A colloquio con l`urbanistica italiana

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Gemma Belli
A colloquio con l’urbanistica italiana
Gemma Belli è architetto, PhD in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica
presso l’Università di Chieti-Pescara “Gabriele d’Annunzio” e ricercatore in
Storia dell’Architettura presso il Dipartimento di Architettura dell’Università
di Napoli “Federico II”. Ha insegnato presso l’Università “Mediterranea”
di Reggio Calabria e attualmente è docente di Storia dell’Urbanistica
moderna nel corso di laurea in Urbanistica Paesaggio Territorio e Ambiente
dell’Università di Napoli “Federico II” . Oltre a numerosi saggi in opere
collettanee è autrice dei volumi: Luigi Moretti. Il progetto dello spazio sacro
(2003); (con F. Mangone) Posillipo, Fuorigrotta e Bagnoli. Progetti urbanistici
per la Napoli del mito, 1860-1935 (2011); (con F. Mangone) Capodimonte,
Materdei, Vomero. Idee e progetti urbanistici per la Napoli collinare, 18601936 (2012); (con A. Belli) Narrare l’urbanistica alle élite. «Il Mondo» (19491966) di fronte alla modernizzazione del Bel Paese (2012). È inoltre curatrice
del volume (con F. Mangone e M.G. Tampieri) Architettura e paesaggi della
villeggiatura in Italia tra Otto e Novecento (2015).
Gemma Belli
A partire dalla fase del “miracolo economico”, in una
società che si apre ed è attraversata dal flusso della cultura
internazionale, Bernardo Secchi, Francesco Indovina, Luigi
Mazza e Pier Luigi Crosta evidenziano un impegno comune
nell’affrontare e nel trasformare la tradizione ereditata,
cercando di rintracciare le molteplici provenienze dei tanti
saperi “praticati” e accolti in oltre mezzo secolo.
Essi svolgono un’azione “cumulativa” fortemente
interconnessa, presidiando posizioni ben distinte ma tutte
indispensabili a definire una sorta di urbanistica “polifonica”,
basata su apporti essenziali e imprescindibili per una
moderna cultura disciplinare.
Per la storia di una nuova tradizione
A colloquio con
l’urbanistica italiana
Interviste a
Bernardo Secchi, Francesco Indovina,
Luigi Mazza e Pier Luigi Crosta
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Indice
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È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-554-6
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
7 A colloquio con l’urbanistica italiana
Per la storia di una nuova tradizione
19 Ventitré domande a
Bernardo Secchi
41 Ventuno domande a
Francesco Indovina
73 Ventuno domande a
Luigi Mazza
87 Ventuno domande a
Pier Luigi Crosta
111 Schede biografiche
in copertina
London, social & functional
analysis, in J.H. Forshaw,
P. Abercrombie, County of London
Plan prepared for the London
County Council, Macmillan and co.
Limited St. Martin’s Street,
London 1943.
A colloquio con l’urbanistica italiana
Per la storia di una nuova tradizione
Per uno storico della contemporaneità la narrazione dei discorsi
urbanistici in Italia si presenta con un’intrinseca complessità a
causa dell’indubbia difficoltà a penetrare l’intrico delle relazioni
esistenti tra il sapere disciplinare e le istituzioni, tra la politica
e la società. Lungo questa direzione ho mosso primi passi in
alcuni lavori incentrati sull’apporto di due figure decisamente
significative, benché molto diverse tra loro: Luigi Piccinato1 e
Antonio Cederna2. In entrambi i casi, però, le letture, sono rimaste interpretazioni di individualità, nonostante lo sforzo di
inserire i soggetti nei relativi e peculiari contesti.
Con le interviste qui presentate, l’intenzione è differente. Il proposito è cogliere nei discorsi di quattro autorevoli esponenti
della disciplina una dimensione collettiva del “fare urbanistica”
manifestata nella seconda metà del Novecento e nei primi anni
del Duemila, con la sua specifica ampia dimensione e sfocatura. L’obiettivo è osservare come, pur nelle significative differenze che intercorrono, il contributo comune ai protagonisti interpellati consista nell’impegnarsi ad affrontare e a trasformare la
tradizione ereditata dai «Padri» e dai «Santi Padri»3, cercando di
rintracciare le molteplici provenienze dei tanti saperi “praticati”
e accolti in oltre mezzo secolo, dall’inizio della loro formazione
nella seconda metà degli anni Cinquanta, fino a oggi. Lavoro
che è alla base di una nuova tradizione, offerta oggi in eredità
alle nuove generazioni.
La rappresentazione delle rispettive risposte è qui condotta in
un’ottica intenzionalmente diversa da altre proposte in precedenza. Diversa da quella composta da Paola Di Biagi e Patrizia
Gabellini, che in Urbanisti italiani hanno raccolto i contributi
7
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
di una variegata collezione di intellettuali, appartenenti a più
generazioni, con percorsi differenti, talvolta anche poco connessi tra loro, mettendo in evidenza la complessità dei materiali
prodotti (piani, progetti, proposte legislative, scritti)4. E ancor
più diversa da quella proposta con I classici dell’urbanistica
moderna 5, il cui proposito dichiarato era quello di «leggere, o
rileggere, i libri degli urbanisti, quelli scritti da urbanisti e che
appartengono agli urbanisti e alle loro metaforiche biblioteche,
[azione che] aiuta a rinnovare le tradizioni che hanno dato forma all’urbanistica»6. Diversa, ancora, dalla visuale fornita da Attilio Belli riguardo agli «inizi dell’urbanistica in Italia»7, costruita
sul passaggio tra due generazioni, quella di Giovannoni «iniziatore», e quella di Piccinato «codificatore», che condensano
quasi interamente gli apporti significativi di quegli anni.
In questo libro, infatti, le quattro interviste raccolte cercano di
mettere a fuoco il contributo di una generazione di urbanisti
nata negli anni Trenta e formatasi “all’interno di un circuito universitario ben delimitato; una generazione che propone un discorso individuabile a partire dalla fase del “miracolo economico”, in una società che si apre ed è attraversata dal flusso della
cultura internazionale, in un’azione “cumulativa” fortemente
interconnessa, presidiando posizioni ben distinte ma tutte
indispensabili a definire una sorta di urbanistica “polifonica”,
basata su apporti essenziali e imprescindibili per una moderna
cultura disciplinare.
La tensione che mi ha mosso nella composizione e organizzazione dei quattro colloqui è dunque in sintonia con la suggestione a uscire dall’orizzonte dei racconti basati sul protagonismo individualista per evidenziare il carattere “cumulativo”
del sapere urbanistico, aspetto cui ha sovente fatto riferimento
Bernardo Secchi, anche nelle risposte alle domande che gli ho
posto. Tale attenzione verso un’elaborazione cumulativa e comune mi ha, pertanto, guidato nell’individuazione delle figure dei quattro intervistati, ognuno dei quali si propone come
espressione di una posizione forte dell’urbanistica: Mazza, il
piano; Secchi, il progetto; Crosta, le politiche; Indovina, il terri8
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
torio come espressione del conflitto. Per comporre un’immagine più completa della modalità italiana di configurare il governo del territorio avrei desiderato includere anche un’intervista
ad Alberto Magnaghi, che però non sono riuscita a realizzare.
L’interpretazione del sapere come “cumulativo” va orientata
verso quella di un sapere “reticolare” di posizioni che, nelle
specificità e nelle differenze, si accompagnano, si sostengono,
si completano, si influenzano reciprocamente, e contribuiscono
insieme a conferire all’urbanistica italiana del nuovo millennio
una nuova corposità. Con momenti di diverso affiancamento,
che da taluni potrebbero essere letti come nettamente distinti,
addirittura contrapposti, ma che con uno sguardo retrospettivo
appaiono come solidali, gli apporti individuali dei quattro urbanisti interagiscono fortemente, esprimendo uno sforzo collettivo capace di fornire un senso convergente all’aggiornamento
disciplinare.
I protagonisti delle interviste nascono tutti nella seconda metà
del Ventennio fascista; e vivono quindi bambini la Seconda
guerra mondiale, e giovanissimi la ricostruzione post-bellica.
Cominciano a studiare quando l’Italia è oggetto di una decisa
influenza culturale americana8. Infatti, a partire dalla costruzione di una consapevolezza dell’originalità del proprio modello
socio-culturale, estensibile all’intera società occidentale, nel
dopoguerra gli Stati Uniti esportano l’american way of life, il
cui impatto sul nostro paese si rivela imponente, investendo
cultura, valori, ideologie e obiettivi sociali. Definiscono così un
quadro complessivo in cui gli intellettuali italiani o scelgono
di abbracciare la nuova linea, con una disposizione positiva,
oppure si impegnano a cercare nuovi modelli interpretativi del
conflitto di classe, al di là o al di qua della società opulenta.
I quattro protagonisti delle interviste si affacciano agli studi
universitari negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’urbanistica era una disciplina «[…] invasiva che tendeva ad assorbire e a riferire in sé la maggior parte dei problemi della società
europea. [Ma era anche una disciplina] che godeva di grande
9
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
prestigio […]. Lo studente bien rangé, ben educato, frequentava allora i corsi di Samonà ed era spinto a visitare i luoghi della ricostruzione post-bellica con occhio critico, interrogandosi
sulle ragioni per le quali la città europea avesse mancato un
appuntamento tanto importante con le idee, le proposte e i progetti dei “pionieri dell’architettura moderna”; leggeva Benevolo, assisteva alle sue polemiche con Aymonino e si interrogava
sul posto dell’urbanistica nella società, sulle sue relazioni con la
sfera del “politico”; leggeva e discuteva con Campos Venuti ed
era indotto a considerare l’ineludibile dimensione “amministrativa” di ogni progetto per la città, […] era spinto a seguire da vicino le imprese intellettuali di De Carlo e di Quaroni nel cercare
di dare forma e senso unitario a una città che per la prima volta
[…] appariva una “Torre di Babele” […]»9, complessa da descrivere e addirittura da individuare, cosa che si tentava di fare
spingendosi lungo le direzioni suggerite dalla Regional Analysis. Ma contemporaneamente in Italia lo studente seguiva le
conferenze di Enzo Paci, o i corsi di Mario Fubini, venendo così
anche indirizzato verso una maggiore distanza dalla sfera politica; si interessava alle polemiche sulla lingua tra Italo Calvino
e Pier Paolo Pasolini, frequentava i gruppi delle neoavanguardie
letterarie e artistiche, venendo sospinto a cogliere l’importanza
della dimensione dell’immaginario. Per questo motivo, ha affermato Bernardo Secchi, chi comincia a occuparsi di urbanistica
in quegli anni lo fa in un momento felice, nel quale i problemi
della città appaiono come la conseguenza di un difetto di conoscenze, cosa che stimola un approfondimento e una più acuta
riflessione teorica, definendo il posto dell’urbanista all’interno
di un più ampio lavoro intellettuale entro la società.
I protagonisti delle quattro interviste si trovano a vivere negli
anni Sessanta una diretta “scoperta” dell’America grazie ai
viaggi negli Stati Uniti di molti giovani urbanisti, che aprono
al planning scientifico, alla Regional Science, all’analisi dei sistemi urbani, all’Advocacy Planning. È il momento in cui l’“invasione” americana, spinge la cultura urbanistica italiana ad
ampliare gli orizzonti dell’impianto storicistico e del sapere
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A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
giuridico. Per effetto di questa contaminazione la disciplina entra in tensione lungo più direzioni, distaccandosi dall’idealismo
crociano e cominciando a fare i conti con il pragmatismo e il
neopositivismo americano10, riducendo il peso del sapere legislativo, e inserendo le scienze sociali all’interno del suo campo
di riorganizzazione teorica e metodologica, in una direzione già
additata da Giovanni Astengo nella seconda metà degli anni
Quaranta con gli studi per il piano regionale piemontese, e dal
volume del Ministero dei Lavori Pubblici sulla metodologia dei
piani regionali11. Ma l’urbanistica italiana inizia anche a confrontarsi con concetti nuovi, costruiti in realtà sociali e politiche
differenti, calibrando adattamenti talvolta distorcenti.
È per il paese la fase storica che Guido Crainz definisce di
«grande trasformazione non governata», dove il «modello acquisitivo individuale» proposto dal governo, e in particolare
dalla Dc, rende difficile cogliere appieno il confine tra “normale”
e “patologico”, e in campo urbanistico consacra platealmente
la sconfitta del riformismo12, sancendo l’incapacità di governare
la grande trasformazione del paese. Sono gli anni in cui si inizia a percepire il fenomeno dello sprawl urbano, dell’invasione
della campagna da parte della città, della difficoltà crescente
di riconoscere i limiti della città, e di quella che allora viene
chiamata la “città-territorio”, e più di vent’anni dopo la “città
diffusa”. La ricostruzione del dopoguerra è divenuta l’oggetto
delle critiche più ostinate che investono l’urbanistica moderna
in generale, e quella dei Ciam in particolare. Sono di molto diminuite le sicurezze e le illusioni nutrite dall’urbanista nel decennio precedente, legate all’idea che la debolezza delle teorie
sia la semplice conseguenza di conoscenze limitate. Gli insuccessi che l’urbanistica moderna ha accumulato su vari terreni,
da quello legislativo a quello della costruzione della città in un
momento di forte crescita, non trovano spiegazioni. Né tantomeno possono essere ricondotti a facili racconti nei quali le forze del bene si scontrano con quelle del male; anche se alcuni,
banalmente, finiscono con identificare il male con i cattivi amministratori e gli speculatori, e il bene nei gruppi di base senza
11
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
voce. La «sconfitta dell’urbanistica» - per usare ancora le parole
di Crainz - assume le vesti di una disfatta e il suo progressivo
distacco dall’architettura diventa un atto “doloroso” per chi affonda le sue radici negli studi di architettura. I Sessanta sono
per l’Italia anche gli anni dei fallimenti della legge Sullo e dei
tentativi di costruzione di un Codice dell’Urbanistica, gli anni in
cui tutte le battaglie dell’Inu per una riforma urbanistica sono
continuamente frustrate dai fatti.
Il decennio successivo è notoriamente cruciale per il Paese e
per l’Università, e dei quattro intervistati, Secchi e Indovina appaiono maggiormente coinvolti nelle tensioni politico-sociali.
Il 1972 segna a Milano una svolta nel flusso della contestazione: i temi didattici collegati alla realtà sociale, la sperimentazione del lavoro di gruppo, la progettazione e la pianificazione
urbanistica si scontrano con un’Università bloccata, con sedi
occupate, con dimissioni di presidi, revoche degli incarichi di
insegnamento assegnati sotto la spinta di un’ansia di rinnovamento. Alla deflagrazione generale Secchi contrappone una
risposta politica esterna al “conflitto”: «seminari di studio nei
quali si affrontano i “fatti”, si cerca di comprendere come le
cose funzionano»13. Prolungamento di queste tensioni è l’attenzione che nella seconda metà dei Settanta viene destinata
alle politiche della casa. Il paese è pervaso da due conflitti: uno
“di sistema” in cui si contrappongono stragismo e terrorismo;
e uno di “cittadinanza”, che riguarda le lotte per una diversa
organizzazione della città e il tentativo di una fascia di intellettuali di accompagnarle. Si delinea la contrapposizione tra due
grandi figure di piano. La prima è quella di matrice cederniana
del “piano contro”: «contro la speculazione immobiliare, contro
le leggi o le autorità che la proteggono, contro lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, contro la meccanizzazione
dell’esistenza»14. L’altra è quella del “piano per”, che con la
svolta linguistica e il superamento dell’empirismo logico si apre
all’utilizzazione dell’immaginazione come interpretazione selettiva di percorsi significativi e che, con il diffondersi del clima
culturale della Milano di inizio decennio, accoglie l’influenza
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A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
della lezione di Giulio Preti, nella quale l’intreccio di empirismo
positivista e filosofia della prassi perviene al principio di verificabilità e alla nozione di autocoscienza sensibile, intesa come
esperienza della cosa fisica, gusto della percezione tattile (che
rappresenteranno un orizzonte filosofico per l’elaborazione disciplinare di Bernardo Secchi)15.
Gli anni Settanta finiscono così con il marcare un vero e proprio
spartiacque nella città europea in generale, e italiana in particolare. Se al principio del decennio l’attenzione degli urbanisti è
ancora concentrata sui movimenti dei grandi centri, dei grandi
gruppi sociali, delle grandi istituzioni, delle grandi città, alla fine
l’attenzione si è aperta alle dimensioni del quotidiano, alle pratiche sociali più oscure e ripetitive, alla dimensione corporale
dello spazio urbano. Il rapporto ravvicinato con i cittadini, nel
periodo di maggiore conflitto urbano, conduce infatti gli urbanisti molto più vicino alla consistenza materica della città di
quanto fosse possibile immaginare, portandoli a “scoprire” la
diversità nelle sue diverse forme, e a “riscoprire” la città cosmopolita, nella convinzione che la mescolanza dei diversi possa
essere una ricchezza piuttosto che un ostacolo. Così negli anni
Ottanta la letteratura si intrattiene sulla necessità di osservare
il quotidiano e di apprendere a descriverlo con attenzione: attraverso tale passaggio l’urbanistica si riaccosta all’architettura, soprattutto nell’attenzione al progetto di suolo.
Ma dagli anni Settanta fino alla metà degli Ottanta si impone
anche l’influsso del marxismo e della cultura francese, nella direzione dello strutturalismo, degli studi linguistici (con l’analisi
del discorso e la retorica dell’urbanistica) e della narratologia, del
foucaultismo. Il riferimento teorico al marxismo permette una
presa di distanza critica dai modi in cui il sistema capitalistico
occidentale e italiano si sta evolvendo; e consente di allargare lo
sguardo oltre le relazioni tra capitale e lavoro, investendo anche
altri temi rilevanti dello sviluppo capitalistico occidentale, come
l’uso del territorio. Purtuttavia l’influenza del marxismo, specie
di quello francese, e soprattutto quello di Lefebvre, segue in Italia
un percorso breve e incerto. Si affievolisce infatti quando esso,
13
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
attraversato l’Atlantico, vive una stagione rigogliosa in America16
e conosce poi una stanca eco attraverso le traduzioni in inglese
di testi famosi come La production de l’espace 17.
In questo quadro, Pier Luigi Crosta, Francesco Indovina, Luigi
Mazza e Bernardo Secchi sono urbanisti altamente rappresentativi dello sforzo che il sapere e la pratica urbanistica hanno
affrontato nel dopoguerra in Italia, costituiscono risposte tra
le più forti che le Facoltà italiane hanno offerto in un campo
di competenze che all’inizio degli anni Sessanta si presenta
oggettivamente ancora debole, incarnando punti di riferimento essenziali, diventando formatori di gruppi di allievi che ne
hanno consolidato ed esteso l’insegnamento, fornendo contributi originali e importanti sui rapporti tra società, economia
e territorio, tra costruzione politica e vicende della città e del
territorio.
Ad eccezione di Francesco Indovina, di origini meridionali e
laureato a Palermo, essi sono nati e si sono laureati al nord, tra
Milano e Torino. Nessuno di loro ha svolto tesi di laurea specificatamente urbanistiche; e se per Indovina può risultare piuttosto scontato, avendo studiato Giurisprudenza, negli altri tre
casi la scelta di un tema legato alla progettazione architettonica, è rivelatrice della modesta presa della cultura urbanistica
nell’università italiana di allora.
Nel corso degli anni Sessanta appaiono tutti fortemente legati
alla vita di Milano (Indovina vi si trasferisce poco dopo la laurea), dove convivono le varie anime del capitalismo lombardo,
rappresentate da personaggi molto diversi tra loro come Giangiacomo Feltrinelli, Aldo Bassetti, Vittorio Olcese, Giulia Maria
Crespi, e in cui sono attivi numerosi organismi di ricerca e dibattito, come la Fondazione Feltrinelli, il Club Turati, l’Ilses.
Protagonisti, come intellettuali, professionisti18, accademici,
soggetti impegnati politicamente19, ma anche come acuti osservatori, i quattro intervistati riescono collettivamente ad affermare un senso nuovo per l’urbanistica italiana, assumendo
la città e il territorio come campo di ripartizione delle “luci” e
14
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
delle “ombre”, delle differenze e delle disuguaglianze della società, molto più denso che nel passato: un campo fondato su
una percezione complessa, originale e relativamente autonoma
di realtà urbane specifiche. Un passaggio, questo, che avviene
“rompendo” la dimensione prevalentemente autarchica della
prima metà del Novecento, con un’apertura verso le visioni più
aggiornate, senza indulgere a facili “americanismi”, e fornendo
una risposta alla globalizzazione che interpreta il patrimonio
europeo non come la magica ripresa di una gloriosa eredità,
bensì come il dominio per l’applicazione e per la ricerca di percorsi nuovi rispetto alle domande emergenti.
Da un lato, come reazione alla «disfatta», essi allargano e specificano lo spettro degli interessi dell’urbanistica verso il piano,
verso le politiche, verso il progetto e verso l’analisi del territorio,
ricercando riformismi più solidi; dall’altro, imprimono all’insegnamento universitario una struttura molto più forte.
Dimostrando una sorta di “empatia cosmopolita” aprono anche
le porte degli studi italiani verso la cultura internazionale. Indovina, Mazza e Secchi si rivolgono, infatti, in modi diversi ma
espliciti, soprattutto alla cultura di Francia, Germania e Inghilterra; Crosta, invece, si lega maggiormente alla cultura degli
studi politici americani, accreditando una distinta estensione
dello spettro disciplinare dell’urbanistica, e proponendo alla
cultura italiana delle scienze politiche uno spazio nuovo sulla
città. In ogni caso il contatto con la cultura americana avviene per Luigi Mazza anche grazie all’amicizia e agli scambi con
Paolo Ceccarelli, mentre nei casi di Secchi (per il quale è anche
fondamentale l’incontro in quegli anni con il geografo Edward
Ullman), Indovina e Crosta si attua soprattutto in virtù dei lavori
svolti nell’Ilses, al cui interno al principio degli anni Sessanta
si sperimentano i primi approcci interdisciplinari all’analisi e
alla soluzione dei problemi del territorio e della città, avviando
tra i ricercatori più giovani il processo di aggiornamento che
introduce in Italia l’intero corpo della Regional Science 20.
Crosta, Indovina, Mazza e Secchi non pretendono però di sostituire la cultura nazionale, ma ne propongono una compene15
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
trazione che attinge fortemente a un’interpretazione della città
europea e delle sue specifiche forme di governo, con percorsi
molto diversi, ma in qualche modo di reciproco sostegno, ricavati da realtà (pure spaziali) differenti21.
Anche se Mazza appare maggiormente influenzato dalla cultura “pianificatoria”, è evidente come tutti e quattro abbiano
riservato nel proprio iter formativo una forte attenzione alle
scienze sociali che, permettendo di interpretare la costruzione
della città e del territorio come il risultato di un confronto ininterrotto tra le forme e la distribuzione dei poteri, hanno modificato in profondità l’approccio ai problemi urbani.
Tutti e quattro, inoltre, risultano fortemente legati al ruolo-guida che le facoltà di Architettura di Venezia e Milano svolgono in
quegli anni, dove si formano le nuove leve delle discipline territoriali che in parte troveranno collocazione nel futuro corso di
laurea in Urbanistica di Preganziol, diretto da Giovanni Astengo, e daranno vita ai testi più importanti delle edizioni Marsilio
nonché ai quaderni di «Archivio di studi urbani e regionali».
Tutti utilizzano e promuovono con grande impegno le riviste,
dirigendo prestigiose collane editoriali.
Le interviste sono state condotte seguendo le domande riportate
nel testo, formulate nel gennaio 2014, e in alcuni casi lievemente
integrate nei mesi successivi; esse sono state complessivamente
assunte mediante una corrispondenza mail, più o meno densa,
con gli interlocutori. E vengono pubblicate rispettando l’ordine
e la struttura che gli intervistati hanno voluto seguire: Pier Luigi
Crosta, ad esempio, ha talvolta preferito accorparle, suggerendo
una differente articolazione. Nonostante le domande fossero fitte, in alcuni passaggi ho cercato di muovermi con l’intenzione
di impacciare il meno possibile il tono delle risposte, convinta
dell’opportunità di stimolare quanto più possibile la freschezza
delle narrazioni dei miei interlocutori, al di là di troppo rigide tecnicalità delle interviste nel campo delle scienze sociali22.
La prima domanda, sulle origini del proprio percorso, e l’ultima, sulla valutazione delle differenze e delle assonanze
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A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
con gli altri protagonisti, sono comuni a tutti i colloqui.
La successione che di essi propongo allude a un’intensità
decrescente nel modo di lavorare sulla tradizione, muovendo
dal convincimento che il legame e la fedeltà siano maggiori,
quanto più accentuato è l’impegno a innovarla e a trasformarla,
anche attraverso l’interazione con tensioni multidisciplinari e
il dialogo con molti saperi: «tradizione è un termine ricco, che
fa riferimento a qualcosa di specifico e riconoscibile, dotato di
un certo grado di permanenza; qualcosa appunto che viene
tramandato da una generazione all’altra attraverso informazioni, testimonianze, ammaestramenti ed esempi orali, scritti,
disegnati e costruiti; qualcosa di costitutivo di un insieme di
immagini e di regole...»23. Una tradizione in cui converge la
sollecitazione a superare le narrazioni di un’urbanistica come
espressione di autori eponimi, come risultato di un lavoro individuale, in favore di un’interpretazione di un’urbanistica come
prodotto di un lavoro collettivo e cumulativo, frutto dell’impegno di intere élite. Negli ultimi tempi Bernardo Secchi lavorava
proprio sulla possibilità di definire una tradizione urbanistica
europea, una sua identità nei confronti di quella nordamericana24. Nella consapevolezza che l’Europa rappresentasse solo un
frammento, sosteneva che dai non facili incontri della città europea con altre culture del XX secolo, stesse nascendo, come in
passato, qualcosa di nuovo che avrebbe forse dato i suoi frutti
negli anni a venire25.
Il percorso di lettura proposto parte dunque dalla maggiore attenzione prestata al progetto, anche come modalità decisiva per
la conoscenza e la costruzione della città, del territorio e del reale,
e dall’interesse ad arricchire la forma del piano urbanistico, propri dell’elaborazione di Bernardo Secchi: un rinnovato interesse
per i caratteri fisici della città, costruttivi delle relazioni sociali, comprese quelle economiche, e della loro storia, ricaduta di
aspetti meno tangibili dei processi e delle trasformazioni in atto.
Prosegue, poi, con l’insistenza a rafforzare il piano, quale strumento principe del governo del territorio, in riferimento privilegiato all’esperienza inglese, che connota la posizione di Mazza.
17
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
Continua ancora con l’analisi economica e sociale della città,
volta a cogliere le nuove forme insediative anche in Europa, portata avanti da Indovina. Approda, infine, all’interpretazione delle
politiche urbane come innesto innovativo nel patrimonio tradizionale dell’urbanistica sostenuta da Crosta.
Ventitré domande a Bernardo Secchi
Ventitré domande a
Bernardo Secchi
Purtroppo, il 15 settembre 2014, proprio quando mi accingevo
a riordinare il lavoro in via di conclusione, è improvvisamente
scomparso Bernardo Secchi, il quale sin dalle prime suggestioni aveva aderito con entusiasmo e grande disponibilità a questo progetto. Ciò ha prodotto in me una notevole incertezza
sull’opportunità o meno di pubblicarne l’intervista. Dopo una
lunga riflessione mi sono indotta alla pubblicazione delle sue risposte alle mie domande come mio (piccolo) modo di ricordare
un grande esponente della cultura urbanistica italiana e internazionale, al quale nel frattempo sono stati dedicati numerosi
contributi in memoria26, ma anche come forma di rispetto nei
confronti degli altri tre intervistati ed espressione infine della
convinzione dell’utilità delle loro risposte così “fresche” e contemporaneamente profonde.
Un ringraziamento sentito va a Pier Luigi Crosta, Francesco Indovina e Luigi Mazza per la grande cortesia che hanno voluto
usarmi, per la pazienza che hanno mostrato, rispondendo con
dovizia di dettagli alle mie domande, talvolta forse ambigue, talaltra involontariamente indelicate. Una cortesia bonariamente
affettuosa nel caso di Francesco Indovina, che mi ha conosciuto bambina in virtù dell’impegno politico che negli anni Settanta lo ha legato a mio padre, portandolo a frequentare la nostra
casa nel quartiere di Fuorigrotta a Napoli.
A mio padre, Attilio, va infine un ringraziamento particolare per
essersi lasciato incalzare ad attingere nel “bagaglio” dei ricordi
e della conoscenza dei suoi colleghi e amici.
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A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
1. In Disinventare la modernità27, libro che raccoglie le
conversazioni di François Ewald con Bruno Latour, il primo inizia il colloquio con una domanda molto sintetica e
impegnativa: «Bruno Latour, ci può riassumere il suo percorso?». L’incipit della risposta ci suggerisce il senso che
vorrei attribuire all’avvio di questa intervista. Afferma Latour: «il mio percorso, molto semplicemente, è quello di un
figlio della buona borghesia provinciale borgognona che
abbandona il mestiere paterno di commerciante di vini
per fare filosofia all’università e che, grazie al servizio militare, scopre l’antropologia in un’epoca assai favorevole
all’antropologia africana, e si converte ai metodi empirici
sul campo».
Professore Secchi, potrebbe avviare un racconto simile per sé?
Ho ricostruito il mio percorso in un piccolo testo, scritto nel 2004
quando mi è stato assegnato il Prix Spécial du Jury du Grand Prix
de l’Urbanisme. Il titolo, tradotto in italiano, è: Ho avuto dei maestri 28; era un tentativo di uscire dal protagonismo individualista e
di affermare il carattere cumulativo del nostro sapere.
Molto semplicemente: i miei genitori erano professori entrambi,
lui di greco, lei di letteratura inglese. Sono divenuto urbanista
a causa della mia professoressa di Storia dell’arte in terzo liceo
classico. Allora si usava terminare gli studi e prepararsi alla
maturità con una piccola tesi. La mia professoressa, certamente architetto, mi suggerì di studiare un esempio di architettura
“moderna”, come il QT8 di Piero Bottoni. Così, prendevo la mia
bicicletta e dal centro di Milano, dove abitavo, andavo al QT8 attraversando la parte antica, l’espansione borghese della fine del
XIX secolo, la prima periferia del periodo tra le due guerre, e la
periferia che si stava realizzando durante la ricostruzione postbellica. Arrivavo finalmente al QT8 e mi interrogavo sulle ragioni
di idee così diverse di città. Ne discutevo con la mia professoressa che mi raccontava del Movimento Moderno; ne discutevo
con i miei amici e compagni che non capivano perché la cosa mi
interessasse; seguivo i dibattiti alla Casa della Cultura… ma mai
che si parlasse di città.
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Ventitré domande a Bernardo Secchi
2. Lei si è laureato in Ingegneria a Milano, relatore Giovanni Muzio: in che anno e con quale tesi?
Volevo iscrivermi a Matematica (come fece diversi anni dopo mio
figlio), ma mio padre mi dissuase («finirai col fare il professore in un
liceo!»). La Facoltà di Architettura di Milano era pessima. Ingegneria apparve come una possibile mediazione. Ho amato molto i corsi
di Analisi matematica (Luigi Amerio) e di Geometria (Umberto Gasapina). Passavo le notti sui testi di Analisi con grande godimento
intellettuale. Poi al terzo anno ho incontrato Giovanni Muzio che
ci raccontava il suo incontro con l’architettura di Palladio, quando
era giovane militare durante la Prima guerra mondiale. Andavo a
Venezia ad ascoltare le lezioni di Giuseppe Samonà, di Bruno Zevi
e di Ernesto Nathan Rogers. La cosa era costosa per le mie tasche
di studente, ma avevo molti amici che mi ospitavano. Mi sono laureato nel 1959, diremmo oggi, con un “progetto urbano” su un’area
industriale in via di dismissione a Città Studi e con un progetto più
limitato di un mercato rionale, dove però feci (ero ingegnere) un primo esperimento di struttura resistente per “forma”. Tutto sommato,
benché non sopportassi il pragmatismo cieco dei miei compagni di
studi (quelli che dal primo giorno di scuola sapevano già cosa serve
e cosa non serve), mi sono divertito.
3. Come è avvenuto il suo contatto con la cultura americana, in un’Italia che in quegli anni si apriva alle scienze
sociali?
Il primo incontro, ai tempi del liceo, è stato con la letteratura
americana; un incontro contemporaneo a quello con Gramsci
(mal pubblicato allora nell’edizione “tematica” di Togliatti-Giarratana). Ma poi il vero incontro è stato come dirò, dopo laureato, all’Ilses (Istituto lombardo per gli studi economici e sociali)
dove ero ricercatore (mentre contemporaneamente ero assistente di Muzio al Politecnico). All’Ilses, diretto da Angelo Pagani,
passavano tutti i maggiori studiosi del momento: economisti
come Franco Modigliani, sociologi come Gino Germani, politologi come Edward C. Banfield. L’Ilses è stata la mia fortuna (sono
sempre stato molto fortunato) e il mio “viaggio di formazione”.
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A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
4. Nel 1960 lei ha collaborato con Alessandro Pizzorno all’indagine sul comune di Rescaldina, una cittadina vicina a Legnano nell’Alto milanese 29. L’indagine era parte degli studi
di comunità sviluppati in quegli anni da Manlio Rossi Doria,
Franco Ferrarotti, Guido Vincelli, Anna Anfossi, Magda Talamo e Francesco Indovina. La sua collaborazione avveniva
con Umberto Dragone della società di consulenza Tekne,
con la quale lei ha lavorato anche al piano dell’Italsider di
Taranto. Ne vuole parlare?
Del mio contributo a Comunità e razionalizzazione, un po’ mi
vergogno. Totale assenza di distanza critica. Ma quella era l’urbanistica che si insegnava allora nelle nostre scuole. Umberto
Dragone era uno storico di formazione, imbevuto di cultura francese. Mi ha dato parecchio. La Tekne era il modo di sbarcare il lunario, ma era un luogo innovativo e simpatico. Al piano Italsider
di Taranto non ho mai lavorato: ci lavoravano Roberto Guiducci
e Paolo Radogna. Ho lavorato invece al piano della val di Magra
(un piano che considero ancor oggi interessante - era il primo
incontro con la “città diffusa” - e ancora oggi proietto nelle mie
lezioni alcuni schizzi di quel tempo), e ho collaborato al piano
urbanistico del Trentino di Giuseppe Samonà30.
L’incontro con Samonà, alla cui cattedra sono poi succeduto, è
stato fondamentale: si trascorrevano le giornate facendo sopralluoghi e riunioni con i diversi attori; ma era la sera, al ristorante o
in albergo, in una Trento ove non vi era null’altro che il silenzio di
una piccola città di provincia, che si parlava. Per me sono sempre
state importanti le serate passate fuori casa con Samonà, con Vittorio Gregotti, con Manfredo Tafuri, Giorgio Fuà, Edward Ullman,
André Corboz, Alain Léveillé, Georges Descombes e molti altri…
Persone che, essendo in molti casi “fuori casa”, erano disponibili,
e con le quali ho molto discusso a bassa voce, lentamente, con
calma…
5. Nella sua attività di ricerca degli anni Sessanta, l’analisi economica del territorio e la questione della casa occupano un posto preminente. Nel suo Analisi economica
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Ventitré domande a Bernardo Secchi
dei problemi territoriali31 risulta particolarmente marcato
il suo debito nei confronti della ricerca americana delle
scienze regionali. Lei ha anche affermato che queste sue
pubblicazioni non ebbero il debito ascolto. Forse l’ultima
espressione di questo suo interesse è nella seconda parte
de Il racconto urbanistico32. Quali sono i tratti permanenti
di questa stagione, e quale considerazione ha oggi della
ricerca negli Usa?
L’idea che occorresse studiare economia è stata di Muzio. Erano
gli anni del fallimento del tentativo di costruzione di un Codice
dell’Urbanistica, della legge Sullo, della prima consapevolezza
degli errori commessi per e nella ricostruzione post-bellica; del
vicolo cieco nel quale ci si metteva gridando solo contro la speculazione edilizia, senza un’analisi più approfondita dell’intero
sistema economico e sociale del paese. Sono partito per Ancona
dove ho cominciato a studiare con Giorgio Fuà, con Claudio Napoleoni, con Nino Andreatta, Chinchino Compagna e Alessandro
Pizzorno, e dove poco dopo, nel 1965, mi sono trovato a essere
professore. Un’altra tappa del mio “viaggio di formazione”.
Nel frattempo ero entrato anche in un contatto più stretto con
la cultura americana (a Boston, a Salisburgo dove ho conosciuto
Edward Ullman, il geografo, un’altra serie di discussioni serali, e
a Toronto). Il libretto edito da Giuffrè, cui ti riferisci, deve molto
a Ullman. Una piccola nota: mentre dagli Stati Uniti scrivevo ai
miei amici che «gli Usa sono il più ricco dei paesi sottosviluppati», i seminari di Salisburgo, parte della propaganda dell’Usis
(United States Information Service) durante la guerra fredda, erano dei luoghi intellettualmente molto intensi. Lì ho conosciuto,
oltre a Ullman, anche John W. Reps (autore di The Making of Urban America e A History of City Planning in the United States).
Con loro ho discusso molto, insieme a Paolo Sica e Cesare Macchi. Ma debbo riconoscere che la nostra conoscenza della cultura americana era imperfetta: non conoscevamo chi, in quegli
stessi anni, percorreva una direzione diversa, che cominciammo
a conoscere grazie ai grandi movimenti studenteschi americani di quegli anni. Le Scienze Regionali (con Walter Isard, Har23
A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
Bernardo Secchi (Milano 1934-2014)
Si laurea in Ingegneria civile a Milano nel 1959 e l’anno dopo è
assistente di ruolo presso la cattedra di Urbanistica nella stessa
Università. Dal 1966 è libero docente e professore incaricato di
Economia del territorio alla Facoltà di Economia di Ancona, insegnando poi Economia urbana e regionale nel corso di laurea
in Urbanistica dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia dal 1971. Dal 1976 al 1984 è docente di Urbanistica II alla
Facoltà di Architettura di Milano, della quale è anche Preside
dal 1976 al 1982. Di nuovo all’Iuav dal 1984, inizia a insegnare
nel corso di laurea in Architettura, venendo inoltre insignito del
titolo di professore emerito. All’Iuav è anche membro esperto
di alta qualificazione del dottorato in Urbanistica, e coordinatore fino al 2010.
Tiene corsi e seminari presso numerose Facoltà straniere, tra le
quali: l’École d’Architecture di Ginevra, il Politecnico Federale
di Zurigo, l’Università di Leuven, il Berlage Institute di Amsterdam, l’Institut d’Urbanisme di Parigi e l’École d’Architecture
de Bretagne di Rennes. Nel 2004 riceve la laurea honoris causa
dall’Università Pierre-Mendès-France di Grenoble e il Premio
Speciale della Giuria del Grand Prix d’Urbanisme conferito dal
Ministère de l’Egalité des Territoires et du Logement, e nel 2010
la laurea honoris causa dall’Università di Hasselt in Belgio, venendo inoltre insignito del titolo di Chevalier de l’Ordre National de la Légion d’honneur. Nel 2014 è inoltre nominato Socio
de Honor del Club de Debates Urbanos di Madrid.
Nella sua intensa attività professionale partecipa alla redazione di numerosissimi piani e progetti. Tra questi: il nuovo piano regolatore generale di Madrid (1984), i piani di Jesi (19841987), Siena (1986-90), Abano (1991-92), Bergamo (1992-95).
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Schede biografiche
Con Paola Viganò, con la quale ha fondato Studio nel 1990, redige numerosi piani in Italia; vince poi il concorso per la progettazione delle aree a sud di Kortrijk in Belgio nel 1990, lavorando
al piano della città dal 1991 al 1999; si occupa del piano strutturale di Anversa (2003-2005), della Zac Courrouze a Rennes
(2003), e del progetto del sistema di spazi pubblici nel centro di
Mechelen (2004-05). Sempre con Paola Viganò è capogruppo di
una delle dieci équipe selezionate dal Ministero della Cultura
francese per studiare il futuro dell’agglomerazione di Parigi le Grand Pari(s) de l’agglomeration parisienne - nel 2008, ed è
selezionato per lavorare alla costruzione di una vision metropolitana per Bruxelles 2040 nel 2011, per la Nuova Mosca nel 2012
e per Montpellier 2040 nel 2013.
È stato inoltre urbaniste conseil dell’Établissement public Euroméditerranée per la progettazione della parte centrale e portuale di Marsiglia nel 1996 e consulente dell’Autorità portuale
di Genova per la progettazione del piano regolatore del porto
1997-98. Ha partecipato come planning consultant e vinto il
concorso Ecopolis per il progetto di una città nuova in Ucraina
(gruppo diretto da Vittorio Gregotti, 1993).
A partire dal 1960 è stato direttore di ricerca presso l’Ilses
(Istituto lombardo per gli studi economici e sociali); ha fatto
parte del gruppo fondatore e di redazione di «Archivio di Studi
Urbani e Regionali», ha collaborato con «Casabella» dal 1982 al
1996, ha diretto «Urbanistica» dal 1984 al 1991 ed è stato nel comitato scientifico di «CRIOS. Critica degli ordinamenti spaziali»
dal 2011 al 2014.
Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Squilibri regionali e sviluppo economico, Marsilio, Venezia 1974; Il racconto urbanistico, Einaudi, Torino 1984; Un progetto per l’urbanistica, Einaudi,
Torino 1988; Tre piani, FrancoAngeli, Milano 1994; Prima lezione di urbanistica, Laterza, Roma-Bari 2000; La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari 2005; La città dei ricchi e la città
dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2013; Competenza e rappresentanza, Donzelli, Roma 2013.
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A colloquio con l’urbanistica italiana Per la storia di una nuova tradizione
Francesco Indovina (Termini Imerese 1933)
Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1956. Subito dopo segue i corsi dell’Isida (Istituto per imprenditori e dirigenti di azienda) e partecipa a una ricerca diretta da Anna Anfossi
dedicata a Ragusa e le conseguenze della scoperta del petrolio.
Nel 1958 si trasferisce a Milano dove lavora dapprima presso il
Centro studi e ricerche sulla struttura economica italiana nell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, diretto da Silvio Leonardi, e poi dal
1962 all’Ilses (Istituto lombardo per gli studi economici e sociali).
Nel 1964 diventa assistente ordinario di Economia politica nella Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Pavia,
e nel 1971 consegue la libera docenza in Politica economica
e finanziaria. Nello stesso anno si trasferisce come docente al
corso di laurea in Urbanistica appena istituito presso l’Iuav di
Venezia, dove per molti anni dirigerà anche il Daest (Dipartimento di analisi economica e sociale del territorio).
Nel 1981 vince il concorso per professore ordinario di Pianificazione territoriale, insegnando all’Iuav fino al pensionamento
nel 2003, e successivamente alla Facoltà di Architettura dell’Università di Sassari, con sede ad Alghero.
Per l’editore FrancoAngeli inizia a dirigere con Miro Allione
la collana “Economia” nel 1964 e la collana “Studi urbani e regionali” dal 1972. Ha partecipato alla fondazione delle riviste
«Archivio di studi urbani e regionali», «Contropotere», «cittàClasse» e «Oltre il ponte».
Nel 2005 coordina con Antonio Font e Nuno Portas un progetto scientifico di ricerca internazionale da cui nasce la mostra
L’esplosione della città, tenuta dapprima a Barcellona e poi tradotta a Bologna e in altre città italiane”. Nel 2010 riceve dall’Università di Lleida il Premi d’Estudis Urbans Joan Vilagrasa.
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Schede biografiche
Le sue ricerche hanno fornito significativi contributi all’analisi delle trasformazioni territoriali. Tra i suoi principali lavori:
Ragusa comunità in transizione (con A. Anfossi e M. Talamo),
M. Taylor, Torino 1959; Lo spreco edilizio, a cura di, Marsilio,
Padova 1972; Sull’uso capitalistico del territorio (con D. Calabi), in «Archivio di studi urbani e regionali», n. 2, 1973; Elogio
della crisi urbana, in P. Ceccarelli, a cura di, La crisi del governo
urbano, Marsilio, Venezia 1978; La città diffusa, a cura di, «Quaderno Daest», n. 1, Iuav, 1990; La città di fine millennio, a cura
di, FrancoAngeli, Milano, 1990; La città occasionale, a cura di,
FrancoAngeli, Milano 1993; Governare la città con l’urbanistica: guida agli strumenti di pianificazione urbana e del territorio,
Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2006; L’esplosione urbana, a cura di (con L. Fregolent e M. Savino), Editrice Compositori, Bologna 2005; Il territorio derivato, FrancoAngeli, Milano
2004; La ciudad de baja densidad, a cura di, Deputaciò Barcelona, ivi 2007; Dalla città diffusa all’arcipelago metropolitano (con
contributi di L. Doria, L. Fregolent e M. Savino), FrancoAngeli,
Milano 2009; La città del XXI secolo. Ragionando con Bernardo
Secchi (con A. Becchi, C. Bianchetti e P. Ceccarelli), FrancoAngeli, Milano 2015. Sul suo apporto si vedano: O. Nel·lo, a cura
di, Francesco Indovina. Del análisis del territorio al gobierno
de la ciudad, Icaria, Barcelona 2012; L. Fregolent e M. Savino, a
cura di, Economia, società, territorio. Riflettendo con Francesco
Indovina, FrancoAngeli, Milano 2013; in quest’ultimo è inoltre
presente una bibliografia completa dei suoi scritti.
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