Capitolo 2 Le modificazioni dei soggetti del rapporto obbligatorio Sommario: 1. Le modificazioni nel lato attivo del rapporto. - 2. Le modificazioni nel lato passivo del rapporto. - 3. La cessione del contratto (art. 1406). 1. Le modificazioni nel lato attivo del rapporto A) La successione nel credito in generale Il trasferimento del credito comporta una successione nel lato attivo dell’obbligazione, che può avvenire a titolo universale (es.: erede per successione «mortis causa») o a titolo particolare per atto «mortis causa» (legato) o per atto «inter vivos» (contratto di cessione del credito). Differenze La successione nel credito si distingue dalla novazione soggettiva attiva per il fatto che nel primo caso il lato attivo del rapporto obbligatorio passa da un soggetto all’altro con tutti gli accessori, le garanzie, le azioni e le eccezioni che gravano sul primo titolare; nella novazione soggettiva attiva, invece, il credito passa sì nella titolarità di un altro soggetto, ma il rapporto giuridico che ne risultà è diverso da quello che faceva capo al precedente titolare; si estinguono, infatti, tutte le garanzie, gli accessori e le eccezioni inerenti al rapporto trasferito. B) La cessione del credito (artt. 1260-1267) La cessione del credito è il contratto con cui il creditore (cedente) trasferisce ad un altro soggetto (cessionario), a titolo oneroso o gratuito, il proprio diritto di credito: è il contratto, cioè, per mezzo del quale si attua il trasferimento (oneroso o gratuito) del credito. Per il perfezionamento della cessione non si richiede il consenso del debitore ceduto. Ciò si spiega considerando che per il debitore è indifferente effettuare la prestazione in favore di Tizio ovvero in favore di Caio. Non sono cedibili i crediti strettamente personali, quelli il cui trasferimento è espressamente vietato dalla legge (art. 1261) e quelli la cui cessione è esclusa dalla stessa volontà delle parti. La cessione del credito ha efficacia nei confronti del debitore ceduto, quando questi l’abbia accettata o gli sia stata notificata o comunque ne abbia avuto conoscenza (art. 1264). Il debitore può opporre al cessionario le stesse eccezioni che poteva opporre al cedente, e cioè eccezioni di natura personale (es.: pagamento già effettuato) o di natura reale (relative cioè alla validità ed alla efficacia del negozio). Ai sensi dell’art. 125septies del D.Lgs. 385/1993 (come modif. ex D.Lgs. 141/2010, Credito al consumo), in caso di cessione del credito del contratto di credito, il consumatore può sempre opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente, inclusa la compensazione e anche in deroga all’art. 1248. Se lo stesso credito è stato ceduto a più soggetti, l’acquisto si verifica solo a favore di chi per primo lo ha notificato al debitore o per primo ha ricevuto l’accettazione di questi, con atto di data certa (art. 1265). Per l’art. 1266 se la cessione è a titolo oneroso, il cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito (cd. cessione pro soluto), ma non la solvibilità del debitore; in conseguenza, il cedente è 70 Libro I: Diritto civile - Parte IV: Obbligazioni e contratti liberato nei confronti del cessionario. Nell’ipotesi che intervenga un apposito patto (art. 1267), il cedente consegue la liberazione solo quando il cessionario abbia oggettivamente riscosso il credito (cd. cessione pro solvendo). Se la cessione è a titolo gratuito, ai sensi dell’art. 1266, la garanzia dell’esistenza del credito è «dovuta solo nei casi e nei limiti in cui la legge pone a carico del donante la garanzia per evizione». C) La surrogazione del terzo nei diritti del creditore Normalmente, il pagamento del terzo (art. 1180) estingue l’obbligazione: diversamente, in alcune ipotesi previste dalla legge il pagamento del terzo realizza solo la modificazione soggettiva attiva del rapporto obbligatorio. La surrogazione (cioè, appunto, il subingresso del terzo adempiente nei diritti del creditore soddisfatto) può aversi: — per volontà del creditore (art. 1201) che, ricevendo il pagamento da un terzo, dichiari espressamente di volerlo far subentrare nei propri diritti verso il debitore (è detta anche surroga per quietanza); — per volontà del debitore (art. 1202) che, prendendo a mutuo una somma per pagare il creditore, può surrogare il mutuante nella posizione del creditore pagato (detta anche surroga per imprestito); — per volontà della legge (art. 1203) che ricorre in tutti quei casi previsti dall’articolo 1203 in cui la legge autorizza il terzo (che paga un debito altrui) a surrogarsi nei diritti del creditore, indipendentemente dalla volontà del creditore e del debitore, in deroga al principio secondo cui il pagamento fatto dal terzo ha sempre effetto estintivo dell’obbligazione (detta anche surrogazione legale). D)La delegazione attiva Si definisce delegazione in generale l’istituto giuridico che realizza l’aggiunta o la sostituzione di un altro creditore o di un altro debitore a quelli originari, senza che l’obbligazione resti alterata nella sua sostanza oggettiva. In particolare, si ha delegazione attiva, quando si delega la posizione di creditore assegando al debitore un altro creditore, ossia il creditore originario autorizza un terzo a rendersi destinatario della promessa di adempiere. 2. Le modificazioni nel lato passivo del rapporto La possibilità di operare una successione nel debito, a differenza di quella nel credito, si afferma in dottrina molto tardi essendo il rapporto obbligatorio strettamente connesso alla persona del debitore ed in particolare alla sua correttezza ed al suo patrimonio personale (TRABUCCHI). Di conseguenza, mentre il trasferimento del credito non richiede il consenso del debitore, per il quale è indifferente pagare all’uno o all’altro creditore, la successione nel debito si realizza solo con l’assenso del creditore, il quale deve poter fare affidamento sulla persona del nuovo debitore. Unico caso in cui si prescinde da tale consenso è quello della successione universale «mortis causa»: in tale ipotesi, infatti, il debito del «de cuius» si trasferisce automaticamente al successore con l’accettazione dell’eredità. Successione nel debito può aversi sia mortis causa che per atto tra vivi. Le figure che realizzano il mutamento per atto «inter vivos», a titolo particolare, nel lato passivo sono la delegazione, l’espromissione e l’accollo. A) La delegazione (artt. 1268-1271) La delegazione passiva ricorre quando il debitore (delegante) ordina ad un terzo (delegato) di assumersi il debito (cd. «delegatio promittendi») che egli ha nei confronti del creditore (delegatario). Il creditore delegatario può espressamente liberare il debitore originario sostituito dal nuovo debitore (cd. delegazione passiva privativa). Se, invece, il creditore delegatario non libera espressamente il debitore originario che, pertanto, rimane coobbligato con il nuovo debitore nei confronti del creditore, ricorre la figura della cd. delegazione passiva cumulativa ed il creditore, se il delegato non adempie, può richiedere la prestazione al delegante (art. 1268 comma 2). Capitolo 2: Le modificazioni dei soggetti del rapporto obbligatorio 71 La delegazione può inoltre essere: titolata, qualora il delegato, in esecuzione di un ordine del delegante, si assume il debito verso il creditore originario richiamando alcuni dei rapporti sottostanti (cd. di valuta quello tra delegante e delegatario; cd. di provvista quello tra delegante e delegato); astratta ove manchi il riferimento ai suddetti rapporti di valuta e di provvista. Tale distinzione è rilevante ai fini delle eccezioni che il delegato può opporre al creditore delegatario. Diversa dalla delegazione «promittendi» è la cd. delegazione di pagamento o «solvendi causa» preordinata a che l’adempimento di una obbligazione sia eseguito da parte di un terzo; da quanto detto si evince che essa ha funzione prettamente «solutoria». La disciplina delle eccezioni è così regolata dall’art. 1271: — il delegato può opporre al delegatario le eccezioni derivanti dai suoi eventuali rapporti con questo; — il delegato non può opporre al delegatario le eccezioni relative al rapporto di provvista, salvo che abbia con lui diversamente pattuito; — il delegato può opporre le eccezioni relative al rapporto di valuta, purché ad esso sia stato fatto espresso riferimento. B) L’espromissione (art. 1272) Consiste in un contratto fra il creditore (espromissario) ed un terzo (espromittente) per effetto del quale il terzo, senza intervento del debitore (espromesso), ne assume verso il creditore il debito (es.: padre che si obbliga a pagare il debito contratto dal figlio). Caratteristica del rapporto è la «spontaneità» dell’assunzione, da parte del terzo, del debito altrui senza alcun riferimento al rapporto di provvista; la dottrina dominante, pertanto, configura l’espromissione come un contratto a favore del terzo (cioè del debitore originario). Nell’espromissione si distinguono due casi, con diversi effetti: — espromissione cumulativa (ipotesi normale), in cui l’espromittente è obbligato in solido col debitore originario; — espromissione liberatoria, in cui il creditore espressamente dichiara di liberare il debitore originario. Il regime delle eccezioni è così disciplinato: — il terzo non può opporre al creditore le eccezioni fondate sul suo rapporto con il debitore originario, salvo che abbia convenuto diversamente (art. 1272 comma 2); — possono essere opposte al creditore tutte le eccezioni che poteva opporgli il debitore originario, con esclusione delle eccezioni personali al debitore originario e di quelle derivanti da fatti successivi all’espromissione e della eccezione di compensazione (art. 1274). Differenze L’espromissione si differenzia: — dalla delegazione, nella quale il terzo si obbliga verso il creditore in presenza di una delega del debitore; — dall’accollo, che è un accordo intercorrente tra debitore e terzo (non tra creditore e terzo). C) L’accollo (art. 1273) È un contratto tra debitore (accollato) e terzo (accollante) con il quale quest’ultimo assume il debito dell’altro: a tale accordo non partecipa il creditore accollatario. Questa caratteristica distingue l’accollo dalla delegazione che è negozio trilatero. È tuttavia possibile, per il creditore, aderire alla convenzione intervenuta tra debitore e terzo, rendendo in tal modo irrevocabile la stipulazione a suo favore (art. 1273 comma 1). Ed è per questo motivo che la dottrina ritiene l’accollo una figura di contratto a favore di terzo, configurando l’adesione del terzo creditore quale dichiarazione di voler profittare della stipulazione (art. 1411 comma 2). 72 Libro I: Diritto civile - Parte IV: Obbligazioni e contratti L’accollo cd. «esterno», ossia quello a cui aderisce il creditore, può essere: — cumulativo quando il creditore, all’atto di aderire alla convenzione, dichiara di non liberare il debitore originario che rimane obbligato in solido con il terzo accollante; — liberatorio quando, invece, il creditore dichiara espressamente di liberare il debitore originario. Il terzo accollante può, ai sensi dell’art. 1273 comma 4, opporre al creditore: — le eccezioni fondate sul contratto in base al quale la assunzione del debito è avvenuta. Di conseguenza l’accollante potrà opporre al creditore le eccezioni concernenti l’invalidità o la risoluzione del contratto di assunzione, ma non quelle relative ad altri rapporti intercorsi con il debitore originario; — le eccezioni relative al rapporto tra il debitore originario ed il creditore (CICALA, FALZEA, DISTASO). Diversamente RESCIGNO ritiene che l’opponibilità di tali eccezioni deve essere stabilita tramite patto. Differenze Dall’accollo esterno si differenzia l’accollo interno (o semplice), che produce effetti solo rispetto alle parti (debitore originario e terzo accollante) e che, quindi, preclude al creditore (accollatario), terzo rispetto all’accollo, la possibilità di aderirvi e di rendere la stipulazione a suo favore irrevocabile. L’accollo rientra nel fenomeno della successione a titolo particolare nel debito, come pure la delegazione e l’espromissione, dalle quali si differenzia per i seguenti motivi: — l’espromissione è un negozio tra il creditore ed un terzo mediante il quale quest’ultimo promette di pagare un debito altrui ed al quale rimane estraneo il debitore; — la delegazione, pur intercorrendo, come l’accollo, tra debitore e terzo, in quanto consiste nell’incarico di pagare il creditore (cd. delegatio solvendi) o di obbligarsi verso di lui all’adempimento di un’obbligazione (cd. delegatio promittendi), instaura un vero e proprio rapporto contrattuale tra il creditore ed il delegato. 3. La cessione del contratto (art. 1406) Con la cessione del contratto si ha la sostituzione di una persona (cedente) con un’altra (cessionario) in tutti i rapporti nascenti da un contratto, per cui il terzo cessionario assume, rispetto all’altro contraente (cd. contraente ceduto), la stessa posizione giuridica già occupata dal cedente. La cessione può avvenire soltanto in materia di contratti con prestazioni corrispettive, fino a quando le relative prestazioni non siano state ancora eseguite (art. 1406). Affinché la cessione del contratto si perfezioni, è necessario il consenso del contraente ceduto. Si tratta, infatti, di un negozio unitario trilaterale. Il consenso può essere preventivo, ma in tal caso, il ceduto deve essere posto a conoscenza della avvenuta cessione. Il cedente è liberato dalle sue obbligazioni verso il contraente ceduto, a meno che questi dichiari di non volerlo liberare. In questo caso il cedente diviene responsabile ove sia inadempiente il cessionario (art. 1408). Il cessionario subentra nella posizione del cedente, perciò il contraente ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto, non però quelle fondate sui rapporti personali col cedente e non dipendenti dal contratto (art. 1409). Come nella cessione dei crediti, anche in questo caso il cedente è tenuto a garantire il «nomen verum» ossia l’esistenza di un contratto valido. Se ha assunto anche la garanzia dell’adempimento del contratto («nomen bonum») egli risponde come un fideiussore per le obbligazioni del contraente ceduto (art. 1410). Parte I Parte generale Capitolo 1 Concetti introduttivi Sommario: 1. Il diritto penale, nozione e caratteri. - 2. Partizioni del diritto penale. - 3. La norma penale. - 4. Le fonti del diritto penale. - 5. Principio di legalità. - 6. Segue: Principio di materialità. - 7. Segue: Principio di offensività. - 8. Segue: Principio di soggettività. 1. Il diritto penale, nozione e caratteri Il diritto penale costituisce quel complesso di norme giuridiche con cui lo Stato, mediante la minaccia di una sanzione (pena), proibisce determinati comportamenti umani ritenuti contrari ai fini che esso persegue (reati). Pertanto, può affermarsi che la funzione del diritto penale è la difesa della società dai reati (CARNELUTTI). Tuttavia, le odierne esigenze di tutela della libertà impongono sempre più di legittimare l’intervento punitivo solo per la difesa dei beni aventi rilevanza costituzionale o socialmente considerati tali (Bricola, fiandaca-musco). Riguardo ai caratteri, il diritto penale è diritto positivo (in quanto può risultare solo da norme giuridiche), statuale (potendo le norme essere emanate solo dallo Stato), autonomo (nel senso che mutua i suoi concetti, non da altri rami dell’ordinamento, ma nell’ambito dei suoi principi fondamentali) pubblico (in quanto mira a tutelare l’interesse generale dello Stato alla conservazione e al progresso della società). 2. Partizioni del diritto penale a) Diritto penale fondamentale e diritto penale complementare: il primo è quello contenuto nel codice penale; il secondo è quello contenuto nelle leggi speciali che integrano o modificano il codice penale. b) Diritto penale comune e diritto penale speciale: a seconda che si applichi a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato, ovvero a determinate classi o categorie di persone, a cagione della loro qualità o della condizione giuridica in cui vengono a trovarsi (es.: reati previsti dal Codice Penale Militare e dal Codice della Navigazione). 3. La norma penale A) Definizione ed elementi costitutivi Norma penale in senso stretto può ritenersi solo quella disposizione di legge che vieta un determinato comportamento, minacciando, in caso di trasgressione, la inflizione di una pena (cd. norma incriminatrice). Gli elementi costitutivi della norma incriminatrice sono: — il precetto: comando o divieto di compiere una determinata azione od omissione; — la sanzione: conseguenza giuridica che deriva dalla inosservanza del precetto. 160 Libro II: Diritto penale - Parte I: Parte generale Rispetto agli elementi costitutivi, le norme penali possono distinguersi in: a) norme incriminatrici: sono le norme penali vere e proprie in quanto individuano gli estremi di un fatto vietato dalla legge (reato) e fissano la relativa sanzione; b) norme imperfette: sono quelle che contengono il solo precetto o la sola sanzione; c) norme penali in bianco: sono quelle che contengono una sanzione ben determinata, ed un precetto a carattere generico, dovendo esso essere specificato da atti normativi di grado inferiore (regolamenti, provvedimenti amministrativi). Esempi di norme penali in bianco contenute nel codice penale: art. 329 (rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica); art. 650 (inosservanza di un provvedimento dell’Autorità emanato legalmente per ragioni di sicurezza, di giustizia, di ordine pubblico, d’igiene). Da esse si differenziano i cd. elementi normativi della fattispecie, che ricorrono quando per individuare uno o più elementi del fatto tipico, si rinvia a nozioni presenti in altri rami del diritto ovvero in norme sociali (es. il possesso richiamato nel reato di furto - v. art. 624); d) norme integratrici (o di secondo grado): sono quelle norme penali (imperative) che non contengono né un precetto né una sanzione ma si limitano a precisare o limitare la portata d’altre norme o a disciplinarne l’applicabilità, indicando regole di interpretazione o rinviando ad altre disposizioni. B) Caratteri della norma penale Sono: — l’imperatività, in quanto la norma una volta entrata in vigore diviene senz’altro obbligatoria per tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; — la statualità, in quanto la norma penale promana soltanto dallo Stato. Non devono perciò essere considerate norme penali quelle previste negli statuti degli enti (pubblici o privati) dello Stato, né quelle contenute nelle convenzioni internazionali. Dunque, non sono penali stricto sensu le norme amministrative. Difatti: — al diritto penale si collegano le «pene vere e proprie» irrogate sempre dall’Autorità Giudiziaria mediante il «processo»; — al diritto amministrativo si collegano le cd. «sanzioni amministrative» che sono, di regola, irrogate dall’Autorità amministrativa e, solo eccezionalmente, dall’Autorità Giudiziaria. C) Destinatari della norma penale La dottrina tradizionale, ancora oggi prevalente, ritiene che le norme penali siano indirizzate indistintamente a tutti i consociati, senza distinguere, come fanno alcuni autori, tra i giudici (chiamati ad applicare la sanzione) ed i consociati (tenuti a rispettare il precetto). Si discute se debbano considerarsi destinatari della norma penale anche i soggetti non imputabili, cioè incapaci d’intendere e di volere (ad esempio, l’infans e l’amens): parte della dottrina (PETROCELLI, PANNAIN) ritiene che tali soggetti, in quanto incapaci di comprendere il precetto penale e di uniformarsi ad esso, non ne siano destinatari; altri, rilevando come anche gli incapaci siano in grado di avvertire l’efficacia intimidatoria della sanzione, ritengono che anche ad essi si rivolga la norma penale (MAGGIORE, ANTOLISEI). 4. Le fonti del diritto penale In diritto penale, il numero delle fonti è assai più limitato che negli altri rami del diritto: l’art. 25 Cost. pone al riguardo un’espressa riserva di legge. Il nostro legislatore, quindi, non soltanto ha riservato allo Stato ogni competenza normativa in materia penale (principio della statualità), ma ha disposto che fonti del diritto penale siano solo la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati (principio di legalità). Il diritto penale è costituito da norme contenute nel codice penale e nelle leggi penali speciali; tuttavia, numerose sono le norme contenute nel codice di procedura penale (il quale disciplina lo svolgimento del «processo penale» che può, eventualmente, portare alla irrogazione della pena) nonché nel codice civile. Quanto alla consuetudine essa, nel diritto penale, ha efficacia limitata. Capitolo 1: Concetti introduttivi 161 In particolare: a) la consuetudine innovatrice non opera nel diritto penale, ostandovi il principio della riserva di legge; b) la consuetudine abrogatrice, del pari, non opera nel diritto penale, in quanto l’abrogazione di una disposizione di legge può derivare solo da altra norma; c) la consuetudine integratrice si ritiene, in dottrina, possa operare solo se in senso favorevole all’imputato. 5. Principio di legalità Il diritto penale è retto da quattro principi fondamentali: 1) 2) 3) 4) il principio di legalità; il principio di materialità; il principio di offensività; il principio di soggettività. Si ricordi, poi, che il ricorso al diritto penale è ammesso solo come extrema ratio punitiva (principio di sussidiarietà) e che la pena deve scattare solo per una aggressione di beni-interessi che raggiunga una notevole gravità (principio di meritevolezza); da ciò discende che il diritto penale interviene a difesa di singoli beni-interessi e contro specifiche modalità di aggressione (principio di frammentarietà). Il principio di legalità (sancito dalla Costituzione all’art. 25 commi 2 e 3 e dal codice penale agli artt. 1 e 199) regola la materia delle fonti del diritto penale. Secondo la cd. concezione formale, tale principio importa il divieto di punire qualsiasi fatto che, al momento della sua commissione, non sia espressamente previsto come reato dalla legge (anche se socialmente pericoloso) e con pene che non siano dalla stessa espressamente stabilite. Ne consegue una nozione formale di reato per la quale è reato solo un fatto previsto come tale dalla legge. Il principio di legalità formale, quindi, tende ad evitare l’arbitrio del potere esecutivo e del potere giudiziario, e ad assicurare la certezza e l’uguaglianza nell’applicazione del diritto, rispondendo così ad un’insostituibile funzione di garanzia della libertà degli individui. Al principio descritto si oppone la concezione sostanziale della legalità, secondo la quale deve considerarsi reato ogni fatto socialmente pericoloso, anche se non espressamente previsto come tale dalla legge, e quindi, applicarsi la pena adeguata allo scopo. Secondo i suoi sostenitori, il principio di legalità sostanziale consente una più efficace difesa della società e una giustizia più conforme alla coscienza sociale, in quanto, da un lato, tende a colpire le condotte effettivamente contrarie agli interessi della società, e dall’altro, permette di adeguare il diritto penale alla realtà sociale in continuo mutamento, evitando fratture tra il diritto penale codificato e le mutate esigenze di difesa sociale. Tuttavia, tale teoria, fondata su una nozione di reato desumibile da fonti extra-legali (ad esempio, la coscienza rivoluzionaria, il sano sentimento del popolo, la coscienza sociale), tende ad elidere la certezza del diritto e consente l’arbitrio e le discriminazioni più gravi. La Costituzione italiana, accogliendo una concezione del reato sostanziale-formale, tende alla realizzazione di una compenetrazione tra legalità e giustizia, da un lato, riconfermando la propria rigorosa fedeltà al «nullum crimen nulla poena sine lege», ma, dall’altro, imponendo di positivizzare nella legge i valori e le finalità da essa espressi (MANTOVANI). Il principio di legalità formale si articola in tre sostanziali principi: della riserva di legge, del principio di tassatività e del principio d’irretroattività. A) Il principio della riserva di legge Il principio della riserva di legge comporta il divieto di punire un determinato fatto in mancanza di una specifica norma di legge che lo configuri come reato: esso, quindi, esclude dalle fonti del diritto penale sia le fonti non scritte, sia quelle scritte diverse dalla legge (es. regolamenti, ordinanze). Tale principio risponde ad esigenze di garanzia dei cittadini contro i possibili arbitri del potere giudiziario e del potere esecutivo. 162 Libro II: Diritto penale - Parte I: Parte generale Poiché le riserve di legge previste dalla Costituzione possono avere carattere assoluto (quando escludono per la disciplina di dettaglio qualsiasi atto normativo di rango inferiore alla legge ordinaria) o relativo (ammettono una disciplina ad opera di atti di normazione secondaria, e, più specificamente, ad opera di regolamenti, sempreché sia la legge a fissare i principi generali regolatori), ci si è chiesti che natura abbia la riserva di legge contenuta nell’art. 25 della Costituzione, se sia, cioè, una riserva assoluta o relativa. La Corte Costituzionale e parte della dottrina hanno tentato di ridimensionare la portata di questo principio affermando che si tratta di riserva relativa, per cui il legislatore può limitarsi a fissare le linee fondamentali della disciplina penale, affidandone il completamento alla Pubblica Amministrazione. La dottrina prevalente (FIANDACA-MUSCO), invece, qualifica la riserva come assoluta ed esclude, quindi, l’intervento delle norme secondarie in materia penale. Il nostro ordinamento riconosce anche l’esistenza di «norme penali in bianco» caratterizzate, come detto, dal fatto che il precetto è formulato in modo generico, dovendo essere integrato, specificato, completato da una fonte normativa diversa dalla legge, quale ad es. un regolamento od un provvedimento amministrativo. Ne sono esempi l’art. 650 c.p.; l’art. 73 T.U. 309/1990 che punisce il traffico di stupefacenti, ma lascia al Ministro della Salute la possibilità di indicare, in apposite «tabelle», le sostanze stupefacenti. Discussa è la compatibilità delle norme penali in bianco col principio della riserva di legge. Ed infatti, se si parte dal concetto che se ne è dato (v. supra) si rischia di riconoscere efficacia costitutiva, ai fini della determinazione del fatto-reato, a norme od atti diversi dalla legge, creando così un contrasto con la riserva di cui all’art. 25 Cost. Il problema si risolve o accettando, come ha fatto la stessa Corte Costituzionale, la natura «relativa» della riserva contenuta nell’art. 25 Cost., oppure, una volta accolta la tesi della «riserva assoluta», riconoscere che il precetto amministrativo, integrativo della norma penale in bianco, sia sufficientemente regolato dalla legge nei suoi scopi, presupposti e contenuto, così da porsi come mero svolgimento di una disciplina già tracciata dalla legge penale (così espressamente MANTOVANI, il quale peraltro auspica, de jure condendo, la depenalizzazione di tutte le norme penali in bianco con la comminatoria di sanzioni amministrative alle violazioni da esse previste). B) Il principio di tassatività Indica il dovere del legislatore di determinare la fattispecie penale e, in quanto tale, risponde ad esigenze di certezza del diritto tesa ad evitare l’arbitrio del potere giudiziario, garantendo inoltre all’imputato il diritto di difesa. Vero è che l’art. 25 Cost. non fa espressamente riferimento a tale principio; è innegabile, tuttavia, che proprio il principio di legalità finirebbe nella sostanza con l’essere svuotato se il legislatore, con l’uso di espressioni generiche e indeterminate, rimettesse di fatto al giudice la concreta individuazione della fattispecie criminosa. Il principio di tassatività ­consiste nella tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali contenuti nel codice penale e nelle altre norme penali vigenti. Momento centrale della fase di applicazione della legge penale è l’accertamento della conformità del fatto storico al fatto tipico (MANTOVANI). Nel nostro ordinamento penale, alla tipicità del reato si accompagna il principio della tipicità delle pene e delle misure di sicurezza (artt. 1 e 199 c.p.), secondo il quale agli autori dei fatti previsti dalla legge come reato si applicano solo le pene e le misure di sicurezza previste dalla legge. C) Il principio d’irretroattività In base ad esso la legge penale ha efficacia soltanto per i fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (vedi infra cap. 2 § 2). 6. Segue: Principio di materialità Il principio di materialità, sancito dall’art. 25 Cost., comporta che il reato debba necessariamente consistere in un fatto umano materialmente estrinsecantesi nel mondo esteriore: cogitationis poenam nemo patitur. Capitolo 1: Concetti introduttivi 163 7. Segue: Principio di offensività Secondo detto principio, per la sussistenza del reato non è sufficiente che il fatto concreto sia conforme a quello tipico previsto dalla norma incriminatrice, occorrendo altresì che esso sia realmente offensivo del bene protetto dalla stessa norma (v. art. 49 comma 2 c.p.). In relazione al bene giuridico tutelato dalla norma penale si distinguono: — reati monoffensivi per i quali è necessaria e sufficiente l’offesa di un solo bene giuridico (ad esempio, omicidio e lesioni); — reati plurioffensivi, cioè offensivi di più beni giuridici (ad esempio la rapina, lesiva del patrimonio e della libertà personale). 8. Segue: Principio di soggettività Secondo il principio di soggettività, un comportamento umano costituisce reato quando, oltre ad essere tipico e compiuto in assenza di cause di giustificazione, è anche riferibile alla volontà dell’agente: per aversi reato, quindi, occorre che sussista non solo un nesso causale, ma anche un nesso psichico tra l’agente e il fatto criminoso (v. cap. 3 § 12). A seguito della sentenza n. 364/88 della Corte Costituzionale, principio cardine del nostro sistema penale è quello della colpevolezza. Esso è il presupposto dello stesso principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 comma 1 della Costituzione; inoltre è fondamento e misura della pena. Capitolo 6 La decisione della causa (fase «decisoria») Sommario: 1. Generalità. - 2. La decisione davanti al Tribunale in composizione collegiale. - 3. La decisione davanti al Tribunale in composizione monocratica. - 4. Rapporti tra Collegio e giudice monocratico. - 5. I provvedimenti del giudice. - 6. Esecutività dei provvedimenti e altre formalità. - 7. Il procedimento di correzione. 1. Generalità Quando il G.I. ritiene la causa matura per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni (nei limiti di quelle formulate nei rispettivi atti introduttivi, tenendo presente le eventuali risultanze istruttorie), quindi rimette la causa in decisione. Da tale ultima data cominciano a decorrere i 60 gg. entro i quali le parti devono depositare le comparse conclusionali (v. Parte Prima, Cap. 7, par. 3/A) e le memorie di replica nei 20 gg. successivi (art. 190). La legge n. 353/90 aveva attribuito l’attività decisoria ad un organo collegiale solo per le cause coperte dalla riserva di collegialità (art. 48 Ord. giudiz.), riservando normalmente tutte le altre alla decisione del giudice istruttore in funzione di giudice unico (art. 190bis: abrogato dal D.Lgs. 51/98). Il D.Lgs. 51/98 che ha istituito il Giudice Unico di primo grado, sopprimendo l’ufficio del pretore, ha confermato la decisione della causa da parte del giudice di Tribunale in composizione monocratica, tranne le ipotesi tassative di cui all’art. 50bis, in cui la decisione resta collegiale. Il Collegio ha, in questa fase, i più ampi poteri e può pronunciare i provvedimenti più idonei in relazione allo stato in cui versa la causa. Può emanare sentenze oppure pronunciare ordinanze quando, senza definire il giudizio, provvede solo su questioni relative all’istruzione della causa e si limita a dare disposizioni per il prosieguo del giudizio stesso, nonché quando decide soltanto questioni di competenza (art. 279 come modif. ex L. 69/2009, Riforma del processo civile 2009). Va infine sottolineato che dopo la riforma del ’90 non sono mutati i tipi di provvedimento che l’autorità giudicante può emettere, con l’unica novità che possono provenire non solo dall’organo collegiale ma anche dal giudice monocratico, a cui si adattano le norme relative alla decisione. 2. La decisione davanti al Tribunale in composizione collegiale La fase decisoria ha conservato una disciplina autonoma solamente nelle cause riservate al Collegio per le quali sia stata richiesta l’udienza di discussione. L’organo che domina tale fase, titolare del potere decisorio, è il Collegio, composto di tre membri: il Presidente, che lo presiede (normalmente è il Presidente del Tribunale, ma nei Tribunali divisi in più sezioni è il Presidente di una sezione), e due giudici, uno dei quali è quello che ha svolto le funzioni di giudice istruttore e deve riferire al Collegio in ordine alla causa da decidere. Per quanto riguarda lo svolgimento della fase decisoria, l’art. 275 stabilisce che, dopo la rimessione della causa al collegio, di regola non si svolge l’udienza di discussione, a meno che almeno una delle parti, al momento della precisazione delle conclusioni non chieda che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio. Una volta presentata questa istanza e depositate le difese scritte ex art. 190, alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica, l’istanza di discussione deve essere riproposta al Presidente del Tribunale che deve fissare con decreto la data dell’udienza collegiale, da tenersi entro 60 giorni dalla richiesta. In questa udienza il giudice istruttore fa la relazione della causa e, successivamente, le parti sono ammesse alla discus- 520 Libro IV: Diritto processuale civile - Parte II: Il processo ordinario di cognizione sione. La sentenza deve essere poi depositata nel solito termine, di natura ordinatoria, di 60 giorni dall’udienza. Invece, quando le parti non chiedono la discussione orale, entro 60 giorni (termine ordinatorio) dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (v. art. 190), la sentenza deve essere deliberata e depositata in cancelleria. 3. La decisione davanti al Tribunale in composizione monocratica Ai sensi dell’articolo 281quater, nelle materie sottratte alla competenza del Collegio, il giudice monocratico (sia nel processo di cognizione che in quello esecutivo) decide con pienezza di poteri, pari appunto a quelli spettanti all’organo collegiale. Mentre la fase decisoria innanzi al Collegio continua ad essere disciplinata dall’art. 275, con l’unica variante dell’eventuale fissazione dell’udienza di discussione in luogo della procedura meramente cartolare (solo scambio delle comparse e delle memorie di replica), l’articolo 281quinquies, al 1° comma, ripropone lo schema della decisione a trattazione esclusivamente scritta di cui al citato art. 275 (già peraltro previsto dall’abrogato art. 190bis) con la novità dell’abbreviazione da 60 a 30 giorni (decorrente dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica) per il deposito in cancelleria della sentenza. Il secondo comma dell’art. 281quinquies prevede, in alternativa allo schema consueto, la facoltà su richiesta di una delle parti, di limitarsi allo scambio delle sole comparse conclusionali, saltando la fase dello scambio delle memorie di replica, in favore della fissazione dell’udienza di discussione orale (perciò si tratta di trattazione mista), a partire dalla quale decorre il termine di 30 giorni per il deposito della sentenza da parte del giudice. Se non ritiene di procedere a norma dell’art. 281quinquies, il giudice, ai sensi dell’art. 281sexies, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su richiesta delle parti, può spostare la discussione orale ad un’udienza successiva, e ciò al fine di consentire ai difensori delle parti, nel caso in cui fossero impreparati ad una discussione immediata, di potersi presentare all’udienza successiva con un adeguato livello di preparazione rispetto alle specifiche questioni oggetto della causa da decidere. Per quanto concerne la disciplina transitoria, prevista per i procedimenti pendenti davanti al Tribunale alla data del 2 giugno 1999, innanzitutto occorre premettere che l’art. 47 del D.Lgs. 51/1998 stabilisce che siano trattati nella sede principale del Tribunale, anche ove sia prevista l’istituzione di una sede distaccata. È evidente, in questa disposizione, la finalità di creare il minor disagio alle parti ed ai difensori, evitando inutili spostamenti. Inoltre l’art. 135 del D.Lgs. 51/1998 dispone che: «I procedimenti pendenti davanti al tribunale alla data di efficacia dello stesso sono definiti: a) dal tribunale sulla base delle disposizioni anteriormente vigenti, se si tratta di giudizi di appello ovvero se, alla predetta data, sono già state precisate le conclusioni o la causa è stata comunque ritenuta in decisione; b) dal tribunale sulla base delle disposizioni introdotte dal detto decreto, in ogni altro caso; la composizione del tribunale resta tuttavia regolata dalle disposizioni anteriormente vigenti». Infine, ai sensi dell’art. 136 del D.Lgs. 51/1998 «restano comunque salve le preclusioni e le decadenze già verificatesi, e la validità degli atti compiuti». 4. Rapporti tra Collegio e giudice monocratico Gli articoli del Capo IIIter (artt. 281septies-281novies) regolamentano i rapporti tra giudice istruttore in funzione di giudice monocratico e Collegio, prevedendo i rimedi per sanare gli eventuali errori nell’attribuzione delle controversie, disciplinando la possibilità che tra cause assegnate agli organi decisori in diversa composizione possa insorgere una causa di connessione. Infatti l’art. 281septies disciplina l’ipotesi in cui il Collegio rilevi che una causa, rimessa davanti a lui per la decisione, debba in realtà essere decisa dal giudice monocratico. In questo caso il Collegio rimette la causa dinanzi al giudice istruttore il quale provvederà ai sensi degli artt. 281quater, ­281quinquies e 281sexies. Nell’ipotesi, invece, in cui il giudice istruttore rilevi che la causa riservata per la decisione davanti a sé in funzione di giudice monocratico debba essere decisa dal Tribunale in composizione collegiale, provvederà a norma degli artt. 187, 188 e 189. Capitolo 6: La decisione della causa (fase «decisoria») 521 Inoltre, l’art. 281novies dispone che in caso di connessione tra cause che debbano essere decise dal Tribunale in composizione collegiale e cause che spettino al Tribunale in composizione monocratica, esse siano riunite per esser decise innanzi al Collegio. La nullità derivante dalla violazione dei criteri di attribuzione delle controversie tra Collegio e giudice monocratico presenta dei profili alquanto anomali, in quanto non può essere fatta rilevare in grado di appello se non mediante il meccanismo di cui all’art. 161 co. 1 (ossia quando la nullità si converta in motivo di gravame), mentre nel corso del primo grado di giudizio la sua rilevazione risulta rimessa oltre che alle parti, anche al potere d’ufficio del giudice, potere che può essere esercitato persino al momento del passaggio in decisione. 5. I provvedimenti del giudice I provvedimenti del giudice in sede decisoria possono essere di tre tipi: 1) Sentenze definitive: sono le sentenze che definiscono tutto il giudizio. Esse possono essere emanate nei seguenti casi: — quando, decidendo questioni di giurisdizione, il giudice dichiari il difetto di giurisdizione; — quando, decidendo una questione pregiudiziale o preliminare, il giudice ritenga la questione stessa preclusiva per l’esame del merito (es.: accoglimento dell’eccezione di prescrizione); — quando il giudice decide totalmente il merito della causa. 2) Sentenze non definitive: sono quelle che non definiscono il giudizio, il quale prosegue per la emanazione della sentenza definitiva. Ciò avviene: — quando il giudice respinge il difetto di giurisdizione (respinta l’eccezione la causa torna al G.I. per seguire il suo corso normale anche se, essendo investito l’organo giudicante di tutta la causa, questi potrebbe decidere totalmente il merito della stessa qualora la ritenga matura per la decisione); — quando il giudice rigetta eccezioni pregiudiziali o preliminari di merito (vale quanto detto sopra); — quando il giudice accerta l’esistenza generica di un diritto ad una prestazione («an debeatur») e quindi rimette la causa al G.I. per l’accertamento del «quantum»; — quando il giudice, investito della decisione su più domande, emette sentenza non definitiva su alcune domande già mature e quindi dispone, con separata ordinanza, i provvedimenti istruttori che reputa necessari per le altre domande. 3) Ordinanze: sono quei provvedimenti coi quali l’organo giudicante, senza definire il giudizio, provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa e si limita a dare disposizioni per l’ulteriore corso del processo. È opportuno ricordare, peraltro, che a seguito della riforma del 2009 tutte le decisioni in merito alla competenza (e, cioè, sia i provvedimenti con i quali il giudice adito si riconosca competente, sia quelli con i quali, invece, neghi la propria competenza) devono assumere la forma dell’ordinanza e non più della sentenza (si tratta di una innovazione applicabile a tutti i giudizi instaurati successivamente al 4-7-2009). Ciò in quanto si è voluto semplificare notevolmente lo schema decisorio relativo alle questioni di competenza, atteso che l’ordinanza ha, in genere, una struttura ed un apparato motivazionale meno articolati rispetto alla sentenza. 6. Esecutività dei provvedimenti e altre formalità A partire dal 1-1-1993 (e in riferimento alle sentenze pubblicate dopo il 19-4-1995), gli artt. 282 e 283 hanno disposto che le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive tra le parti (sono solo le sentenze di condanna, e non anche quelle di mero accertamento o di natura costitutiva secondo l’interpretazione giurisprudenziale; peraltro la Cassazione ha affermato la provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado di condanna al pagamento delle spese processuali anche se accessorie ad una sentenza costitutiva o di mero accertamento). La provvisoria esecutività può essere sospesa dal giudice d’appello se ricorrono gravi e fondati motivi, specialmente se relativi alla possibilità di insolvenza di una delle parti, su istanza della parte interessata (proposta con l’impugnazione principale o incidentale). 522 Libro IV: Diritto processuale civile - Parte II: Il processo ordinario di cognizione A seguito del deposito della sentenza, il Cancelliere ne dà notizia alle parti costituite, mediante biglietto contenente il dispositivo comunicato ai rispettivi difensori. Il deposito della sentenza vale come pubblicazione della stessa. A partire da questo momento (cioè dalla data della pubblicazione), per la parte che ne abbia interesse (che sia cioè interamente o parzialmente soccombente nel giudizio di primo grado) decorre il termine di sei mesi per impugnare la sentenza (art. 327 come modif. ex L. 69/2009, in precedenza era di un anno). La parte che vi ha interesse, tuttavia, può notificare a sue spese la sentenza alle altre parti: in tal caso, il termine per impugnare la sentenza di primo grado non è più di sei mesi dalla pubblicazione, ma di 30 giorni dalla avvenuta notifica della stessa (art. 325). La notifica va fatta al procuratore costituito, salvo che la parte sia costituita personalmente ovvero sia rimasta contumace (in tal caso la notifica va fatta alla parte, nel suo domicilio). 7. Il procedimento di correzione Per quanto riguarda il contenuto, gli errori materiali, le omissioni materiali ed i meri errori di calcolo dovuti ad una semplice disattenzione o svista del giudice nella redazione del provvedimento (sentenze contro le quali non sia stato proposto appello, ordinanze non revocabili e decreti) possono essere corretti mediante un particolare procedimento (artt. 287 e ss.). Con la sentenza della Corte Costituzionale del 10 novembre 2004, n. 335 è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 287 nella parte in cui prevedeva la possibilità di proporre istanza di correzione nei confronti delle sentenze avverso le quali «non fosse stato proposto appello», ritenendosi in contrasto con l’art. 111 della Costituzione l’imporre alla parte di dover ricorrere al più gravoso rimedio dell’impugnazione ordinaria per ovviare ad errori materiali, caratterizzati da una minore gravità, e per i quali si è appunto previsto un rimedio più snello e sollecito. Alla correzione provvede, su istanza di parte, con decreto (se vi è istanza concorde di tutte le parti) o con ordinanza (se la richiesta è avanzata da una sola parte), lo stesso giudice che ha redatto la sentenza. L’art. 391bis (introdotto dalla L. 353/90 e modificato dal D.Lgs. 40/2006) prevede espressamente la possibilità di ricorrere al procedimento di correzione di errori, di cui all’art. 287, sia con riferimento alle sentenze della Corte di Cassazione, sia per le ordinanze pronunciate ai sensi dell’art. 375, comma primo, nn. 4 e 5. La correzione va richiesta con ricorso ai sensi degli artt. 365 e ss. da notificare entro 60 gg. dalla notifica della sentenza o entro l’anno dalla pubblicazione della stessa. Il procedimento relativo alla correzione degli errori delle sentenze della Corte di Cassazione si svolge secondo il rito camerale di cui all’art. 375. La Corte provvede in camera di consiglio secondo le regole procedimentali di cui all’art. 380bis decidendo sempre con ordinanza. NOTIFICA DELLA CITAZIONE → → Udienza di assunzione dei mezzi di prova (art. 184) Il G.I. procede al controllo della regolare instaurazione del processo, della costituzione e comparizione delle parti, della validità dell’atto di citazione e della domanda riconvenzionale; deve — se del caso — ordinare l’integrazione del contraddittorio, dichiarare la nullità dell’atto di citazione (per vizio della vocatio in ius e/o della editio actionis) con l’adozione dei provvedimenti conseguenziali, concedere un termine perentorio per l’integrazione della domanda riconvenzionale carente, assegnare un termine per la costituzione della persona cui spetta la rappresentanza o l’assistenza o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, disporre la rinotifica dell’atto di citazione al convenuto contumace qualora ravvisi la nullità (e non l’inesistenza) della prima notifica fissando una nuova udienza di trattazione (prevista anche qualora le parti ne facciano richiesta congiunta onde consentire al giudice di procedere al libero interrogatorio e al tentativo di bonario componimento (art. 185). N.B. Il box tratteggiato evidenzia le modifiche apportate dalla L. 18-6-2009, n. 69. e, dal 4-7-2009, anche la incompetenza per materia, valore e territorio Il convenuto deve proporre a pena di decadenza nella comparsa di risposta, costituendosi nei termini, le eventuali domande riconvenzionali e la richiesta di autorizzazione a chiamare un terzo e contestuale differimento della prima udienza [nonché le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio] Prima comparizione delle parti e trattazione della causa (art. 183) → → Attore: entro 10 gg. dalla notificazione della citazione Convenuto: almeno 20 gg. prima dell’udienza di comparizione → Udienza di precisazione delle conclusioni (art. 189) FASE DECISORIA (artt. 275-281) (causa decisa del Collegio): 1) il G.I. rimette la causa al Collegio; 2) scambio delle comparse conclusionali entro 60 gg. e delle memorie di replica nei successivi 20 gg.; 3) su istanza di una parte al G.I. (da reiterarsi al Presid. del Tribun.), scambio delle comparse e delle memorie e successiva ud. di discussione che deve essere fissata dal Presidente entro 60 gg.; 4) la sentenza è depositata in cancelleria entro 60 gg. dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie o dall’ud. di discussione. → FASE DECISORIA (artt. 281quater281sexies) (causa decisa dal giudice monocratico): 1) scambio delle comparse conclusionali entro 60 gg. (abbreviabili sino a 20 gg.) e delle memorie di replica nei successivi 20 gg.; 2) su richiesta di una parte al giudice, scambio delle sole comparse conclusionali e fissazione dell’ud. di discussione entro i successivi 30 gg.; 3) la sentenza è depositata in cancelleria entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie o dall’ud. di discussione → COSTITUZIONE DELLE PARTI Italia - - - 90 gg. Estero - - - 150 gg. TERMINI PER COMPARIRE Il G.I. sollecita i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione (art. 1834); ammette i mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti, fissando l’udienza di cui all’art. 184 per l’assunzione dei medesimi (art. 183, comma 7, prima parte), salva l’applicazione dell’articolo 187 (se ritiene la causa matura per la decisione), oppure, sempre se richiesto dalle parti, concede un primo termine perentorio di trenta giorni, per depositare memorie limitate soltanto a precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni già proposte, un secondo termine perentorio di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dall’altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l’indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali, ed un terzo termine­­sempre perentorio di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria (art. 183, comma 6). L’attore, a pena di decadenza, può proporre le domande nuove e le eccezioni nuove che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dal convenuto, e chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli artt. 106 e 2693, sempre che l’esigenza sia sorta dalle difese del convenuto, mentre entrambe le parti possono precisare e modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate (art. 1835). → Il processo di cognizione Capitolo 6: La decisione della causa (fase «decisoria») 523