ModUlo 2
Immagini e comunicazione
CONTENUTI
• UNITÀ 1
La sociologia delle
immagini
OBIETTIVI
• Individuare i metodi dell’analisi visuale.
Unità 1
La sociologia delle immagini
CONTENUTI
•1
•2
•3
Il cinema
La fotografia
Le arti figurative
❱❱ 1. Il cinema
Come è accaduto per l’arte nei secoli passati, il cinema è una espressione della cultura di un determinato periodo storico e ne fornisce una visione significativa e realistica, anche se non necessariamente veritiera. Ma il cinema è anche oggetto di studio
sociologico in quanto fenomeno economico e culturale. Tutta l’analisi relativa all’industria culturale, fino all’avvento della televisione almeno, si articola attorno al cinema, di cui ora cerchiamo di mettere in risalto alcuni aspetti legati alla modalità comunicative, che non possono prescindere però sia dalle modalità della produzione
che dalla fruizione.
Secondo McLuhan, il cinema è un mezzo particolare, non è un mezzo a sé stante,
«ma una forma d’arte collettiva cui contribuiscono vari individui, responsabili del
colore, dell’illuminazione, del suono, della recitazione e della dizione», una caratteristica che è propria anche del giornale, della radio e della Tv e che rimanda alla sua
natura tecnica di prodotto industriale. Per Benjamin è questa la condizione della sua
riproducibilità: sono gli alti costi di produzione che lo impongono.
brani d’autore
❱La produzione cinematografica
Nel caso delle opere cinematografiche la riproducibilità
tecnica del prodotto non è, come per esempio nel caso
delle opere letterarie o dei dipinti, una condizione di
origine esterna della loro diffusione tra le masse. La riproducibilità tecnica dei film si fonda immediatamente
nella tecnica della loro produzione. Questa non soltanto
permette immediatamente la diffusione in massa delle
opere cinematografiche: piuttosto, addirittura la impone.
La impone poiché la produzione di un film è che così
cara che un singolo in grado di possedere un dipinto, non
è in grado di possedere un film.
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966
L’industria cinematografica occupa una parte di rilievo nel sistema culturale del Novecento, sia per le sue dimensioni, ma anche per la particolarità della merce prodotta,
che più di ogni altra si identifica con l’individuo che la produce, una merce che incorpora in sé la prestazione umana.
Relativamente agli aspetti tecnici della produzione cinematografica, Benjamin aveva
capito l’evoluzione del sistema delle immagini: se nella litografia era virtualmente
contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva il film sonoro; oggi
sappiamo che il film prefigura la televisione, ma Benjamin la prevedeva negli anni
Trenta, in un’epoca in cui tale evoluzione non era immaginabile.
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Unità 1
La sociologia delle immagini
Negli anni Sessanta, anche McLhuan ipotizzava che il film, grazie all’evoluzione
della tecnologia, avrebbe assunto la forma portatile e accessibile del libro stampato:
«Presto ognuno potrà avere a disposizione un piccolo e poco costoso proiettore con il
quale mostrare una pellicola sonora a 8 millimetri come su un teleschermo». Ma quello su cui McLuhan insiste è la natura “tipografica” del cinema: «L’uomo tipografico
ha subito accettato il cinema proprio perché offre, come il libro, un mondo interiore
di fantasie e di sogni». Nel testo Gli strumenti del comunicare (1967), McLuhan afferma che «non esiste probabilmente nel­la letteratura moderna una tecnica più celebre
di quella del “flusso di coscienza” o del monologo interiore. In Proust, in Joyce o in
Eliot, questa forma di sequenza permette al lettore di identificarsi in misura straordinaria con personaggi estrema­mente diversi. Si arriva al flusso di coscienza trasferendo
la tecnica cinematografica sulla pagina stampata dalla quale, in fondo, essa è derivata;
infatti, come abbiamo visto, la tecnolo­gia gutenberghiana dei caratteri mobili è praticamente indispen­sabile a qualsiasi processo industriale o cinematografico».
Il secondo aspetto sottolineato da McLuhan è che «lo spettatore cinematografico è
psicologicamente solo come il silenzioso lettore di libri». Sono due quindi i temi che
emergono in generale negli studi sociologici sul cinema, da una lato la modificazione
dell’immaginario, dall’altro le modalità della fruizione.
Hauser, in Storia sociale dell’arte (1956) sostiene che la massa dei frequentatori del
cinema «non è un pubblico in senso proprio» perché disperso e casuale: «I milioni e
milioni di spettatori che ogni giorno, ogni ora riempiono le mille e mille sale del
globo, da Hollywood a Shanghai, da Stoccolma a Città del Capo, l’unica lega che
comprenda gli uomini di tutto il mondo, hanno una composizione sociale assai confusa. Nulla uni­sce questi uomini, se non il fatto di riversarsi nei cinema­tografi, fluendo e rifluendo come corrente amorfa; riman­gono massa eterogenea, inarticolata, informe, indefinita, con la sola caratteristica, negativa, di rappresentare un insieme in
cui si confondono tutte le categorie sociali, senza che affiori alcun ceto organico e
chiaramente distinto per classe o per cultura». Un vero pubblico si forma, invece, in
presenza di una omogeneità culturale, come nel caso del «pubblico bor­ghese degli
abbonati ai teatri statali e comunali». Anche Pierre Sorlin (Sociologia del cinema,
1979), in anni più recenti e quindi con maggiore aderenza alla realtà, ha posto il
problema del «legame provvisorio» e casuale che unisce il pubblico di un film e,
soprattutto, delle motivazioni che lo portano a essere lì: «Siamo venuti a vedere il
film perché se ne parla, perché bisogna averlo visto, perché vi figura il tale o il tal
altro, perché si ha bisogno di verificare-contraddire-discutere i giudizi che già corrono, perché ci si troverà un soggetto di conversazione...». Ma si è anche interrogato
sul tema dell’immaginario in relazione alla ideologia dominante in quel contesto
sociale, riproponendo quindi il problema del controllo sociale e della socializzazione.
Le motivazioni descritte da Sorlin sono ancora valide: oggi, come negli anni Settanta, si esce con gli amici, si va al cinema e poi a mangiare una pizza: la qualità del film
è spesso meno importante dello stare con gli altri. In altri contesti, come quello indiano, l’esperienza dello spettacolo cinematografico è completamente diversa: «Un
cinema indiano non è mai quell’alcova di incoscienza col­lettiva che sono le sale cinematografiche in Occidente. Intanto non si può zittire nessuno. Tutti parlano come
e quanto credono, spesso dialogando attivamente con i personaggi. Se sullo schermo
appare un dio, può succedere che il pubblico lanci monete o si inginocchi nei corridoi
laterali. I bambini frignano; durante una canzone, capita che una parte del pubblico
vada a prendere una bibita nel bar dell’atrio. I dialoghi complessi non funzionano,
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perché il pubblico di solito non li ascolta» (Suketu Mehta, Maximum City, Einaudi,
Torino 2006).
L’evoluzione tecnologica ha però cambiato il modi di guardare i film, grazie ad apparecchiature sempre più sofisticate nelle nostre case e alla possibilità di acquistare
o scaricare copie dei film, mentre sono cambiate anche alcune modalità della produzione di immagini: sempre grazie all’evoluzione tecnologica, chiunque è in grado di
registrare e rivedere in tempo reale ciò che ha ripreso. In questo senso si ha una perdita della magia che era propria dell’immagine cinematografica, e si è anche evoluto
«il senso di disagio dell’interprete di fronte all’apparecchiatura, così come viene
descritto da Pirandello» (nell’opera Quaderni di Serafino Gubbio operatore, ndr) ci
ricorda Benjamin, che «è in sé della stessa specie del senso di disagio dell’uomo di
fronte alla sua immagine nello specchio».
Nonostante i cambiamenti legati all’evoluzione della tecnologia e della mentalità,
alcuni elementi che si sono affermati nella produzione cinematografica restano in uso
ancora oggi. Afferma Morin che «con l’irruzione massiccia dello happy end si compie una rivoluzione nel regno dell’immaginario. L’idea di felicità diviene il fulcro
affettivo del nuovo immaginario». A questo proposito, l’esperienza del giornalista di
origini indiane Suketu Mehta non è differente: «Io sono cresciuto a Bombay prima
della televisione, e i miei sogni erano più grandi di quelli dei bambini che crescono
in città oggi; erano sogni giocati su un grande schermo, e perciò infinitamente più
grandi. Il cinema forniva il materiale grezzo per la mia vita di fantasia, in cui strappavo ai malvagi la fanciulla che amavo, arrivando al momento giusto per salvarla dal
disonore».
Per Morin, la cultura di massa sviluppa nell’immaginario e nell’informazione romanzata i temi della felicità personale, dell’amore, della seduzione, mentre «la pubblicità propone i prodotti che assicurano benessere, confort, liberazione personale, standing,
prestigio, e anche seduzione. Questa complementarità concerne lo stesso tessuto
umano che è la vita privata. Di qui lo stretto legame tra pubblicità e cultura di massa.
La pubblicità patrocina la cultura di massa (programmi radio e televisivi, competizioni
sportive) così come è patrocinata da essa». Nel contempo la rappresentazione cinematografica tende ad assomigliare sempre più alla vita quotidiana (e viceversa), così
che ci si possa immedesimare con i personaggi e gli attori. Il fenomeno del divismo,
nato nel cinema si è esteso ormai a tutti i settori della società, a partire dallo sport,
con la conseguenza che eventi privi di ogni significato politico vengono presentati
come notizie fondamentali. «Come ogni cultura, la cultura di massa elabora dei modelli, delle norme; sennonché, per questa cultura strutturata secondo le leggi di mercato, non ci sono prescrizioni imposte, bensì immagini o parole che invitano all’imitazione, consigli, esortazioni pubblicitarie. L’efficacia dei modelli proposti viene
proprio dal fatto che corrispondono alle aspirazioni e ai bisogni che si sviluppano
realmente»: i divi divengono modelli di cultura, vale a dire modelli di vita.
brani d’autore
❱I divi
La moltiplicazione delle mediazioni, delle comunicazioni e dei contatti, crea e mantiene un clima di simpatia
tra la cultura e il suo pubblico. La cultura di massa
tende a costituire idealmente un gigantesco club di
amici, una grande famiglia non gerarchizzata. In questa
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oceanica e multiforme simpatia, il nuovo corso prosegue nel suo moto, al di là dell’immaginario e dell’informazione, proponendo consigli di vita pratica. Nel
punto di incontro della pressione dell’immaginario
verso il reale, del reale verso l’immaginario, si pongo-
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La sociologia delle immagini
no i personaggi in vista della grande stampa, i divi
moderni. Questi divi non sono soltanto le stars del cinema, ma anche i campioni, i principi, i re, i play-boys,
gli esploratori, gli artisti celebri, Picasso, Cocteau, Dali,
Sagan. Il divismo degli uni nasce dall’immaginario,
cioè dai ruoli impersonati nei film (star), il divismo
degli altri nasce dalla loro funzione sacra (regalità,
presidenza), dalle loro imprese eroiche (cam­pioni,
esploratori) a erotiche (play-boy).
Edgar Morin, L’industria culturale,
Il Mulino, Bologna 1963
Con l’avvento della cultura della comunicazione digitale il divismo ha assunto dimensioni che sfuggono alla logica razionale, legate all’affermarsi di personaggi non
più reali, ma virtuali.
❱❱ 2.La fotografia
Se è legittimo chiedersi in che cosa e perché la fotografia, nella sua essenza, è predisposta ad adempiere alle funzioni sociali che le sono state general­mente impartite,
resta tuttavia che gli usi sociali della fotografia, che si presentano come una selezione sistematica (cioè coerente e comprensibile) tra gli usi oggettivamente passi­bili,
definiscono la verità sociale della fotografia allo stessa tempo che vengono da essa
definiti. (Pierre Bourdieu)
Quella in cui viviamo è stata definita la società dell’immagine, nel duplice senso che le
immagini sono uno dei più importanti strumenti della comunicazione, ma anche che il
modo con cui appariamo – l’immagine che offriamo di noi agli altri – è determinante.
Sebbene le immagini in movimento – offerte dal cinema dalla televisione, da Internet
– siano sempre più presenti nella nostra vita, la maggior parte delle immagini che
vengono prodotte, riprodotte e diffuse sono fotografiche: nei giornali quotidiani e
nelle riviste, accanto alle immagini della cronaca abbiamo le immagini della pubblicità, onnipresenti nelle strade delle nostre città.
Viviamo in una società fondata sulle immagini, la cui velocità di diffusione e consumo è tanto maggiore quanto maggiore è la loro labilità e virtualità.
Le immagini – prodotte e riprodotte con mezzi meccanici prima ed elettronici e informatici poi – costituiscono il medium fondamentale per la nostra pratica della conoscenza e dell’esperienza del reale.
A fronte della sua immediatezza e apparente realismo, la fotografia è un mezzo di
interpretazione della realtà che richiede la conoscenza di un codice specifico; come
afferma Benjamin: «Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia – è stato detto – sarà l’analfabeta del futuro». L’immagine fotografica pone
infatti il problema della sua obiettività: all’idea che la foto fornisce un’immagine
impersonale e oggettiva si è sostituita quella secondo cui l’immagine rappresenta
quello che il fotografo vede, a conferma della doppia e inseparabile natura di mezzo
di riproduzione e mezzo di espressione.
Cercando una definizione sociale della fotografia, Pierre Bourdieu pone il problema
delle funzioni che vengono assegnate a tale strumento, che sono solamente alcune tra
quelle possibili: a questo è legato il concetto di verità che è associato alla immagine
fotografica. L’evoluzione della tecnica rende fotografabile tutto, «ciò non toglie che
di fatto, nell’infinità teorica delle fotografie tecnicamente pos­sibili, ogni gruppo selezioni una gamma precisa e definita di soggetti, di generi e di composizioni», con la
conseguenza che le norme che distinguono il fotografabile e il non fotografabile, sono
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strettamente legate al sistema di valori «di una classe, una
professione o una scuola artistica» e «niente è più regolato e convenzionale della pratica della fotografia e delle
fotografie d’amatore: le occasioni di foto­grafare, come
pure gli oggetti, i luoghi e i personaggi foto­grafati o la
composizione stessa delle immagini».
Sotto il comune denominatore di fotografia vengono accomunate espressioni e pratiche sociali la cui analogia è
solamente tecnica: dal reportage all’illustrazione e alla
documentazione sia scientifica che storica o sociale, dalla cartolina alla pubblicità, dalla fototessera alle immagini di una qualsiasi pagina web. L’uso di questa tecnica è
Spettatore di una mostra fotografica.
mutato con il mutare della società, dal primo utilizzo come
copia per i pittori en plein air e come sostituto economico dei ritratti ad olio, fino al fotogiornalismo, all’uso scientifico e all’acquisizione
dello status di arte, accanto a una diffusa pratica amatoriale fino al verificarsi, in anni
recenti – grazie alla evoluzione della tecnologia – di un abuso della produzioni e
diffusione di immagini personali. Come abbiamo detto, uno dei principali problemi
posti dalla fotografia è quello della sua supposta obiettività: la fiducia riposta nella
sua meccanica imparzialità le ha permesso di fare da involontario supporto a operazioni ambigue, in particolare nel campo dell’informazione di massa, che ha giocato
sulla sua credibilità fondata non sull’analogia col reale, ma sul suo impiego per usi
sociali ritenuti oggettivi.
All’idea che la foto fornisce un’immagine impersonale e obiettiva si è sostituita
quella secondo cui l’immagine rappresenta ciò che il fotografo vede, a conferma
della doppia e inseparabile natura di mezzo di riproduzione e mezzo di espressione.
La fotografia costituisce dunque un mezzo di interpretazione del mondo secondo un
codice specifico, scattare una foto significa selezionare qualcosa all’interno dell’infinito campo del possibile e del reale. Secondo la scrittrice americana Susan Sontag,
le ragioni per cui la fotografia viene presa in considerazione per la sua bellezza derivano proprio dalla sua debolezza come mezzo per trasmettere la verità.
Nell’informazione di massa, poi, la fotografia non è stata quasi mai utilizzata come
elemento di informazione pura, ma come supporto a quella scritta e in alcuni casi solo
come mezzo per spezzare la monotonia del testo. L’abbinamento alla didascalia che
la commenta ne ha spesso fatto un’amplificazione visiva, perlopiù retorica, di descrizioni arbitrarie. Il rapporto tra immagine e didascalia spesso sfugge alla comprensione, proprio per la sua arbitrarietà. In modo analogo, si tende a enfatizzare il lato
spettacolare ed estetizzante del mezzo, riuscendo a rendere «bella» la guerra, la morte o comunque gli aspetti più degradanti della vita umana.
Accanto all’utilizzo «professionale» della fotografia si è sempre più sviluppato l’uso
privato e consumistico di questo mezzo, che si è ampliato in relazione all’aumento
di tempo libero, disponibilità economiche e diffusione del turismo di massa. I fabbricanti sono oggi in grado di produrre apparecchiature assolutamente automatiche e in
grado di fornire prestazioni di livello professionale: tuttavia, per ottenere risultati di
qualche interesse è necessario possedere, oltre a sensibilità personale e cultura della
visione, conoscenze tecniche che non vengono fornite o che non sono di facile acquisizione, e l’avvento del digitale non fa che rafforzare questa condizione. Se grazie
alla tecnica tutti sono in grado di fare «belle» fotografie, se un maggiore benessere ci
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consente di visitare luoghi dove «è impossibile non fare belle fotografie», questo non
significa che la fotografia riesca ad essere un mezzo per comunicare qualcosa più
dell’emozione di un attimo.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che se la fotografia non è essenzialmente strumento per la riproduzione della realtà, è invece utile strumento per la sua ricostruzione e
quindi momento centrale della storia della cultura e della società, e anche strumento
fondamentale di analisi del mutamento e mezzo della sua percezione.
per approfondire
❱ Fotografia e percezione visiva
Spesso è quello che succede per caso, inconsapevolmente, ai margini dell’obiettivo, a dare un significato
speciale alla fotografia; le cose in apparenza più irrilevanti. L’immagine a fuoco in primo piano sembra quasi priva di valore o di significato – o se non altro si carica di significato e di valore solo indirettamente –
rispetto all’intrusione fortuita di un particolare: l’improvvisa comparsa di un paio di scarpe; un’automobile
sullo sfondo; un ombrello chiuso; la falda di un cappello; un bambino con il leccalecca. Tutti dettagli che
assorbono e trasformano l’azione principale venendone a loro volta assorbiti e trasformati: i protagonisti si
lasciano saturare dall’accidentale pienezza di piccoli eventi concomitanti. Cade la distinzione fra primo e
secondo piano; il soggetto è privato del proprio spazio dall’ambiente esterno, da fugaci ricami di nuvole,
dai volti dei passanti; la sua ombra si mimetizza con altre ombre proiettate da gesti casuali».
Geoff Dyer, Brixton Bop, Torino 1998
Data la natura della nostra società, che abbiamo definito società delle immagini,
dobbiamo affrontare il problema della fotografia come strumento che la sociologia
utilizza per cercare di dare una spiegazione scientifica della realtà. E per fare questo
occorre guardare e saper vedere.
Soltanto dai primi anni Settanta negli Stati Uniti e alla fine degli anni Ottanta in
Europa e in Italia ci si è posti il problema di considerare cinema, televisione e fotografia non più come oggetti di studio in quanto forme della comunicazione di
massa, bensì come strumenti della ricerca. In questo contesto, si è affermata in
America la sociologia visuale, basata sul sodalizio stabilitosi oltreoceano fra l’analisi sociologica e il linguaggio iconografico. La fotografia sociale americana ha una
lunga tradizione, come testimoniano l’efficace studio fotografico sullo sfruttamento minorile condotto dal sociologo-fotografo Lewis W. Hine o i reportage urbani
sulla bella gente di New York condotti per decenni dalla famiglia di fotografi Byron.
Scelte di campo precise che, mettendo insieme osservazione partecipante e rigore
scientifico, miravano a testimoniare la presenza di universi culturali diversi in spazi determinati e riconoscibili (i quartieri degli immigrati, le comunità etniche, le
aree commerciali). Nella fotografia sociale americana, i soggetti vengono ripresi
all’interno del contesto storico di riferimento e nel pieno della loro identità sociale.
Un contributo allo sviluppo della sociologia visuale in Italia è venuto dal lavoro da
Francesco Mattioli (Sociologia visuale, 1991), che ha definito la sociologia visuale «una disciplina che affronta la dimensione sociale dell’esperienza visiva». Mattioli è consapevole che «i mezzi visivi non restituiscono la realtà sociale, ma
spezzoni e testimonianze di realtà che assumono significati e funzioni sociali variabili nel tempo e nelle circostanze», e che «altro è un’immagine sociale, cioè
un’immagine che ha una funzione e un valore nella società, altro è un’immagine
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del sociale, che è rappresentativa o rappresentativa dei fenomeni sociali». L’immagine del sociale non è quindi immagine sociologica della realtà, ma lo diviene solo
quando è possibile verificare «la capacità descrittiva, la rappresentatività, l’attendibilità, mediante procedure teoricamente e metodologicamente fondate». Mettendo in guardia anche contro i pericoli delle concessioni all’estetica, Mattioli conclude le sue considerazioni avvertendo che «lo status scientifico» dei lavori del sociologo visuale «dipenderà esclusivamente dalla sistematicità delle procedure, dalla
loro consequenzialità logica rispetto alle premesse logiche e concettuali, dalla coerente attribuzione di senso ai dati raccolti entro un definito quadro teorico, per
condurre a spiegazioni, per quanto provvisorie, e all’enunciazione di uniformità
tendenziali inerenti ai fenomeni sociali».
❱❱ 3. Le arti figurative
L’arte è quella cosa che ha attinenza soltanto con se stessa – l’esito di un tentativo
riuscito di fare un’opera d’arte, purtroppo non ci sono esempi di arte, né buoni motivi di pensare che esisterà mai l’arte. (Tutto quello che si è fatto è stato fatto con uno
scopo, ogni cosa ha un fine che esiste al di fuori di essa, ad es. «Io voglio vendere
questo», oppure «Voglio che questo mi renda famoso e benvoluto», oppure «Voglio
che questo mi completi», o peggio ancora «Voglio che questo completi gli altri».)
Tuttavia continuiamo a scrivere, a dipingere e comporre. Ci comportiamo con stoltezza? (Jonathan Safran Foer)
L’arte figurativa è un elemento fondamentale della nostra società – sotto il profilo
culturale, estetico ed economico – ma per la sua natura è molto differente dalle altre
immagini che fruiamo quotidianamente.
L’arte è sempre stata patrimonio delle classi superiori, che ne erano i committenti,
anche se poteva essere parzialmente fruita da tutti, come accadeva per gli edifici del
culto e i grandi monumenti pubblici. Con l’avvento della società di massa è avvenuta un’ulteriore separazione, in particolare nella società attuale, in cui l’arte ha perso
la sua funzione informativa prima a scapito della fotografia e poi dei mass media.
Anche se assistiamo a una massificazione del prodotto artistico che si concretizza
nella partecipazione sempre numerosa alle grandi mostre, presentate in modo spettacolare, il mondo dell’arte continua a essere chiuso in se stesso.
L’arte è sempre stata oggetto di studio, non solo come fatto estetico, ma anche nelle
sue implicazioni culturali e sociali, ma è soprattutto nella seconda metà del Novecento che è si è sviluppata la ricerca dal punto di vista della sociologia.
L’arte rappresenta, per qualsiasi epoca storica, uno strumento indispensabile per
conoscere la cultura della società che la produce: sia per i suoi contenuti e caratteri formali, sia per le dinamiche economiche e sociali legate alla sua produzione.
per approfondire
❱ L’arte come rapporto sociale ed economico
Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Abbiamo da un lato un pittore che faceva il lavoro, o per lo meno sovrintendeva alla sua esecuzione. Dall’altro qualcuno che lo commissionava,
forniva il denaro per la sua realizzazione e, una volta pronto, decideva in che modo usarlo. Entrambe le
parti lavoravano all’interno di istituzioni e convenzioni: commerciali, religiose, percettive, sociali in senso
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più lato – che erano diverse dalle nostre e influivano sulle forme dell’opera che artista e committente creavano insieme. Colui che ordinava il dipinto, pagava e stabiliva quale uso farne potrebbe essere definito il
«mecenate», salvo che questo termine ha in sé molte connotazioni legate ad altre situazioni abbastanza
diverse. Questa seconda parte in causa nella transazione che ha per risultato il dipinto, è un agente attivo,
determinante e non necessariamente benevolo: possiamo quindi senz’altro chiamarlo il «clien­te». Nel XV
secolo la pittura di migliore qualità era fatta su commissione e il cliente ordinava un prodotto specifi­candone
le caratteristiche. [...]. Allora come oggi il cliente pagava per il lavoro, ma investiva il denaro secondo
l’ottica del Quattrocento e ciò poteva quindi influire sul carattere dei dipinti. [...] I dipinti erano progettati a uso del cliente. [...] Un buon cliente per i pit­tori, il mercante fiorentino Giovanni Rucellai, notava di
avere in casa dipinti di Domenico Veneziano, Filippo Lip­pi, Verrocchio, Pollaiuolo, Andrea del Castagno e
Paolo Uccello – oltre a opere di un certo numero di orafi e scul­tori – «di mano de’ miglori maestri che siano
stati da buono tempo in qua, non tanto in Firenze ma in Italia».
È evidente la sua soddisfazione per il fatto di possedere personalmente oggetti di qualità. Altrove, riferendosi soprattutto alle sue ingenti spese per costruire e decorare chiese e palazzi, Rucellai suggerisce ulteriori motivi: […] il piacere del possesso, un’attiva devozione, un certo tipo di coscienza civica, il desiderio di
lasciare un ricordo di sé e forse anche di farsi pubblicità, la necessità per l’uomo ricco di trovare una forma
di riparazione che gli desse insieme merito e piacere, un gusto per i dipinti [...] Per il momento l’unico
elemento generale su cui si deve insistere è che nel XV secolo la pittura era ancora troppo impor­tante per
essere lasciata ai pittori. Il mercato dell’arte era abbastanza diverso da come si presenta oggi nella nostra
condizione tardo romantica, in cui i pittori dipingono ciò che ritengono meglio e solo dopo vanno alla ricerca di un acquirente. Se è vero che oggi comperiamo i nostri quadri già pronti, ciò però non implica che
noi abbiamo maggior rispetto per il talento individuale dell’artista di quanto non ne avessero persone del
XV secolo come Giovanni Ruccellai, ma è piuttosto il risultato del fatto che viviamo in una società con un
diverso tipo di organizzazione commer­ciale.
Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1972
In quanto fatto sociale, l’arte è stata studiata con metodi differenti da quelli della
storia o dell’estetica – che non possono però ignorare l’approccio sociologico – volti a comprendere i problemi legati alla pratica dell’arte, alla sua produzione e fruizione, oltre che il contenuto dell’opera e suoi rapporti con la realtà storica.
Per lo storico dell’arte Francesco Poli, «la sociologia
dell’arte si può definire come l’insieme di tutti quegli
studi sull’arte, nelle sue più diverse manife­stazioni (musica, pittura, teatro, architettura, letteratura, cinema ecc...)
che, interessandosi al prodotto artistico, ai suoi produttori e ai suoi fruitori, cercano da un lato di analizzare, dal
punto di vista socioculturale, il processo creativo e la
funzione specifica (estetica) dell’arte e dall’al­tro di determinare la natura e l’intensità dei condiziona­menti sociali (a tutti i livelli) sulla cultura artistica e sulla sua dinamica di sviluppo».
Nel Novecento, con l’affermarsi delle avanguardie, l’arte figurativa ha cambiato il suo aspetto socioculturale e
Visitatori davanti a Guernica di Pablo Ricasso al Museo
Reina Sofia di Madrid.
socioeconomico, quindi sono cambiate anche le caratteristiche degli studi ad essa dedicati.
All’inizio, gli studi erano rivolti a cogliere come i valori di una società si rispecchiano all’interno dell’opera o come questa è in grado di influenzare il pubblico; solo
negli ultimi cinquant’anni gli studi si sono indirizzati verso l’arte in quanto produzione di oggetti e produzione di senso. Per lungo tempo l’arte non è stata considera
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ta come parte integrante del processo sociale e dei processi sociali di produzione, ma
prodotto trascendentale – e quindi circondata da un’aura quasi religiosa – o prodotto
dell’ispirazione solitaria del genio, comunque contrapposta al lavoro manuale.
Romantici e positivisti hanno considerato l’arte documento storico, mentre una parte
della tradizione marxista (sociologismo o marxismo volgare) ha ricercato una meccanicistica corrispondenza causale tra l’opera e la data situazione storica. Marx
considera invece l’arte come forma di produzione particolare, capace di produrre
piacere se libera dal bisogno, spiegando in questo modo che non vi è diretta corrispondenza tra sviluppo generale della società e fioritura artistica.
La condizione di merce dell’arte è evidente se pensiamo a opere come la Cappella
Sistina, che Michelangelo non ha dipinto solo per piacere, ma oggi questa connotazione si è sempre più accentuata.
Poiché non esistono leggi della creazione artistica, l’arte come agente sociale è implicata in un processo che crea sempre nuove combinazioni. In particolare l’avvento
della fotografia prima, e della televisione poi hanno mutato i caratteri dell’opera
stessa, ma anche il suo rapporto con il grande pubblico: da fenomeno di élite si è
passati a prodotto offerto nelle televendite. Le particolari caratteristiche della produzione artistica le hanno conferito una sua autonomia, all’interno della quale si scontrano due caratteristiche opposte: l’arte è un elemento siVideoarte: linguaggio fondato sull’ideazione gnificativo della sensibilità ma anche un oggetto prodotto
e riproduzione di immagini in movimento at- per il mercato. Anche le forme d’arte della incomunicabilità, dall’informale all’action painting, dall’arte concettuatraverso strumenti e supporti video.
le alla videoarte entrano del processo comunicativo –
spesso come negazione di questo processo o come provocazione – mentre l’arte diviene parte della realtà stessa in quanto elemento del processo economico e sociale oltre che simbolico e culturale.
Il merito di aver fondato una sociologia dell’arte spetta allo storico ungherese Arnold
Hauser, che ne ha posto le basi con Storia sociale dell’arte (1964), in cui ha analizzato l’evoluzione storica dell’arte come elemento di una determinata realtà sociale,
indagando anche funzione e posizione sociale dell’artista. Con l’avvento della civiltà delle immagini, o meglio delle informazioni visualizzate l’artista diviene produttore di oggetti e merci, oltre che di simboli.
Per le sue caratteristiche specifiche, intreccio di comunicazione, espressione e creazione, ma anche di campo professionale, il mercato dell’arte assume delle connotazioni differenti da qualsiasi altra forma di mercato.
Il mercato costituisce il sistema più rilevante e, insieme con i mezzi di comunicazione di massa, il principale strumento di diffusione dell’arte, oltre che mezzo di sostentamento per gli artisti e luogo della speculazione economica.
I primi studi sul mercato dell’arte risalgono agli anni Trenta del Novecento ad opera
dell’artista ceco Karel Taige, che parte dall’osservazione del mutamento della posizione dell’artista nella società capitalista per analizzare gli agenti del processo di
circolazione dell’arte e le strutture del mercato, che si impossessa anche di valori
creati al di fuori e contro di esso. Walter Benjamin, sempre negli stessi anni, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1966) ha esaminato l’evoluzione dell’opera d’arte da pezzo unico alla sua produzione seriale, alla riproduzione
tecnica che svaluterebbe l’«aura» propria dell’unicità dell’opera. L’evoluzione tecnica e l’avvento dei mass media e la rivalutazione artistica di mezzi predisposti alla
riproduzione come la fotografia hanno reso superata la posizione di Benjamin, ma
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anche cambiato il significato dell’aura: il valore di un’opera non è solo il suo valore
estetico, ma investe i rapporti esistenti tra l’opera, la sua produzione e i gruppi sociali cui è rivolta, quindi i suoi significati.
Secondo il già citato Francesco Poli, gli ambiti della diffusione dell’arte sono fondamentalmente due: il microambiente delle gallerie d’arte e il macroambiente dei musei
da un lato, e quello della integrazione culturale dall’altro, fondata su riproduzione e
volgarizzazione, tipici del mondo della pubblicità dell’editoria (con qualche sconfinamento nel packaging alimentare, come le scatole di cioccolatini illustrate dai papaveri di Monet). Il microambiente delle gallerie, pur riguardando un pubblico esiguo,
investe enormi capitali: in questo sistema il fenomeno nuovo rispetto al passato non
è quindi la commercializzazione del prodotto, che è sempre esistita, o la sua riproduzione (che troviamo già nella Grecia del VII sec. a.C.) quanto la ricerca di una formula di produzione secondo cui, come avviene per tutti gli altri prodotti, gli stessi
tipi possono essere collocati, possibilmente spesso, tra lo stesso pubblico. Quella di
merce è allora la principale funzione dell’arte, che influenza di fatto anche quella
estetica.
Jean Baudrillard ha esaminato l’arte nel suo aspetto di oggetto, dove l’opera è al
tempo stesso valore di scambio comunicativo e valore d’uso. L’opera assume allora
la funzione di legittimazione di status sociale, divenendo segno di ricchezza manifestata; in questa dinamica gioca un ruolo importante la certificazione dell’opera, della
firma dell’autore, anche quando è apposta su riproduzioni in tiratura illimitata, vendute per corrispondenza o attraverso televendite.
Una maggiore sensibilità estetica rispetto al prodotto industriale che lo trasforma in
oggetto estetico vero e proprio ci può permettere di comprendere anche il ruolo dei
musei. Quelli che dovrebbero essere luoghi privilegiati dell’esperienza estetica e
strumento di diffusione della cultura, sono in realtà fattori di separazione tra arte ed
esperienza quotidiana, strumenti di legittimazione dell’arte delle classi dominanti e
quindi dell’ordine sociale esistente.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al rinnovarsi dei musei – a partire dal Centre
Pompidou di Parigi, inaugurato nel 1977 e dopo vent’anni già logorato dall’eccesso
di pubblico – e al loro trasformarsi in templi del consumo di massa. Bookshop (che
più che libri vendono gadget e cartoline), caffetterie e ristoranti hanno reso senza
dubbio più piacevole la visita dei musei ma anche più faticosa. Abili campagne pubblicitarie riescono ora a vendere il prodotto «grandi mostre» a milioni di persone, a
volte ignare di ciò che vanno a visitare – e quindi disposte ad accettare come importanti prodotti di relativo valore – divenendo strumenti di profitto senza innalzare il
livello culturale di alcuno.
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Unità 1
La sociologia delle immagini
Fissiamo i concetti
• Il cinema è strumento dell’analisi sociologica in quanto espressione della cultura di un determinato pe­
riodo storico, ma è anche oggetto di studio sociologico in quanto fenomeno economico e culturale.
Secondo McLuhan, il cinema è un mezzo particolare, una forma d’arte collettiva. Per Beniamin è questa
la condizione della sua riproducibilità.
• L’industria cinematografica occupa una parte di rilievo nel sistema culturale del Novecento, per le sue di­
mensioni e per la particolarità della merce prodotta. Benjamin descrive l’evoluzione del sistema delle imma­
gini: nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato, nella fotografia il film sonoro. McLuhan
insiste sulla natura tipografica del cinema, che offre, come il libro, un «mondo interiore di fantasie e di sogni».
• L’evoluzione tecnologica ha cambiato il modo di guardare i film, grazie alla televisione e alla possibilità di
acquistare o scaricare copie dei film. Nonostante la perdita della magia che questo comporta, alcuni
elementi restano delle costanti, come l’happy end.
• Per Morin, la cultura di massa sviluppa nell’immaginario e nel­l’informazione romanzata i temi della felicità
personale, dell’amore, della seduzione, mentre la pubblicità propone i prodotti che assicurano benesse­
re, confort, liberazione personale, prestigio. La rappresentazione cinematografica tende ad assomigliare
sempre più alla vita quotidiana e viceversa. A partire dal cinema si sviluppa il fenomeno del divismo, che
si è esteso a tutti i settori della società.
• Viviamo nella società dell’immagine, nel duplice senso del comunicare e dell’apparire. La nostra è una
società fondata sulle immagini, la cui velocità di diffusione e consumo è tanto maggiore quanto maggio­
re è la loro labilità e virtualità. La maggior parte delle immagini prodotte e diffuse sono immagini fotogra­
fiche (giornali quotidiani, riviste, pubblicità, web), che costituiscono il medium fondamentale per la nostra
pratica della conoscenza e dell’esperienza del reale.
• L’obiettività della fotografia è stata messa in dubbio da McLuhan; per Benjamin, essa è un mezzo di in­
terpretazione della realtà che richiede la conoscenza di un codice specifico. Pierre Bourdieu pone il
problema delle funzioni che vengono assegnate alla fotografia, che sono solamente alcune tra quelle
possibili. L’obiettività della fotografia è legata alle modalità del suo utilizzo: è meglio parlare allora di mez­
zo di espressione e interpretazione della realtà.
• Col termine fotografia sono accomunate espressioni e pratiche sociali la cui analogia è solamente tecnica:
reportage, illustrazione, documentazione scientifica, cartoline, pubblicità, fototessere, arte. Nell’informa­
zione di massa la fotografia è stata spesso usata supporto per quella scritta; le didascalie sono spesso
arbitrarie.
• Accanto all’utilizzo professionale della fotografia se n’è sviluppato un uso privato in relazione all’aumento
di tempo libero, delle disponibilità economiche e diffusione del turismo di massa.
• La fotografia è un elemento centrale della storia della cultura e della società, e strumento di analisi del
mutamento e mezzo della sua percezione. La fotografia è uno strumento che la sociologia utilizza per
cercare di dare una spiegazione scientifica della realtà: la sociologia visuale è una disciplina che affronta
la dimensione sociale dell’esperienza visiva.
• L’arte figurativa è un elemento fondamentale della nostra cultura. Nel corso della storia dell’umanità,
l’arte ha assunto funzioni differenti; è sempre stata patrimonio delle classi superiori, che ne erano i com­
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Unità 1
Prove di verifica La sociologia delle immagini
mittenti, anche se poteva essere parzialmente fruita da tutti. Con l’avvento della società di massa l’arte
ha perso la sua funzione informativa a scapito di fotografia prima e di mass media poi. L’arte è oggetto
di studio, non solo come fatto estetico, ma anche nelle sue implicazioni culturali e sociali; è uno strumen­
to indispensabile per conoscere la cultura della società che la produce.
• La sociologia dell’arte si può definire come l’insieme di tutti quegli studi sull’arte che cercano analizzare
dal punto di vista socioculturale, il processo creativo e la funzione e di determinare la natura dei condiziona­
menti soci. Marx considera l’arte come forma di produzione particolare, capace di produrre piacere se
libera dal bisogno. L’arte è sempre stata una merce, ma oggi questa connotazione si è sempre più ac­
centuata. L’avvento della fotografia e della televisione hanno mutato i caratteri dell’opera stessa e il suo
rapporto con il grande pubblico.
• L’arte è parte della realtà in quanto elemento del processo economico e sociale. Il fondatore della sociologia dell’arte è Arnold Hauser, con i volumi Storia sociale dell’arte e Sociologia dell’Arte.
• Con la civiltà delle immagini, l’artista diviene produttore di oggetti e merci, oltre che di simboli. Per le sue
caratteristiche specifiche, il mercato dell’arte ha connotazioni differenti da qualsiasi altra forma di merca­
to. Karel Taige studia la posizione dell’artista nella società capitalista, mentre Benjamin ha esaminato
l’evoluzione dell’opera d’arte da pezzo unico alla sua produzione seriale. Per Baudrillard, l’opera è al
tempo stesso valore di scambio comunicativo e valore d’uso. L’opera assume allora la funzione di legit­
timazione di status sociale, divenendo segno di ricchezza.
• Legato al fenomeno della commercializzazione dell’arte è il problema del divismo. Con la diffusione della
cultura di massa il pubblico non è più solo quello specializzato, grazie al rinnovamento dei musei e alla
realizzazione di mostre presentate come eventi spettacolari.
Prove di verifica
1.Rispondi alle seguenti domande utilizzando lo spazio a disposizione:
a) Quali sono, per Pierre Sorlin, le motivazioni che spingono il pubblico a vedere un film?
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b) In cosa consiste il fenomeno del divismo?
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Modulo 2
Immagini e comunicazione Prove di verifica
c) La fotografia può definirsi uno strumento obiettivo, e perché?
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d) Cos’è la sociologia visuale?
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e) Che cosa intende lo storico Francesco Poli per microambiente e macroambiente dell’arte?
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2.Descrivi i caratteri della produzione cinematografica secondo McLuhan e Benjamin.
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3.Riassumi il processo di mercificazione dell’arte, da fenomeno d’élite a prodotto
di televendite.
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Unità 1
Prove di verifica La sociologia delle immagini
4.Leggi il testo e rispondi alle domande:
Hollywood e Bollywood
«Nell’orbita del pianeta India, la vendetta finale con cui gli indiani avranno la meglio
sulla mente occidentale. Benvenuti nell’aggres­sione culturale del XXI secolo», scrive
il produttore Amit Khanna in un editoriale giornalistico. All’inizio del XXI secolo,
l’industria indiana dell’intrattenimento ha un giro d’affari di tre miliardi e mezzo di
dollari, una piccola parte dell’industria mondiale del­l’intrattenimento, che assomma a
trecento miliardi di dollari. Ma se si considerano il numero delle produzioni e degli
spettatori è la maggiore industria cinematografica del mondo: mille film per il grande
schermo, quarantamila ore di programmi Tv e cinquemila titoli musicali vengono
esportati in settanta paesi. Ogni giorno, quattordici milioni di indiani vedono un film
in una delle tredicimila sale cinematografiche del paese; e nel mondo i film indiani
vendono ogni anno un miliardo di biglietti in più rispetto ai film hollywoodiani. Anche
la televisione galoppa: nel paese sessanta milioni di case hanno la Tv, di cui ventotto
milioni via cavo, dan­do a città e villaggi la possibilità di scegliere fra più di cento ca­
nali. «Sono disponibili più canali qui che nella maggior parte del­le città degli Stati
Uniti», osservò Bill Clinton durante un suo viag­gio a Mumbai nel 1999.
L’India è uno dei pochi territori che Hollywood non è quasi riuscita a scalfire, copre
infatti solo un 5 per cento del mercato. Sabotatori pieni di risorse, quelli del cinema
hindi. Quando il ci­nema di ogni altro paese si era ormai piegato davanti a Hol­lywood,
l’India l’ha affrontato alla maniera indù: gli ha dato il benvenuto, l’ha inghiottito
intero, e l’ha rigurgitato. Ciò che era entrato con un miscuglio di aromi già noti ne è
uscito con dieci teste nuove. [...] Che facciano film impegnati o masala film robustamente com­merciali, quelli dell’industria del cinema sono tutti uguali, sono grandi
sognatori. In India, i loro sogni devono essere più grandiosi di quelli di chiunque
altro. Devono fare sogni collettivi, so­gnare per conto di un miliardo di persone.
Suketu Mehta, Maximum City, Einaudi, Torino 2006
In che modo l’industria cinematografica indiana è riuscita a tener testa al potere di Hollywood?
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Hai visto qualcuno dei film prodotti dall’industria cinematografica di Bollywood degli ultimi anni (es.
Monsoon wedding, The Millionaire)? Quali ti sembrano i suoi tratti caratteristici?
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