l’attuazione dei
principi inderogabili, è assicurata dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120 del
2014)” (§ 3.2).
12
i predetti principi fondamentali” dell’assetto costituzionale e con i “diritti inalienabili
della persona umana”. Successivamente, nella sentenza Granital (n. 170/1984, § 7), la
Corte ha riaffermato che “la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo
sindacato, in riferimento ai principi fondanti del nostro ordinamento costituzionale e ai
diritti inalienabili della persona umana”, con riferimento alle disposizioni che “si
assumano costituzionalmente illegittime (…) in relazione al sistema o al nucleo essenziale
dei suoi principi”.
Nella sentenza n. 1146 del 1988 (§ 2.1), la dottrina è stata ribadita: “La Costituzione
italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati
nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede
come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana
(art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente
menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione
costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si
fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in
numerose decisioni come i principi supremi dell'ordinamento costituzionale abbiano una
valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha
ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare
fornita dall'art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all'accertamento della loro
conformità ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” (v. sentt. nn. 30 del
1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la
legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al
sindacato di questa Corte “in riferimento ai principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana” (v.
sentt. nn. 183 del 1973, 170 del 1984)”.
Anche nella importante sentenza n. 232 del 1989 (§ 3.1), la Corte costituzionale si è
espressa in tal senso: “Vero è che l'ordinamento comunitario - come questa Corte ha
riconosciuto nelle sentenze sopra ricordate ed in altre numerose - prevede un ampio ed
efficace sistema di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei singoli, di cui il
ricorso incidentale alla Corte di Giustizia ex art. 177 del Trattato C.E.E. costituisce lo
strumento più importante; ed è non meno vero che i diritti fondamentali desumibili dai
principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri costituiscono, secondo la
giurisprudenza della Corte delle Comunità europee, parte integrante ed essenziale
13
dell'ordinamento comunitario. Ma ciò non significa che possa venir meno la
competenza di questa Corte a verificare, attraverso il controllo di
costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del
Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli
organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della
persona umana. In buona sostanza, quel che è sommamente improbabile è
pur sempre possibile; inoltre, va tenuto conto che almeno in linea teorica
generale non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale si ritrovino fra i
principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi
nell'ordinamento comunitario”.
Le stesse fonti di diritto primario dell’UE, le disposizioni dei Trattati, riconoscono
espressamente che il processo di integrazione ed i principi del primato e dell’effetto
diretto del diritto europeo debbono arrestarsi di fronte ad un contrasto e ad una
potenziale lesione dei principi supremi e dei diritti inalienabili della persona che si
configurano come “tratti identitari” immodificabili degli ordinamenti costituzionali
nazionali.
In particolare, l’assorbimento nel tessuto ordinamentale eurounitario dell’identità
nazionale degli Stati membri si fonda su alcune disposizioni: l’art. 4.2 TUE (“l’Unione
rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale
insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale”); l’art. 6.3 TUE (“i
diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”); l’art.
67.1 TFUE (ove si afferma che lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia viene realizzato
dall’UE “nel rispetto dei diritti fondamentali, nonché dei diversi ordinamenti giuridici e
delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”).
A tale proposito si parla già da tempo di “europeizzazione dei controlimiti”17; occorre
ribadire però che spostare integralmente sul versante europeo la verifica circa il rispetto
17
Con alcune precisazioni necessarie: cfr. ad es. LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 9, il quale sostiene “l’identità
nazionale (recte: costituzionale) che l’Unione deve rispettare è solo quella che viene dichiarata tale dallo Stato
interessato, nelle forme e nei modi che la sua Costituzione stabilisce. Così, del resto, si darebbe un senso al riferimento
al fatto che quell’identità è ‘insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale’: essendo ‘insita’ in
quella ‘struttura’, infatti, è solo secondo le regole procedurali di quella struttura che può essere pienamente
identificata”.
14
dell’identità costituzionale degli Stati membri da parte dello stesso diritto euro unitario
(tramite il suo interprete privilegiato, la CGUE) rappresenta una contraddizione in termini,
dovendo tale facoltà permanere in capo alle Corti costituzionali nazionali 18 . Solo tale
prospettiva riesce infatti a preservare la vera ratio della categoria dei controlimiti: la
necessità di riappropriarsi della sovranità allorquando questa non viene soltanto
legittimamente limitata, come previsto dall’art. 11 Cost., ma di fatto ceduta.
In quest’ottica – quale opportuna riaffermazione della necessità che il “nucleo duro”
dell’identità costituzionale nazionale non venga intaccata dal primato del diritto UE –
debbono essere lette allora le note sentenze del BundesVerfassungsGericht del 30 giugno
2009, del 7 settembre 2011, del 19 giugno 2012 e del 12 settembre 2012. Ancor più
recentemente, un’importante presa di posizione dello stesso BundesVerfassungsGericht
(sent. 15.12.2015, RG. 2 BvR 2735/14) ha ritenuto la protezione dei diritti inalienabili
garantiti dalla Costituzione tedesca (il supremo principio della dignità umana, ex art. 1
della Costituzione, e il connesso principio di colpevolezza) prevalente sull’applicazione
della legislazione eurounitaria, in una fattispecie relativa ad un MAE esecutivo emesso
dall’autorità giudiziaria italiana a seguito di una condanna a trenta anni di pena detentiva
all’esito di un processo celebrato in contumacia.
Al contrario, appare criticabile, proprio perché inidonea a proteggere il “nucleo duro”
dell’identità costituzionale nazionale, la posizione espressa dalla Grande Sezione della
CGUE nella sentenza Melloni del 26 febbraio 201319.
Tale decisione, improntata al c.d. “primato a tutti i costi del diritto europeo”, conferma
come sia inaccettabile demandare integralmente all’opera della Corte di Giustizia il
18
Cfr. in dottrina LUCIANI M., Interpretazione conforme, cit., 455 e nt. 480, laddove si contesta l’idea, pur
autorevolmente sostenuta, che i controlimiti siano di fatto incorporati nel diritto eurounitario, in forza dell’art. 4.2 TUE,
e dunque la verifica sul loro rispetto debba essere condivisa tra Corti costituzionali degli Stati membri e CGUE, facendo
riferimento al “dato di fondo che la natura e la funzione stesse dei controlimiti, posti a presidio dell’identità (appunto)
nazionale, impongono la giurisdizione di un’autorità parimenti nazionale: nessun ordinamento può logicamente
affidare l’identità propria precisamente all’altro nei cui confronti quell’identità va protetta”; CARDONE A., La tutela
multilivello dei diritti fondamentali, Milano, 2012, 51, secondo il quale la “interpretazione integrativa” non può spettare
“direttamente e solipsisticamente” alla CGUE “salvo travalicare i suoi compiti istituzionali, visto che ad essa è
precluso il sindacato di conformità del diritto interno al diritto dell’Unione”; sull’importanza di evitare “lo spettro di
una tirannia della Costituzione europea, di fatto esercitata dalla Corte europea”, v. PULITANÒ D., La posta in gioco,
cit., 13.
19
In tale decisione la CGUE ha risposto al quesito posto in via pregiudiziale dal Tribunal Constitucional spagnolo,
denegando la possibilità di fare valere un grado più elevato di garanzia costituzionale interna rispetto quanto previsto
dal diritto dell’Unione, in un caso di cooperazione giudiziaria in materia penale, nel quale la Spagna – invocando il
criterio del Best Standard di tutela dei diritti fondamentali ex art. 53 CDFUE – intendeva dare piena attuazione al più
intenso diritto costituzionale di difesa e ad un processo equo così come previsto dalla Carta fondamentale nazionale (art.
24), rifiutando l’esecuzione di un MAE emesso dall’autorità giudiziaria italiana, a seguito di un processo svoltosi in
absentia, e che non prevedeva alcuna possibilità di revisione della sentenza di condanna irrogata. Cfr. tra i tanti, sulla
pronuncia, CUPELLI C., Il caso Taricco, cit., 152-153, e letteratura ivi citata alla nt. 5.
15
bilanciamento tra diritti fondamentali, nella loro estensione riconosciuta dalle fonti
europee, e elementi che contrassegnano l’identità costituzionale degli Stati membri, nel
processo di integrazione tra i due ordinamenti. La definizione e l’esatta delimitazione di
questi ultimi, infatti, non può che spettare alle Corti costituzionali nazionali, nell’ottica
della protezione dei propri
principi
supremi
e
diritti
inalienabili, che
contribuiscono a formare l’identità dell’ordinamento costituzionale.
4. Occorre ora valutare attentamente quali sono le argomentazioni utilizzate dalla
CGUE nella sentenza Taricco per sostenere che il mutamento retroattivo in peius
della disciplina dell’interruzione del termine di prescrizione, imposto alla luce della
sistematica impunità di gravi frodi a danno degli interessi finanziari dell’UE, non
viola il principio di legalità in materia penale, così come inteso nella “minore”
estensione riconosciutagli dalle fonti di diritto eurounitario.
Tale analisi risulta necessaria per comprendere appieno come l’estensione del principio di
legalità penale, nonché la natura giuridica dell’istituto della prescrizione, non siano
coincidenti tra dimensione europea ed interna.
I giudici della Corte lussemburghese escludono ogni vulnus al principio di legalità europeo,
constatando come l’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
(CDFUE) – secondo cui “Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione
che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o
il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella
applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla
commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre
applicare quest’ultima” – che recepisce, ai sensi dell’art. 52 CDFUE, il principio del nullum
crimen nell’estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte EDU sul
corrispondente art. 7 della Convenzione, non copra l’istituto della prescrizione, attinente
alle condizioni di procedibilità del reato ed estraneo al diritto penale sostanziale. Così,
l’applicazione di un termine di prescrizione più lungo ad un fatto di reato in precedenza
commesso non violerebbe la garanzia di cui all’art. 49 CDFUE, limitandosi quest’ultima
soltanto al binomio precetto-sanzione stricto sensu.
Riconoscendo tale, più ridotta, portata al principio di legalità, si afferma al § 55 che “la
disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di
non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale
pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di
16
assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare,
rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana. Una
disapplicazione siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’art. 49
della Carta”, proseguendo al § 56 “non ne deriverebbe affatto una condanna degli
imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non
costituiva un reato punito dal diritto nazionale (v., per analogia, sentenza Niselli, C457/02, EU:C:2004:707, punto 30), né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso
momento, non era prevista per tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati
nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi
reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste”. La CGUE
conclude il suo ragionamento (§57) con il decisivo riferimento alla giurisprudenza della
Corte EDU sull’art. 7 della Convenzione, che sancisce diritti corrispondenti a quelli dell’art.
49 CDFUE, secondo cui “la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata
applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’art. 7 della suddetta
Convenzione, dato che suddetta disposizione non può essere interpretata nel senso che
osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano
ancora prescritti”.
Dunque, la natura eminentemente processuale della prescrizione, nell’interpretazione fatta
propria dalla Corte Edu, e recepita dalla CGUE, pone la disciplina dell’interruzione del
termine al di fuori del perimetro di garanzia del nullum crimen convenzionale e consente
una disapplicazione imposta da una pronuncia giurisdizionale, da attuare sulla base
di parametri indeterminati e rimessi sostanzialmente alla discrezionalità del
singolo giudice nazionale, e con effetti retroattivi in malam partem.
Tale obbligo di disapplicazione della normativa interna, che trova la sua origine e la sua
legittimazione nella nozione “ristretta” di legalità penale europea, deve tuttavia
confrontarsi con una giurisprudenza costituzionale interna univocamente orientata nella
opposta direzione di riconoscere natura sostanziale a tutte le disposizioni in materia di
prescrizione (che ne disciplinano durata, sospensione, interruzione), facendo dunque
integralmente ricadere l’istituto nello spettro di protezione dell’art. 25, c. 2 , Cost.
(irretroattività-riserva di legge).
La frontale inconciliabilità tra la soluzione imposta dalla CGUE, in nome della più efficace
repressione e punizione di condotte delittuose gravi lesive degli interessi economicofinanziari dell’Unione, ed il principio costituzionale di legalità penale nazionale, nel suo
duplice corollario, va ad intaccare la struttura identitaria ed i principi supremi sui quali si
17
fonda l’ordinamento costituzionale interno, e richiede la declaratoria di illegittimità della
fonte normativa che dà ingresso all’obbligo di disapplicazione degli artt. 160, u.c. e 161, c. 2
c.p statuito dalla CGUE.
5. I corollari del principio di legalità nell’ art. 25, 2° comma della
Costituzione
5.1
Il corollario della irretroattività della legge penale quale controlimite
Nella giurisprudenza costituzionale italiana si è affermato limpidamente lo statuto,
inderogabile e non suscettibile di alcun bilanciamento, del principio di irretroattività della
legge penale sfavorevole. In particolare, nella sentenza n. 394/2006 (§6.4.), laddove si
distingue in maniera netta il principio della lex mitior rispetto a quello dell’irretroattività
della legge penale sfavorevole20 .
Non può sfuggire quindi che l’istituto della prescrizione, rientrante tra i presupposti e le
condizioni della punibilità in astratto ed avente natura sostanziale, debba essere coperto
dalla garanzia dell’irretroattività. In questo senso si è sempre espressa, oltre che la dottrina
assolutamente prevalente21, la giurisprudenza costituzionale. La sentenza n. 393/2006,
valutando la costituzionalità della disciplina transitoria della prescrizione introdotta dalla
l. 251 del 2005, ha precisato che “la locuzione ‘disposizioni più favorevoli al reo’ si
riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una
fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato
(sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 del 1999, n. 219
20
“il principio di retroattività della lex mitior ha una valenza ben diversa, rispetto al principio di irretroattività della
norma penale sfavorevole. Quest’ultimo si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri
del legislatore, espressivo dell’esigenza della ‘calcolabilità’ delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta,
quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale. Avuto riguardo anche al fondamentale
principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall’art. 27 Cost., ognuno dei consociati
deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente all’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali
conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione (al riguardo, v. sentenza n. 364/1988): aspettativa che
sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto
che all’epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente. In questa prospettiva, è
dunque incontroverso che il principio de quo trovi diretto riconoscimento nell’art. 25, secondo comma, Cost. in tutte le
sue espressioni: e, cioè, non soltanto con riferimento all’ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale pure la formula
costituzionale risulta all’apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del
trattamento sanzionatorio di un fatto già in precedenza penalmente represso. In questi termini, il principio in parola si
connota, altresì, come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali (…)
assolutamente inderogabile (…)”.
21
Con poche, pur autorevoli, eccezioni: MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso di diritto penale, III ed., 2001, 263 ss.;
GREVI V., Garanzie individuali ed esigenze di difesa sociale nel processo penale, in AAVV., Garanzie costituzionali e
diritti fondamentali, 1997, 279; PULITANÒ D., Diritto penale, VI ed., 2015, 600.
18
del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996). Una conclusione, questa, coerente con la natura
sostanziale della prescrizione (sentenza n. 275 del 1990) e con l’effetto da essa prodotto, in
quanto ‘il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la
punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato
alla potestà punitiva’ (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro,
esprime l’interesse generale di non perseguire più i reati rispetto ai quali il lungo tempo
decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno, o notevolmente attenuato (…)
l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del
materiale probatorio” (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985;
ordinanza n. 337 del 1999)”.
Più recentemente, la natura sostanziale della prescrizione è stata riaffermata a chiare
lettere dalla sentenza n. 143/2014 della Corte costituzionale, che ha censurato il raddoppio
dei termini di prescrizione per la fattispecie di incendio colposo (§ 3), ove si statuisce che
“Sebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale – concorrendo, in specie, a
realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma,
Cost.) – la prescrizione costituisce, nell’attuale configurazione, un istituto di natura
sostanziale (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 393 del 2006), la cui ratio si collega
preminentemente, da un lato, all’ “interesse generale di non più perseguire i reati rispetto
ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o
notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza comune” (sentenze n. 393 del 2006 e
n. 202 del 1971, ordinanza n. 337 del 1999); dall’altro, al “diritto all’oblio” dei cittadini,
quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela” (sentenza n. 23 del 2013).
Sul presupposto della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione, la Corte
costituzionale ha sempre dichiarato inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale in malam partem, poiché il nostro principio di legalità impedisce di
incidere in senso sfavorevole su tutti i presupposti e le condizioni di punibilità, essendo
quest’ultimo un dominio esclusivo riservato alla discrezionalità del legislatore.
Come precisato da Corte costituzionale, sent. n. 324 del 2008, “la costante giurisprudenza
di questa Corte che, in più occasioni, ha ribadito che il principio della riserva di legge
sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. rende inammissibili pronunce il cui effetto
possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti
a casi non previsti, o, comunque, “di incidere in peius sulla risposta punitiva o su
aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano
19
quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o
sospensivi” (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)”22.
In virtù della diversa estensione riconosciuta al principio di legalità penale nella
dimensione interna rispetto a quella eurounitaria, la conclusione cui è pervenuta la
sentenza Taricco pare porsi in contrasto frontale anche con l’art. 53 CDFUE23, disposizione
che prevede il c.d. criterio del best standard del livello di protezione dei diritti
fondamentali tra dimensione sovranazionale e ordinamenti interni.
Conformemente alle disposizioni della CDFUE, dunque, qualora vi sia una differente
livello di protezione di un diritto fondamentale previsto dall’ordinamento europeo rispetto
a quello nazionale, deve prevalere quello caratterizzato da maggiore estensione, dal
momento che la protezione assicurata dalle fonti di diritto primario dell’UE costituisce il
livello minimo di tutela, in riferimento ad una molteplicità di diversi ordinamenti
costituzionali. Per quel che rileva nel caso di specie, è evidente che il fondamentale
principio di irretroattività delle norme penali dovrebbe essere riconosciuto nella sua
portata più ampia ed estesa, idonea a comprendere non soltanto il binomio precettosanzione, ma ogni disposizione che vada ad incidere in peius sulle condizioni ed
i presupposti della punibilità, e dunque anche sulla disciplina degli atti
interruttivi della prescrizione.
Questa pare essere peraltro lo spirito che ha portato la Corte costituzionale, in una recente
pronuncia (Sentenza n. 49 del 2015, § 4 Cons. in diritto) – seppur nel diverso contesto del
rapporto tra giurisprudenza-fonte della Cote Edu e interpretazione conforme alla stessa del
diritto interno – ad affermare il “predominio assiologico” della Costituzione sulla CEDU:
“il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla
CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare
una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il
predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del
2007). Il più delle volte, l’auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti
22
Cfr. anche Corte cost., Ord. n. 65/2008, la quale ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione volta ad
estendere effetto interruttivo all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, argomentando che il principio di
riserva di legge ex art. 25, c. 2 Cost., “rimettendo al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni
loro applicabili, inibisce alla Corte tanto la creazione di nuove fattispecie criminose o l’estensione di quelle esistenti
a casi non previsti, quanto ‘di incidere o sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità’ […]: aspetti fra i
quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o
sospensivi” (conformemente, in relazione all’introduzione di nuove ipotesi di interruzione del corso della prescrizione,
v. Ord. nn. 245/1999, 412/1998, 178/1997, 315/1996, 144/1994, 193/1993 e 188/1993).
23
“Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto
internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti
contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
e dalle costituzioni degli Stati membri”.
20
costituzionali ed internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti
inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i
principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale
via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza
anzitutto alla Carta repubblicana” (enfasi nostra): e questa sembra proprio un
buona occasione in cui operare in questi termini!
Un’ultima considerazione: il tema della natura e dell’operare della prescrizione,
attualmente oggetto di un serrato dibattito e di progetti di modifica legislativa, riguarda un
istituto
caratterizzato
da
molteplici
intersezioni
sistemiche,
condizionate
dalle
caratteristiche proprie, e differenziate, dei diversi ordinamenti europei. Da ciò consegue
una forte limitazione di prospettive comparatistiche finalizzate a trovare soluzioni
omogenee: senza entrare nell’analisi dei molteplici snodi e dell’impatto diversificato che le
varie opzioni producono nei singoli ordinamenti nazionali, basti citare la peculiarità del
nostro sistema, caratterizzato dalla previsione costituzionale di obbligatorietà dell’azione
penale.
5.2
Il corollario della riserva di legge quale controlimite
Oltre a vulnerare il principio di irretroattività della legge penale – nella estensione
riconosciutagli dall’ordinamento costituzionale italiano – l’arresto Taricco ed il
conseguente
obbligo
di
disapplicazione
delle
più
favorevoli
norme
nazionali
sull’interruzione del termine prescrizionale si pone in contrasto insanabile anche con il
versante puramente “ordinamentale” del principio di legalità, la riserva di legge.
E’ ormai noto che nel processo di integrazione giuridica europea la nozione di legalità
penale ha assunto connotati eccentrici, estranei e completamente imprevedibili rispetto a
quanto era stato previsto dai redattori della Carta fondamentale italiana24. In particolare,
l’esigenza di fare coesistere ordinamenti continentali con sistemi di common law ha
portato all’elaborazione, in seno alla giurisprudenza della Corte EDU sul nullum crimen
sine lege di cui all’art. 7 – recepita ex art. 52 CDFUE dal diritto eurounitario – della
concezione sostanzialistica di “materie penale” e di una “legalità convenzionale”, tale da
24
Anche se da diverse prospettive, sottolineano di recente l’ importanza di applicare anche al testo della Costituzione
criteri interpretativi che preservino il valore del dato linguistico utilizzato, la sua direzione di senso, LUCIANI M.,
Interpretazione conforme, cit., 435 ss.; BARBERA A., Costituzione, cit., 325 ss. A questo proposito si deve cogliere la
forza che, in materia di riserva di legge penale, esprime il lemma “punito” a cui si è fatto ricorso: esso è capace di
raccogliere tutte la vicende che convergono sulla sanzione penale.
21
includere tanto il diritto di formazione legislativa, quanto il diritto di produzione
giurisprudenziale.
Tale rivoluzione ha comportato talvolta ampliamenti delle garanzie pro reo, talaltra –
come nell’occasione che qui ci occupa – stravolgimenti del tutto incompatibili con
l’architettura istituzionale complessiva e con la ripartizione dei poteri che
caratterizzano nelle fondamenta l’ordinamento giuridico italiano.
Occorre rimarcare infatti come l’obbligo di disapplicazione in malam partem imposto
dalla decisione Taricco si mostri del tutto inconciliabile con la dimensione di valore
essenziale dell’identità costituzionale del principio di riserva assoluta di legge in materia
penale, per come esso viene ricostruito nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Recentemente è stata messa in luce con lucidità la minore estensione del principio di
legalità “europeo” – inclusivo anche della giurisprudenza-fonte – se posto a confronto con
il principio di legalità “formale” interno, da intendersi quale garanzia di monopolio
parlamentare assoluto sulle scelte normative d’incriminazione, di aggravamento del
regime sanzionatorio o che comunque determinano una modifica in peius per il reo.
Nella nota pronuncia n. 230/2012 – riguardante l’irrevocabilità del giudicato penale in
caso di mutamento giurisprudenziale in bonam partem – la Corte costituzionale ha
ribadito l’inderogabilità della riserva di legge, nella conformazione ed ampiezza
tradizionalmente riconosciutale nel sistema nazionale25.
La modifica retroattiva in peius della disciplina penale sull’interruzione del termine di
prescrizione, per come introdotta attraverso l’obbligo di disapplicazione della disciplina
25
Nella pronuncia si statuisce infatti: “L’altra affermazione – che riflette, per contro, un orientamento della Corte
europea da tempo consolidato – è quella in virtù della quale la nozione di “diritto” (“law”), utilizzata nella norma
della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di
formazione giurisprudenziale. Tale lettura “sostanziale”, e non già “formale”, del concetto di “legalità penale”, se
pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte (…) è stata ritenuta valevole
dalla Corte europea anche per gli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la
giurisprudenza fornisce all’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8 dicembre 2009,
Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed
altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia). Proprio tale seconda affermazione
dimostra, peraltro, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità
penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti
continentali). Ad esso resta, infatti estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno –
della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost; principio che, secondo quanto
reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente
sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la
massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera
collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni
all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze
politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione”. Una opportuna
valorizzazione delle istanze espresse nella sentenza n. 230/2012, come ostacolo all’ingresso nel sistema interno del
dictum della pronuncia Taricco, in PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 12-13.
22
favorevole, sancito da un fonte giurisdizionale, ovverosia da giudici europei privi di
qualsivoglia legittimazione democratica, si pone in rotta di collisione con l’intera
impalcatura politica, ideologica ed assiologica sulla quale si regge il principio di riserva di
legge, la quale è stata limpidamente ricostruita in un fondamentale pronunciamento della
Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sentenza n. 487 del 1989).
Alla luce delle considerazioni sviluppate più approfonditamente in tale sede, due debbono
essere ritenuti i valori fondamentali protetti dal principio di riserva di legge: anzitutto, in
stretta connessione con il principio di divisione dei poteri e con l’istanza di evitare
prevaricazioni da parte del potere esecutivo e giudiziario, la garanzia di mantenere un
elevato coefficiente di democraticità nell’adozione di scelte d’incriminazione, o di
aggravamento del regime punitivo, ovvero di modifiche in senso deteriore della punibilità
lato sensu, giacché il bene inciso da tali opzioni, la libertà personale, si pone al vertice della
“gerarchia” costituzionale. Soltanto un libero confronto tra forze politiche di maggioranza e
minoranza, con il controllo, seppur indiretto, dell’opinione pubblica, dovrebbe riuscire a
garantire un sufficiente controllo di razionalità e adeguatezza sulla trasparenza di tali
deliberazioni.
In secondo luogo, rileva l’esigenza di riservare queste scelte esclusivamente all’organoParlamento, l’unico legittimato, in quanto rappresentativo degli interessi della comunità
tutta, ad esercitare la sovranità nazionale in nome del popolo. Proprio questo
aspetto risulta centrale, in quanto il Parlamento, per composizione e posizione
istituzionale, è l’unico organo in grado di assicurare adeguati bilanciamenti tra
interessi/valori sottesi alle scelte d’incriminazione o di modifica deteriore del trattamento
sanzionatorio/punitivo, essendo rappresentativo dell’intera comunità politica nazionale ed
avendo una visione complessiva su tutto il fascio di valori/interessi che il
presidio statuale di massima afflittività, il diritto penale, ha lo scopo di
tutelare.
L’obbligo di disapplicazione imposto dalla CGUE nella decisione Taricco sembra essere
difficilmente conciliabile con entrambe le “anime” ordinamentali della riserva di legge in
materia penale.
Per quanto concerne la “democraticità” della norma che impone l’obbligo di
disapplicazione (art. 325 TFUE), benché il Parlamento italiano abbia fatto proprio il diritto
primario dell’Unione (Art. 2 L. n. 130/2008), approvando la legge di esecuzione dei
trattati nel nostro paese, va tuttavia rilevato che l’interpretazione fornita dalla CGUE si
mostra del tutto eccentrica e innovativa rispetto alla giurisprudenza precedente, al limite
23
dell’eccesso di potere, facendo ricadere sul singolo, con una pronuncia resa in sede di
rinvio pregiudiziale, un inadempimento imputabile allo Stato membro, soggetto al quale
(recte: al cui Parlamento) è direttamente rivolto il precetto, aperto, indeterminato e privo
di precisione, dell’art. 325 TFUE.
Ancora più complesso fare quadrare il principio statuito nella sentenza Taricco con la
necessità che la normazione penale costituisca espressione della sovranità nazionale: come
è stato osservato da più parti, l’insieme di valori ed interessi sottesi al ragionamento della
CGUE, forse astrattamene sostenibile, espressivi di una perdurante logica “economicistica”
o “mercantilistica”, che continua a caratterizzare la struttura dell’ordinamento
eurounitario, costituiscono di fatto l’antitesi delle fondamenta personalistiche del sistema
assiologico consacrato dalla Costituzione italiana.
In altri termini, il percorso argomentativo e l’esito dei giudici eurounitari ha come
presupposto un’operazione di bilanciamento valoriale che potrebbe apparire irragionevole
alla stregua dei valori costituzionali interni, che pongono invece al centro del sistema la
persona, e non l’integrità delle finanze statali.
Si è acutamente osservato che, nella struttura argomentativa della pronuncia, “Nessun
peso è assegnato alla diversa natura degli interessi in giuoco (libertà personale e riserva
di legge penale da un lato; interesse finanziario dell’Unione e – dunque – delle sue
istituzioni, Corte di giustizia compresa, dall’altro). La centralità dei diritti della persona,
tante volte proclamata a dimostrazione dell’alto livello di protezione raggiunto dal diritto
europeo, non la si ravvisa”26.
Ed è questo un profilo di rilievo. L’avere affrontato in maniera quanto meno riduttiva
l’istituto della prescrizione (dal solo punto di vista della tutela delle finanze dell’Unione),
omettendo del tutto di tenere in considerazione e porre in bilanciamento quella
molteplicità di valori, molti dei quali personalistici, alla cui tutela è preposto l’istituto, nella
sua conformazione italiana, fa si che la disposizione, come interpretata, si ponga in
contrasto con una disciplina che sarebbe stata verosimilmente frutto di deliberazione
parlamentare, intesa come esercizio di sovranità nazionale, come scelta fondata sulla
condivisione di una, pur approssimativa, “mappa assiologica”.
26
LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 13. Osservazione che si ricollega a quanto lo stesso autore sottolinea a proposito
della necessità che i percorsi interpretativi non si riducano ad una partita a tre (legislatore, giuristi e giudici),
dimenticando “il quarto e più importante giocatore, che è il comune soggetto di diritto” (LUCIANI M., Interpretazione
conforme, cit., 415); cfr. anche, per una serrata critica alle operazioni di bilanciamento tra valori effettuate dalla CGUE
nel caso Taricco, CIVELLO G., La Cassazione “rinvia” alla Consulta la sentenza Taricco, cit., 6.
24
Come vedremo tra poco la decisione della CGUE stravolge i valori in gioco: se una “norma”
simile fosse partorita dal legislatore nazionale, verrebbe con ogni probabilità censurata
dalla Corte costituzionale27.
Il fondamento ed i presupposti della responsabilità penale, ivi inclusa la punibilità,
debbono rimanere riservati esclusivamente alla legge statale, concetto da intendersi in
senso più restrittivo rispetto alla nozione di law, comprensiva anche del diritto
giurisprudenziale, sulla quale è invece edificata la concezione europea della legalità penale.
5.3
Il
principio
di
legalità,
nel
suo
corollario
di
tassatività-
determinatezza, come controlimite28
Il parametro costituito dall’art. 25, c. 2, Cost., attentato dalla soluzione imposta dai giudici
eurounitari, risulta azionabile come controlimite, anche sotto un ulteriore profilo, oltre ai
principi di irretroattività e di riserva di legge.
E’ fin troppo evidente infatti che i parametri individuati nella sentenza Taricco, che
dovrebbero
costituire
presupposto
della
disapplicazione
nel
caso
concreto,
si
caratterizzano per estrema vaghezza ed indeterminatezza, lasciando al giudice nazionale
un potere sostanzialmente incontrollato e, in definitiva, arbitrario.
Enunciati linguistici come “la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi
finanziari dell’UE” e il “numero considerevole di casi di frode grave”, che costituiscono i
presupposti, da accertare in sede giudiziale, ai quali dovrebbe seguire la disapplicazione
della normativa interna più favorevole e l’espansione di una normativa con effetti di
sfavore e retroattivi, anche se, in quanto leggi, rispettassero la riserva, attribuirebbero al
giudice un potere esorbitante rispetto a quanto previsto dall’ordinamento costituzionale
interno.
Nessun criterio quantitativo determinato viene indicato dalla pronuncia in punto di
“gravità”; esso viene rimesso integralmente ad una valutazione del giudice, priva di
parametri normativi guida. Non può infatti essere presa a riferimento la soglia di
50.000,00 €, indicata nella Convenzione PIF quale indice di gravità della frode,
discostandosi la stessa nettamente dalle soglie di rilevanza (non di gravità) previste per
27
E’ l’ “esercizio” svolto da PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 6.
Sull’arbitrarietà di fondo della scelta del GIP di Cuneo, condivisa acriticamente dalla CGUE, di addossare
integralmente sulla disciplina sull’interruzione del termine di prescrizione e sulle presunte strategie dilatorie degli
avvocati difensori l’effetto di sistematica impunità dei reati commessi a danno delle finanze dell’UE, escludendo
numerosi altri fattori parimenti rilevanti, vedi ad es.: PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 2; LUCIANI M., Il brusco
risveglio, cit., 14; MICHELETTI D., Premesse e conclusioni sulla sentenza Taricco, in Dal giudice garante, cit., 61 ss.
28
25
alcuni reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74/2000, tipicamente commessi nell’ambito delle
attività criminose fraudolente ai danni delle finanze dell’Unione (ad es. l’omessa
dichiarazione, di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74/2000, che indica la soglia di rilevanza penale in
50.000,00 € ovvero l’omesso versamento di IVA, previsto dall’art. 10 ter dello stesso corpo
normativo, il quale risulta penalmente rilevante soltanto se pari o superiore alla cifra di €
250.000,00).
Significative problematiche sono ingenerate anche dall’ambigua locuzione “la frode e le
altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE”, che lascia permanere
consistenti dubbi su quali fattispecie incriminatrici debbano effettivamente ricadere
nell’ambito dell’obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di Lussemburgo,
demandando ancora al giudice nazionale un compito complesso e privo di riferimenti
precisi; un invito al soggettivismo ed all’arbitrio, che esorbita dalle prerogative che
l’ordinamento costituzionale italiano assegna alla funzione giurisdizionale29.
E tornano alla mente le pionieristiche considerazione di uno degli artefici della riflessione
costituzionale sul nostro sistema penale30.
Nel caso all’ esame della Corte non è chiaro se l’obbligo di disapplicazione debba ritenersi
operativo soltanto riguardo a quelle condotte delittuose nelle quali la fraudolenza è
espressamente prevista dal dettato normativo (artt. 2, 3 e 11 d.lgs. n. 74/2000), o anche ai
reati fiscali che non prevedono esplicitamente un elemento di fraudolenza nella condotta
(artt. 4, 5, 8, 10, 10 bis, 10 ter, 10 quater d.lgs. n. 74/2000), ovvero, infine, a tutti gli illeciti
penali potenzialmente lesivi di interessi economico/finanziari eurounitari (tra cui ad es.
l’art. 640 bis c.p.).
Ulteriore requisito fondante l’obbligo di disapplicazione, affidato all’accertamento del
singolo giudice, attiene all’apprezzamento dell’ineffettività delle sanzioni penali previste
(“sistematica impunità”) “in un numero considerevole di casi di frode grave”. Pure
relativamente a tale presupposto, sulla base delle indicazioni della pronuncia, non è dato
evincere con chiarezza come debba essere interpretato dal singolo giudice. Sarebbe
prospettabile, ma difficilmente percorribile, considerarlo “in astratto”, ovverosia con
riguardo alla totalità di procedimenti per delitti tributari pendenti dinnanzi alle autorità
29
In dottrina evidenziano con lucidità l’espansione illimitata (e per questo inaccettabile) del potere giudiziario
nell’applicazione del dictum Taricco, sottolineando anche come l’intero iter procedimentale della vicenda, a partire dal
rinvio pregiudiziale del GIP di Cuneo, lasciasse prevedere un esito di questo tipo: EUSEBI L., Nemmeno la Corte
europea, cit., 94-96; CAMON A., La torsione d’un sistema, cit., 7, secondo il quale si assiste ad un “innalzamento del
potere giudiziario, che in buona sostanza s’inserisce tra gli autori della normazione penale: la fonte del trattamento
deteriore che sarà riservato agli imputati di frodi in materia di IVA non è il TFUE, bensì la sinergia fra il giudice di
Cuneo e la Corte di giustizia”; LUCIANI M., Il brusco risveglio, cit., 15.
30
BRICOLA F., La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 290 ss; Idem, voce, Teoria generale del reato, in
Noviss. Dig. It., Torino, 1974, 46 ss. dell’ estratto.
26
giudiziarie nazionali. Un’opzione, questa, che tuttavia travalica i limiti cognitivi del singolo
giudice, implicando una prognosi empirico-statistica fondata su dati di dubbia affidabilità.
Meglio allora intendere il requisito “in concreto”, limitato ai fatti di causa, ai fatti che si
riferiscono all’imputazione, alla punibilità e dai quali dipende l’applicazione di norme
processuali (art. 187 c.p.p.), rilevanti nel singolo processo.
Pur dovendosi preferire quest’ultima interpretazione, la valutazione sull’ineffettività delle
sanzioni penali rimane sempre affidata alla esclusiva decisione del singolo giudice, dalla
quale dipenderà un’estensione retroattiva della punibilità.
Un’opera d’accertamento giudiziale incontrollabile sul “numero considerevole di casi di
frode grave”, che oltrepassa di gran lunga i limiti dell’attività interpretativa e/o
discrezionale, segnati dalla presenza di specifici criteri, per trasformarsi in una pura
valutazione di politica criminale31 – legittimata da una norma, quella elaborata dalla
CGUE in re Taricco, assolutamente carente in punto di tassatività, promanante da una
fonte giurisdizionale, che nel nostro ordinamento è riservata esclusivamente al
Parlamento, ex art. 25, c. 2, Cost.
In dottrina32 si sono opportunamente colti i profili di inconciliabilità con i principi supremi
del nostro ordinamento della strada imposta dalla CGUE, che implica la permeabilità della
disciplina della prescrizione a una modifica per via giurisprudenziale che non passi per una
modifica legislativa.
Tale strada – si osserva – “altera, su un punto specifico, la stessa separazione dei poteri in
ambito
penale,
attribuendo
al
giudice
una
valutazione
sul
merito
dell’adeguatezza della disciplina della prescrizione. Se l’orizzonte della questione
fosse quello del diritto italiano, una ‘legge Taricco’ sarebbe tranquillamente dichiarata
illegittima, per l’attribuzione al giudice di un potere sostanzialmente normativo (in
violazione dell’art. 101) e per contrasto col principio penalistico di legalità (art. 25) sotto i
profili della riserva di legge e della determinatezza della legge penale”.
Un esito di questo tipo, d’altra parte, è coerente con la natura di norma “programmatica” o
norma-principio dell’art. 325, §§ 1 e 2, TFUE, che costituirebbe la fonte di diritto primario
dell’UE dell’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale contrastante.
31
Cfr. sul punto le condivisibili critiche di PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 7, secondo cui “E’ in gioco un potere
che eccede quello del giudice interprete della legge e responsabile del giudizio sul fatto. La questione dei poteri
attribuiti al giudice, rilevante ex art. 101 Cost., si rispecchia anche nelle questioni sollevate con riferimento al
principio penalistico di legalità (art. 25): la riserva di legge e la determinatezza della legge penale sarebbero incrinate
anche se il dictum della sentenza Taricco fosse pronunciato dal legislatore. Sarebbe il giudice, e non il legislatore, a
decidere in ultima analisi sulla norma applicabile in materia di prescrizione. Il vulnus formale alla riserva di legge, e il
vulnus sostanziale alla determinatezza della norma, deriverebbero dalla incompetenza del giudice a effettuare
valutazioni di politica legislativa, del tipo di quelle che nel caso in esame gli sono state richieste”.
32
PULITANÒ D., La posta in gioco, cit., 11-12.
27
Sebbene la CGUE si sforzi di puntualizzare, al § 51 della decisione, che “Tali disposizioni
del diritto primario dell’Unione pongono a carico degli Stati membri un obbligo di
risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della
regola in esse enunciata, ricordata al punto precedente”, la disposizione dell’art. 325
TFUE, stante il suo carattere generale e la sua intrinseca indeterminatezza, non risulta
suscettibile di applicazione giudiziale automatica, e va correttamente intesa quale regola
sulla produzione di norme, indirizzata all’UE ed ai legislatori degli Stati membri, ma non
ai singoli giudici.
L’eventuale inadempimento dell’obbligo stabilito dall’art. 325 TFUE potrebbe essere tutt’al
più sanzionato con la procedura d’inadempimento dello Stato membro (art. 258 ss. TFUE),
non con una disapplicazione della normativa nazionale più favorevole con effetti
retroattivi, tale da fare ricadere negativamente l’inadempimento statale sulla sfera di diritti
fondamentali del singolo.
Un’altra opzione legittimamente percorribile dall’UE sarebbe quella di esercitare i poteri
conferiti dall’art. 83 TFUE, adottando direttive – previo inserimento delle frodi nei c.d.
euro crimes – oggetto delle competenze penali indirette dell’UE.
La disposizione di cui all’art. 83, § 1, TFUE prevede infatti che “Il Parlamento europeo e il
Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria,
possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere
di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale
derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di
combatterli su basi comuni. Dette sfere di criminalità sono le seguenti: terrorismo, tratta
degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di
stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di
mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata.
In funzione dell'evoluzione della criminalità, il Consiglio può adottare una decisione che
individua altre sfere di criminalità che rispondono ai criteri di cui al presente paragrafo.
Esso delibera all'unanimità previa approvazione del Parlamento europeo”.
All’evidenza le condotte criminose fraudolente a danno degli interessi finanziari dell’UE
esulano dall’elenco dei gravi reati per i quali è prevista la competenza indiretta dell’Unione
in materia penale.
In definitiva, l’interpretazione della Corte di Giustizia nella pronuncia Taricco, assumendo
l’art. 325 TFUE come “base legale” per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione,
costituisce un “eccesso di potere”, in contrasto con la natura “programmatica” e di “norma28
principio” dell’art. 325 TFUE, che finisce per attribuire all’Unione una competenza diretta
in materia penale non contemplata nei Trattati33.
P.T.M.
Si chiede a Codesta Ecc.ma Corte:
- di dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, non
dovendosi applicare al caso di specie l’obbligo di disapplicazione sancito nella sentenza
Taricco, essendo la prescrizione dei reati già maturata alla data dell’8 settembre 2015;
- di accogliere la questione di legittimità costituzionale proposta e dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art. 2, l. n. 130/2008, di Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona
che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità
europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, nella parte che impone di applicare la
disposizione di cui all’art. 325, §§ 1 e 2 TFUE dalla quale – nell’interpretazione fornitane
dalla Corte di Giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C – 105/14, Taricco –
discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161
comma 2 c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche nel caso in cui
dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, in ragione del contrasto
di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost.
- nell’ eventuale contesto di una pronuncia di inammissibiltà per difetto di rilevanza - in
quanto questione meramente prospettica - affermare la sussistenza del controlimite
costituito dall’ art. 25, 2° comma nei confronti del “diritto” di produzione
giurisprudenziale della CGUE, con decisione interpretativa di inammissibilità cosiddetta
“di merito”.
Con osservanza
Bologna, lì
33
EUSEBI L., Nemmeno la Corte europea, cit., 97-99.
29
Prof. Avv. Gaetano Insolera
Avv. Andrea Soliani
30