1 Abuso del diritto ed elusione fiscale tra principi comunitari e regole

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Abuso del diritto ed elusione fiscale tra principi comunitari e regole interne.
di Luigi Ferlazzo Natoli e Giuseppe Ingrao
Sommario: 1. L’abuso del diritto e la sua radice comunitaria. – 2. La sovrapponibilità dei concetti
di abuso del diritto ed elusione fiscale e la necessità di distinguere l’abuso del diritto dall’evasione
fiscale. – 3. L’elusione fiscale e i presupposti di cui all’art. 37 bis, Dpr n. 600/73. - 4. La necessità di far
rientrare l’abuso del diritto nel campo di applicazione della norma antielusiva, non potendo avere un
fondamento giuridico diretto nell’articolo 53 della Costituzione. - 5. La non rilevabilità d’ufficio da
parte del giudice dell’abuso del diritto e la necessaria contestazione da parte dell’Amministrazione
finanziaria. – 6. L’utilizzo improprio da parte della giurisprudenza dell’abuso del diritto. - 7.
L’applicabilità delle sanzioni fiscali ai comportamenti abusivi/elusivi: una necessaria valutazione caso
per caso. – 8. Conclusioni
1. L’abuso del diritto e la sua radice comunitaria.
Le recenti affermazioni giurisprudenziali che hanno esteso alla materia tributaria il principio del
“divieto di abuso del diritto” da parte del contribuente, con la possibilità di essere rilevato d’ufficio dal
giudice tributario, hanno comprensibilmente avuto un effetto dirompente su due fondamentali regole
che si ritenevano un “patrimonio acquisito” nell’ambito dei rapporti Fisco-contribuente.
Ci riferiamo segnatamente: a) a quella secondo cui i poteri di rettifica delle dichiarazioni dei
contribuenti assegnati agli Uffici impositori devono necessariamente essere disciplinati dalla legge; b) a
quella secondo cui il giudice interviene per controllare il corretto esercizio del potere impositivo da
parte dell’Amministrazione, non potendo in particolare ritenere legittimo il comportamento dell’Ufficio
sulla base di motivazioni differenti da quelle esposte nell’avviso di accertamento del tributo.
L'applicazione del divieto di abuso del diritto in materia tributaria affonda le radici nel diritto
europeo, ove manca una norma che fissa il principio della riserva di legge come il nostro art. 23 Cost., la
cui funzione, come è noto, è quella di assicurare la democraticità delle scelte e la certezza del diritto.
La Corte di giustizia europea con sentenza del 21 febbraio 2006, causa C- 255/02, Halifax, ha
esteso al settore dell’IVA quell’orientamento già consolidatosi in altri settori del diritto europeo,
secondo cui il divieto di abuso del diritto è un principio immanente dell’ordinamento comunitario. In
detta occasione la Corte di giustizia ha ritenuto abusivo il comportamento di una Banca che, tramite la
creazione di una società partecipata, ove far transitare l’acquisito di alcuni beni e servizi nell’interesse
della medesima azienda di credito, voleva aggirare il divieto di detrazione dell’Iva sugli acquisti, che
riguarda i soggetti che svolgono operazioni esenti (come le Banche), abusando quindi delle disposizioni
contenute nella VI Direttiva UE n. 388/77 che assegnano il diritto di detrazione dell’imposta sul valore
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aggiunto, assolta sugli acquisti dai soggetti che, svolgendo un’attività commerciale, pongono in essere
operazioni imponibili e/o non imponibili.
L’affermazione giurisprudenziale dell’operatività del divieto di abuso delle disposizioni
normative europee ha, quindi, impedito al contribuente di poter beneficare indebitamente della
detrazione/rimborso dell’Iva assolta sugli acquisti tramite l’operazione posta in essere.
L’abuso del diritto secondo la giurisprudenza europea si realizza quando il contribuente fa un
uso distorto delle norme giuridiche, nel senso che ottiene vantaggi fiscali “la cui concessione sarebbe
contraria all’obbiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni”
La Corte di Giustizia europea ha ritenuto operante il divieto di abuso del diritto in tema di Iva
quale principio non scritto dell’ordinamento europeo, senza far cenno alle previsioni contenute nell’art.
17 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. Dette disposizioni probabilmente non sono state invocate quale fondamento
giuridico del principio in parola, in quanto tendono ad impedire che un individuo, una organizzazione o
uno Stato possa interpretare le norme in modo da distruggere i diritti riconosciuti dalla CEDU o dalla
Carta europea, e non ad evitare che un soggetto le interpreti al fine di beneficiare abusivamente delle
situazioni favorevoli che discendono da esse (situazione che riguarda il tema del divieto di abuso del
diritto in materia tributaria).
2. La sovrapponibilità dei concetti di abuso del diritto ed elusione fiscale e la necessità di
distinguere l’abuso del diritto dall’evasione fiscale.
Ciò detto, e passando in rassegna quanto accaduto a livello interno, evidenziamo in prima
approssimazione che la sostituzione o sovrapposizione dell'espressione “elusione fiscale” con quella
“abuso del diritto" potrebbe essenzialmente ricondursi alla necessità che l’ordinamento interno adotti
un linguaggio giuridico conforme al diritto europeo.
I concetti di elusione fiscale e abuso del diritto sono, infatti, sovrapponibili, in quanto tendono a
realizzare un medesimo obbiettivo: quello di neutralizzare l’ottenimento di un risparmio fiscale
indebito, cioè contrario alle indicazioni del sistema.
Tuttavia riteniamo che il mutamento nella definizione di un comportamento del contribuente
finalizzato ad ottenere un risparmio d'imposta indebito, cioè ottenuto rispettando formalmente la
norma, ma tradendone lo spirito, o, in altri termini, aggirando la norma impositiva, non può
comportare un ampliamento del campo di applicazione della norma antielusiva interna (art. 37 bis DPR
n. 600/73).
Se l'elusione fiscale riguarda fattispecie ben determinate, il divieto di abuso del diritto deve avere
la medesima latitudine.
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Si potrebbe sostenere che l’elusione consiste in un “aggiramento delle norme”, mentre l’abuso
del diritto in un “uso distorto di strumenti giuridici leciti”, ed in ciò risiederebbe la differenza tra i due
concetti.
In realtà ciò che caratterizza i comportamenti in questione non è il “percorso” seguito dal
contribuente quanto il risultato che si raggiunge (che in entrambe le ipotesi è un vantaggio fiscale
indebito). L’utilizzo distorto di strumenti giuridici non sempre, peraltro, conduce a vantaggi indebiti; né
l’utilizzo di strumenti lineari conduce sempre a risparmi leciti. Bisogna, pertanto, focalizzare l’attenzione
sul risparmio di imposta e non sul percorso (distorto o lineare) realizzato dal contribuente per ottenere
il vantaggio.
La norma antielusiva contenuta nel nostro ordinamento, e cioè l’art. 37 bis, del DPR 600/73, è
indirizzata a contrastare determinati comportamenti abusivi posti in essere da grandi imprese
(trasformazioni, fusioni, scissioni, conferimenti, attuazioni tra società facenti parte di un gruppo, etc.);
comportamenti non apertamente in contrasto con una norma di legge, in relazione ai quali gli ordinari
poteri istruttori che la legge assegna agli Uffici finanziari non possono conseguire l’effetto del
“recupero” dei vantaggi fiscali indebiti.
I risparmi fiscali indebiti ottenuti da piccole imprese, dai professionisti e dalle persone fisiche,
essendo frutto di comportamenti palesemente contrari alle norme tributarie, nulla hanno a che vedere
con l’elusione; essi sono ascrivibili all’“evasione fiscale”, e sono efficacemente contrastati con gli
ordinari poteri istruttori degli Uffici finanziari.
Orbene, il passaggio dall'elusione fiscale all'abuso del diritto ha comportato, tra l’altro, la
possibilità di contrastare i vantaggi fiscali connessi a comportamenti posti in essere da persone fisiche,
lavoratori autonomi e piccole imprese, al di fuori di una espressa previsione normativa. Detto in altri
termini, l'introduzione del divieto di abuso del diritto ha offuscato la linea di demarcazione - sino ad
oggi abbastanza evidente - tra evasione fiscale ed elusione fiscale.
Ed infatti, la Corte di cassazione, come vedremo in avanti, in alcune pronunce ha
impropriamente fatto riferimento al divieto di abuso del diritto, pur trattandosi di ipotesi nelle quali si
era di fronte ad una vera e propria evasione fiscale; il risparmio di imposta era, infatti, frutto di una
qualificazione giuridica della fattispecie concreta del tutto difforme dalla realtà operata in violazione di
norme sostanziali. Le norme che disciplinano le qualificazioni di fatto dovrebbero prevalere, invero,
sulla contestazione dell’abuso.
L’evasione fiscale si realizza, invero, sia tramite occultamenti di materia imponibile, sia mediante
errate qualificazioni giuridiche. Ed infatti, in sede di dichiarazione tributaria il contribuente deve
procedere ad una qualificazione giuridica dei fatti fiscalmente rilevanti, e non solo limitarsi a
comunicare la loro esistenza. La natura giuridica di questo adempimento formale, in questa prospettiva,
è di “dichiarazione di scienza qualificata”.
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3. L’elusione fiscale e i presupposti di cui all’art. 37 bis, DPR n. 600/73.
Senza indugiare sul tema dell'evasione fiscale, vediamo quali rimedi ha approntato il legislatore
interno per contrastare l'elusione fiscale.
L’elusione fiscale viene combattuta sia attraverso specifiche disposizioni di contrasto (es. art.
110, 10 comma, TUIR, che limita la deducibilità dei costi provenienti da soggetti ubicati in Paradisi
fiscali), sia attraverso una norma avente una applicazione ben più ampia quale il citato articolo 37 bis
del DPR n. 600/73.
L’art. 37 bis prevede che sono inopponibili all'Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i
negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti
previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.
L'Amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i
fatti e i negozi elusivi, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle
imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'Amministrazione.
L’accertamento emanato ai sensi dell’art. 37 bis è nella sostanza un accertamento di tipo
analitico, in quanto si concretizza nella rettifica/disconoscimento delle singole componenti reddituali
connesse agli atti che vengono ritenuti non opponibili al Fisco.
Affinché si possa applicare la disposizione antielusiva sono necessari tre presupposti: a)
l’aggiramento di una norma; b) la mancanza di valide ragioni economiche; c) il vantaggio fiscale
indebito.
Il concetto di aggiramento della norma è difficile da definire compiutamente. Certamente si
aggira la norma quando si ricorre a stratagemmi legali pur di non realizzare la fattispecie ivi prevista,
magari scomponendo l’operazione economica (ad esempio la scissione di una società e la successiva
vendita delle partecipazioni, in luogo della cessione diretta dei beni della società scissa: si aggira la
norma che prevede l’imponibilità delle plusvalenze sui beni strumentali e si ricade nella norma che
prevede l’esenzione delle plusvalenze su partecipazioni societarie). Dovrebbe costituire aggiramento
anche l’utilizzo della norma per finalità diverse da quelle per le quali è stata introdotta nel sistema; in
altri termini, quando si rispetta la lettera, ma se ne tradisce lo spirito.
Anche la mancanza di valide ragioni economiche è un concetto difficile da delineare in astratto,
e deve essere appurato in relazione al caso concreto. Posto che non vi è l’obbligo per l’imprenditore,
nel porre in essere una operazione, di scegliere il percorso fiscalmente più oneroso, bisogna precisare
che l’ottenimento di un lecito risparmio di imposta può rappresentare una valida ragione economica per
porre in essere l’operazione. Vi possono essere, invero, dei casi in cui il risparmio d’imposta, pur
rappresentando l’unico movente per scegliere di porre in essere una operazione, sia frutto di una lecita
pianificazione fiscale (mancando un aggiramento di norme).
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Il vantaggio fiscale è indebito quando è disapprovato dal sistema, in quanto ottenuto
innanzitutto in relazione ad aggiramenti di norme e successivamente valutando l’inesistenza di valide
ragioni economiche extra fiscali che hanno spinto l’imprenditore a porre in essere l’operazione.
Il legislatore ha, tuttavia, avvertito la complessità e delicatezza della contestazione dell’elusività
di una determinata operazione, e per questo ha previsto un’applicazione della norma antielusiva limitata
a determinate operazioni “potenzialmente a rischio”, elencate tassativamente nel 3° comma, dell’art 37
bis, tra cui figurano le c.d. operazioni straordinarie delle imprese (fusioni, scissioni, conferimenti, etc.).
Sono state, inoltre, fissate specifiche garanzie procedimentali per il contribuente che subisce tale
rettifica. Ed infatti, l’avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente
di chiarimenti, nella quale l’Ufficio deve esplicitare i motivi per cui si ritiene elusiva l’operazione. In
caso di opposizione all’atto di accertamento, non è consentita l’iscrizione provvisoria a ruolo (cioè
quella pari al 50% delle somme richieste), ma la pretesa può essere riscossa solo dopo la sentenza del
giudice di primo grado che rigetta il ricorso del contribuente.
La motivazione dell’atto impositivo deve evidenziare la norma aggirata, e segnatamente lo
“schema modello” che avrebbe dovuto utilizzare il contribuente e lo “schema patologico” realizzato
per aggirare la norma; quindi deve evidenziare la mancanza di valide ragioni economiche. Occorre,
altresì, specificare le ragioni per cui non si ritengono fondate le deduzioni presentate dal contribuente a
sostegno della correttezza fiscale dell’operazione realizzata. Non è sufficiente supportare l’atto
impositivo con il riferimento alla mancata esistenza di ragioni economiche, anche se, molto spesso,
grazie all’avallo della giurisprudenza, l’Amministrazione incentra la motivazione degli atti impositivi
solo su quest’ultimo profilo.
4. La necessità di far rientrare l’abuso del diritto nel campo di applicazione della norma
antielusiva, non potendo avere un fondamento giuridico diretto nell’articolo 53 della
Costituzione.
Orbene, posto che, come detto, l’art. 37 bis, nonostante la sua apparente formulazione di norma
di carattere generale, non ha una applicazione generalizzata, ci si è posto il problema circa la possibilità
di disconoscere i vantaggi fiscali di alcune operazioni non indicate nel citato 3° comma, ma che nella
sostanza finivano per giungere a risultati analoghi, ovvero di applicare il disposto della norma
antielusiva a casi pur previsti nella norma, ma verificatisi prima della sua entrata in vigore.
Questo aspetto rappresenta il “grimaldello” che ha consentito l'affermazione del divieto di
abuso del diritto quale principio di ampia valenza che può essere contestato per operazioni economiche
differenti da quelle indicate nell'articolo 37 bis, ovvero per fattispecie ivi previste ma realizzatesi prima
dell’entrata in vigore della norma.
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La giurisprudenza della Cassazione, sino al 2007, riteneva legittime dette rettifiche fiscali
utilizzando schemi argomentativi incentrati sulla affermazione in via incidentale della nullità civilistica
dei contratti per mancanza “di causa in concreto” (1) o per “frode alla legge” (art. 1344 C.c.), incidendo,
quindi, su consolidate strutture civilistiche.
A partire dalle sentenze nn. 30055/2008 e 30057/2008, i giudici di legittimità, sulla scorta del
citato orientamento della Corte di giustizia europea (originariamente affermato con specifico riguardo
all’Iva, ma poi esteso anche alle imposte non armonizzate, cioè a quelle sui redditi), hanno affermato
l’esistenza di un generale divieto di abuso del diritto, cioè di un divieto di utilizzo delle norme interne
per realizzare scopi diversi da quelli per cui sono state introdotte (e ritenuti meritevoli dal legislatore).
Anche secondo la giurisprudenza interna, pertanto, l’abuso del diritto si realizza quando il contribuente
rispetta il dato letterale della legge, ma se ne tradisce lo spirito per cui essa è stata introdotta nel sistema.
Il fondamento giuridico del divieto di abuso del diritto, secondo questo orientamento
giurisprudenziale, risiede non nel diritto comunitario (al quale peraltro l’ordinamento interno si deve
adeguare), ma direttamente nell’art. 53 della Costituzione.
Tale ricostruzione ci sembra comprensibile, da un punto di vista di “giustizia sostanziale”, se
contestualizzata alle vicende in concreto affrontate dalle due citate sentenze. I giudici si sono trovati a
dover risolvere liti fiscali riguardanti le operazioni di dividend washing o dividend stripping che erano
palesemente elusive, nel senso che determinavano cospicui risparmi di imposta non coerenti con il
sistema.
L’applicazione generalizzata di detto principio appare, invero, indubbiamente discutibile.
Pur condividendo la tesi di autorevole dottrina costituzionalista (Crisafulli), secondo cui le
norme della Carta fondamentale devono essere applicate magis ut valeat (cioè al meglio della loro capacità
espansiva) e senza aspettare la legge di attuazione, non si deve dimenticare che la materia tributaria è
soggetta alla riserva di legge (art. 23 Cost.); è, pertanto, inammissibile un’estensione del campo di
applicazione dell’art. 37 bis, al di fuori di un procedimento legislativo.
L’art. 53 della Costituzione - norma fondamentale che, tra l’altro, individua un requisito
sostanziale (capacità contributiva) a cui deve modellarsi il sistema tributario e quindi un limite per il
legislatore all’esercizio della potestà impositiva - non può essere utilizzato per attribuire un potere di
rettifica all’Ufficio impositore, né un specifico obbligo di contribuzione al consociato: affinché ciò
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Nella impostazione tradizionale la causa del contratto è la funzione economico-sociale che esso riveste, cioè
gli interessi reali che il contratto realizza; la causa nulla ha a che vedere con i motivi. La giurisprudenza ha tuttavia
affermato la nullità del contratto per mancanza di “causa in concreto”, nel senso che si verifica l’impossibilità di
realizzare nel caso concreto la funzione del economico-sociale del contratto.
Ad esempio l’assicurazione della vita di un soggetto defunto, oppure un amministratore di società che si
impegni di realizzare verso corrispettivo prestazioni rientranti nell’ambito del mandato di amministratore (Cass.
10490/2006), nella compravendita di un bene già di proprietà dell’alienante.
Probabilmente la giurisprudenza tributaria ha affermato la nullità per mancanza di causa, in quanto non vi era
una norma che assegnava al Fisco il potere di neutralizzare i vantaggi tributari scaturenti da determinati contratti. Si è
scelta la via della nullità civilistica, per giungere al disconoscimento dei vantaggi fiscali.
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avvenga è indispensabile l’intervento del legislatore ordinario. Detta norma ha una indubbia valenza sul
piano interpretativo delle norme già esistenti, ma non ne legittima la produzione di nuove al di fuori
degli ordinari schemi legislativi. Né ci sembra che dall’esistenza di norme antielusive ad hoc, possa
ricavarsi in via interpretativa una clausola generale antiabuso.
Il prelievo fiscale non è ancorato ad una generica capacità contributiva del singolo, ma ad uno
specifico indice selezionato dal legislatore nell’esercizio del suo potere discrezionale; pertanto, detta
norma non può assurgere a fondamento del potere di contestare il mancato pagamento del tributo in
relazione ad una operazione realmente posta in essere (e non simulata) non compresa nell’elencazione
di cui al 3° comma dell’art. 37 bis.
D’altra parte un conto è l’affermazione del principio di divieto di abuso in un settore, come il
diritto civile, caratterizzato dall’autonomia contrattuale dei privati per il perseguimento di interessi
meritevoli, dove sembra corretto disconoscere validità all’esercizio dei diritti abusivamente ottenuti,
cioè in violazione della regola della buona fede oggettiva (vedi Cass. 18 settembre 2009, n. 20106); altro
è l’applicazione del divieto di abuso del diritto in un settore, come quello tributario, pervaso dal
principio della riserva di legge sia sul piano della fissazione dell’obbligo della contribuzione, sia sul
piano della disciplina dei poteri degli Uffici. La regola della buona fede, che opera anche nei rapporti tra
Fisco e contribuente, presuppone, invero, il rispetto del principio di legalità dell’imposizione.
Vi è da chiedersi a questo punto se il fondamento giuridico dell’abuso del diritto può
intravedersi nell'interpretazione funzionale o antielusiva delle norme.
Secondo alcuni studiosi l’interpretazione funzionale sarebbe una clausola generale immanente al
sistema tributario, riconducibile innanzitutto al principio di uguaglianza tributaria e poi a quello di
capacità contributiva. Con detta interpretazione si risale allo scopo della norma tributaria di equa
distribuzione del carico fiscale.
Certamente l’interpretazione funzionale consente al Fisco di contrastare la simulazione (assoluta
e relativa) dei contratti, accertando la volontà effettiva delle parti, senza limitarsi all’apparenza;
l’interpretazione funzionale non può, però, essere invocata per superare l’effettiva volontà delle parti.
Nel caso dell’abuso del diritto non si tratta di far emergere la volontà effettiva delle parti,
applicando le imposte considerando il contratto dissimulato e non quello simulato, ma di disconoscere
gli effetti fiscali che scaturiscono da operazioni economiche realmente poste in essere, ove cioè non vi è
alcuna simulazione.
Sembra in effetti forzato sostenere che tramite l’interpretazione funzionale, e nonostante il
riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., si possano considerare inopponibili al Fisco i vantaggi tributari
scaturenti da contratti relativi ad operazioni economiche realmente volute e poste in essere dalle parti, e
quindi obbligare i contribuenti a versare il tributo in relazione ad operazioni che non intendono
realizzare. Ed infatti, sostenere che l’abuso del diritto sia un canone interpretativo significherebbe
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assegnare all’Amministrazione un potere altamente invasivo della sfera del contribuente, al di fuori di
un procedimento legislativo, e violando così la certezza del diritto; gli Uffici, infatti, potrebbero
superare le forme giuridiche utilizzate dal contribuente, rendendone inopponibili gli effetti fiscali.
Non è, peraltro, sostenibile un collegamento tra abuso del diritto ed interpretazione analogica;
non siamo, infatti, al cospetto di vuoti di disciplina da colmare, ricorrendo all’analogia iuris.
Orbene, in buona sostanza, nonostante la differenza tra la formulazione letterale dell’art. 37 bis
e la definizione proposta dalla giurisprudenza comunitaria e interna, i concetti di elusione fiscale e di
abuso del diritto sono in gran parte sovrapponibili e cioè equipollenti. Il divieto di abuso del diritto,
pertanto, quando viene invocato nell’ambito dell’applicazione delle norme tributarie, altro non è che un
modo diverso per definire un concetto sostanzialmente analogo, rappresentato appunto dall’elusione
fiscale.
Si può, quindi, usare l’espressione abuso del diritto in campo europeo, ma nell’ambito interno
dobbiamo necessariamente riferirci al concetto di elusione fiscale.
Posto che la condotta abusiva o elusiva crea i medesimi effetti dannosi per la collettività di una
condotta evasiva, e cioè un’alterazione della ripartizione dei carichi pubblici, è comunque auspicabile la
modifica dell’art. 37 bis, nel senso della eliminazione delle ipotesi tassative contenute nel 3° comma,
trasformandola in una norma generale antielusiva. Si farebbe rientrare così l’abuso del diritto
nell’ambito dell’elusione fiscale, rispettando il principio della certezza del diritto e della legalità (art. 23
Cost.), senza necessità di fornire motivazioni forzate per il suo utilizzo, come quella – offerta sino ad
ora dalla Cassazione - secondo cui sarebbe desumibile direttamente dall’art. 53 del Costituzione.
Il rischio che attualmente si corre è che una contestazione di “abuso del diritto” venga posta al
di fuori delle garanzie procedimentali fissate dall’art. 37 bis, e in modo particolar senza che il
contribuente venga obbligatoriamente ascoltato in contraddittorio, per illustrare la correttezza
dell’operazione economica, prima della notifica dell’atto impositivo, senza che quest’ultimo dia conto
nella motivazione del perché sono state disattese le eccezioni difensive del contribuente ed infine senza
che operi il divieto dell’iscrizione provvisoria a ruolo.
Non bisogna sottacere che vi è timore ad introdurre una clausola generale antielusiva, in quanto
di primo acchito essa sembrerebbe urtare col principio secondo cui gli interessi economici possono
essere realizzati liberamente dai soggetti dell'ordinamento, attraverso schemi giuridici leciti tipizzati o
non tipizzati.
A ben vedere il problema non è quello di riconoscere la validità degli effetti civilistici ottenuti
attraverso l'attività negoziale privata, bensì quello di stabilire se vi sia o meno un riconoscimento fiscale
delle determinazioni negoziali dei privati. In questa misura, l’allargamento dell’operatività dell’art. 37 bis,
stabilito dal legislatore e non dai giudici, non rappresenterebbe una limitazione del principio
dell’autonomia negoziale dei privati.
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Nel caso in cui si contesti l’elusività/abusività fiscale dell’operazione, infatti, non si travolge la
sua validità civilistica, ma si verifica solo l’inopponibilità degli effetti degli atti all’Amministrazione, la
quale provvede a eliminare i vantaggi fiscali. Gli effetti civilistici dell’operazione permangono: si
sterilizzano solo gli aspetti fiscali. Per evitare doppie tassazioni, peraltro, nella quantificazione
dell’imposta elusa occorre scomputare l’imposta effettivamente versata in relazione all’operazione
fiscalmente disconosciuta.
5. La non rilevabilità d’ufficio da parte del giudice dell’abuso del diritto e la necessaria
contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Analizziamo ora la problematica della rilevabilità d'ufficio del divieto di abuso del diritto. La
Cassazione (sent. SS. UU. n. 30057/2008) ha assunto una posizione molto decisa sul punto
evidenziando che “la fattispecie dell’abuso di diritto e la sua valutazione da parte del giudice non trova
di per sé ostacolo nella mancata allegazione di tale situazione da parie dell’Amministrazione
finanziaria. Ciò in quanto nel processo tributario, pur essendo l’oggetto del giudizio delimitato
dalle ragioni poste a fondamento dell’atto di accertamento, il tema relativo all’esistenza, alla
validità ed all’opponibilità all’Amministrazione finanziaria del negozio da cui si assume che originino
determinati costi o crediti deve, ritenersi acquisito al giudizio per effetto dell’allegazione da parte del
contribuente, il quale è gravato dell’onere di provare i presupposti di fatto per l’applicazione delle
norme da cui discendono i costi ed i crediti vantati: ne consegue, anche in
ragione
dell’indisponibilità della pretesa tributaria, la rilevabilità d’ufficio delle eventuali cause di invalidità o
di inopponibilità del negozio stesso”.
Detta affermazione sembra valorizzare troppo (se non addirittura male interpretare) il profilo
dell’indisponibilità
dell’obbligazione
tributaria
e
sminuire,
invece,
la
cornice
amministrativo/pubblicistica del diritto tributario.
L’Amministrazione finanziaria e i contribuenti non debbono essere considerati come due
litiganti ed il giudice tributario come istituzione che interviene per stabilire chi dei due abbia ragione.
Bisogna, invece, muovere dall’assunto per cui il giudice tributario interviene in seconda battuta rispetto
all’Amministrazione finanziaria (prima istituzione giuridica di riferimento in materia tributaria che deve
operare secondo criteri di correttezza e imparzialità, assicurando la giustizia tributaria) per valutare la
legittimità del suo operato. Pertanto, ove l’Ufficio non contesti (nel rispetto delle garanzie
procedimentali previste dal 37 bis) l’abuso del diritto, appare evidente che il giudice nulla possa fare per
“salvare” il suo l’operato. Se il giudice rileva autonomamente l’abuso del diritto finisce per mutare il
fondamento giuridico della pretesa del Fisco; circostanza che da sempre è stata ritenuta non tollerabile
in materia tributaria, per l’evidente violazione del diritto di difesa del contribuente.
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6. L’utilizzo improprio da parte della giurisprudenza dell’abuso del diritto.
In ogni caso, la portata dirompente dell’affermazione del divieto di abuso del diritto potrebbe
ridimensionarsi se si tiene a mente che una attenta lettura delle sentenze nelle quali è stato invocato
pone in luce che si tratta in realtà dell’utilizzo di una formula sintetica per snellire il compito del giudice
di motivare la sentenza.
Ed infatti, in alcuni casi, la correttezza dell’operato dell’Ufficio poteva desumersi dall’art. 37, 3°
comma, del DPR n. 600/73, il quale consente di contestare l’interposizione di persona (o simulazione
relativa soggettiva); probabilmente l'accertamento della interposizione da parte del giudice avrebbe
richiesto uno sforzo maggiore e si è quindi preferita la via più rapida per risolvere la questione,
richiamando l’applicazione d’ufficio dell’abuso del diritto.
Emblematico è il caso dell’atleta professionista che aveva “dirottato” una quota del suo
compenso a favore di una società estera, facendo figurare una ipotetica prestazione di sfruttamento
passivo della sua immagine (Cass. n. 4737/2010). Non vi era bisogno di invocare l’abuso del diritto: se
la società estera fa capo al medesimo atleta (aspetto che deve essere appurato dal giudice di merito in
sede di rinvio), non vi è dubbio che si tratta di una interposizione fittizia, contestabile con il citato art.
37. Qualora la società estera non avesse avuto alcun legame con l’atleta nulla gli poteva essere
addebitato.
In altre vicende, invece, più che di abuso o elusione fiscale, si trattava di una vera e propria
evasione fiscale. E’ il caso ove una impropria qualificazione di un terreno edificabile come pertinenza di
un immobile sia stata ritenuta dal giudice un comportamento costituente abuso del diritto (Cass. n.
25127/2009). Il nodo da sciogliere non riguardava l’esistenza di un abuso del diritto da parte del
contribuente, ma l’esistenza di una errata qualificazione giuridica di un fatto posta al fine di non
scontare l’applicazione l’ICI sul terreno: cioè una ipotesi classica di evasione fiscale.
Anche il recentissimo caso ove la giurisprudenza (Cass. 9476 del 21/04/2010) ha fatto
riferimento all’abuso del diritto per legittimare il disconoscimento dei costi per acquisti di beni tra
società facenti capo ad una famiglia di imprenditori dimostra che detto principio è stato invocato in
modo improprio o ultroneo: la contestazione mossa dall’Ufficio era relativa all’inesistenza delle
operazioni (compravendite di pesce, merce molto deperibile) e l’accertamento del giudice doveva
limitarsi alla valutazione delle prove offerte dalle parti (si discute a chi incombe l’onere della prova in
dette occasioni) per sostenere l’esistenza o l’inesistenza delle operazioni. L’eventuale rappresentazione
in contabilità di costi inesistenti, al fine di realizzare una frode IVA, è una evasione fiscale e non una
operazione abusiva.
In definitiva, l’abuso del diritto/elusione fiscale si sostanzia in un aggiramento della norma,
realizzato per mezzo di una regolare rappresentazione di operazioni realmente accadute e correttamente
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qualificate dal punto di vista giuridico; operazioni tra loro collegate che permettono di ottenere un
vantaggio indebito.
Per recuperare, invece, i vantaggi fiscali indebiti connessi ad errate qualificazioni giuridiche di
fatti, a simulazioni o ad interposizioni di persona non c’è bisogno di invocare l’abuso del diritto,
esistendo già specifiche norme nel nostro ordinamento che assegnano detto potere agli Uffici.
7. L’applicabilità delle sanzioni fiscali ai comportamenti abusivi/elusivi: una necessaria
valutazione caso per caso.
Soffermiamoci, infine, sulla questione dell’applicabilità delle sanzioni fiscali, in caso di rettifiche
della dichiarazione ai sensi della norma antielusiva o in applicazione del principio di divieto di abuso del
diritto.
L’art. 37 bis non offre appigli concreti per la risoluzione della questione in un senso o nell’altro.
Secondo una prevalente corrente di pensiero, i comportamenti elusivi/abusivi non sarebbero
sanzionabili per vari motivi: innanzitutto perché l’elusione non comporta una violazione di legge;
secondariamente perché in materia di sanzioni esiste una riserva assoluta di legge; ed infine perché l’art.
37 bis è una norma di carattere procedimentale, che assegna all’Ufficio un potere di disconoscere il
vantaggio tributario indebitamente fruito, ma non prevede degli obblighi sostanziali per il contribuente.
Secondo una differente corrente di pensiero, i comportamenti elusivi/abusivi devono essere
sanzionati dall’Amministrazione, in quanto la legge di contrasto è ritenuta di carattere sostanziale, posto
che concorre alla determinazione dell’effettiva portata della norma impositiva, prevedendo un dovere
per il contribuente di corrispondere, in autodeterminazione del tributo (cioè in sede di dichiarazione),
l’imposta elusa. Si aggiunge, inoltre, che il risultato (disapprovato dal sistema) ottenuto grazie a
comportamenti abusivi/elusivi è analogo a quello realizzato nell’ipotesi dell’evasione fiscale, quindi
occorre regolamentare in modo uniforme le conseguenze di tali comportamenti, altrimenti si violerebbe
il principio di uguaglianza.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 12042/2009) sembra assestarsi in una
posizione intermedia, in quanto ha affermato che nel caso dell’elusione fiscale la non applicazione delle
sanzioni è subordinata all’esistenza di una obbiettiva incertezza circa la corretta applicazione della
norma “aggirata”.
Tuttavia, tale condizione esimente, prevista sia dallo Statuto dei diritti del contribuente (art. 10,
3 comma), sia dal D. Lgs. n. 471/97 (art. 6, 2 comma), non può essere affermata in via generalizzata
ogni qual volta si contesti l’elusività di una operazione, ma deve sussistere in relazione allo specifico
caso affrontato.
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Ciò vuol significare che, di fronte a comportamenti abusivi/elusivi spregiudicati, il contribuente
può subire la richiesta di pagamento non solo del tributo eluso, ma anche della sanzione. Nei casi dove
vi è un’obbiettiva incertezza sul significato e sulla portata della norma aggirata, l’Ufficio può richiedere,
invece, al contribuente solo il tributo eluso.
Tale orientamento è in linea con quanto affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità
Europee (sentenza Halifax), secondo la quale «un comportamento abusivo non deve condurre ad una punizione,
per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco, bensì semplicemente a un obbligo di rimborso
di tutte le indebite detrazioni fiscali».
8. Conclusioni
In conclusione, proponiamo che l’abuso del diritto sia applicabile anche nell’ambito del
rapporto Fisco-contribuente nell’ottica e secondo le regole di cui all’art. 37 bis in attesa della
soppressione del 3° comma, e quindi del suo riferimento a operazioni tassativamente indicate.
Nonostante la decisa opera di contrasto della dottrina, la giurisprudenza dal 2008 ad oggi
sembra avere addirittura ulteriormente “allargato le maglie”, come testimonia la citata recentissima
sentenza della Cassazione 21 aprile 2010, n. 9476, ove l’abuso del diritto è stato invocato – come detto
- per superare l’accertamento dell’effettiva esistenza delle operazioni economiche fatte all’interno di
imprese facenti capo alla stessa famiglia.
Nel corso di un intervista il Consigliere di Cassazione, Mario Cicala, con estrema onestà, ha
affermato che “il giudice è un artigiano che fabbrica la sentenza secondo il suo gusto e a volte secondo
il suo gusto di contribuente che non può evadere … e se ha la sensazione che una determinata sentenza
faccia crollare il gettito può anche non prenderla”.
Se è vero che le istituzioni “camminano sulle gambe degli uomini”, allora detta dichiarazione ci
induce a ritenere che l’abuso del diritto, al di là dell’utilizzo come espediente per semplificare la
motivazione, rappresenta un caso classico in cui i giudici, pur di perseguire obbiettivi di giustizia
sostanziale, sopperiscono all’inerzia dei politici. In altri termini, la giurisprudenza supera il legislatore, e
diviene qualificabile come “creativa”.
Il progetto di modifica dell’art. 37 bis, con cui segnatamente – ed in modo secondo noi
condivisibile - si vuole sopprime il 3 comma (presentato dall’on. Maurizio Leo da circa un anno) e
quindi assegnare a detta disposizione il crisma di norma antielusiva di carattere generale, non sembra
essere giunto al dibattito parlamentare.
Ed, allora, nell’attesa di una soluzione normativa, alla dottrina non resta che evidenziare le
condizioni e limiti di applicazione dell’abuso del diritto in materia fiscale, ricavabili in via interpretativa
dalla normativa vigente.
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Segnatamente: l’abuso del diritto deve essere contestato dall’Ufficio e non rilevato d’ufficio dal
giudice; l’Ufficio finanziario deve comunque applicare le garanzie procedimentali fissate dall’art. 37 bis.
In buona sostanza, l’applicazione dell’abuso del diritto in materia tributaria deve avvenire nel
rispetto delle regole fissate dal legislatore e degli assetti ormai acquisiti del ruolo dell’Amministrazione
finanziaria e del giudice tributario nell’attuale sistema di tassazione.
Non possiamo sottacere, però, che bisogna giungere ad un punto fermo sul problema di fondo
connesso all'applicazione della norma antielusiva o dell'abuso del diritto, e cioè sulla qualificazione
come indebito o meno del risparmio di imposta ottenuto dal contribuente in relazione a determinate
operazioni economiche realmente poste in essere.
I concetti di “aggiramento della norma” e di “mancanza delle valide ragioni economiche”
utilizzati per descrivere il vantaggio fiscale indebito sono troppo elastici (come dimostrano le oscillanti
pronunce della giurisprudenza di merito) per poter garantire soluzioni certe.
Ciò vuol dire che per definire indebito un determinato vantaggio fiscale non ci si può muovere
solo sul piano astratto, ma si impone necessariamente una approfondita analisi del caso concreto che si
incentri sulla sistematicità o asistematicità del vantaggio. Dopo aver appurato la sua asistematicità si
può procedere con la valutazione delle ragioni economiche delle operazioni.
Se il vantaggio è coerente con il sistema non vi è motivo per indagare sulle ragioni economiche.
Partire dall’esistenza o meno di valide ragioni economiche dell’operazione, come sembra aver fatto la
giurisprudenza in molte occasioni, vuol dire avventurarsi su un percorso “a ritroso” che può condurre a
soluzioni errate; confondere cioè l’abuso del diritto/elusione con la lecita pianificazione fiscale.
In ogni caso il termine “vantaggio” presuppone che si pongano in confronto gli effetti fiscali di
due differenti operazioni: quella ritenuta elusiva/abusiva (realmente posta in essere) e quella ordinaria
(ipotizzata). Non può, quindi, muoversi una contestazione di elusione fiscale senza che si effettui tale
comparazione.
Tante scelte a livello vengono poste in essere per motivi fiscali: da quella più elementare di
scegliere di rinviare l’incasso di un determinato provento professionale nel periodo di imposta
successivo, a quelle più complesse di tipo imprenditoriale quali l’utilizzo di una determinata forma
societaria (SRL o SNC) per beneficiare di un certo regime di tassazione, l’incremento della quota di
partecipazione in un’altra società per poter raggiungere la soglia minima necessaria per beneficiare della
tassazione su base consolidata, la rivalutazione della partecipazioni e dei terreni, i riallineamenti tra
valori civili e fiscali, etc.
Queste scelte, alle quali conseguono cospicui vantaggi fiscali, sono tollerate dal sistema, in
quanto sono conformi alla sua logica, e come tali rientrano nell’ambito della lecita pianificazione fiscale.
Pertanto, non bisogna farsi “abbagliare” dal fatto che il soggetto con determinati
comportamenti abbia ottenuto un risparmio d'imposta, e quindi procedere immediatamente alla
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contestazione dell’elusione fiscale o dell’abuso del diritto. Il risparmio di imposta può, infatti, costituire
una valida ragione economica per porre in essere l’operazione, senza che si possa invocare
l’applicazione della norma antielusiva.
Il nostro ordinamento consente agli imprenditori di svolgere una lecita pianificazione fiscale;
come già notato non vi è l’obbligo di seguire tra i vari comportamenti quello fiscalmente più oneroso.
Sappiamo bene, infatti, che la variabile fiscale influenza molte scelte imprenditoriali, e lo “sfruttamento”
delle opportunità che il sistema tributario offre non può certamente tacciarsi di abusività, per
disconoscerne i consequenziali vantaggi.
L’abuso del diritto e l’elusione fiscale presuppongono, in definitiva, che si appuri l’asistematicità
del risparmio d’imposta, la sua disapprovazione dall’ordinamento; solo in tali casi può, quindi,
affermarsi l’inopponibilità al Fisco.
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