Blitz nell’arte figurativa 50. L’Ottocento (6) L’Impressionismo influenzò anche altre attività artistiche, fra cui in particolare la musica. Ma fu nelle arti figurative che la sua vitalità ebbe modo di manifestarsi maggiormente. La possibilità di esprimere un’emozione o un sentimento, senza l’ausilio della ragione e senza per questo incorrere in critiche distruttive, anzi venendone premiati, indusse a produzioni pittoriche numerose e variamente articolate. Soprattutto consentì la scoperta di personalità altrimenti costrette al silenzio. L’atmosfera culturale di metà-fine Ottocento era favorevole alla valorizzazione degli stati d’animo, solitamente portati all’ottimismo per il buon andamento del mondo borghese. Gli Impressionisti, liberi dagli impegni dogmatici iniziali, ovvero auto-liberatisi dagli stessi, furono in grado di proporre numerose considerazioni nelle quali l’elemento umano è centrale. Il dato di fondo è in genere rappresentato da una sorta di estraneazione romantica con cui s’intende incidere sulla realtà oggettiva con l’intento, palese o nascosto, richiamandosi al vigore del sentimento e della sensibilità, di sensibilizzare gli animi verso argomentazioni ideali. Camille Pissarro (1830-1903) fu essenziale per gli Impressionisti. Aveva l’aspetto di un profeta, possedeva un carattere amabile e ben presto trovò una collocazione nel movimento quale punto di riferimento per la sua tenuta. Pissarro era nato nelle Antille (allora Antille danesi, oggi Isole Vergini americane), Per qualche tempo fece il commesso nel negozio di merceria del padre, poi fuggì in Venezuela, dove si mise a dipingere. Raccolse del denaro e fu a Parigi, all’École des Beaux Arts, quindi all’École Suisse, dove conobbe Monet. Ammirava Courbet, Daubigny, Corot. Espose al Salon con scarso successo, quindi al Salon de Refusés nel 1863. Continuò il percorso impressionista per tutta la vita, prediligendo paesaggi e panorami. La sua pittura è quasi materica, gli effetti denunciano una malinconia volutamente ingenua, una nostalgia per le cose che periscono, per la bellezza effimera che pure colpisce l’occhio e la mente in modo indelebile. Si veda questo “Effetto neve vicino a Pontoise” anno 1879, olio su tela cm. 54x65, collezione privata, Svizzera. E si noti l’intensità di questo “Orto a Eragny”, anno 1897, olio su tela cm. 60x73, Collezione privata, Usa. Pissarro, scopritore di Van Gogh, fu molto amico di Jean-Baptiste Guillaumin, uno sperimentatore curioso (piaceva a Cézanne), una fantasia brillante, sovente dispersiva. Rispettosa del tutto e romantica, è la pittura di Alfred Sisley (1839-1899), nato a Parigi da genitori inglesi (il padre commerciava in fiori artificiali). Sisley non divenne mai cittadino francese, nonostante i suoi numerosi tentativi. Ebbe un inizio facile, grazie ai soldi della famiglia. Fu nello studio di Gleyre (allora noto e apprezzato) ma presto se ne staccò, accompagnandosi a Renoir, Monet e Bazille negli esercizi en plein air a Fontainebleau e nei dintorni. Comprerà una casa lì vicino, a Moret-sur-Long, dove morirà a soli 59 anni, un anno dopo la moglie. Dopo gli anni della spensieratezza e dell’agiatezza, Sisley fu privato di ogni sussidio, nel 1871, a causa della guerra franco-prussiana e del fallimento del padre per investimenti sbagliati. Il nostro pittore finì nelle mani compassionevoli del mercante DurandRuel e in quelle di Georges Petit, faticando parecchio a sopravvivere. Nel 1896 gli fu organizzata una retrospettiva nella quale furono esposte 52 sue opere (46 dipinti a olio e 6 pastelli) ma non ne fu venduta neppure una. Un viaggio in Inghilterra l’anno successivo andò invece abbastanza bene. Il nostro artista riuscì a trovare un certo sollievo a partire dal 1890 quando fu accettato come membro della Società nazionale di belle arti. Sisley partecipò a sette mostre degli Impressionisti, mancò all’ottava, come tanti altri. Il gruppo, del resto, non aveva più ragione di stare insieme. Ognuno faceva proprie ricerche da qualche tempo (e propri affari) esponendo in personali. Il nostro artista dipinse praticamente solo paesaggi, nei quali esalta la natura di cui ama ogni richiamo. Sisley insegue una sorta di armonia mistica, ritenendosi sempre a un passo dal conseguirla. Per ironia della sorte, un anno dopo la sua dipartita, un suo quadro (il secondo proposto), “Inondazione a Port Marly”, anno 1876, olio su tela cm. 46x55, Museo delle Belle Arti di Rouen, fu venduto al conte Isaac de Camondo, grande collezionista del tempo, al prezzo di 43.000 franchi (Sisley l’aveva venduto per 180). Il conte aveva dato retta al critico Adolphe Tavernin, non a Octave Mirbeau (implacabile detrattore del pittore). Il primo quadro è un vertiginoso filare di alberi, eseguito con grande cura (e passione) nel 1873: “Sentiero a Louveciennes”, olio su tela cm. 38x65,6, Museo d’Orsay, Parigi. Animato da sincera simpatia per il genere umano e le sue vicende è l’impressionismo di Berthe Morisot (1841-1895). C’è nelle sue opere una tenerezza commovente, vera. Centrale è negli Impressionisti la sospensione delle cose in una sorta di limbo ideale, dove l’ammirazione per esse è segno di una preoccupazione essenziale per la loro rovina, come se l’immagine potesse sfuggire e dissolversi sotto i propri occhi senza averla potuta fissare decentemente. La Morisot trattiene con forza questa sfuggita involontaria e la tesaurizza infondendole dolcezza infinita. Lo testimonia forse il suo quadro migliore: “La culla”, anno 1872, olio su tela cm. 56x46, Muso d’Orsay. L’opera ritrae la sorella Edma concentrata sulla figlia Blanche dormiente. La Morisot era di famiglia benestante che le permise di realizzare la sua ambizione: dipingere. Suo padre, prefetto, l’aveva portata a Parigi nel 1852 da una regione centrale della Francia (Cher). La ragazza conobbe Fantin-Latour, Corot, Manet e altri. Essendo donna non fu ammessa alla Scuola di belle Arti, ma fu accettata dal nuovo movimento degli Impressionisti. Espose con Durand-Ruel e con Petit, due galleristi allora famosi, insieme a Vollard; espose sia in Francia sia negli Stati Uniti. Sposò il fratello di Manet, Eugéne, per stare il più possibile vicino all’artista di cui, pare, fosse perdutamente innamorata. Insieme al marito finanziò l’ultima mostra degli Impressionisti nel 1886, l’ottava. Americana (della Pennsylvania), spesso in viaggio, e infine approdata a Parigi, attratta dalla pittura di Degas, Mary Cassatt (1844-1926) è una specie di unicum per l’originalità di alcune sue opere. Quest’ originalità consiste nel taglio della scena, semplice ed essenziale, e nella estrema chiarezza dei colori, forse a significare una scoperta o una rivelazione. La figura umana, le cose, l’atmosfera dipendono da un sentire la realtà viva, incombente, sul momento di farsi e di partecipare all’avvenimento. La Cassatt sta in un angolo e osserva, osserva tutto, nulla le sfugge e dunque non può sentirsi esclusa dalla realtà. Il coinvolgimento la rende sin troppo cosciente della labilità del tutto. Ma intanto c’è da registrare una vicenda solare che fa secondaria ogni preoccupazione interpretativa. Due opere del suo periodo d’oro: “Donna al bagno”, anno 1890-91, olio su tela cm.43,5x30, Brooklyn Museum, New York. Divenne una stampa, nelle mani di Durand-Ruel, per il mercato americano. E “The boating party”, anno 1893-94, olio su tela cm. 90x118, National Gallery of Art, Washington. La Cassatt fu amica di numerosi Impressionisti, dopo aver conosciuto un periodo neo-classico sia in America sia in Francia. Da giovane aveva viaggiato cinque anni per il Vecchio Continente (il classico viaggio di formazione dei figli della gente americana abbiente), si era trovata a suo agio con Degas, di cui forse s’invaghì, e con Renoir, con Pissarro. Infine, con Berthe Morisot di cui ammirava la straordinaria tenerezza pittorica. Figlio d’arte (il padre Pietro e il nonno Luigi, neoclassici, furono incaricati di realizzare la tomba di Tiziano nella Chiesa dei Frari a Venezia), Federico Zandomeneghi (1841-1917), nacque a Venezia, studiò disegno nella sua città, poi a Milano. Fui tra i Mille di Garibaldi nel 1860 e nel 1866 partecipò, sempre con Garibaldi, alla III Guerra d’Indipendenza. Fra il 1866 e il 1874 viaggiò fra Firenze, Venezia e Roma. Ebbe contatti con i Macchiaioli, di cui apprezzava l’immediatezza (apparente) e la disinvoltura. Attuò una pittura originale, sposando la macchia al senso del colore tipico dei veneziani. Divenne noto grazie ad un articolo pubblicato nel 1871 da Pompeo Molmenti su “L’Arte in Italia” in cui viene definito un valido realista. Zandomeneghi nel 1874 va a Parigi senza un programma, pensando di rimanerci qualche settimana, invece vi rimarrà per tutto il resto della vita. Divenne amico di Renoir e di Degas. Dal secondo apprese l’essenzialità, l’emblematicità. Il nostro pittore espose nel 18790 con gli Impressionisti. Nel 1880 il critico Diego Martelli fece conoscere il movimento in Italia e citò Zandomeneghi, lodandolo. Dopo un’ulteriore esperienza en plein air con Guillaumin e dopo un periodo forzatamente sabbatico in cui licenziò disegni di moda, l’artista veneziano riuscì a farsi accettare dai galleristi Durand-Ruel e Petit. Nel 1888 espose nella sezione italiana dell’Esposizione Universale di Parigi. Negli ultimi tempi lavorò alacremente, avendo come riferimento principale (ma senza alcun servilismo) Degas. I due mancarono nello stesso anno. Zandomeneghi fu trovato senza vita nel suo studio. A differenza di Boldini, egli fu attratto dalla vita umile del quartiere di Montmartre, ritraendo preferibilmente persone semplici, intente in faccende quotidiane, “colte sul fatto”. La sua è una pittura serena, le sue impressioni sono genuine e, come spesso accade fra gli Impressionisti, rispettose del genere umano, in qualunque modo si presenti. Si propongono tre opere della Collezione Mondadori, custodite dal Museo Civico del Palazzo Tè di Mantova: “la cuoca” anno 1881, olio su tela cm. 46,5x75,5; “Fantasticheria”, anno 1900 ca., olio su tela cm. 38,5x46 e “Il compito”, anno 1912, pastello su carta applicata su cartone cm. 41x33. Zandomeneghi adorava i pastelli, come Degas. Spirito indipendente, contrario agli schemi, nemico dell’accademismo, Giuseppe De Nittis (18461884) di Barletta, ben presto orfano di padre, fu allevato dai nonni paterni, che si opposero alla sua volontà di diventare pittore. De Nittis s’iscrisse invece all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, studiò con il vedutista Smargiassi, due anni dopo fu allontanato dall’istituto per indisciplina: a questo punto l’artista fugge a Roma (dove nel 1865 fonda la Scuola di Resina (Portici) con alcuni amici, e adotta la pittura en plein air). Fece una specie di giro d’Italia, per migliorare la sua tecnica, ed entrò in contatto con i Macchiaioli, accettando una sorta di tutela da parte di Adriano Cecioni, di dieci anni più vecchio di lui e di cui seguì i consigli. Nel 1867 fu a Parigi, sposò Léontine Lucile Gruvelle, sua musa e suo riferimento (la donna era molto intelligente) nei rapporti sociali e commerciali. L’Impressionismo lo colpì, aggiunse qualcosa alla sua abilità. In breve divenne un beniamino del pubblico femminile, grazie all’abile mercante d’arte Adolphe Goupil. La sua pittura elegante, raffinata, ebbe un notevole successo. De Nittis è un grande talento naturale e ha avuto la costanza di seguire il proprio estro. Realismo e Impressionismo entrarono a viva forza nella sua pittura, ma furono domati entrambi. Alla fine, è la personalità di De Nittis che s’impone. Egli ha una pittura rapida, fatta di schizzi, che tuttavia produce visioni ben strutturate, solide e nel contempo aeree. La lirica romantica entra anche qui – ed è inevitabile, nonché utile – ma è ben posta nella sontuosità del disegno, nei suoi tratti essenziali, nella resa che è viva e spettacolare. De Nittis è per la sintesi ed è per i palpiti sottotraccia che la sua mano ispirata sa evocare. C’è nel nostro pittore una sorta di sapienza antica, di saggezza per così dire naturale che guida le immagini verso una logica trasognante e allo stesso tempo robusta, incisiva. Fra le sue opere migliori, certamente c’è l’olio su tela cm. 92,3x75, anno 1875, Museo d’Orsay, Parigi e intitolato “Piazza delle Piramidi”: visioni attente, acute, riportate con precisione e immerse in un’atmosfera straordinaria, quasi sopra la realtà. La Belle Epoque, verso la fine dell’Ottocento, conobbe la prima crisi industriale. Si produceva più di quanto si consumava, considerando, naturalmente, l’interesse derivante dalla vendita di beni ai quali la massa non poteva accedere. Le lotte sociali, intanto, si facevano serie e il sistema dovette tenerne conto. Ricavò, da certe concessioni, vantaggi che non si aspettava, mentre nel contempo l’ingegneria finanziaria tentava di arginare la crisi, dalla quale l’Europa uscì rapidamente, o meglio si fece in modo di farla uscire. La ripresa, vale a dire lo scampato pericolo, rassicurò le classi benestanti che festeggiarono ingaggiando bravi pittori per farsi ritrarre in pose trionfalistiche. Aristocratici e grassi borghesi non lesinarono denaro per far contente le loro donne e per dimostrare a se stessi e all’ambiente in cui vivevano che il benessere non sarebbe mai terminato, anzi sarebbe aumentato all’infinito, grazie alla loro abilità. Fra i molti, due sono i pittori che forse rappresentarono meglio quei momenti, nello sguardo, nello sfarzo, nel portamento delle dame: Giovanni Boldini e Sargent. Giovanni Boldini (1842-1931) era di Ferrara. Col padre Antonio aveva affrescato il locale Teatro del Palazzo dei Diamanti, scoprendo i grandi pittori ferraresi quattrocenteschi e soprattutto apprezzando Dosso Dossi e il Parmigianino. Dal secondo prenderà l’eleganza. Studiò quindi a Firenze, all’Accademia delle Belle Arti, venendo in contatto con Stefano Ussi (pittore di soggetti storici e ritrattista accademico) ed Enrico Pollastrini (un buon pittore accademico). Ebbe contatti con i Macchiaioli. Nel 1866 Boldini fu a Napoli con l’amico Cristiano Banti (un Macchiaiolo diligente, dopo aver lasciato il neoclassicismo). Fece un viaggio a Londra nel 1870, tornò dopo pochi mesi a Firenze e infine andò a Parigi. Era il 1871. Scoprì gli impressionisti ma Boldini non fece mai parte del movimento. Egli era una sorta d’impresario di se stesso, univa abilità è capacità imprenditoriale, grazie all’appoggio che gli dava colui che era diventato il maggior mercante parigino, Goupil. Boldini divenne presto il pittore alla moda, veniva strapagato, aveva una velocità d’esecuzione prodigiosa. Conobbe Adolph von Menzel, un pittore tedesco allora molto in voga (che ritrasse): era, costui, un iperrealista ante litteram, quindi Anders Zorn (un romantico in qualche modo originale) dal quale, pare, imparò i vantaggi delle grandi dimensioni. Secondo il critico Diego Martelli, era impossibile non incantarsi di fronte alle opere di Boldini. Martelli sapeva che era tutta una finzione, una specie di gioco di prestigio, ma pure accettava, attratto da quella grande eleganza formale. In effetti, la bravura tecnica, la virtù della raffinatezza, il senso scenico sono cose che fanno passare in secondo piano l’esecuzione sopra le righe, l’enfasi: Boldini è veramente bravo a nascondere i suoi limiti speculativi. D’altro canto, i tempi frivoli non sostengono impegni troppo intellettuali. Il nostro pittore è pago dei ricavi materiali. La sua libertà sta nel compiacimento dei suoi svolazzi: essi sono pieni di energia che, pazienza, si perdono nell’aria. Quanto sia bravo in tutti i sensi, quando sente il soggetto, è dimostrato dal “Ritratto di Giuseppe Verdi”, un pastello di cm. 65x54, anno 1886, custodito dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Si dice l’abbia fatto in sole cinque ore (o meglio rifatto, perché il primo non gli era piaciuto). Frivolezza affascinante è “Attraversando la strada”, anno 1875, olio su tavola cm. 45,9x37,5, collezione privata: plasticismo realista, colore, freschezza. Di una certa intensità (giocosa) “La signora in rosa, ritratto di Olivia de Subercaseaux Concha”, anno 1916, olio su tela cm. 163x113, Museo Boldini, Ferrara. Di sé, John Singer Sargent (1856-1925) diceva di essere un americano nato in Italia, educato in Francia che parla inglese, sembra un tedesco e dipinge come uno spagnolo. Era, infatti, nato a Firenze da genitori americani. Giovanissimo, mostrò grandi doti di disegnatore e fu avviato alla carriera pittorica. Già nel 1873 era all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, con Carroll Beckwith (vedutista e ritrattista americano) sotto la guida di Carolus Duran (un buon accademico e un ottimo insegnante). Più tardi conobbe la pittura degli Impressionisti. Sargent apprezzò questi ultimi, ma anche lui come Boldini non ne divenne un seguace, preferendo, nel suo caso, la pittura di Michetti e Mancini (votate a un realismo patetico) e più tardi ancora di più quella di Velazquez e Hals. La sua esposizione al Salon fu un disastro. Sargent allora andò a Londra, nel 1886, e aprì uno studio nel quartiere di Chelsea. Fece qualche viaggio negli Stati Uniti per commercializzare i suoi quadri, infine fu attratto da Venezia, città di cui s’innamorò e che riprese in molti acquerelli. A differenza di Boldini, l’eleganza di Sargent non è mai ostentata. Il nostro pittore tenta anche indagini psicologiche dei personaggi ritratti, finendo col trovare un certo equilibrio fra forma e significato. Per quanto intriganti, pieni di atmosfera, gli acquerelli sembrano inferiori ai quadri ad olio. Sargent si trova più a suo agio con la definizione dell’immagine, cosa che non vuole perseguire con l’acquerello e che lo porta a forzare le intenzioni. Qui abbiamo: “Lady Agnew of Lochnaw”, anno 1893, olio su tela cm. 127x101, National Gallery of Scotland, Edimburgo; “Rio dell’Angelo”, anno 1902, acquerello su carta cm. 25x35 ca., Museo Correr, Venezia e il deliziosissimo “Uscita dalla chiesa, Campo S. Canciano, Venezia” anno 1882, olio su tela cm. 55,9x85,1, collezione privata. Discorso a parte per Vittorio Matteo Corcos (1859-1933), pittore solare, molto dotato tecnicamente, gran disegnatore e splendido colorista. Corcos, livornese di famiglia ebraica, fu un virtuoso dell’immagine di cui apprezzava l’esteticità, ovvero la trasmissione di pensieri e sentimenti attraverso il bello della figura, come se l’artista volesse costruire un mondo ideale esplicito e implicito da mostrare come esempio luminoso di virtù morale su cui poter contare. Il nostro pittore fu presto allievo dell’Accademia delle Belle Arti di Firenze, conobbe Domenico Morelli, da cui imparò a fare i ritratti. Sono impressionanti, iperrealistici, quelli che lo riguardano, cioè gli autoritratti. Quello riprodotto è del 1913, olio su tela cm. 55,5x48, Galleria degli Uffizi, Firenze. Nel 1880 era a Parigi, dove firmava un contratto con Goupil, valido quindici anni. Quindi, nel 1887 a Firenze sposò Emma Ciabatti, ben introdotta nell’ambiente letterario. Corcos conobbe Carducci e D’Annunzio ed entrò nel mondo aristocratico ebraico e quindi aristocratico tout court. Nel 1904 eccolo impegnato con i ritratti importanti: Guglielmo II di Germania, l’imperatrice, e altre tele per alti personaggi tedeschi. Poi il ritratto di Amelia del Portogallo, infine quello di Margherita di Savoia. Corcos fu molto ammirato a Parigi, dove divenne un pittore molto ricercato, quasi alla pari di Boldini e di Sargent. La sua è una pittura con carattere. Prevale una certa finzione, per via della vocazione decorativa derivata dalle richieste della committenza, ma non mancano cenni di sincerità dovuti a passione personale e indipendenza di pensiero, talvolta un pensiero avanzato, com’è nel caso dell’opera “Sogni”, anno 1896, olio su tela cm. 160px135, museo Nazionale d’Arte Moderna, Roma. La modella è Elena Vecchi, la figlia di un suo amico pittore e suo amore non si sa quanto segreto. La donna è sicura di sé, guarda con aria di sfida. È orgogliosa e cosciente della propria personalità. Forse il miglior quadro di Corcos, il più vivo e coraggioso.