Il contratto "sconveniente"

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Il contratto sconveniente: annullamento o risarcimento del danno?
Il ruolo del dolo omissivo quale vizio del consenso.
Massima:
“Non essendo stata proposta domanda di annullamento, ma solo domanda risarcitoria per dolo
incidente ed essendo stato richiesto il risarcimento di un danno che deriva da un contratto valido
ed efficace ma "sconveniente", neppure è necessario indagare se l'inganno abbia riguardato una
qualità essenziale del bene o se sia stato determinante per il consenso, in quanto l'attività
ingannatrice, in questo caso, ha una incidenza minore influendo solo su modalità del negozio che
la parte non avrebbe accettato se non fosse stata fuorviata dal raggiro. Questa figura di dolo
attiene dunque alla formazione del contratto e la sua eventuale esistenza non incide sulla
possibilità di far valere i diritti sorti dal medesimo, ma comporta soltanto che il contraente in mala
fede (ossia che ha violato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c.) è responsabile dei danni
provocati dal suo comportamento illecito ed i danni vanno commisurati al "minor vantaggio",
ovvero al "maggior aggravio economico" prodotto dal comportamento tenuto in violazione
dell'obbligo di buona fede”.
Il caso:
Nella fattispecie veniva proposta domanda risarcitoria in conseguenza della vendita di un terreno
alla quale i venditori si erano determinati per effetto di un consenso viziato da dolo incidente,
avendo l’acquirente taciuto che sul terreno oggetto di compravendita, prima del rogito, era stata
trasferita una potenzialità edificatoria e pertanto il terreno era stato venduto al prezzo di un
terreno non edificabile e non al maggior prezzo che sarebbe stato richiesto se ne fosse stata
conosciuta l’edificabilità.
Cassazione civile, Sez. II, sentenza del 16.04.2012, n. 5965.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUIGI ANTONIO ROVELLI - Presidente Dott. BRUNO BIANCHINI - Consigliere -
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OPERA FORENSIS
Dott. CESARE ANTONIO PROTO - Rel. Consigliere Dott. FELICE MANNA - Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI - Consigliere ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 1924 6-2010 proposto da:
(Omissis). (...), (Omissis). (...), elettivamente domiciliati in (Omissis).., (Omissis).. (...), presso lo studio
dell'avvocato (Omissis).., che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato (Omissis)..;
- ricorrenti Nonché da:
(Omissis).. S.p.a. ora (Omissis). S.p.a. (...), in persona del Presidente del Cons. di Amm.ne Dott. (Omissis).,
elettivamente domiciliata in (Omissis).., Via (Omissis). (...), presso lo studio dell'avvocato (Omissis).., che la
rappresenta e difende unitamente all'avvocato (Omissis)..;
- controricorrente e ric. incidentale avverso la sentenza n. 1350/2009 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 12/11/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/02/2012 dal Consigliere Dott. CESARE
ANTONIO PROTO;
udito l'Avvocato (Omissis). difensore dei ricorrenti che si riporta agli atti;
udito l'Avv. (Omissis).. difensore della controricorrente incidentale che si riporta agli atti;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per il
rigetto del ricorso principale, l'accoglimento per quanto di ragione del ricorso incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 6/5/2006 il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda proposta da (Omissis) e (Omissis)
nei confronti di (Omissis) S.p.a. e condannava la convenuta al risarcimento dei danni subiti dai (Omissis). in
conseguenza della vendita di un terreno, alla quale essi si erano determinati per effetto di un consenso
viziato da dolo incidente.
Il Tribunale ravvisava la violazione, da parte dell'acquirente, dell'obbligo di buona fede e di tutela
dell'affidamento quanto l'acquirente per avere taciuto che sul terreno oggetto di compravendita, prima del
rogito era stata trasferita una potenzialità edificatoria e pertanto il terreno era stato venduto al prezzo di un
terreno non edificabile e non al maggior prezzo che sarebbe stato richiesto se ne fosse stata conosciuta
l'edificabilità.
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OPERA FORENSIS
All'esito di appello della soc. (Omissis) S.p.a., al quale resistevano gli attori, la Corte di Appello di Bologna, con
sentenza del 12/11/2009, riformava la sentenza di primo grado e rigettava la domanda attorea senza, peraltro
provvedere, in dispositivo, alla restituzione di quanto già corrisposto in esecuzione della sentenza
dall'appellante, pur avendo affermato, in motivazione, il diritto alla restituzione.
La Corte di Appello rilevava:
- che la società (Omissis). il 30/5/1997 presentava al Comune un progetto per la riqualificazione di un
capannone industriale di sua proprietà;
che il 5/3/1998 il progetto era modificato su richiesta del Comune con assunzione, da parte della società,
dell'impegno a reperire una superficie di 7.000 mq.;
- che il 6/4/1998 il Comune accettava la proposta della società (Omissis) che aveva assunto l'impegno di
reperire l'area;
- che il 17/7/1998 la società stipulava il preliminare di compravendita del terreno di proprietà dei (Omissis);
- che il 24/11/1998 il Comune rilasciava alla soc. (Omissis) il certificato di destinazione urbanistica del,
terreno, dal quale risultava che l'area era classificata come zona per verde pubblico attrezzato e parcheggi;
-che alla data del rogito notarile di compravendita (14/1/1999) il terreno era ancora classificato come zona
destinata a verde e parcheggi;
- che l'area era resa edificabile solo a distanza di oltre due anni dal rogito, quando il Comune approvava la
variante al PRG, mentre in precedenza tra il privato e il Comune, secondo quanto accertato dal CTU, era
intercorso un semplice accordo di programma che non implicava un immediato cambio di destinazione di
uso; il cambio di destinazione di uso, sempre secondo il CTU avrebbe potuto essere richiesto anche dai
venditori se avessero reperito analoghe potenzialità edificatorie che consentissero di trasferire il costruito da
un'area già costruita all'area non ancora costruita;
- che pertanto la concessione ad edificare sull'area che al momento dell'acquisto era desti nata a verde e
parcheggi era il frutto dell'attività posta in essere dall'acquirente, nell'ambito di un suo progetto
imprenditoriale;
- che nessun inganno o raggiro era ravvisabile per l'omessa informativa, da parte dell'acquirente, del suo
progetto imprenditoriale e il valore oggettivo del bene prescindeva dall'uso che l'acquirente si proponeva di
farne;
- che l'accrescimento di valore era conseguenza del buon esito dell'operazione di riqualificazione urbana.
(Omissis) e (Omissis) propongono ricorso affidato ad un unico motivo e depositano memoria. Resiste con
controricorso (Omissis) S.p.a. ora (Omissis) S.p.a. in conseguenza di cambio di denominazione e propone
ricorso incidentale affidato ad un unico motivo di omessa pronuncia e deposita memoria.
Motivi della decisione
1. Con l'unico motivo del ricorso principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e
1440 c.c., dell'art. 2, 41 e 42 Cost. i ricorrenti censurano (in realtà con argomenti attinenti alla motivazione
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sulla insussistenza del dolo incidente) la sentenza impugnata per non avere ravvisato, nei fatti provati in
causa e riconosciuti nella stessa sentenza di appello, la violazione, da parte della società acquirente, del
dovere di buona fede oggettiva, espressione del generale principio di solidarietà sociale riconosciuto dalla
Costituzione; l'acquirente, secondo i ricorrenti, avrebbe violato l'obbligo di buona fede e di comportamento
leale tacendo maliziosamente, durante le trattative, la circostanza che sul terreno (poi venduto come terreno
destinato a verde e a parcheggi) sarebbe stata portata una potenzialità edificatoria di 1.200 m.q. in quanto
rientrava in un progetto di riqualificazione urbana; aggiungono che il giorno della stipula del preliminare
(17/7/1998) il Comune di (Omissis) già aveva accettato che la proposta di riqualificazione urbana dell'area
della soc. (Omissis) fosse indirizzata sul terreno di proprietà (Omissis); il certificato di destinazione
urbanistica che l'acquirente si era procurato per il rogito di acquisto non corrispondeva più alla realtà di fatto
e se i venditori avessero conosciuto la nuova situazione di fatto avrebbero chiesto un prezzo maggiore.
I ricorrenti, al riguardo, richiamano precedenti di questa Corte che, tuttavia, nulla hanno a che vedere con il
caso di specie: in Cass. 18/9/2009 ri. 20106 si è affrontato un caso di abuso del diritto nell'esercizio del
diritto di recesso ad nutum ravvisandosi a Iterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo
prevede e, quindi, si è risolto un problema di correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono
conferiti; in Cass. 5.3.2009 n. 5348 si è applicato il principio di buona fede nell'interpretazione di una
clausola negoziale del contratto di mediazione e in Cass. 11.6.2008 n. 15476 si è ravvisato un abuso nel
frazionamento della domanda di adempimento di un'unica pretesa creditoria; nella controversia qui in
esame, invece, non si discute di interpretazione di clausole contrattuali o di abusi nell'esercizio di poteri
negoziali o processuali, ma del rilievo da attribuire, sotto il profilo risarcitorio, all'omessa informazione
(relativa alla futura destinazione che l'acquirente avrebbe dato al terreno e alle sue iniziative per destinarla
all'edificazione) da parte del venditore, pur in mancanza di una norma che imponga lo specifico obbligo
informativo.
2. Il motivo è infondato.
Occorre premettere che nella fattispecie non viene in discussione il principio secondo il quale un suolo non
edificabile, ma per il quale sia prevista, da strumenti urbanistici non ancora approvati, l'edificabilità
costituisce un bene non omogeneo rispetto ad altri terreni non edificabili e che l'ignoranza su tale qualità
possa integrare errore su una qualità essenziale (cfr. Cass. Cass. S.U. 1/7/1997 n. 5900, Cass. 11/9/2000 n.
11927).
Anzi, non essendo stata proposta domanda di annullamento, ma solo domanda risarcitoria per dolo incidente
ed essendo stato richiesto il risarcimento di un danno che deriva da un contratto valido ed efficace ma
"sconveniente", neppure è necessario indagare se l'inganno abbia riguardato una qualità essenziale del bene
o se sia stato determinante per il consenso, in quanto l'attività ingannatrice, in questo caso, ha una minore
incidenza minore influendo solo su modalità del negozio che la parte non avrebbe accettato se non fosse
stata fuorviata dal raggiro. Questa figura di dolo attiene dunque alla formazione del contratto e la sua
eventuale esistenza non incide sulla possibilità di far valere i diritti sorti dal medesimo, ma comporta soltanto
che il contraente in mala fede (ossia che ha violato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c.) è
responsabile dei danni provocati dal suo comportamento illecito ed i danni vanno commisurati al "minor
vantaggio", ovvero al "maggior aggravio economico" prodotto dal comportamento tenuto in violazione
dell'obbligo di buona fede (Cass. 29/9/2005 n. 19024; Cass. 8/9/1999 n. 9523).
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Non è neppure posto in discussione il principio per il quale quando debba giudicarsi del requisito di volontà,
cioè di libertà nella formazione di un negozio giuridico (o della buona fede di un comportamento) rileva
anche l'errore di diritto perché, dovendosi valutare un atto di un soggetto responsabile, si ha riguardo al fatto
in sé dell'ignoranza o della deviata conoscenza, indipendentemente dalla ragione dell'errore.
Occorre infine precisare che l'affermazione (del tutto apodittica e indimostrata) dei ricorrenti secondo la
quale la destinazione urbanistica del terreno al momento del rogito notarile (14/1/1999) non era più quella (a
verde e parcheggi) indicata nel certificato di destinazione urbanistica presentato dalla società acquirente
trova smentita nella sentenza impugnata laddove si rileva che alla data del 14 Gennaio 1999 il terreno
risultava sempre classificato come zona destinata a verde e parcheggi e che l'area divenne edificabile solo
due anni dopo il rogito, a seguito di variante al P.R.G., come accertato dal CTU e non contestato dalle parti
(v. pag. 12 della sentenza).
La Corte di Appello, come già riferito nella parte in fatto, ha ritenuto insussistente il dolo incidente perché:
- nessun inganno o raggiro era ravvisabile nella condotta della società acquirente;
- secondo quanto riferito dal CTU, i cambiamenti della destinazione di uso del terreno avrebbero potuto
essere richiesti anche dai venditori, se avessero reperito per proprio conto analoghe potenzialità edificatorie;
- il valore oggettivo del bene prescindeva dall'uso che l'acquirente si proponeva di farne e l'accrescimento di
valore per effetto del (successivo) cambio di destinazione di uso dipendeva dal buon esito dell'operazione di
riqualificazione urbana (di un terreno già di proprietà della società e sul quale era collocato un opificio
industriale da riqualificare in abitazioni);
la concessione ad edificare era il frutto dell'attività posta in essere dall'acquirente. Secondo la prospettazione
dei ricorrenti la mala fede (da ravvisarsi nella condotta contraria a buona fede) dell'acquirente sarebbe
ravvisabile nel non avere dato, volutamente, una informazione che secondo buona fede il compratore era
tenuto a dare nella fase di conclusione del contratto (sotto questo profilo, più precisamente avrebbe dovuto
richiamarsi l'obbligo di buona fede sancito dall'art. 1337 c.c.).
In questo senso, la violazione di una regola di comportamento (che nella specie si dovrebbe ravvisare
nell'obbligo di dare un particolare informazione), in quanto consapevolmente commessa per ottenere migliori
condizioni di prezzo, potrebbe astrattamente configurarsi come dolo omissivo.
Tuttavia, nel caso concreto, alla luce degli elementi di fatto ricavabili dal ricorso e dalla sentenza impugnata
(meno esplicitamente nella parte motivazionale e più esplicitamente nello svolgimento del processo, dove si fa
esplicito riferimento al trasferimento dell'edificabilità da un sito già in proprietà al sito oggetto dell'acquisto)
non v'è stata né la violazione di un obbligo di informazione, né la volontà di ottenere migliori condizioni di
prezzo. Infatti il programmato utilizzo del bene da parte dell'acquirente era reso possibile solo grazie al fatto
che egli era proprietario di altri immobili con una edificabilità suscettibile di essere trasferita su quello oggetto
di acquisto; il terreno oggetto di acquisto, pertanto, non aveva una diversa qualificazione giuridica e un
diverso valore economico rispetto a quello pattuito perché la possibilità edificatoria e l'ipotizzato incremento
di valore scaturivano non già dal bene oggetto della vendita, ma dalla specifica relazione di quel bene con
altri immobili di proprietà dell'acquirente che venivano correlativamente privati della potenzialità edificatoria
e, quindi, impoveriti.
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In conclusione, avuto riguardo alla sostanza economica del contratto il maggior valere del suolo (reso
edificabile) in relazione al quale è proposta domanda risarcitoria è conseguenza del minor valore di altri
terreni dell'acquirente che hanno definitivamente perso l'attitudine edificatoria con la conseguenza che non
solo il venditore non può dirsi danneggiato, ma addirittura l'accoglimento della sua pretesa si risolverebbe in
un suo ingiustificato arricchimento con danno della controparte.
Né potrebbe invocarsi il principio per il quale l'ambito di rilevanza della regola posta dall'art. 1337 c.c. va oltre
l'ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale che implica il
dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo
alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della
stipulazione del contratto (Cass. 29/9/2005 n. 19024).
E' pur corretto affermare che il contraente non ha diritto di occultare i fatti. la cui conoscenza è
indispensabile alla controparte per una corretta formazione della propria volontà contrattuale (Cass.
5/2/2007 n. 2479), ma l'obbligo informativo non può essere esteso fino al punto di imporre al contraente di
manifestare i motivi (nella specie il trasferimento dell'edificabilità) per i quali stipula il contratto, così da
consentire all'altra parte di trarre vantaggio non dall'oggetto della trattativa, ma dalle altrui motivazioni e dalle
altrui risorse.
3. Il ricorso incidentale è fondato su un unico motivo di omessa pronuncia sulla domanda, formulata nel
giudizio di appello all'udienza del 14/11/2006 e riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, di
restituzione delle somme pagate agli attori per effetto della sentenza di primo grado e costituite dal 70%
della somma oggetto del precetto notificato dagli attori dopo la sentenza di primo grado, dalle spese di CTU e
dell'imposta di registro e dal costo della fideiussione a garanzia del pagamento del rimanente 30%.
In motivazione la Corte di Appello ha dato atto dell'obbligo degli attori appellati di restituire all'appellante
quanto da essi percepito in esecuzione della sentenza di condanna, ma non ha provveduto in tal senso nel
dispositivo così che si configura in vizio di omessa pronuncia peraltro non rimediabile con una pronuncia in
questa sede di legittimità in quanto nella domanda sulla quale è stata omessa la pronuncia erano comprese
voci (il costo della fideiussione)che non sono state considerate neppure nella motivazione (v. il riferimento, in
sentenza, al solo "percepito") ed era aggiunta la richiesta di rivalutazione.
Il ricorso incidentale deve quindi essere accolto con la cassazione della sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e con rinvio, anche per la liquidazione delle complessive spese dell'intero giudizio ad altra
sezione della Corte di Appello di Bologna.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia,
anche per la liquidazione delle complessive spese dell'intero giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di
Bologna.
Nota:
Nell'ambito della disciplina generale del contratto il principio di buona fede è più volte richiamato:
in fase di trattative (art. 1337 c.c.); in pendenza di una condizione (art. 1358 c.c.); in fase di
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interpretazione ed esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.). Buona fede che, a sua volta,
si riporta al generale precetto di cui all’art. 1175 c.c. e si sostanzia in una serie di regole
comportamentali tese ad evitare trattative superficiali e scorrette. In particolare il precetto di cui
all'art. 1337 c.c. impone alle parti di comportarsi secondo buona fede attraverso il dovere di
correttezza che incombe nella fase prenegoziale, ovvero nel corso delle trattative e nella
formazione del contratto. Il principio suddetto risulta così essere espressione di una “clausola
generale” che, secondo autorevole dottrina, riporta all’idea di “solidarietà contrattuale”e vuole in
tal modo tutelare la libertà negoziale distinguendosi dall’affidamento che invece prevede una forma
di fiducia circa la bontà del comportamento altrui. Pur sembrando un unico concetto autorevole, la
dottrina evidenzia come “l’affidamento sia una situazione soggettiva preliminare e autonoma
rispetto al principio di buona fede, la cui tutela è assicurata dall’esistenza di tale principio”i. Infatti
tutte le ipotesi di responsabilità precontrattuale contemplano casi in cui il soggetto è leso
nell'interesse alla libera esplicazione della sua autonomia negoziale a causa di un comportamento
doloso o colposo ovvero mediante l'inosservanza del precetto di buona fede della controparte. Il
dovere di buona fede impone quindi di informare la controparte sulle circostanze di rilievo
dell'affare e in particolare tutte le circostanze obiettive che renderebbero invalido, inefficace o
inutile lo stipulando contratto secondo quel dovere di solidarietà che trova la sua fonte primaria
nell’art. 2 della Costituzione. Anche la Suprema Corte ha affermato a partire dalla metà degli anni
’80 l’autonoma rilevanza giuridica della buona fede che, in senso etico, costituisce «uno dei cardini
della disciplina legale del contratto» e assurge a «dovere giuridico», che viene violato non solo nel
caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all'altra, ma
anche se il comportamento non sia stato improntato alla diligente correttezza e al senso di
“solidarietà sociale” (che nell’ambito specifico del rapporto contrattuale è la c.d. solidarietà
contrattuale). La volontà che muove un soggetto a concludere un determinato contratto, o a
concluderlo a determinate condizioni, deve quindi formarsi in modo libero e consapevole. Nel caso
in cui il processo di formazione della volontà presenti delle anomalie "a causa di un errore , di un
dolo o di una violenza"ii si è in presenza di tre figure che sono tradizionalmente designate come
"vizi della volontà" o, secondo la terminologia del codice civile, come "vizi del consenso"
(disciplinate dalla Sezione II del Capo XII del codice civile). II dolo quale vizio del consenso è
qualsiasi forma di raggiro che altera la volontà contrattuale della vittima a prescindere dal
pregiudizio patrimoniale che ne possa derivare. A norma dell'art. 1439 c.c. il contratto è annullabile
quando il dolo sia stato determinante del consenso ovvero quando in assenza del raggiro la parte
non avrebbe contrattato (c.d. dolo vizio o causam dans). Diversamente quando il raggiro non sia
stato determinante del consenso e tuttavia, in assenza di esso, la stipulazione sarebbe avvenuta a
condizioni diverse (c.d. dolo incidens), il contratto è valido ma il contraente in mala fede sarà
chiamato a rispondere dei danni (art. 1440 c.c.). Autore del dolo (deceptor) può essere anche il
terzo (quindi non solo uno dei contraenti): in tal caso il contratto è annullabile quando i raggiri
erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439, comma 2, c.c.); in caso contrario il
contratto sarà perfettamente valido. Più chiaramente, autorevole dottrinaiii ha ritenuto che se il
dolo è causa di invalidità del contratto a cagione della particolare riprovazione sociale che colpisce
la parte autrice del raggiro o che lo rende possibile, approfittandone in maniera consapevole, tale
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riprovazione non può di contro attingere il contraente che sia rimasto ignaro del raggiro, pur se di
fatto se ne trovi avvantaggiato. Deve però precisarsi che non ogni affermazione tesa a mutare il
vero è dolo: qualora non sia idonea a trarre in inganno “l’uomo medio” (che è in grado di
avvedersi che le qualità vantate servono alla sola magnificazione della cosa) si configura il c.d.
dolus bonus ritenuto legittimo perché non idoneo a viziare il consenso. Il concetto di dolo ruota
quindi intorno al c.d. «raggiro» inteso quale espediente idoneo a carpire il consenso dell’altro
contraente. In genere il raggiro si realizza con un comportamento commissivo idoneo a incidere sul
consenso: in tale forma di dolo rientra anche il mendacio che consiste in una dichiarazione con la
quale si muta il veroiv. La giurisprudenza è abbastanza cauta nel considerare la menzogna o
mendacio quale causa di annullabilità del contratto per dolo: da numerose sentenze sul tema
emerge come vi sia la preoccupazione di sanzionare la condotta menzognera del deceptor ma al
contempo di evitare che l'altro contraente possa strumentalizzare l'altrui mendacio per sottrarsi ai
vincoli di un contratto rivelatosi ex post non vantaggioso. La scelta dei giudici è in genere quella di
valutare l'idoneità della menzogna ad indurre in errore il contraente e sul valore decisivo che tale
errore abbia avuto sul consenso, tenendo conto anche della materia del contratto, delle
circostanze e delle condizioni soggettive della persona cui le dichiarazioni menzognere sono state
rivolte. Anche comportamenti di tipo omissivo, come il silenzio o la reticenza, potrebbero viziare il
consenso dell'altro contraente (c.d. dolo omissivo). È discussa in dottrina la semplice reticenza
come forma di dolo: vi è chi si esprime positivamente facendo
ricorso all’interpretazione
analogica dell’art. 1892 c.c in tema di contratti di assicurazione laddove la semplice
reticenza dell'assicurato è causa di annullamento del contratto (basti pensare a chi stipula una
polizza sulla vita e tace all'assicuratore si essere affetto da un grave malattia). Autorevole dottrina
ha ritenuto che la norma dettata in materia di assicurazione sia espressione di un più generale
principio destinato ad operare anche al di fuori di quel determinato tipo contrattualev. La suddetta
opinione ha dato però luogo ad ampia discussione ponendo in dubbio la natura speciale o
regolare della norma in esame: la norma dettata per un tipo contrattuale può si essere espressione
di un principio generale dell'ordinamento ma può anche essere una regola speciale destinata a
regolamentare le peculiarità di un tipo contrattuale. Così altra parte della dottrina applicando il
principio contenuto nell’antico brocardo “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” rifiuta l’applicazione
analogica e a contrario ritiene che la reticenza rileva nei soli casi espressamente previsti dalla
legge (come appunto nell'ipotesi disciplinata dall'art 1892 c.c.). C’è poi chi fa leva sul principio
generale della buona fede nelle trattative (art. 1337 c.c.) ritenendo che si possa individuare un
dovere dei contraenti di reciproca informazione nella fase precontrattuale: la rilevanza della
reticenza, quale causa di annullamento del contratto, dipenderebbe perciò dalla possibilità di
configurare nel caso concreto un obbligo di informare la parte in errorevi. Secondo tale
impostazione, il dolo omissivo vi sarebbe qualora il contraente avesse un dovere di informare
dell'errore l'altra parte ed invece abbia taciuto. L’obbligo di informare l’altra parte varierebbe così a
seconda della natura del contratto da concludere, delle circostanze e della tipologia dei contraenti,
trovando il giusto punto di equilibrio tra dovere di informazione e diritto al riserbo e tra dovere di
informazione di una parte ed onere di auto-informazione dell'altra. La giurisprudenza di merito
sembra più cauta e ritiene invece che la reticenza possa essere causa di annullamento del
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contratto sia pure entro certi limiti, come quando “determina un errore su un elemento del
contratto, che sarebbe stato concluso a condizioni diverse” (Trib. Padova, 16 maggio 2003) onde
evitare che diventi strumento abusato per sciogliersi da un vincolo non più vantaggioso avanzando
pretestuose mancanze di informazione. Per i giudici di legittimità è principio consolidato quello
secondo il quale l’inerzia, sub specie di silenzio o anche di reticenza, non integra il dolo omissivo in
quanto non muta il vero ma realizza una condotta passiva con cui una parte si limita a non
contrastare la percezione della realtà cui l'altra parte è pervenuta: qualora vi sia la conoscenza da
parte dell'agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima e la coscienza che sia
possibile determinarne la volontà con artifici specificamente volti all'inganno, la reticenza,
inserendosi in un comportamento complessivo, maliziosamente congegnato, rileva come dolo (Per
tutte Cass., 12 febbraio 2003, n. 2104). Più precisamente, in una successiva decisione, si delinea
ulteriormente la figura del dolo omissivo e dei presupposti necessari perché assurga a causa di
annullamento del contratto, stabilendo che la dolosa reticenza verta su una circostanza decisiva ai
fini della stipulazione del contratto e che, inoltre, si sia maliziosamente inserita in una condotta
volta a conseguire un risultato che sarebbe stato altrimenti negato ai richiedenti (Cass., 19
settembre 2006, n. 20620). Seguendo il precedente indirizzo vi è altra dottrina che, riprendendo la
tradizionale ripartizione tra norme sull’atto e norme sul comportamentovii, ritiene che le norme ex
artt. 1337-1338 c.c., siano norme sul comportamento la cui violazione comporti naturalmente ed
esclusivamente la tutela risarcitoria anche laddove il contratto sia intervenuto senza essere invalido
o seguito dall’azione volta a stigmatizzare l’invaliditàviii. Emerge quindi la distinzione tra regole di
validità - la cui violazione incide sulla sorte del contratto - e regole di correttezza - la cui
inosservanza obbliga a risarcire il danno derivante dalla condotta contraria ai doveri di solidarietà
nei rapporti interprivati - nota sin dall’epoca del codice previgente. Si deve a tal punto chiarire un
punto fondamentale, ossia quello della natura della responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, che scaturisce dalla previsione dell’art. 1440 c.c. . L’inquadramento della
responsabilità nell’una o nell’altra fattispecie non è cosa di poco conto, stante le differenze in
ordine all’onere della prova e alla prescrizione del termine per proporre l’ azione e al risarcimento
danni, che intercorrono nelle due ipotesi. Secondo un primo isolato orientamento giurisprudenziale,
la responsabilità per dolo incidente avrebbe natura contrattuale (Cass. civ., 17 luglio 1976, n.
2840): emerge subito come non si tenga in considerazione il fatto che il dolo incidente si manifesta
in una fase in cui il consenso non ancora si e’ perfezionato, con conseguente impossibilità di
configurare tale responsabilità come contrattuale. Una dottrina minoritaria condivide questa
impostazione ritenendo che non sia del tutto destituita di fondamento se si fa riferimento non già
alla fonte dell’attività dolosa, che nel caso di dolo incidente sicuramente precede il contratto, bensì
agli effetti di tale attività, che risulta comunque posta in essere in funzione della stipulazione del
contratto stesso, con conseguente rilevanza di una responsabilità di natura contrattuale in tale
evenienzaix. Più convincente appare, invece, l’orientamento giurisprudenziale che attribuisce alla
responsabilità per dolo incidente natura extracontrattuale (Cass. Civ., 4 aprile 1990, n. 2798), con
conseguente prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c. del diritto al risarcimentox. Gli
orientamenti più recenti della Suprema Corte si mostrano propensi ad attribuire a tale
responsabilità natura precontrattuale, sul presupposto che la norma di cui all’art. 1440 c.c.
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costituisca applicazione del principio generale di buona fede contenuto nell’art. 1337 c.c., il quale
impone alla parte un dovere di correttezza nel corso della formazione del contratto (Inizialmente
Cass. Civ., sez. III, 29 marzo 1999, n. 2956)xi . Quest’ultima impostazione proposta nel 1999,
sembra consolidarsi nelle ultime pronunce della Suprema Corte: la responsabilità precontrattuale,
prima ristretta ai casi di trattative infruttuose o di stipula di contratti invalidi, si estenderebbe
quindi anche al contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la vittima del comportamento
scorretto, e tanto anche nel caso del dolo incidente. L’articolo 1440 c.c., nella parte in cui
considera valido il contratto affetto da dolo incidente, sebbene con l’obbligo di risarcire il danno,
costituirebbe applicazione del modello della responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c.
(Cass. Civ., sez. III, 29 marzo 1999, n. 2956). Con quest’ultima pronuncia per la prima volta si
stabilisce che “l’art. 1440 c.c. costituisce applicazione del principio generale di buona fede
contenuto nell’art. 1337 c.c.”. Un ulteriore segno dell’apertura giurisprudenziale arriva poi con la
sentenza della Suprema Corte, 29 settembre 2005, n. 19024, nella quale si stabilisce che “la
violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nella fase delle trattative e nella
formazione del contratto, stabilito dall’art. 1337 c.c., assume rilievo non soltanto nel corso di
rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace,
ma anche quale dolo incidente (art. 1440 c.c.), se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti
pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto”. Nel 2007 le Sezioni
Unite intervengono poi cristallizzando due principi di grande interesse contenuti nell’art. 1440 c.c.:
la responsabilità precontrattuale non riguarda solo le trattative infruttuose ma anche quelle
fruttuose ma dannose, sfociate cioè in un contratto valido ma sconveniente; il risarcimento del
danno, trattandosi di trattativa non infruttuosa ma dannosa, riguarda l’interesse positivo
differenziale, derivante dalla comparazione tra il contratto concluso e quello che sarebbe stato
stipulato in assenza di un comportamento abusivo (Cass. Civ., sez. un., 19 dicembre 2007 nn.
26724 e 26725). Con la sentenza n. 5965 del 16/04/2012 la Suprema Corte torna ad occuparsi del
dolo omissivo e del suo ruolo sulla formazione della volontà, prospettando i possibili rimedi nel
caso in cui un contratto si configuri come valido ed efficace ma “sconveniente”. Nella fattispecie
veniva proposta domanda risarcitoria in conseguenza della vendita di un terreno alla quale i
venditori si erano determinati per effetto di un consenso viziato da dolo incidente, avendo
l’acquirente taciuto che sul terreno oggetto di compravendita, prima del rogito, era stata trasferita
una potenzialità edificatoria e pertanto il terreno era stato venduto al prezzo di un terreno non
edificabile e non al maggior prezzo che sarebbe stato richiesto se ne fosse stata conosciuta
l’edificabilità. Per i ricorrenti, l’acquirente avrebbe violato l’obbligo di buona fede e di
comportamento leale tacendo maliziosamente, durante le trattative, la circostanza che sul terreno
sarebbe stata portata una potenzialità edificatoria in quanto rientrava in un progetto di
riqualificazione urbana. I giudici del Palazzaccio premettono che, non essendoci l’edificabilità del
terreno al momento del rogito ma la sola previsione in strumenti urbanistici non ancora approvati,
è da escludere che l'ignoranza su tale qualità possa integrare errore su una qualità essenziale (cfr.
Cass. Cass. S.U. 1/7/1997 n. 5900, Cass. 11/9/2000 n. 11927). “Non essendo stata poi proposta
domanda di annullamento, ma solo domanda risarcitoria per dolo incidente ed essendo stato
richiesto il risarcimento di un danno che deriva da un contratto valido ed efficace ma
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"sconveniente", neppure è necessario indagare se l'inganno abbia riguardato una qualità
essenziale del bene o se sia stato determinante per il consenso, in quanto l'attività ingannatrice, in
questo caso, ha una incidenza minore influendo solo su modalità del negozio che la parte non
avrebbe accettato se non fosse stata fuorviata dal raggiro. Questa figura di dolo attiene dunque
alla formazione del contratto e la sua eventuale esistenza non incide sulla possibilità di far valere i
diritti sorti dal medesimo, ma comporta soltanto che il contraente in mala fede (ossia che ha
violato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c.) è responsabile dei danni provocati dal suo
comportamento illecito” (Cass. civ., sez. II, 16 aprile 2012, n. 5965). Per i giudici del secondo
grado vi sarebbe stata invece insussistenza del dolo incidente perché il non aver dato,
volutamente, una informazione che secondo buona fede il compratore era tenuto a dare nella fase
di conclusione del contratto, la questione avrebbe rilevato come violazione dell'obbligo di buona
fede sancito dall'art. 1337 c.c. . Diversamente i giudici ermellini configurano la violazione di una
regola di comportamento (che nella specie si dovrebbe ravvisare nell'obbligo di dare un particolare
informazione), in quanto consapevolmente commessa per ottenere migliori condizioni di prezzo,
come dolo omissivo. I giudici di Piazza Cavour ritengono altresì corretto affermare che il contraente
non ha diritto di occultare i fatti la cui conoscenza è indispensabile alla controparte per una
corretta formazione della propria volontà contrattuale (Cass. 5/2/2007 n. 2479), sebbene l'obbligo
informativo non può essere esteso fino al punto di imporre al contraente di manifestare i motivi
(nella specie il trasferimento dell'edificabilità) per i quali stipula il contratto, così da consentire
all'altra parte di trarre vantaggio non dall'oggetto della trattativa, ma dalle altrui motivazioni e dalle
altrui risorse. Il risarcimento del danno, sarebbe allora l'unico strumento di tutela che il legislatore
espressamente accorda al contraente ingannato, ove subisca una condotta integrante il dolo
incidente di cui all'art. 1440 c.c. che quindi non raggiunge la soglia del dolo determinante ex art.
1439 c.c. tanto da giustificare l’azione di annullamento. Si tratta quindi di rimedi autonomi e
distinti in quanto il primo riguarda la scorrettezza comportamentale, il secondo, invece, sanziona,
sul piano statico, l'atto in sé. A tal punto è necessario distinguere le due ipotesi sotto i profili dell’
an e del quantum debeatur, anche ai fini del riparto dell’onere della prova. La giurisprudenza ha
chiarito che se il soggetto leso riesca a provare il raggiro su un elemento non trascurabile del
contratto, non è tenuto a provare null'altro, in quanto è da ritenersi operante una presunzione juris
tantum che, senza la condotta illecita, le condizioni contrattuali sarebbero state diverse e quindi a
lui più favorevoli (Cass. civ. n. 8318/1990). Nel caso di dolo incidente, si fa invece ricorso al
concetto di prezzo di mercato come normale indice del danno patrimoniale subito dal contraente
che, per effetto del dolo, ha acquistato e venduto ad un prezzo meno favorevole (Cass. civ. n.
2840/1976). Si discute poi se il danno da risarcire nella specie sia rappresentato dall'interesse
negativo da lesione della libertà di autodeterminazione negoziale (comprendente il danno
emergente ed il lucro cessante, riferiti, però, all'interesse che il contraente aveva nella fase delle
trattative a non stipulare un contratto invalido, inefficace o che, comunque, non avrebbe stipulato,
se non altro a quelle condizioni) o dall'interesse positivo all'esatta esecuzione del contratto, alle
condizioni più favorevoli che la parte avrebbe ottenuto. Il problema diventa spinoso, posto che, da
una parte, l'interesse negativo è l'interesse risarcibile nell'ottica della violazione dell'art. 1337 c.c.,
e quindi nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale; mentre, dall'altra, l'interesse positivo dà per
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presupposto un contratto stipulato a diverse condizioni. Per quanto fin qui detto, non si può non
notare che l’art. 1440 c.c. si pone in una posizione molto particolare: da una parte il dolo incidente
è strettamente connesso alla disciplina dell’art. 1337 c.c., ma dall’altra non si può dire che un
contratto concluso non vi sia: al contrario il contratto, seppur viziato da dolo incidente è valido e
operante. La quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza, considerato che nel caso del dolo
incidente viene in rilievo un contratto validamente concluso, ritiene che l’interesse risarcibile è
quello positivo (ipotetico) visto nell’ottica di un aggiustamento dello squilibrio negoziale creatosi.
La questione resta però accesa sull'ampiezza da attribuire all’interesse positivo, che non può
essere inteso nella sua accezione tradizionale. Parte della dottrina è orientata ad una risarcibilità
del solo lucro cessante e ritiene che il danno vada ad identificarsi nella minore convenienza
dell'affare, ossia nel minore vantaggio o nel maggiore aggravio economico conseguenti alla diversa
determinazione del contratto per effetto dell'intervento doloso, salva la dimostrazione di danni
ulteriori; non sembrerebbe giustificato il risarcimento del danno emergente posto che in presenza
di dolo incidente il contratto preserva la propria validità. Così se da un lato il risarcimento del lucro
cessante è pacifico, dall’altro l’estensione del risarcimento al danno emergente non sembra trovare
motivazioni logico giuridiche convincenti, considerato, come già si è detto, che in presenza di dolo
incidente il contratto preserva la propria validità e non è soggetto ad annullamento; è quindi una
forzatura parlare di danno emergente e di perdita dell’interesse che la obbligazione è volta a
realizzare. La giurisprudenza ha invece aperto alla risarcibilità e del lucro cessante e del danno
emergente, affermando che "Il danno risarcibile nell'ipotesi prevista dall'art. 1440 c.c. non si
esaurisce nelle diverse condizioni alle quali l'accordo viene concluso, bensì si estende alla totalità dei
danni, valutati nel loro complesso, che risultino collegati da un rapporto rigorosamente
consequenziale e diretto; a tal fine rilevano sia il danno emergente che il lucro cessante” (Cass.
Civ., sez. III, 29 marzo 1999, n. 2956). Si parla così di criterio positivo differenziale (del c.d.
interesse positivo ipotetico), che sarà pari alla differenza valoristica tra i vantaggi e le conseguenze
economiche che il contratto stipulato produce e quelli che il contratto avrebbe prodotto se fosse
stato stipulato in assenza del comportamento scorretto. Nella pronuncia in commento la Suprema
Corte ha stabilito che“[…]i danni vanno commisurati al "minor vantaggio", ovvero al "maggior
aggravio economico" prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede”
(Cass. civ., sez. II, 16 aprile 2012, n. 5965).
Avv. Mario Porcelli
i
MERUSI, Buona fede ed affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, Giuffrè, Milano 2001
ii
ALPA - BONILINI, Istituzioni di diritto privato , a cura di BESSONE, Giappichelli, Torino, 1995
iii
BIANCA, Diritto civile. 3. Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000
iv
SACCO, Il consenso, in Trattato di Diritto Privato diretto da RESCIGNO, Utet, Torino, 1984
v
GALGANO, Diritto civile e Commerciale, II, Cedam, Padova, 2004.
vi
VISINTINI, La reticenza nella formazione dei contratti, Cedam, Padova, 1972
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vii
ROPPO, La tutela del consumatore fra nullità e risoluzione, in Danno e resp., n. 6, 2005
viii
CARINGELLA – DE MARZO, Manuale di diritto civile, III Il contratto, Giuffrè, Milano, 2008
ix
RAVAZZONI, La formazione del contratto, II, Giuffrè, Milano, 1974
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MESSINEO, Manuale di Diritto Civile e Commerciale, I, Giuffrè, Milano, 1957
xi
SAGNA, Il risarcimento del danno nella responsabilità precontrattuale, Giuffrè, Milano, 2004
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