Unità 1 I nuclei atomici e la radioattività

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TOMO V
convenzioni: i simboli in grassetto vanno frecciati,
238
nei simboli come 92U i numeri vanno sovrapposti in verticale
Modulo 3 La Fisica nucleare e subnucleare
Unità 1 I nuclei atomici e la radioattività
La fisica nucleare nasce negli anni attorno al 1900, in un periodo di eccezionali progressi. Che vede
susseguirsi prima la scoperta della radioattività naturale (1896), poi quella dell’elettrone (1897), e
quindi gli esperimenti di Rutherford (1911), che portano a individuare i nuclei atomici, di
dimensioni minuscole rispetto a quelle degli atomi, nei quali però è concentrata quasi tutta la loro
massa. Nei decenni successivi si ottengono artificialmente nuovi elementi chimici, e si scopre che
l’atomo può costituire una fonte quasi inesauribile di energia, ma anche prestarsi a realizzare le
armi più micidiali mai costruite dall’uomo.
Figura 0. Una immensa fornace termonucleare, nella regione centrale del Sole, sviluppa continuamente enormi quantità
di energia. Qui avviene la fusione di nuclei di idrogeno in nuclei di elio, liberando circa 25 MeV di energia per ogni
nucleo di elio prodotto. Il processo durerà fino all’esaurimento del “combustibile”, quando il Sole collasserà in una
gigantesca esplosione che inghiottirà il nostro pianeta. Ma non è il caso di preoccuparsi, perché ciò avverrà non prima
di 5 miliardi di anni.
(Immagine da trovare)
1.1 I nuclei degli atomi sono fatti di protoni e neutroni
Quasi tutta la massa di un atomo è concentrata in un nucleo di dimensioni piccolissime, che è
dotato di carica elettrica positiva pari a quella, negativa, degli elettroni che lo circondano. Queste
sono le conclusioni essenziali degli esperimenti di Rutherford del 1911 ( Tomo IV, pag. xxx).
Che furono svolti inviando particelle alfa, cioè nuclei di elio, contro uno straterello di metallo e
studiando poi le deviazioni, rispetto alle traiettorie iniziali, che queste subivano interagendo con gli
atomi del metallo. La risposta di Rutherford alla domanda “come sono fatti gli atomi?” pose però
tutta una serie di nuovi quesiti: come sono fatti i nuclei? quali sono le loro dimensioni? quali forze
li tengono assieme?
La risposta al primo quesito della serie fu data nel 1919 dallo stesso Rutherford e poi, nel
1932, dal fisico inglese Robert Chadwick (1891-1974,
Tramutando l’azoto in ossigeno, Rutherford
Nobel nel 1935), in entrambi i casi, ancora, utilizzando
realizzò il sogno di generazioni di alchimisti:
trasformare un elemento chimico in un altro.
particelle alfa come proiettili. Bombardando l’azoto,
Dimostrando che questo processo, non
Rutherford trovò che la cattura della particella alfa lo
ottenibile con mezzi chimici, poteva attuarsi
trasformava in ossigeno, ma contemporaneamente
operando sui nuclei degli atomi.
venivano emesse delle altre particelle, evidentemente
scacciate dai nuclei di azoto. Queste erano dotate di carica positiva unitaria (uguale a quella
dell’elettrone, ma di segno opposto), e di massa appena inferiore a quella di un atomo di idrogeno.
Ad esse fu dato il nome di protoni. stabilendo poi che si trattava di nuclei di idrogeno. In seguito
Chadwick, bombardando atomi di berillio, osservò l’emissione di particelle elettricamente neutre,
dotate di massa appena maggiore di quella dei protoni. Questa nuove particelle neutre vennero
chiamate neutroni.
Per un certo tempo gli scienziati credettero di aver stabilito
Si potè così stabilire che i nuclei di
definitivamente la struttura della materia, riconducendone
qualsiasi atomo sono costituiti dall’unione
la composizione a tre “particelle elementari”: elettrone,
di protoni e di neutroni (l’unica eccezione è
protone e neutrone. Ma in seguito furono individuate altre
particelle, e allora le frontiere della ricerca si spostarono
l’idrogeno, il cui nucleo possiede un
protone e basta). E perciò queste due specie dalla fisica nucleare alla fisica subnucleare.
di particelle si chiamano collettivamente nucleoni. Sicchè per caratterizzare un nucleo basta
specificare il numero N dei suoi neutroni e il numero Z dei suoi protoni, chiamato numero
atomico. Un atomo con un nucleo con Z protoni deve possedere Z elettroni, in modo da essere
complessivamente neutro. E poiché le proprietà chimiche di un atomo dipendono dai suoi elettroni,
nella Tavola periodica i diversi elementi sono disposti secondo il valore del loro numero atomico Z.
Il numero totale di nucleoni di un nucleo, dato dalla somma
1
(1)
A=Z+N
prende il nome di numero di massa, perché tale grandezza è un indice significativo, sebbene non
esatto, della massa di un nucleo (e anche di un atomo completo dei suoi leggerissimi elettroni) dato
che le masse di un protone e di un neutrone differiscono di pochissimo ( Tabella 1 a pag. xxx).
Il numero di atomico e il numero di massa sono usati per rappresentare i nuclei, con la
notazione: AZX, dove X è il simbolo dell’elemento. Così il nucleo dell’idrogeno (H), dotato di un
solo protone, si indica con il simbolo 11H; quello del fosforo (P), che possiede Z = 15 protoni e N =
16 neutroni, con il simbolo 3115P; quello dello iodio (I), che possiede Z = 53 protoni e N = 74
neutroni, con il simbolo 12753I. Si usa anche indicare i nuclei precisandone soltanto il numero di
massa, con le notazioni: fosforo-31 o P-31 nel caso del fosforo, iodio-53 o I-53 nel caso dello iodio.
La forma dei nuclei è generalmente sferica, a volte leggermente ellissoidale o a forma di
pera, con raggio r (approssimativamente) proporzionale alla radice cubica del numero di massa
(2)
r ≈ r0 A1/3
dove r0 ≈ 1,2 fm (ricordiamo che 1 fm = 10-15 m).
Il femtometro (fm) viene
spesso chiamato fermi, in
onore di Enrico Fermi.
Esempio 1. Calcoliamo il raggio di un nucleo di idrogeno 11H e di uno di uranio 23892U.
Confrontiamo il raggio del nucleo di idrogeno con quello dell’atomo di idrogeno: r A =52,9 pm.
Applicando la formula (1) abbiamo per il nucleo di idrogeno: rH ≈ 1,2 fm, per il nucleo di uranio: rU
≈ 1,2(238)1/3 fm = 7,44 fm. Ciò mostra che, sebbene il nucleo di uranio sia assai più massiccio di
quello di idrogeno, la dipendenza del raggio dalla radice cubica della massa conduce a una sua
crescita assai moderata all’aumentare della massa. Il rapporto fra i raggi dell’atomo e del nucleo di
idrogeno è: (1,2 fm)/(52,9 pm) = 2,27∙10-5, mostrando quindi che l’atomo è quasi vuoto.
Esempio 2. Calcoliamo la densità della materia nucleare.
Il volume di un nucleo, considerandolo sferico, si ricava dalla (2): Vn = 4r03/3. Assumendo
approssimativamente uguali le masse del protone e del neutrone (m ≈ 1,67∙10 -27 kg) la massa del
nucleo è: mn ≈ mA. E quindi la sua densità è:  ≈ mn/Vn = 3m/4r03 =
31,67∙10-27/(43,14(1,2∙10-15)3 = 2,3∙1017 kg/m3. Tale valore è straordinariamente grande, di ben
14 ordini di grandezza maggiore di quello della materia ordinaria ( ~103 kg/m3).
La legge (2) porta a concludere che la densità della materia
Gli unici oggetti macroscopici conosciuti
con densità pari a quella della materia
nucleare: a) è straordinariamente grande, b) è costante, cioè
nucleare sono le stelle di neutroni.
non dipende dalla massa dei nuclei, perché il volume
occupato da un nucleo è proporzionale al numero dei suoi nucleoni. Esattamente come avviene per
una goccia d’acqua, il cui volume è proporzionale al numero delle molecole che contiene. Ma le
analogie fra un nucleo atomico e una goccia di liquido non finiscono qui: come le molecole in una
goccia, i nucleoni sono soggetti a moti all’interno del nucleo e, come per le molecole di una goccia,
le forze agenti fra essi (vedremo quali nel §3) si manifestano nell’equivalente di una “tensione
superficiale” che tende a tenerli assieme, evitando così la frammentazione della “goccia nucleare”.
Una descrizione rigorosa dei nuclei atomici, d’altra parte, deve basarsi sulla meccanica
quantistica. Così procedendo si trova che, come un atomo, un nucleo può assumere un insieme
discreto di livelli di energia: trovandosi normalmente nello stato fondamentale, ma potendo passare
a uno stato eccitato più energetico, diseccitandosi poi con l’emissione di un fotone. Le energie di
questi fotoni sono tipicamente nella regione dei MeV, cioè tre ordini di grandezza maggiori di
quelli emessi dagli atomi eccitati. Si trova inoltre che i protoni e i neutroni possiedono spin ½;
quindi i nuclei, il cui spin è la somma degli spin delle particelle costituenti, possiedono spin intero o
semiintero a seconda che il numero di massa sia pari o dispari.
2
La fisica attorno a noi 1. La risonanza magnetica.
Sottoponendo un atomo a un campo magnetico, è possibile alterarne lo stato di spin del nucleo. Nel
caso dell’idrogeno, il protone del nucleo può allinearsi in direzione parallela o antiparallela a quella
del campo esterno. A questi due diversi stati di spin corrispondono energie leggermente diverse,
con differenza E. E allora quando un fotone di frequenza f = E/h raggiunge un protone che si
trova nello stato inferiore, esso viene assorbito dal nucleo, che transisce al livello superiore. Dal
quale poi decade emettendo un fotone della stessa frequenza.
La risonanza magnetica funziona su questo principio per ricavare immagini delle parti interne del
corpo. Un impulso di energia elettromagnetica (in pratica a radiofrequenza) porta inizialmente al
livello superiore tutti i nuclei di idrogeno della parte in esame (ricordiamo che il corpo umano è
costituito da acqua per oltre i 2/3). Successivamente, i nuclei eccitati tornano nello
stato fondamentale emettendo fotoni della stessa frequenza, che vengono rivelati,
permettendo così di ottenere una immagine assai dettagliata della struttura interna
della parte in esame. Ciò permette, in particolare, di individuare la presenza di
tumori, la cui concentrazione di acqua è diversa da quella dei tessuti circostanti.
Figura. Immagine ottenuta mediante risonanza magnetica. (da trovare, con didascalia appropriata)
Figura 1. Il grafico rappresenta la densità della carica elettrica in funzione
della distanza radiale per un nucleo di germanio (A = 70). Analogo
andamento presenta anche la densità di massa.
(fm)
raggio del nucleo
Figura 2. Il grafico
rappresenta il raggio r
di un nucleo in
funzione del numero
di massa A. Il raggio è
definito
come
la
distanza dal centro del nucleo, supposto sferico, a cui il valore della
densità della materia nucleare si dimezza rispetto alla regione
centrale, dove è costante ( Figura 1).
numero di massa A
Figura 3. Immagine assai semplificata di un
nucleo atomico, formato da protoni e neutroni,
che sono in moto continuo, come le molecole in una goccia d’acqua. Notate che protoni e neutroni,
come vedremo nella prossima Unità, non sono “particelle elementari”, ma hanno a loro volta una
struttura interna, essendo costituiti da quark.
1.2 Le masse nucleari e gli isòtopi.
Le unità di massa usate in fisica nucleare
Possiamo esprimere le masse dei nuclei e delle altre particelle in unità di kilogrammi, ma i numeri
in gioco sono straordinariamente piccoli e perciò scomodi. E infatti più spesso queste masse
vengono espresse in unità di massa atomica, o in altre unità ancora, come vedremo subito. L’unità
di massa atomica è definita come la massa della dodicesima parte di un atomo di carbonio
12
6C dotato di 6 protoni e di 6 elettroni, ed è rappresentata con il simbolo u. Se a questo atomo,
avente A = 12, si assegna la massa di 12 u, si immagina che quella di un atomo di idrogeno, con A
= 1, sia 1 u, ma non è esattamente così: non soltanto perché le masse dei protoni e dei neutroni
sono lievemente diverse, ma anche perché, come scopriremo nel §3, la massa di un atomo è sempre
minore dalla somma delle masse delle particelle costituenti.
Dalla definizione anzidetta deriva l’equivalenza:
(3)
1 u = mC12/12 = 1,660539∙10-27 kg
Ma si usa anche esprimere le masse in unità di eV/c 2 utilizzando la relazione di equivalenza fra
massa ed energia E = mc2. Così procedendo, alla massa m = 1 u corrisponde l’energia E = (1 u) c2 =
3
(1,660539∙10-27 kg) (2,99792458∙108 m/s)2 (1 eV/(1,602177∙10-19 J) = 9,31494∙108 eV = 931,494
MeV. Si ha quindi l’altra equivalenza
(4)
1 u = 931,494 MeV/c2
Tabella 1. Masse dell’elettrone, del protone e del neutrone
simboli massa in kg
massa in u
massa in MeV/c2
elettrone e, 0-1e 9,109390∙10-31 5,48580∙10-4 0,510 999
protone p, 11H 1,672622∙10-27 1,007276
938,272
1
-27
neutrone n, 0n 1,674927∙10
1,008665
939,565
Gli isòtopi
E’ naturale immaginare che tutti gli
atomi di un determinato elemento
siano identici, come pensavano del
resto in passato gli scienziati, dal tempo di Dalton. Ma non è così, come si accorsero per primi
Rutherford e il chimico Frederick Soddy (Premio Nobel per la Chimica nel 1923), trovando che
certi atomi di piombo erano radioattivi, cioè emettevano radiazioni, e altri no, pur avendo tutti le
stesse proprietà chimiche; e che lo stesso avveniva anche per altri elementi.
A queste variazioni di un dato elemento chimico Soddy attribuì il nome di isòtopi (dal greco
isos, che significa “stesso”, e topos, che significa “posto”) per indicare che occupano la medesima
casella nella Tavola periodica degli elementi. L’idea di Soddy trovò presto piena conferma. Gli
esperimenti sulla misura della massa atomica del neon, svolti da J.J. Thomson e F.W.Aston,
portarono infatti a concludere che “Il neon non è un gas singolo, ma una miscela di due gas, uno
dei quali con massa atomica di circa 20, l’altro di circa 22”. E per questo le masse atomiche degli
elementi riportate nella tavola periodica sono date dalla media pesata dei diversi isòtopi, usando
come pesi le loro abbondanze relative in natura.
Esempio 3. Calcoliamo la massa atomica media del neon sapendo che in natura questo gas è
costituito al 90,48% dall’isòtopo 2010Ne con massa atomica 19,99 u, allo 0,27% dall’isòtopo
21
22
10Ne con massa atomica 20,99 u e al 9,25% dall’isòtopo 10Ne con massa atomica 21,99 u.
La massa atomica media del neon si ottiene calcolando la media pesata delle masse dei tre isotopi:
mNe = 19,9990,48/100 + 20,990,27/100 + 21,999,25/100 = 20,18 u. Tale valore è in buon
accordo con quello riportato sulla Tavola periodica.
Praticamente a tutti gli elementi chimici corrispondono vari isòtopi, oltre una dozzina per alcuni
elementi. Complessivamente si sono identificati oltre duemila nuclìdi, si chiamano così
collettivamente i diversi nuclei: alcune centinaia esistenti in natura, altri ottenuti attraverso
trasmutazioni artificiali; alcuni stabili, altri, più numerosi, instabili, cioè radioattivi.
Come si possono separare fra loro i diversi isòtopi di un dato elemento? Non certamente con
mezzi chimici, ma soltanto con mezzi fisici, per esempio la centrifugazione, che sfruttano le piccole
differenze fra le masse, e quindi fra le densità, dei diversi isòtopi di un elemento.
Gli isòtopi dell’idrogeno
Sono particolarmente interessanti, oltre che importanti per varie ragioni, i tre isòtopi dell’idrogeno:
l’idrogeno normale 11H, nel cui nucleo si trova come sapete un solo protone; l’idrogeno pesante o
deuterio 21H, nel cui nucleo si trova anche un neutrone e il trizio 31H, nel cui nucleo, oltre al
protone, si trovano due neutroni. L’idrogeno normale è di gran lunga il più comune in natura
(99,985%): il deuterio è assai raro (0,015%) e il trizio, che è radioattivo, è presente in natura solo in
tracce minime. Le masse di questi tre isòtopi, naturalmente, sono assai diverse. Ma sono anche
leggermente diverse le proprietà chimiche del deuterio e dell’idrogeno normale, costituendo perciò
una eccezione alla regola per cui tutti gli isòtopi di un dato elemento sono chimicamente
indistinguibili: si capisce che i due nuclei, così diversi, interagiscono differentemente con il loro
elettrone. Gli organismi viventi, per esempio, rispondono diversamente all’acqua ordinaria e
all’acqua pesante (formata da due atomi di deuterio e uno di ossigeno).
Figura 3. I tre isòtopi dell’idrogeno: idrogeno normale, deuterio e trizio. (Adattare da Hecht, pag. 1084)
4
1.3 La forza nucleare e l’energia di legame dei nuclei
Cosa tiene assieme un nucleo atomico? I nuclei non dovrebbero
disintegrarsi a causa della repulsione elettrostatica fra i protoni che si
trovano al loro interno?
Se all’interno dei nuclei non
agissero altre forze oltre quella
elettrostatica, repulsiva fra i
protoni, gli unici atomi stabili
sarebbero quelli di idrogeno.
Esempio 4. Calcoliamo l’intensità della forza repulsiva fra i due protoni di un nucleo di elio.
Nel nucleo dell’isotopo di elio più comune (42He), chiamato anche particella alfa, vi sono 2 protoni
e 2 neutroni, e quindi Z = 2, A = 4. Pertanto il raggio di questo nucleo, utilizzando la formula (2),
è: r ≈ 1,2(4)1/3 fm = 1,9 fm. Assumendo tale valore come distanza media approssimata fra i due
protoni, si conclude che fra essi si esercita una forza elettrostatica repulsiva di intensità: F = q 2/
(4d2), dove q è la carica del protone, pari in valore assoluto a quella dell’elettrone. Assumendo
per semplicità che il valore della costante dielettrica sia quello del vuoto,  = 8,85∙10-12 in unità SI,
q2
(1, 6 1019 ) 2
si ha: F 

 63,8 N . Cioè un valore gigantesco,
4 0 r 2 4  3,14  8,85 1012  (1,9 1015 ) 2
tenendo conto della straordinaria piccolezza delle masse (≈ 10-27 kg) su cui si esercita.
E’ chiaro che fra i nucleoni si deve esercitare qualche forza, che li tenga assieme vincendo la
repulsione elettrica. E questa è la cosidetta forza nucleare, una manifestazione della interazione
forte di cui ci occuperemo nell’Unità 2, che si esercita allo stesso modo fra due protoni, fra due
neutroni o fra un neutrone e un protone. Questa forza presenta caratteristiche assai particolari, che
sono state individuate lanciando un neutrone contro un protone, cioè usando come sonda una
particella neutra che non risente del campo elettrico dovuto al protone. Si è trovato così che la forza
nucleare non ha nessuna influenza sul neutrone finchè la sua distanza dal protone è superiore a circa
2-3 fm. A distanze inferiori, la forza nucleare si manifesta con un effetto fortemente attrattivo (fino
a oltre 100 N), che diviene poi repulsivo a distanze inferiori a 1 fm, tanto che non si riesce ad
avvicinare le due particelle a meno di circa 0,4 fm.
Sicchè la forza nucleare è una forza a corto raggio, a differenza delle altre che conoscete,
come la forza elettrica o quella gravitazionale la cui intensità diminuisce con il quadrato della
distanza, annullandosi dunque soltanto all’infinito. Inoltre, come si è detto, la forza nucleare può
essere attrattiva o repulsiva, a seconda della distanza fra le particelle su cui si esercita, come è
rappresentato nella parte a) del grafico di figura 5.
Esaminando la figura 6, che rappresenta i nuclìdi attualmente noti in un piano con il numero
atomico Z in ascissa e il numero N di neutroni in ordinata, si osserva che i nuclei con un numero
relativamente piccolo di nucleoni hanno approssimativamente tanti neutroni quanti protoni, e infatti
sono allineati lungo la semiretta N = Z. I nuclei più massicci, invece, si discostano da questa retta
perché hanno valori crescenti del rapporto N/Z. Si osserva poi che i nuclei stabili si trovano in una
regione determinata, che è chiamata valle della stabilità, perché allontanandosi da essa i nuclei sono
radioattivi, cioè instabili, oppure non sono indicati perchè non possono esistere (o perché ancora
non si conoscono).
Queste osservazioni si spiegano tenendo conto della natura a corto raggio della forza
nucleare, che perciò esercita la sua azione attrattiva solo fra nucleoni che si trovano a piccola
distanza fra loro, mentre invece la repulsione elettrostatica agisce fra praticamente tutti i protoni di
un nucleo, in misura crescente all’aumentare del loro numero. Si capisce allora che i neutroni
esercitano fra i nucleoni una funzione di “colla” attrattiva, che “diluisce” la repulsione fra i protoni:
la presenza dei neutroni, in altre parole, evita che troppi protoni si trovino vicini fra loro, cosa che
condurrebbe il nucleo a esplodere. In prossimità della superficie del nucleo, inoltre, la forza
nucleare è chiaramente diretta laddove i nucleoni superficiali “vedono” gli altri nucleoni, cioè verso
l’interno. Contribuendo così alla stabilità della “goccia” nucleare, in modo simile alla tensione
superficiale in una goccia di liquido. Ciò spiega anche la forma sferica, o approssimativamente tale,
dei nuclei.
5
L’energia di legame dei nuclei.
Lanciando un neutrone contro un protone, quando le due particelle sono sufficientemente vicine
interviene la forza nucleare, fortemente attrattiva, che le unisce assieme. Si forma così un
deuterone, cioè un nucleo di deuterio, che è un nuclìde stabile. E nel processo si libera energia
elettromagnetica, nella forma di un fotone , con energia di 2,224 MeV.
Misurando accuratamente la massa del deuterone si trova m = 2,013553 u. Sommando
assieme le masse di un neutrone e di un protone, si ha invece: m n + mp = 1,008665 + 1,007276 =
2,015941 u. Cioè la massa del deuterone è inferiore a quella dei suoi costituenti. Che fine ha fatto la
massa mancante? Si ha forse una violazione del principio di conservazione della massa?
Convertendo in energia la massa mancante, chiamata più precisamente difetto di massa,
m = massa del deuterone – massa dei suoi nucleoni = 2,015941 - 2,013553 = 0,002388 u
usando la formula (3) otteniamo l’energia E = (0,002388 u) (931,494 MeV/u) = 2,224 MeV, che
corrisponde esattamente a quella emessa sotto forma di fotone .
Possiamo dunque dire che nella reazione nucleare di formazione del deuterone
1
1p
+ 10n  21H + 
la massa non si è conservata, ma si è conservata la massa-energia totale. Questa è, naturalmente,
una proprietà generale delle reazioni nucleari, come di qualsiasi altro processo fisico. Ciò che si
conserva certamente in qualsiasi reazione nucleare è la carica elettrica, e infatti il deuterone ha
carica positiva unitaria come il protone, e anche il numero di massa, e infatti il deutone ha Z = 2,
pari alla somma dei numeri di massa del protone e del neutrone. E quindi vale la seguente regola
generale: in una reazione nucleare le somme dei numeri scritti in alto (numeri di massa) e di quelli
scritti in basso (numeri atomici) devono essere uguali ai due lati della freccia.
Esempio 4. Calcoliamo il difetto di massa di un nucleo di elio e di un nucleo di ferro.
Il difetto di massa di un nucleo di massa m, costituito da Z protoni e N = A - Z neutroni,
è dato in generale dalla formula: m = m – (Z np + N nn).
Il nucleo di elio 42He ha massa mHe = 4,001506 u, con Z = 2, N = 2. Si ha pertanto: m
= 4,001506 – (21,007276 + 21,008665) = - 0,03038 u.
Il nucleo di ferro 5626Fe (il più comune in natura) ha massa mFe = 55,9349394 u, con Z =
26, N = 30. Si ha pertanto: m = 55,9349394 – (261,007276 + 301,008665) = - 0,514187 u.
Il fenomeno della massa mancante si manifesta nella formazione di tutti i nuclei. L’energia
corrispondente ha un significato importantissimo perché rappresenta l’energia che occorre fornire al
nucleo per separarlo nei suoi costituenti. E quindi questa energia rappresenta l’energia di legame
del nucleo.
Il grado di stabilità di un nucleo, tuttavia, non è ben rappresentato dalla sua energia di
legame totale, cioè l’energia necessaria per suddividerlo nei nucleoni che lo costituiscono. E’
invece assai più significativa l’energia che occorre per strappare al nucleo un nucleone, cioè
l’energia di legame totale divisa per il numero di massa, chiamata energia di legame per nucleone.
Questa grandezza è rappresentata nella figura 7 per i nuclei di alcuni degli atomi più comuni in
natura. Si vede che i nuclei più stabili sono quelli con numero di massa compreso, grosso modo, fra
50 e 100, ai quali compete una energia di legame di poco meno di 9 MeV/nucleone. Meno stabili
sono sia i nuclei più leggeri che quelli più pesanti.
Notate però l’entità di queste energie di legame, che sono tre ordini di grandezza maggiori
di quelle che legano gli elettroni agli atomi, ricordando che per ionizzare un atomo di idrogeno
occorrono 13,6 eV.
6
Figura 5. Le due parti del grafico rappresentano l’intensità e il verso
delle forze agenti fra due nucleoni. a) La forza nucleare agente fra
due nucleoni qualsiasi (due protoni, due neutroni, un neutrone e un
protone) è a corto raggio: al crescere della distanza fra i nucleoni,
prima è repulsiva, poi attrattiva e infine si annulla. b) La forza
elettrica agente fra due protoni è sempre attrattiva, ma è a lungo
raggio: all’aumentare della distanza essa diminuisce lentamente, per
annullarsi solo all’infinito.
Figura 6. Ognuno dei minuscoli quadratini in figura rappresenta un
diverso nuclìde, caratterizzato dal numero Z dei suoi protoni (cioè il
numero atomico, che ne definisce la specie chimica) e dal numero N
dei suoi neutroni, la cui somma è il numero di massa A, che
caratterizza le linee in diagonale. I nuclei stabili sono quelli in
marrone, lungo la cosidetta valle della stabilità nucleare. I nuclei
attorno a questi sono invece instabili: in verde quelli che nel
decadimento emettono nuclei di elio (particelle alfa), in nero quelli
che emettono elettroni (particelle -), in rosso quelli che emettono
positroni (particelle +).
(da Hecht pag. 1084 o da Bergamaschini, pag. 168)
.
Figura 7. Vignetta da fare. Un ragazzo perplesso guarda una bilancia,
che mostra due palline di un colore e due di un altro su un piatto che
pesano più degli stessi oggetti raggruppati nell’altro e dice: Perché
mai un nucleo pesa meno dei nucleoni che lo costituiscono?
Figura 8. La curva in figura rappresenta l’energia di legame per nucleone di alcuni nuclei atomici esistenti in natura,
cioè l’energia che occorre per strapparne un nucleone, il cui massimo sia per il ferro ( 5626Fe). I nuclei più stabili sono
quelli nella zona centrale.
(Adattare da Caforio, vol.3, pag. 547, eliminando la scritta regione di massima stabilità e il colore giallo, eliminando la
scritta E/A (MeV/nucleone), aggiungendo la scritta (MeV) in corrispondenza della parte alta dell’asse delle ordinate,
aggiungendo la scritta 63Li in corrispondenza del picchetto negativo a quota 6, e la scritta 20682Pb in corrispondenza del
pallino con ascissa 206)
1.4 La radioattività
Numerosi tipi di nuclìdi esistenti in natura, e altri ancora prodotti artificialmente, hanno la proprietà
particolare di trasformarsi spontaneamente in altri nuclìdi, cioè sono intrinsecamente instabili.
Poiché il processo è accompagnato dell’emissione di radiazioni (intendendo con ciò sia particelle
che fotoni), questi nuclei sono chiamati radioattivi. La trasformazione spontanea di un nucleo in un
altro, chiamata decadimento radioattivo, avviene in modo casuale, obbedendo però collettivamente
a una legge statistica ben precisa, come vedremo nel prossimo paragrafo. Sicchè un dato nucleo
radioattivo può restare com’è anche per tempi lunghissimi, ma a un certo istante poi si trasforma.
Sebbene il fenomeno della radioattività sia assai comune in natura, esso sfuggì a lungo
all’attenzione degli scienziati. La sua scoperta avvenne per caso nel 1896 per opera del francese
Henry Becquerel (1852-1908, premio Nobel nel 1903), che aveva appena appreso della scoperta dei
misteriosi raggi X da parte di Röntgen e voleva verificare se questi stessi raggi venissero emessi
nella fosforescenza di un particolare sale di uranio. Avendo osservato che questa sostanza
impressionava una lastra fotografica attraverso uno schermo opaco, anche quando in precedenza
non era stata esposta alla radiazione solare, egli concluse che doveva trattarsi di una emissione
spontanea di radiazione. Studiando le proprietà di varie altre sostanze, Becquerel arrivò a stabilire
che: a) non vi era alcuna relazione fra le radiazioni invisibili emesse da alcune sostanze e il fatto
che esse fossero o non fossero fosforescenti, b) l’emissione si manifestava soltanto in presenza di
sali di uranio.
Studi successivi, svolti dai coniugi Pierre e Marie Curie ( Nota storica 1) e da altri
scienziati, portarono a individuare, oltre all’uranio, altri elementi chimici che manifestavano il
fenomeno della radioattività. Ma quali erano le proprietà e la natura delle radiazioni emesse nei
decadimenti radioattivi? Una prima classificazione fu fatta in base al loro potere di penetrazione
7
attraverso la materia, chiamando alfa le radiazioni che bastava un foglio di carta per bloccarle, beta
quelle che venivano arrestate da un foglio di alluminio di 1 mm, e infine gamma le più penetranti,
per assorbire le quali potevano occorrere spessori fino a 5 centimetri di piombo o parecchie diecine
di centimetri di cemento. Un’altra proprietà importante è il potere ionizzante, cioè la capacità di
ionizzare gli atomi, strappando loro uno o più dei loro elettroni esterni, e per questo si parla di
radiazioni ionizzanti. Come vedremo, tale proprietà trova impiego nei rivelatori, cioè negli
strumenti usati per rivelarne la presenza e misurarne l’energia.
Una particella alfa con energia di 5
Si trovò poi che queste radiazioni si comportano assai
MeV, attraversando l’aria, può
diversamente in presenza di un campo magnetico, come mostra produrre circa 40 000 coppie di ioni.
la figura 9. Mentre le radiazioni gamma non subiscono alcuna
deflessione, indicando che sono prive di carica elettrica, le radiazioni alfa e beta vengono deflesse
in direzioni opposte, indicando che possiedono cariche elettriche di segni opposti (positivo le alfa,
negativo le beta). L’effetto di deflessione, inoltre, risulta assai maggiore per le beta che per le alfa,
indicando che il rapporto carica/massa è assai maggiore per le prime. Si stabilì in seguito che le
radiazioni alfa sono nuclei di elio, le radiazioni beta sono elettroni, le radiazioni gamma sono
fotoni, più precisamente fotoni molto energetici, cioè con energie fra 0,01 MeV e 10 MeV.
I nuclei radioattivi, in generale, possono decadere, cioè trasformarsi in altri nuclei, in due
modi diversi: emettendo una particella alfa, e in tal caso si parla di decadimento alfa, oppure
emettendo un elettrone o un positrone, e allora si parla di decadimento beta. In questi processi,
inoltre, può darsi i nuclei prodotti dalla reazione vengono a trovarsi in uno stato eccitato, e allora
essi tornano allo stato fondamentale emettendo dei fotoni gamma.
Un esempio di decadimento alfa è la trasformazione di un nucleo di radio 22688Ra, detto
nucleo padre, in un nucleo di radon (Rn), detto nucleo figlio, con l’emissione appunto di una
particella alfa, secondo la reazione:
226
88Ra
 22286Rn + 42He
nella quale si conserva sia il numero atomico (essendo 88 = 86 + 2), cioè la carica elettrica, sia il
numero di massa (essendo 226 = 222 + 4), cioè il numero totale di nucleoni. Eseguendo un calcolo
dettagliato delle masse si trova però un difetto di massa: la massa complessiva dei prodotti della
reazione è infatti inferiore a quella del nucleo di radio, con m = 0,0053 u, a cui corrisponde
l’energia E = 0,0053931,5 = 4,93 MeV. In questa reazione la massa mancante si manifesta
nell’energia cinetica della particella alfa, che può assumere
Quesito. Il nucleo figlio prodotto dalla
soltanto tre valori ben determinati (4,8 MeV, 4,6 MeV e 4,2
reazione precedente in quanti livelli
MeV) e nell’energia di eccitazione del nucleo figlio così
diversi di energia può trovarsi?
prodotto.
Un esempio di decadimento beta è dato dalla reazione nella quale un nucleo di un isòtopo
radioattivo di sodio si trasforma in un nucleo di magnesio
24
11Na
 2412Mg + 0-1e
emettendo un elettrone. Ma il decadimento beta può anche condurre, come nel caso seguente,
53
26Fe
 5325Mn + 01e
all’emissione di un positrone. Per distinguere i due casi, si parla di decadimento beta - o beta+.
Lo studio dei decadimenti beta pose però i fisici davanti a un problema: sembrava infatti che
in queste reazioni non si conservasse né l’energia, perchè l’energia cinetica dell’elettrone (o del
positrone) emesso non risultava sufficiente a far quadrare il bilancio, né la quantità di moto, perché
in certi decadimenti i prodotti di reazione venivano lanciati tutti nella stessa direzione. Per salvare i
principi di conservazione, nel 1930 Pauli propose che nel decadimento beta venisse emessa anche
un’altra particella, con l’energia necessaria a sanare il bilancio. Che però doveva avere carica
8
elettrica nulla e massa nulla o piccolissima; e doveva anche interagire pochissimo con la materia,
dal momento che nessuno a quel tempo l’aveva mai rivelata. In effetti questa particella, che Fermi
chiamò neutrino, esiste realmente, ma è rivelabile solo assai difficilmente, e infatti fu osservata
sperimentalmente soltanto nel 1956. I neutrini sono straordinariamente diffusi, tanto che attraverso
il vostro corpo ne passano miliardi ogni secondo; senza però lasciare praticamente alcuna traccia
perchè si calcola che solo uno all’anno di essi vi interagisca provocando una reazione nucleare.
Gli strumenti rivelatori
Lo studio sperimentale della radioattività e in generale dei fenomeni nucleari richiede strumenti per
rivelare la presenza di radiazioni, misurarle quantitativamente e osservare lo sviluppo di questi
fenomeni. Molti strumenti sono basati sugli effetti di ionizzazione che le radiazioni producono
quando attraversano la materia. Fra questi, uno dei più diffusi è la camera a ionizzazione: una
scatola metallica riempita di gas, all’interno della quale si trova un filo metallico posto a un
potenziale di qualche centinaio di volt rispetto alle pareti. Questo contenitore dispone di una sottile
“finestra” di quarzo o di altro materiale, attraverso la quale le radiazioni possono penetrarvi,
ionizzando quindi il gas: gli ioni così prodotti, in presenza del campo elettrico fra il filo centrale e le
pareti, formano una corrente elettrica che scorre nel circuito, la cui intensità è direttamente
proporzionale all’intensità delle radiazioni attraverso il loro effetto ionizzante, che in realtà è
diverso a seconda del tipo (alfa, beta o gamma) delle radiazioni e della loro energia.
Una categoria di strumenti, chiamati contatori, fornisce un conteggio del numero di eventi
osservati. Un tipico esempio è il contatore Geiger, che è sostanzialmente una camera a
ionizzazione alla quale è applicata una tensione di un migliaio di volt, in modo che il passaggio di
ogni singola particella ionizzante in presenza di un intenso campo elettrico produca una
moltiplicazione a valanga e quindi una breve scarica elettrica che si manifesta in un impulso nel
circuito esterno.
Un’altra categoria di strumenti sono quelli visualizzanti, chiamati così perché forniscono
immagini dello svolgimento dei fenomeni nucleari. Per questo si sono usate inizialmente delle lastre
ricoperte da emulsioni fotografiche, ottenendo così una registrazione permanente delle “tracce”
prodotte dal passaggio delle particelle prodotte nel corso di un evento nucleare. In seguito si sono
usate camere a nebbia, contenenti un vapore soprasaturo nel quale il passaggio delle particelle
produce una scia, e camere a bolle, dove le tracce delle particelle, passando attraverso un liquido
surriscaldato, si manifestano nella forma di minuscole bollicine. I rivelatori visualizzanti impiegati
oggi forniscono invece immagini elettroniche, utilizzando enormi schiere di rivelatori al silicio
opportunamente disposti nello spazio: giunzioni p-n polarizzate inversamente, che conducono
corrente quando sono attraversate da una particella ionizzante.
Nota storica 1. Due Nobel a una scienziata eccezionale: Marie Curie. Fu Marie Curie a introdurre
Marie (Manya) Sklodowska Curie (1867-1934) iniziò lo studio della
la parola radioattività, per
radioattività come studentessa di dottorato alla Sorbona. Essa affermò
indicare l’attività di
emissione di radiazioni da
per prima, nel 1898, che la radioattività è una proprietà degli atomi,
parte di determinati atomi.
stabilì che anche il torio, come l’uranio, era radioattivo, e
successivamente, lavorando assieme al marito Pierre Curie, professore alla Sorbona, individuò un
nuovo elemento chimico, più radioattivo dell’uranio, che chiamò polonio in ricordo della sua patria
di origine. Intuendo l’esistenza di un altro elemento, ancora più fortemente radioattivo, essa lavorò
con straordinaria determinazione per quasi quattro anni, in condizioni difficilissime, per isolarlo,
trattando chimicamente quattro tonnellate di minerale di uranio (pechblenda) provenienti da una
miniera in Boemia, da cui ne ricavò appena un grammo. Si trattava del radio, un nuovo metallo
della serie del calcio, con numero atomico Z = 88, che in effetti è oltre un milione di volte più
radioattivo dell’uranio. Questo risultato, che presentò nella sua tesi di dottorato, le valse pochi mesi
dopo, nel 1903, il premio Nobel per la fisica, condiviso con il marito Pierre e con Antoine
Becquerel, e successivamente, nel 1913, anche il premio Nobel per la chimica, ben giustificato dal
fatto che aveva scoperto due nuovi elementi. Marie Curie fu la prima donna a insegnare
9
all’università di Parigi La Sorbona, ma non venne mai chiamata a far parte dell’Accademia francese
delle scienze.
All’inizio del secolo scorso non si sapeva che manipolare sostanze fortemente radioattive è
estremamente pericoloso per la salute. E infatti l’esposizione prolungata a queste sostanze si rivelò
fatale per Marie Curie, che nel 1934 morì di leucemia. Si trovò in seguito che persino le pagine dei
suoi quaderni di laboratorio erano radioattive, contaminate dalle sue impronte.
Figura A. Immagine di Marie Curie da trovare
Approfondimento 1. Il problema dell’età della Terra
La prima stima su basi fisiche dell’età della Terra fu esposta da Newton nel suo trattato
Principia Mathematica … Avendo stimato il tempo necessario per il raffreddamento nell’aria di una
sfera di ferro incandescente, Newton calcolò che sarebbero occorsi circa 50 mila anni per
raffreddare la Terra dal suo stato iniziale di magma incandescente a quello attuale, considerando
che il calore immagazzinato in un corpo (proporzionale al cubo del raggio) si disperde attraverso la
sua superficie (proporzionale al quadrato del raggio). Il calcolo dell’età della Terra fu svolto
nuovamente dal fisico inglese Kelvin nel 1862, questa volta attraverso calcoli assai più raffinati,
basati sulla teoria della conduzione del calore nei solidi, portando la stima a circa 100 milioni di
anni. Ma anche questo risultato non ci soddisfa certamente dato che sappiamo, grazie ad altre
valutazioni, che l’età della Terra è di oltre 4 miliardi di anni. Sappiamo anche che l’interno della
Terra, in parte costituito addirittura da ferro fuso, è tuttora caldissimo, e che un flusso di calore
(calore geotermico), mediamente dell’ordine di 1 W/m2, attraversa la sua superficie.
La spiegazione accettata oggi è che il calore terrestre ha origine nei decadimenti degli
elementi radioattivi naturali che si trovano all’interno del pianeta.
Figura 9. L’ingegnere e fisico francese Antoine Henri Becquerel (1852-1908) è noto soprattutto per la scoperta della
radioattività, per la quale ricevette nel 1903 il premio Nobel per la fisica, assieme a Marie e Pierre Curie. Dopo la
scoperta, tuttavia, egli scelse di dedicarsi ad altre ricerche. Il suo nome è ricordato nell’unità di misura SI della
radioattività: becquerel (Bq).
(Immagine da trovare)
Figura 10. Un campo magnetico perpendicolare alla direzione delle radiazioni provenienti dalla sorgente (con verso
entrante nel foglio), devia in versi opposti le radiazioni alfa e beta, ma non ha effetto sulla radiazione gamma. Le
particelle alfa e beta possiedono dunqua cariche di segno opposto. Il rapporto carica/massa è maggiore per le particelle
beta, che vengono deviate assai più delle alfa.
(adattare da Caforio, vol.3, pag. 551, dando alla radiazione alfa una curvatura un po’ minore)
Figura 10 bis. Schema semplificato di un contatore Geiger. Il gas all’interno dello strumento è soggetto a un elevato
campo elettrico, sicchè il passaggio di una particella ionizzante provoca una scarica elettrica, che si traduce in un
impulso di corrente nel circuito.
(Adattare da Caforio, vol. 3, pag. 560, modificando le scritte come segue: tubo a gas – gas, elettrodo a filo (anodo) 
filo metallico, cilindro metallico (anodo)  parete metallica. eliminando la scritta al contatore, aggiungendo la scritta
1000 V accanto alla batteria)
1.5 La legge esponenziale del decadimento radioattivo e le famiglie radioattive
La legge con cui decade nel tempo una sostanza radioattiva, man mano che i nuclei dei suoi atomi
si trasformano in altri, è un’esponenziale decrescente, di qualsiasi sostanza si tratti. Se consideriamo
N nuclei di un determinato isotopo radioattivo, troviamo che il decadimento di ciascuno di essi è
del tutto casuale, ma l’insieme di nuclei, dopo un certo tempo, chiamato tempo di dimezzamento
T½, si è ridotto approssimativamente, alla metà. Dopo che è trascorso di nuovo lo stesso tempo il
numero dei nuclei residui è circa ¼ di quelli iniziali, e così via.
In termini matematici la legge del decadimento radioattivo è la seguente:
(5)
N  t   N 0 e  t
10
dove N0 è il numero di nuclei iniziali (al tempo t = 0), N(t) il numero di nuclei residui al tempo t
(cioè quelli che non si sono trasformati), e  è una costante del processo di decadimento, che si
misura in unità di s-1, il cui valore dipende dal nuclìde considerato. Tale grandezza misura la
rapidità con cui decade un insieme di nuclei radioattivi. Derivando la (5) rispetto al tempo si ha
dN (t )
infatti:
  N0et   N (t ) , da cui si ricava:
dt
dN (t )
(6)
  dt
N (t )
cioè la frazione di nuclei che decade in un intervallino dt è data dal prodotto dt, con segno
negativo dato che i nuclei diminuiscono e quindi la variazione dN(t) ha segno negativo.
Il legame fra la costante  e il tempo di dimezzamento T½ si ricava ponendo nella (5)
T
N
. Da questa, prendendo i logaritmi, si ha:
N T1  0  N 0e
2
2
 
(7)

1
2
T½ = ln 2)/ = 0,693/
Il tempo di dimezzamento, dal quale dipende la “vita media” di un nucleo, è una grandezza
caratteristica di ciascun tipo di nucleo radioattivo, che è assolutamente indipendente dallo stato
fisico (temperatura, pressione, …) o chimico dell’atomo a cui il nucleo appartiene, come pure da
qualsiasi altra condizione. I valori di questa grandezza si estendono da minuscole frazioni di
secondo a tempi geologici. Vi sono infatti nuclei che decadono in tempi brevissimi, come il
polonio-212 che ha T½ = 0,3 s, altri su tempi enormemente grandi. Il tempo di dimezzamento del
nuclìde 23892U, per esempio, è di 4,7 miliardi di anni, prossimo all’età della Terra, sicchè possiamo
dire che la quantità di questo isòtopo attualmente presente nei minerali corrisponde all’incirca alla
metà di quella che vi era quando il nostro pianeta si è formato.
Una sostanza radioattiva costituisce dunque una sorta di “orologio”, quando si considera il
numero di nuclei che essa conteneva a un dato istante di tempo e quanti ne sono sopravvissuti a un
tempo successivo. Dove la “scala” dell’orologio è fissata dal tempo di dimezzamento caratteristico
di quella sostanza. Su questo principio è basata la tecnica della datazione radioattiva ( La Fisica
della tecnologia 1) che è usata per individuare l’età sia delle rocce che di altri reperti ( figura 10).
Le famiglie radioattive
Molti nuclei radioattivi si trasformano in nuclei che sono anch’essi radioattivi, e che quindi poi
decadono a loro volta. Per esempio il radio-226 (22688Ra) subisce un decadimento alfa
trasformandosi nel radon-222 (22286Rn), che poi, ancora con un decadimento alfa, si trasforma nel
polonio-218 (21884Po), che a sua volta decade in una serie di altri nuclìdi, fino all’ultimo che è
stabile. Ciascuna di queste trasformazioni ha un diverso tempo di dimezzamento: 1600 anni per il
radio-226; 3,8 giorni per il radon-222; 3,05 minuti per il polonio-218, e così via.
Le serie di nuclìdi che si trasformano successivamente l’uno nell’altro, attraverso
decadimenti alfa oppure beta, sono chiamate famiglie radioattive. In natura esistono tre grandi
grandi serie di questo tipo, la famiglia dell’uranio, quella del torio e quella dell’attinio, ciascuna
indicata dal nome dell’elemento “progenitore”.
Approfondimento 2. La legge del decadimento esponenziale vale esattamente?
La legge (5) è una legge statistica e quindi non è valida esattamente, ma soltanto statisticamente,
cioè in media. Perchè è vero che durante un intervallo di tempo pari al tempo di dimezzamento la
probabilità che un dato nucleo decada è esattamente ½, ma non è affatto detto che durante questo
intervallo decada esattamente la metà dei nuclei inizialmente presenti. Quello che avviene è infatti
del tutto analogo al lancio di N monete che, come sapete, porta a ottenere un numero di teste e un
numero di croci solo approssimativamente uguali a N/2; ma “in media” entrambi pari a N/2, come
si verifica ripetendo il lancio un gran numero di volte e prendendo il valor medio dei risultati.
11
Ma di solito, in pratica, il decadimento radioattivo riguarda un numero grandissimo di
nuclei. Ne consegue che le fluttuazioni statistiche, che sono dell’ordine della radice quadrata del
numero dei nuclei in gioco, hanno un ruolo modestissimo, addirittura trascurabile, in termini
relativi. Considerando per esempio 1018 nuclei, una quantità di materia piccolissima, le fluttuazioni
statistiche sono dell’ordine di 109 in termini assoluti, e quindi 109/1018 = 10-9 in termini relativi,
sicchè l’incertezza relativa delle previsioni ottenute applicando la legge (5) è dell’ordine di 1 parte
su un miliardo.
Ci possiamo chiedere se la legge di scarica di un condensatore su una resistenza, che è
descritta anch’essa da una legge esponenziale ( Tomo 4, pag. xxx), sia valida esattamente o
invece, come per il decadimento radioattivo, soltanto statisticamente. In termini macroscopici la
risposta è immediata: la legge di scarica segue esattamente la legge esponenziale e infatti nessun
esperimento svolto in condizioni ordinarie ha mai registrato deviazioni dovute a fluttuazioni
statistiche. La risposta è però diversa se si considerano le modalità effettive del passaggio delle
cariche elettriche attraverso la materia, cioè per esempio come si muovono gli elettroni in un
metallo in presenza di un campo elettrico, e si ricorda in particolare che la carica elettrica è
quantizzata (e quindi in un dato intervallo di tempo il condensatore può perdere soltanto un numero
intero di elettroni). Si trova allora che anche la scarica di un condensatore è soggetta a fluttuazioni
statistiche sicchè la legge esponenziale vale soltanto in media.
N
Esperimento 1. Simuliamo al calcolatore il decadimento di N nuclei radioattivi.
L’esperimento consiste nell’impiegare un foglio elettronico per simulare il decadimento radioattivo
di N = 1000 nuclei, confrontando i risultati con quelli “ideali” ottenuti applicando la legge (5).
Inserite il numero 1 in 1000 caselle di una colonna del foglio, rappresentando così i nuclei presenti
inizialmente, cioè al tempo t = 0. Lo stato di ciascuno di questi nuclei ai tempi successivi sarà
rappresentato nelle caselle a destra, con l’indicazione 1 per i nuclei sopravvissuti e 0 per quelli
trasformati. La seconda colonna rappresenterà i nuclei all’istante di tempo pari a 1 tempo di
dimezzamento, cioè per t = T½, la successiva al tempo t = 2T½ e così via. Per ottenere ciò, se la
prima casella della colonna iniziale ha indirizzo B5, nella casella alla sua destra, che si trova nella
seconda colonna, scriverete l’espressione =SE(B5*CASUALE()>0,5;1;0) , ricopiandola poi in tutte
le 999 caselle sottostanti (il programma provvederà automaticamente ad aggiornare correttamente
gli indirizzi). Tale espressione utilizza il numero casuale CASUALE() , che assume valori a caso,
con distribuzione uniforme, nell’intervallo 0-1: se tale numero è maggiore di 0,5, ciò che avviene
con probabilità ½, allora l’espressione fornisce come risultato 1, altrimenti fornisce 0.
Ricopiate quindi nella terza colonna il contenuto della seconda, nella quarta il contenuto
della terza e così via fino alla decima, e attribuite a ciascuna colonna, scrivendolo in una casella in
alto, il numero corrispondente di tempi di dimezzamento trascorsi dall’inizio (0 nella prima, 1 nella
seconda, e così via). Al di sotto di questi numeri scrivete il numero di nuclei corrispondente, quale
risulta dall’applicazione della legge esponenziale (5), cioè 1000 nella colonna 0, 500 nella 1, e così
via nelle altre. Nella caselle della riga sotto alla precedente scrivete infine l’espressione che fornisce
il numero N(t) dei nuclei sopravvissuti,
Numero di nuclei sopravvissuti
questa volta quelli ottenuti dalla simulazione,
1000
che per ogni colonna otterrete sommando il
legge esponenziale
contenuto delle 1000 caselle che
simulazione
rappresentano lo stato dei nuclei.
100
Premendo il tasto di ricalcolo, che di
solito è F9, eseguirete una nuova
10
simulazione e potrete quindi esaminare i
risultati da essa fornita, in particolare l’entità
degli scarti rispetto alla legge esponenziale.
1
Tracciate quindi un grafico che riporti in
0
2
4
6
8
10
tempo, in unità di tempo di dimezzamento
ascissa i tempi, in ordinata (in scala
12
logaritmica) i nuclei sopravvissuti, sia calcolati con la legge esponenziale sia ottenuti con una
simulazione.
Quesiti.
1) Che significato ha il numero non intero di nuclei che in qualche caso fornisce la legge
esponenziale?
2) In quale regione del grafico gli scarti fra la legge esponenziale e i risultati della simulazione sono
più vistosi? Perché?
La fisica della tecnologia 1. Le datazioni radioattive.
La famiglia radioattiva dell’uranio ha origine dall’isòtopo U-238 e si conclude con l’isòtopo stabile
Pb-206. Dato che il tempo di dimezzamento dell’uranio-238, 4,47∙109 anni, è molto maggiore di
quello degli altri nuclìdi della serie, per determinare l’età di una roccia basta misurare il rapporto fra
il numero NPb degli atomi di piombo e il numero NU di quelli di uranio che vi sono presenti.
Supponendo infatti che al momento della formazione della roccia vi fossero N0 nuclei di uranio e
nessuno di piombo, è chiaro che N0 = NU + NPb. L’età tx della roccia si ricava dalla (5) ponendo:
1 N
NU  t x   N0etx , prendendo i logaritmi e ricavando quindi: t x   ln U , dove in base alla (7)
 N0
si ha:  = 0,693/T1/2.
Per la datazione della materia organica, sia vegetale che animale, si utilizza invece il metodo
del carbonio-14. Questo radioisòtopo, il cui tempo di dimezzamento è di 5730 anni, è presente
nell’atmosfera, dove è continuamente prodotto dalla reazione
1
0n
+ 147Na  146C + 11
fra l’azoto e i neutroni prodotti dai raggi cosmici, nella quale si libera un protone. Il C-14 così
prodotto si combina con l’ossigeno atmosferico formando molecole radioattive di anidride
carbonica (CO2), la cui concentrazione rispetto alla CO2 ordinaria è nota (1,310-12).
Il C-14 presente nell’anidride carbonica viene assorbito dalle piante attraverso la fotosintesi
clorofilliana e trasmesso poi agli animali e all’uomo attraverso le catene alimentari. Quando poi un
organismo, vegetale o animale, muore, gli scambi di carbonio con l’atmosfera e l’ambiente
s’interrompono. Da quel momento in poi, mentre il numero dei nuclei di carbonio non radioattivo
resta invariato, quello dei nuclei di C-14 decade con legge nota. Sicchè dal rapporto fra il numero
dei nuclei delle due specie si può risalire all’età del campione. Come appunto è stato fatto nel caso
dell’uomo di Similaun, mostrato nella figura 12.
Figura 11. La famiglia radioattiva dell’uranio: il capostipite è il nuclìde radioattivo 23892U, l’ultimo discendente il
nuclìde stabile 20682Pb. I punti indicano i nuclei della famiglia, inclusi quelli intermedi. Le frecce rappresentono i
decadimenti, alcuni dei quali sono di tipo alfa, altri di tipo beta.
(Adattare da Caforio, vol. 3, pag. 557)
Figura 12. Il museo archeologico dell’Alto Adige (http://www.bolzano.net/museoarcheologico.htm), a Bolzano, è molto
frequentato da visitatori interessati all’uomo di Similaun, che fu rinvenuto nel 1991, assieme ai vestiti e alle sue
attrezzature, fra le nevi di una montagna (Similaun) nei pressi del confine con l’Austria. La quantità di carbonio-14
trovata nel suo corpo, circa la metà di quella che vi era al momento della sua morte, ha permesso di stabilire che Ötzi
visse tra il 3350 e il 3100 a.C., cioè circa 5000 anni fa.
(immagine da trovare)
1.6 Gli effetti biologici della radioattività
L’attività di un campione radioattivo è rappresentata dal numero di nuclei che decadono in 1
secondo. L’unità di misura di tale grandezza è il becquerel (Bq). In un grammo di radio-226
(22688Ra), per esempio, si trasformano 3107 nuclei al secondo sicchè diciamo che la sua attività è di
3107 becquerel.
L’effetto delle radiazioni sulla materia è caratterizzata dalla grandezza chiamata dose, che
rappresenta l’energia ceduta dalle radiazioni per unità di massa. L’unità di dose è il gray (Gy), pari
13
a 1 J/kg. Gli effetti sulla materia vivente sono però diversi a seconda del tipo di radiazioni, sicchè
in questo caso si impiega la dose equivalente, che si misura in sievert (Sv), calcolata come
prodotto della dose per un fattore che rappresenta l’effetto biologico specifico di ciascun tipo di
radiazione (20 per le particelle alfa, 10 per i protoni, 1 per i fotoni X e gamma).
La ionizzazione può danneggiare i tessuti biologici, per esempio liberando ioni
particolarmente reattivi, che alterano le molecole presenti nelle cellule, trasformandole in altre,
inutili oppure dannose. Un altro effetto è la rottura delle macromolecole che costituiscono il DNA,
che può tradursi in un danno genetico trasmissibile alla prole. Altri effetti, come l’insorgere di
tumori, possono verificarsi anche molto tempo dopo l’esposizione alla radiazioni. Ma a bassi livelli
di radioattività, cioè dell’ordine di quella a cui siamo esposti normalmente in natura, che in Italia è
di circa 3 mSv/anno ( La Fisica attorno a noi 2), gli effetti sono assai modesti, e anzi entrano in
gioco meccanismi biologici di autoriparazione.
A bassi livelli di esposizione, in realtà, non si osservano relazioni dirette fra causa, cioè dosi
assorbite, ed effetto, cioè danni sanitari. Questi si manifestano infatti soltanto per esposizioni a
livelli di oltre 0,5 sievert, assai più elevati di quelli naturali, che producono effetti immediati
direttamente osservabili. Nei casi estremi, corrispondenti a dosi maggiori di qualche sievert, si
hanno ustioni gravissime, pesanti danni alle mucose e fortissime riduzioni del contenuto di linfociti
e piastrine nel sangue, con esito letale al 50% per dosi di 5 Sv.
La Fisica attorno a noi 1. La radioattività a cui siamo esposti normalmente.
E’ opinione diffusa che la radioattività sia una pericolosa novità, prodotta della moderna ricerca
scientifica e dai suoi impieghi, civili o militari che siano. Ma non è affatto così. Non soltanto noi
viviamo in un ambiente naturale permeato di radioattività, ma addirittura tutta l’evoluzione
biologica si è svolta in questo ambiente. Che anzi nelle ere più lontane, quando la vita è sorta e si è
inizialmente sviluppata, era decisamente “più radioattivo” di oggi. Si può dire perciò che gli esseri
viventi sono intrinsecamente adattati a bassi livelli di radioattività, e del resto le alterazioni prodotte
dalla radioattività costituiscono un fattore essenziale ai fini delle mutazioni che hanno reso possibile
l’evoluzione biologica e quindi la nostra stessa esistenza.
La radioattività a cui siamo esposti è in parte prevalente di origine naturale, solo in parte
modesta derivante da attività umane. Un tipico terreno agricolo, per esempio, contiene mediamente
circa 300 kBq/m3 di potassio-40, che viene assorbito dalle piante e che ritroviamo poi nei cibi. E lo
troviamo quindi anche nel nostro stesso corpo, assieme al carbonio-14, al trizio (idrogeno-3) e ad
altri radioisòtopi, con attività complessiva di oltre 10 4 becquerel/persona.
Ma qual è l’origine della radioattività naturale? Ad essa contribuiscono sia i raggi cosmici,
provenienti dalle stelle e dal Sole, la cui interazione con i gas atmosferici produce vari isòtopi
radioattivi fra cui i già menzionati trizio e carbonio-14, sia, per la maggior parte, gli isòtopi
radioattivi di origine primordiale e quelli prodotti dal loro decadimento, appartenenti alle tre
famiglie radioattive naturali.
La radioattività naturale è però assai fortemente variabile da luogo a luogo. Non tanto
perchè il contributo dei raggi cosmici aumenta con l’altitudine (la parte inferiore dell’atmosfera
esercita una azione di schermo), ma soprattutto in relazione al diverso contenuto di radioisòtopi di
origine primordiale nelle rocce e nei terreni. Sicchè, per esempio, la dose che si riceve a Napoli è
più che doppia che ad Aosta. E in altri Paesi (India, Iran, Brasile, …) vi sono regioni dove la dose
naturale è assai maggiore, fino a oltre cento volte che in Italia, peraltro senza alcuna conseguenza
sanitaria per le popolazioni.
In Italia la dose media annua complessiva pro capite di radiazioni di origine naturale è di 3
mSv, di cui il 10% è dovuto ai raggi cosmici. A questa dose vanno aggiunti i contributi di origine
artificiale, che si valutano complessivamente in circa 1 mSv/anno: questi sono dovuti soprattutto
alle radiografie, ma anche, in misura assai minore, all’impiego di televisori e calcolatori, ai viaggi
aerei ad alta quota, e alla presenza nell’ambiente di radioisòtopi provenienti da attività tecnologiche
o da esperimenti nucleari militari.
14
La Fisica attorno a noi 3. Il radon: un gas radioattivo in casa.
Il radon-222 è un gas radioattivo emettitore alfa con tempo di dimezzamento di 3,823 giorni.
Appartenente alla famiglia dell’uranio, il radon emana spontaneamente dalle rocce, dai terreni e dai
materiali da costruzione contenenti uranio, e per questo in passato era chiamato “emanazione”. Il
radon tende ad accumularsi negli ambienti chiusi, in particolare nelle cantine perché è più denso
dell’aria, dove in qualche caso si possono raggiungere livelli di radioattività che vanno oltre i limiti
previsti dalle normative di sicurezza. Per evitarlo, si consiglia di assicurare un buon ricambio
d’aria, naturalmente negli edifici situati nelle regioni dove i materiali da costruzione sono
maggiormente radioattivi.
I risultati di una recente campagna di misura svolta dall’Istituto Superiore di Sanità nelle
abitazioni di tutte le regioni italiane indicano che i valori medi di dose dovuti al radon non sono
affatto preoccupanti, sebbene con forte variabilità: in talune zone si registrano valori fino a quattro
volte maggiori di quelli medi.
Figura 13. La debole radioattività che presentano le acque minerali di alcune sorgenti era considerata in passato un
pregio da reclamizzare.
(antica etichetta di acqua minerale che ne vanta la radioattività)
1.7 Le trasmutazioni nucleari, la radioattività indotta e gli impieghi dei radioisòtopi.
La prima trasmutazione artificiale di un elemento chimico in un altro, come si è detto, fu ottenuta
da Rutherford nel 1919, con la reazione nucleare che condusse alla scoperta del protone
4
2He
+ 147Na  178O + 11
nella quale la collisione di una particella alfa (42He) contro un nucleo di azoto-14 produce un nucleo
di ossigeno-17 liberando un nucleo di idrogeno, cioè appunto un protone.
Negli anni successivi i fisici realizzarono processi analoghi per vari altri elementi, ma i
primi a ottenere con queste reazioni dei nuclìdi radioattivi furono Irene Curie, figlia di Marie Curie,
e suo marito Fréderic Joliot. Nel 1934, bombardando i nuclei di alcuni elementi leggeri (alluminio,
boro, magnesio) con particelle alfa essi ottennero infatti dei nuclìdi radioattivi non esistenti in
natura, che poi subivano il decadimento + (con emissione di un positrone) trasformandosi infine in
nuclei stabili. Un esempio di questo processo riguarda il bombardamento del boro con una
particella alfa, che produce un neutrone e un nucleo di azoto-13: un isòtopo dell’azoto che non
esiste in natura ed è radioattivo, con tempo di dimezzamento di 10 minuti. L’azoto-13 si trasforma
poi in carbonio-13, che è stabile, emettendo un positrone. Il processo si svolge in due fasi secondo
le seguenti reazioni nucleari:
10
5B
+ 42He  137N + 10n



13
7N
 136C + 01e 
Utilizzando come proiettili delle particelle cariche, come particelle alfa oppure protoni, si
riusciva però a colpire soltanto nuclei relativamente leggeri a causa della repulsione elettrica dovuta
alla forte carica positiva dei nuclei più pesanti. L’idea vincente fu quella di Enrico Fermi, che pensò
di bombardare i nuclei con dei proiettili più adatti, cioè usando dei neutroni che non avrebbero
subito effetti di repulsione. Con questa tecnica, Enrico Fermi e i suoi “ragazzi” ( Nota storica 2)
realizzarono la trasmutazione di numerosi elementi, pesanti e leggeri, con uno studio sistematico su
che condusse a ottenere un gran numero di nuovi radioisòtopi. E scoprirono anche che i neutroni
diventavano assai più efficaci quando erano stati rallentati facendoli collidere con atomi di elementi
leggeri, come l’idrogeno contenuto nell’acqua o nella paraffina.
Con tecniche nucleari i fisici ottennero in seguito anche altri elementi chimici, tutti
radioattivi, che furono chiamati transuranici perché con numero atomico maggiore di quello
(Z=92) dell’uranio. Il primo di essi (con Z=93), chiamato nettunio (sapete stabilire perché?), fu
15
ottenuto nel 1940 dagli americani Edwin McMillan e Philip H. Abelson, a partire dall’uranio-238.
Ad esso seguono il plutonio (con Z=94) e una serie di altri elementi con Z fino a 118, tipicamente
con tempi di dimezzamento via via più brevi al crescere del numero atomico. I più pesanti, in
effetti, sono state sintetizzati in quantità veramente minimali.
Le applicazioni dei radioisòtopi
I radioisòtopi artificiali trovano numerose applicazioni pratiche. Una di queste riguarda l’impiego
come traccianti radioattivi, data la facilità con cui gli strumenti rivelatori possono individuarne la
presenza anche in quantità minime. In medicina, per esempio, si usa l’isòtopo 13153I, con tempo di
dimezzamento di 8 giorni, per esaminare lo stato della tiroide, una ghiandola che assorbe la
maggior parte dello iodio presente nel corpo: il paziente ingerisce una piccola quantità di questo
isòtopo e successivamente si misura la quantità assorbita effettivamente dalla tiroide per stabilirne
la funzionalità.
Traccianti radioattivi sono usati anche per studiare i processi della digestione e la
distribuzione nel corpo delle sostanze chimiche assunte con il cibo, come pure per stabilire la
quantità di fertilizzante effettivamente assorbita dalle piante, in modo da ridurne la
somministrazione al minimo necessario. Sono anche numerosi gli impieghi nella tecnologia:
l’efficacia di un olio lubrificante, per esempio, si può stabilire valutando la quantità di metallo
nell’olio di scarico in un motore di prova nel quale le pareti dei cilindri contengono piccole quantità
di un radioisòtopo metallico.
Ancora in medicina, le radiazioni dei radioisòtopi trovano impiego per la cura dei tumori.
L’isòtopo 13153I viene infatti usato per distruggere dall’interno le cellule cancerose presenti nella
tiroide. Per combattere altri tipi di tumori si usa invece applicare dall’esterno le radiazioni emesse
dal cobalto-60 (6027Co): fotoni gamma con energia di 1,5 MeV, che sono in grado di penetrare in
profondità nel corpo.
Nota storica 2. Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna.
Nato a Roma nel 1901, Enrico Fermi dimostrò doti eccezionali sin da giovanissimo: appena
conseguita la maturità, svolse in modo eccezionale un argomento assai raffinato di fisica
matematica nel concorso di ammissione alla Scuola normale di Pisa, dove si laureò poi nel 1922. Le
sue qualità attrassero l’attenzione del direttore dell’istituto di fisica dell’università di Roma, Orso
Mario Corbino (Senatore del Regno d’Italia e Ministro della Pubblica Istruzione), che fece istituire
per lui la prima cattedra di Fisica Teorica in Italia, alla quale fu chiamato ad appena 24 anni di età.
Grazie all’appoggio di Corbino, Fermi potè costituire a Roma un gruppo di giovanissimi scienziati
attentamente selezionati, i ragazzi di via Panisperna, che portarono la scuola di Fisica italiana ai
massimi livelli nel quadro internazionale.
Un contributo essenziale di Fermi riguarda la teoria del decadimento beta, che egli
interpretò nel 1933 come la manifestazione di un nuovo tipo di forza fondamentale, che è oggi
chiamata interazione debole. Ma fu il lavoro svolto usando neutroni come proiettili, più
precisamente neutroni rallentati, per provocare reazioni nucleari, che lo condusse al premio Nobel
nel 1938. Proprio da Stoccolma Fermi decise di non rientrare in Italia, a causa delle leggi razziali
che minacciavano sua moglie Laura, di origine ebraica, recandosi invece negli Stati Uniti. A
Chicago proseguì le sue ricerche allo scopo di ottenere lo sviluppo controllato di energia da reazioni
nucleari di fissione, che concretizzò nella realizzazione del primo reattore nucleare, entrato in
funzione il 2 dicembre 1942. In seguito Fermi partecipò al progetto Manhattan per la realizzazione
della bomba atomica, che gli scienziati, fra cui Einstein, avevano proposto al governo Usa per
contrastare la minaccia nazista nella II Guerra mondiale; ma successivamente scelse di non lavorare
allo sviluppo della bomba H.
I contributi di Enrico Fermi, raro esempio di eccellenza negli studi teorici come nelle attività
sperimentali non si limitarono alla fisica nucleare e subnucleare, ma spaziarono nei campi più vari,
fra cui la termodinamica, la fisica dello stato solido e l’astrofisica, alla quale dedicò gli utimi anni
della sua vita. Ma Fermi è ricordato anche per “le sue qualità di maestro, la sua semplicità nei
16
rapporti umani, il suo spiccatissimo senso del dovere accompagnato da un entusiasmo eccezionale
per lo studio della natura, il suo equilibrio, la sua energia quasi sovrumana”, come ha scritto
Edoardo Amaldi, il ragazzo di via Panisperna che nel dopoguerra si adoperò con grande successo
per la rinascita della fisica italiana e per lo sviluppo della scienza nel quadro delle collaborazioni
europee.
Figura A. Foto di gruppo dei ragazzi di via Panisperna: da destra
Figura B. L’edificio di via Panisperna, dove Fermi lavorò negli anni fra il 1922 e il 1936, è oggi sede di un centro di
ricerca intitolato al grande fisico. Potete visitarlo al sito: http://www.centrofermi.it/
Figura 14. Una storica esperienza dei coniugi Joliot-Curie. Un foglio di alluminio irradiato viene posto in una provetta
contenente acido cloridrico (HCl). L’acido reagisce con le minute quantità di fosforo radioattivo prodotto dalla
trasmutazione dell’alluminio, sviluppando il gas fosfuro d’idrogeno (H3P), che si raccoglie nella provetta dove
manifesta la sua radioattività emettendo radiazioni beta+ (cioè positroni). Il ruolo della chimica fu importantissimo per
riconoscere a quale elemento appartenessero gli isòtopi prodotti dalle reazioni nucleari: non a caso uno dei “ragazzi di
via Panisperna”, Oscar D’Agostino, era un chimico.
(adattare da Hatier, pag. 431, con le scritte: foglio di alluminio irradiato, provetta di vetro con pareti sottili
Figura 15. Piccole quantità di un isòtopo radioattivo, usato come tracciante,
permettono di individuare facilmente dove si trovano le perdite di un condotto.
(Adattare da Hewitt, pag. 603)
Figura 16. L’energia elettrica che alimenta le sonde spaziali in missione a
grandi distanze dal Sole proviene dalla trasformazione del calore prodotto da
radioisòtopi con tempo di dimezzamento sufficientemente lungo. Immagine di
Saturno ripresa nel 2004 dalla sonda Cassini-Huygens, alimentata da generatori
nucleari impieganti biossido di plutonio.
1.8 La fissione e la fusione nucleare
Un nucleo atomico può spezzarsi, suddividendosi in due o più nuclei più leggeri, nel processo
chiamato reazione di fissione (dal latino findere, che vuol dire spezzare). Così pure due o più
nuclei atomici possono fondersi in un unico nucleo più pesante, nel processo chiamato reazione di
fusione. Queste reazioni nucleari hanno grande interesse pratico per la produzione di energia. Ma in
quali di esse può effettivamente svilupparsi
Le reazioni nucleari, proprio come le reazioni
dell’energia? Evidentemente quelle per cui la massa
chimiche, possono prodursi con una sviluppo
dei nuclei prodotti è inferiore a quella dei nuclei
netto di energia, oppure richedere energia
esterna, che viene assorbita nel processo di
reagenti, nel corso delle quali si deve liberare
l’energia corrispondente a questa differenza di massa. reazione. Ma le energie in gioco sono
enormemente maggiori. Da un grammo di uranio
si può ricavare infatti la stessa energia che si
ottiene bruciando 20 tonnellate di petrolio.
La fissione nucleare
Per individuare quali siano i nuclei la cui fissione
sviluppa energia conviene esaminare la figura 8, che rappresenta l’andamento dell’energia di
legame per nucleone dei nuclei atomici in funzione del loro numero di massa. Questa energia, che
è quella che occorre fornire a un nucleo per sottrargli un nucleone, ne rappresenta anche il difetto di
massa per nucleone. Si capisce allora che nella scissione di un nucleo molto pesante in due nuclei
appartenenti alla regione centrale del grafico il difetto di massa complessivo aumenta, cioè la massa
diminuisce e quindi si libera energia.
Esempio 6. Calcoliamo approssimativamente l’energia che si libera spezzando un nucleo
pesante in due nuclei più leggeri.
L’energia prodotta nella fissione di un nucleo pesante con A = 238 nei nuclei di due elementi X e Y
con numero di massa pari a circa A/2 è data dalla differenza fra la massa del nucleo pesante e la
somma dei due nuclei prodotti. Cioè dalla differenza fra il difetto di massa totale dei nuclei finali e
quello del nucleo iniziale. Esaminando la figura 8 si osserva che il difetto di massa del nucleo
17
pesante è di circa 7,5 MeV/nucleone, quello dei nuclei finali (con A ≈ 238/2) è di circa 8,5
MeV/nucleone. Sicchè l’energia che si libera nella fissione del nucleo pesante è all’incirca:
2388,5 - 2387,5 ≈ 240 MeV.
La quantità di energia liberata nella reazione di fissione di un nucleo pesante è veramente notevole,
parecchi ordini di grandezza maggiore di quella prodotta nella combustione di una molecola di
metano oppure di una sostanza esplosiva: nell’esplosione del tritolo, per esempio, si liberano
appena 30 eV per molecola. E quindi un “combustibile nucleare” è enormemente più efficiente di
qualsiasi combustibile chimico usuale.
Un foglio di carta non brucia spontaneamente, ma solo dopo essere stato acceso, perché
l’innesco di una reazione di combustione richiede inizialmente dell’energia. Lo stesso avviene per
le reazioni nucleari, e infatti per ottenere la fissione di un nucleo pesante la strada è quella seguita
da Fermi: bombardare il nucleo con un neutrone, più precisamente con un neutrone relativamente
lento. Nei nuclei atomici, soprattutto in quelli molto massicci, c’è un delicato equilibrio, come
sapete, fra la repulsione elettrostatica agente fra tutti protoni e l’attrazione della forza nucleare
agente fra i nucleoni fra loro vicini. E quindi una deformazione del nucleo può rendere dominante
l’effetto repulsivo, provocandone la rottura, come mostra la figura 17. E come avviene appunto
quando lo colpisce un neutrone.
Un nucleo pesante che si presta particolarmente bene allo scopo è l’uranio-235, che quando
viene colpito da un neutrone subisce una reazione di fissione che è accompagnata dalla produzione
di neutroni, i quali possono a loro volta colpire altri nuclei di uranio, che a loro volta … Si può
creare, in queste condizioni, una reazione a catena che, una volta innescata, procede poi assai
velocemente per conto suo ( figura 18). Il processo di fissione dell’uranio-235 può produrre
varie combinazioni di nuclei più leggeri. Un esempio è la reazione seguente
1
0n
+ 23592U  9136Kr + 14256Ba + 3(10n)
nella quale si producono tre neutroni e si liberano circa 200 MeV di energia; in media, il numero di
neutroni prodotti in queste reazioni è 2,5, cioè più che sufficiente per creare la reazione a catena. I
neutroni prodotti, in realtà, si disperdono attorno, provocando altre reazioni soltanto quando
incontrano altri nuclei di uranio. Perché ciò avvenga occorre dunque che la quantità di uranio-235
sia sufficientemente grande, con una massa maggiore della cosidetta massa critica, e naturalmente
con una forma geometrica compatta, per esempio sferica.
Ma come mai non si verificano reazioni di fissione nei depositi naturali di uranio? Il motivo
è che solo lo 0,7% dell’uranio presente nel minerale è costituito dall’isòtopo U-235, mentre
praticamente tutto il resto è uranio-238, che non si presta alla reazione di fissione. Ma in passato
queste proporzioni erano diverse, perché il tempo di dimezzamento dell’U-235, 7∙108 anni, è
alquanto più breve di quello, 4,47∙109 anni, dell’U-238; e quindi la percentuale di U-235 era
alquanto maggiore dell’attuale. Infatti in Gabon (Africa equatoriale) si sono trovate tracce evidenti
dello svolgimento di reazioni nucleari di fissione avvenute attorno a 1,5 miliardi di anni or sono,
quando la percentuale di U-235 doveva essere del 3%, come è necessario perché la reazione di
fissione possa procedere.
La reazione nucleare di fissione a catena di una massa critica di U-235 o di altri elementi
pesanti (come il plutonio-239) nei quali possa svilupparsi, procede in modo incontrollato, liberando
in tempi brevissimi enormi quantità di energia. Ciò avviene nell’esplosione delle bombe atomiche
( figura 19), dove ai danni prodotti dal violento sviluppo di energia si accompagna la dispersione
di prodotti radioattivi, che a loro volta emettono radiazioni decadendo con i loro tempi caratteristici.
Si può tuttavia ottenere una reazione nucleare controllata, rallentando la reazione a catena,
in cui l’energia si liberi abbastanza lentamente da poter essere utilizzata senza pericolo, come
dimostrò Fermi nella realizzazione del primo reattore nucleare. A tale scopo il combustibile
nucleare viene suddiviso in parti, fra le quali si dispongono delle barre mobili di un materiale che
18
assorbe i neutroni. Sollevando parzialmente queste barre di controllo si avvia la reazione,
graduandone la posizione si controlla la velocità con cui essa si sviluppa, abbassandole del tutto la
reazione s’interrompe. Su questo principio funzionano le centrali nucleari ( pag. xxx), che sono
utilizzate vantaggiosamente in quasi tutti i paesi del mondo per produrre energia elettrica.
La fusione nucleare
Sviluppano energia anche le reazioni di fusione di due nuclei leggeri in un nucleo più pesante con
difetto di massa per nucleone maggiore di quello dei nuclei di partenza. Questi processi sono di
straordinaria importanza perché da uno essi deriva l’energia con cui il Sole ci irraggia
permanentemente, che è all’origine della vita sulla Terra ed è un supporto essenziale della nostra
stessa esistenza.
Secondo la teoria proposta nel 1939 dal fisico Hans Bethe (1906-2005, Nobel nel 1967), nel
Sole si ha un processo di fusione di protoni, cioè di nuclei di idrogeno, che produce nuclei di elio
attraverso la seguente serie di reazioni nucleari
1
1H
+ 11H  21H + 01e

2
1H
+ 11H  32He  
3
2He
+ 32He  42He + 11H + 11H
nel corso delle quali, oltre che positroni, si liberano anche neutrini e fotoni gamma, sviluppando
complessivamente 6,2 MeV per protone.
Ma come è possibile che due protoni s’incontrino, per poi fondersi, vincendo la repulsione
elettrostatica che tende invece ad allontanarli? Ciò avviene grazie alla temperatura elevatissima (~
107 K) a cui si trova la materia all’interno del Sole, essenzialmente idrogeno nello stato di plasma,
per cui i protoni possiedono energia cinetica sufficiente a farli collidere vincendo la forza elettrica.
E infatti il processo è chiamato fusione termonucleare proprio per indicare che si svolge grazie
all’altissima temperatura a cui si trovano i nuclei partecipanti.
Si capisce che realizzare artificialmente reazioni controllate di fusione per ottenerne senza
pericoli grandi quantità di energia presenta grandissime difficoltà. Come vedremo nell’Unità xxx,
si tratta non soltanto di portare i nuclei leggeri ad altissima temperatura, ma poi anche di
“confinarli” in una regione ristretta all’interno del reattore, modo che non sfuggano prima di
incontrarsi per fondersi assieme, garantendo nel contempo un regolare sviluppo della reazione. E’
invece possibile realizzare una reazione termonucleare incontrollata, come dimostrano le terrificanti
esplosioni di prova delle cosidette bombe H. La prima di questa avvenne nel 1952 in un atollo del
Pacifico, liberando l’equivalente di 20 mila tonnellate di tritolo, cioè quasi 1000 volte l’energia
delle bombe atomiche che nel 1946, al termine della II Guerra mondiale, distrussero le città
giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Ma i micidiali ordigni termonucleari, fortunatamente per il
genere umano, non sono mai stati usati come arma. C’è anzi chi ritiene che proprio il timore delle
spaventose conseguenze di un loro impiego abbia costituito il deterrente che ha evitato, nella
seconda metà del secolo scorso, la trasformazione in conflitto
prevale la forza
aperto della “guerra fredda” fra gli Stati Uniti e ciò che allora
nucleare
si chiamava Unione Sovietica.
Figura 17. La deformazione di un nucleo atomico pesante può ridurre
l’azione attrattiva della forza nucleare forte rendendo dominante la
repulsione elettrostatica. E allora il nucleo si spezza in due parti.
prevale la repulsione
elettostatica
il nucleo si separa
in due parti
Figura 18. La reazione di fissione a catena. Ogni nucleo che subisce la
fissione libera dei neutroni che a loro volta provocano la fissione di altri nuclei,
liberando altri neutroni, e così via.
(Adattare da Hewitt, pag. 613)
Figura 19. Schema semplificato di una bomba atomica. Le due masse di uranio
sono sottocritiche, cioè insufficienti a produrre la reazione a catena. Questa si
sviluppa invece, in modo incontrollato e rovinoso, quando la carica esplosiva
porta a contatto le due masse.
19
Test di verifica
1) Il nucleo degli atomi, con la sola eccezione dell’idrogeno, è costituito da
Ο protoni ed elettroni
Ο protoni e neutroni
Ο elettroni e protoni
2) Il numero atomico di un nucleo rappresenta il numero
Ο dei neutroni
Ο degli elettroni
che ne fanno parte
Ο dei protoni
3) Il raggio di un nucleo atomico è direttamente proporzionale
Ο al numero
Ο al quadrato del numero
Ο al cubo del numero
dei nucleoni che lo costituiscono
4) Completate le frasi seguenti.
La massa di un atomo è quasi tutta concentrata in un nucleo di dimensioni piccolissime, che è
dotato di carica elettrica positiva. Il valore assoluto della carica elettrica del nucleo è pari a
quello della carica degli elettroni che orbitano attorno al nucleo.
5) L’unità di massa atomica è definita come
O la massa di 1 protone
O 1/12 della massa del carbonio
O 1/12 della massa del carbonio-12
6) Vero o falso?
V
F
9
La densità della materia nucleare è circa 10 volte maggiore della materia ordinaria O
O
La notazione 5626Fe rappresenta un nucleo di ferro con numero atomico Z = 56
O
O
235
Il nucleo 92U possiede 92 protoni e 143 neutroni
O
O
La massa atomica di un elemento chimico è data dalla media delle masse dei suoi isòtopi pesata
secondo le loro abbondanze relative in natura
O
O
Dell’idrogeno esistono tre diversi isòtopi
O
O
7) L’energia dei fotoni gamma che un nucleo eccitato emette quando transisce a un livello di
energia inferiore o torna allo stato fondamentale sono tipicamente dell’ordine
O degli eV
O dei keV
O dei MeV
8) Da una tonnellata di acqua di mare si possono ricavare approssimativamente
O 20 kg
O 2 kg
O 0,2 kg
di acqua pesante
9) Gli isòtopi di un elemento chimico differiscono per il diverso numero di
O neutroni
O protoni
O elettroni
10) Separare fra loro i diversi isòtopi di un dato elemento chimico
O è impossibile
O è possibile con mezzi fisici
O è possibile con mezzi chimici
11) La massa di un nucleo atomico è sempre
O uguale a
O maggiore di
O minore di
della somma delle masse dei protoni e dei neutroni che lo costituiscono
12) I protoni e i neutroni che costituiscono un nucleo sono tenuti assieme
O dalla forza elettrica che agisce fra i protoni
O dalla forza nucleare forte che agisce fra i neutroni
O dalla forza nucleare forte che agisce fra i nucleoni, siano essi protoni o neutroni
20
13) Vero o falso?
Nelle reazioni nucleari si conserva sempre la massa
Nelle reazioni nucleari si conserva sempre il numero di massa
Nelle reazioni nucleari si conserva sempre l’energia
Nelle reazioni nucleari si conserva sempre la carica elettrica
V
O
O
O
O
F
O
O
O
O
14) Il difetto di massa di un nucleo è
O la differenza fra la sua massa e quella dei nucleoni che lo costituiscono
O la differenza fra la massa dei nucleoni che lo costituiscono e la sua massa
O l’energia di legame per nucleone
15) Due nuclei di massa totale m1 reagiscono trasformandosi in altri nuclei con massa totale m2.
L’energia che si libera nella reazione, come energia cinetica dei nuclei prodotti e come
energia elettromagnetica di fotoni gamma eventualmente emessi, è
O m1 – m 2
O (m2 – m1)c2
O (m1 – m2) c2
16) Un nucleo instabile radioattivo
O emette continuamente radiazioni alfa, beta o gamma
O si trasforma spontaneamente in un altro nucleo emettendo radiazioni
O emette radiazioni con legge esponenziale decrescente
17) La radioattività è un fenomeno naturale assai diffuso, che
Ο l’uomo conosce da gran tempo
Ο fu scoperto da Becquerel negli ultimi anni dell’Ottocento
Ο fu scoperto da Enrico Fermi negli anni ’30 del Novecento
18) La distinzione iniziale fra le radiazioni alfa, beta e gamma fu fatta in base
O alla loro natura fisica
O al loro potere di penetrazione
O al loro potere ionizzante
19) Una particella alfa con energia di 0,2 MeV attraversa un corpo i cui atomi hanno energia di
ionizzazione di 10 eV. Essa può ionizzare
O 200
O 2∙104
O 2∙106
atomi.
20) La radiazione alfa, costituita da particelle aventi carica doppia, in valore assoluto, di quella
delle particelle beta, in presenza di un campo magnetico subisce una deflessione
O maggiore di
O minore di
O uguale a
quella della radiazione beta.
21) Nel decadimento beta di un nucleo radioattivo si ha l’emissione
O di un nucleo di elio
O di un fotone
O di un elettrone o di un positrone
22) Un nucleo radioattivo con numero atomico Z e numero di massa A, attraverso il
decadimento alfa, si trasforma in un altro nucleo
O con numero atomico Z+4 e numero di massa A+2
O con numero atomico Z+2 e numero di massa A+4
O con numero atomico Z-2 e numero di massa A-4
23) Molti strumenti usati per rivelare la radioattività, fra cui i contatori Geiger, sfruttano
O il potere penetrante
O il potere di ionizzazione
O l’elevata energia
delle radiazioni emesse nei decadimenti radioattivi
21
24) Di un insieme costituito inizialmente da 1000 nuclei radioattivi, dopo un intervallo di
tempo pari al doppio del loro tempo di dimezzamento, ne sopravvivono
Ο 1000/e2 = 135
Ο 250
O circa 250
25) L’attività di un campione radioattivo è rappresentata
Ο dal numero di nuclei che decadono in 1 secondo
O dalla quantità di energia sviluppata in 1 secondo dai processi di decadimento
O dal numero di coppie di ioni prodotti in 1 secondo dalle radiazioni emesse
26) Le dimensioni fisiche del parametro  che figura nella legge esponenziale del decadimento
radioattivo sono quelle di
O una frequenza O una pulsazione O un tempo
27) Indicate quale delle curve in figura rappresenta la
legge di decadimento di un insieme di nuclei
radioattivi
Ο A
O B
Ο C
28) Man mano che una sostanza radioattiva decade col
tempo, il suo tempo di dimezzamento
O diminuisce
O aumenta
O resta costante
29) Dopo 10 ore, l’attività di un campione radioattivo si
è ridotta del 10%. Quindi il tempo di dimezzamento della sostanza radioattiva è di
O 65,8 ore
O 100 ore
O 105 ore
30) La particella incognita nella reazione nucleare 21H + 19980Hg  19779Au + ?
O è un neutrone
O è una particella alfa
O è un protone
31) Vero o falso?
V
I radioisòtopi trovano impiego in medicina per scopi diagnostici
O
I radioisòtopi trovano impiego in medicina per scopi curativi
O
Attualmente in un giacimento di uranio possono svilupparsi reazioni a catena di fissione
nucleare
O
Sviluppano energia soltanto le reazioni di fussione nucleare fra elementi molto pesanti O
F
O
O
O
O
32) Timoroso della radioattività presente in ambiente cittadino, Gianvincenzo decide di recarsi
in meditazione in un villaggio del Tibet a 5000 m di altitudine. La sua scelta è
O sbagliata
O giusta
O ininfluente
33) La radioattività naturale sulla superficie terrestre nei secoli passati era
O circa uguale a
O poco inferiore a
O molto minore di
quella attuale
34) I “proiettili” più adatti per colpire un nucleo provocando una reazione nucleare sono
O i protoni
O i neutroni
O gli elettroni
35) Sviluppano energia le reazioni di fissione nucleare degli elementi
O leggeri
O con numero atomico all’incirca fra 50 e 100
36) Il Sole è alimentato da reazioni di
O decadimento alfa
O fusione nucleare
O pesanti
O fissione nucleare
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Problemi e quesiti
1. Giustificate l’affermazione “gli atomi sono sono praticamente vuoti”, calcolando il rapporto
fra il volume di un atomo di idrogeno e il volume del suo nucleo (il raggio di un atomo di
idrogeno è rA = 52,9 pm).
Risoluzione. Il nucleo atomico dell’idrogeno ordinario è costituito da un protone sicchè il suo numero atomico è A = 1.
Dalla formula (2) si ricava che il raggio del nucleo dell’idrogeno è r ≈ 1,2 fm. Il rapporto fra il volume dell’atomo e
quello del nucleo è dunque: (rA/r)3 ≈ (52,9∙10-12/1,2∙10-15)3 = 8,57∙1013. Cioè la massima parte della massa dell’atomo,
concentrata nel nucleo, occupa soltanto una frazione veramente minuscola del volume totale.
2. Spiegate brevemente perché il numero di massa di un nucleo atomico è un indice
significativo, ma non esatto, della massa di un atomo.
Risoluzione. Il numero di massa di un nucleo è dato dalla somma dei protoni e dei neutroni che lo costituiscono. Oltre
ai nucleoni, un atomo comprende però anche uno o più elettroni, la cui massa è tuttavia circa duemila volte inferiore a
quella di un protone o di neutrone, sicchè può essere trascurata in prima approssimazione. La massa di un protone e di
un neutrone differiscono inoltre ( Tabella 1) soltanto di circa 10-4 sicchè possono essere assunte approssimativamente
uguali e quindi la massa totale di un atomo è espressa significativamente dal numero di massa del suo nucleo. In realtà
la massa effettiva di un nucleo atomico è un po’ minore di quanto indicato dal suo numero di massa, perché è sempre
inferiore alla somma delle masse dei nucleoni che lo costituiscono (difetto di massa del nucleo).

 Calcolate la frazione della massa totale di un atomo di idrogeno che si trova nel suo nucleo.
Risoluzione. La massa totale di un atomo di idrogeno è data dalla somma della massa di un protone e di quella di un
elettrone ( Tabella 1): m = me + mp = 9,109390∙10-31 + 1,672622∙10-27 = 1,673533∙10-27 kg. E quindi la frazione della
massa nucleare rispetto alla massa atomica è: mp/m = 1,672622∙10-27/1,673533∙10-27 = 0,999456.
4. Calcolate l’unità di massa atomica in unità di kg per ricavare l’equivalenza (3) utilizzando la
nozione di mole e ricordando il valore del numero di Avogadro: NA = 6,0221415∙1023 mol-1.
Risoluzione. Una mole di carbonio-12 contiene per definizione N A atomi e ha la massa di 12 grammi/mole. Definendo
l’unità di massa atomica come 1/12 della massa di un atomo di carbonio-12, si ha dunque:
1 u = (1/12) 12 g/mol/NA = (1 g/mol)/( 6,0221415∙1023 mol-1) = 1,660539∙10-27 kg. 
5. Misurando il diametro di un nucleo atomico si ottiene d = 5,82 fm. Calcolate
approssimativemente il numero di massa del nucleo e stabilite di quale elemento chimico si
tratta.
Risoluzione. Dalla formula (3) si ricava A ≈ (d/2r 0)2 = (5,82/1,2)3 = 197. Esaminando la Tavola periodica si conclude
che si tratta di un nucleo di oro.

 Calcolate l’accelerazione che subirebbero i due protoni di un nucleo di elio ( Esempio 4)
nell’istante in cui la forza nucleare venisse a cessare. Calcolate quindi la distanza a cui essi
verrebbero a trovarsi dopo 1 picosecondo, supponendo costante la forza repulsiva durante
tale intervallo. E’ realistica, secondo voi, quest’ultima ipotesi? 
Risoluzione. L’intensità della forza repulsiva fra i due protoni di un nucleo di elio, calcolata nell’Esempio 4, è F = 63,8
N. In base alla prima legge della dinamica, l’accelerazione nell’istante in cui la forza nucleare venisse a cessare, sarebbe
a = F/mp = 63,8/1,67∙10-27 = 3,82∙1028 m/s2. Se questa forza si mantenesse costante, dopo 1 ps = 10 -15 s, ciascun protone
avrebbe percorso lo spazio s = at 2/2 = 3,82∙1028(10-15)2/2 = 0,0191 m, sicchè la distanza fra i due protoni, che
viaggiano in direzioni opposte, sarebbe 2s = 0,0382 m. E’ però evidente che, assai prima di raggiungere tale distanza, la
forza elettrostatica sarebbe diminuita fortemente, sicchè l’ipotesi adottata nel calcolo precedente non è affatto realistica.

 Esaminando la composizione dei nuclei degli atomi dei diversi elementi si trova che al
crescere del numero atomico aumenta generalmente la frazione di nucleoni costituita da
neutroni. Per esempio, l’elio ordinario 42He ha 2 protoni e 2 neutroni (50% di neutroni), il
ferro più comune (5626Fe) ha 26 protoni e 30 neutroni (53,6% di neutroni), l’isòtopo più
comune dell’uranio (23892U) ha 92 protoni e 146 neutroni (61,3% di neutroni). Spiegate
brevemente perché avviene ciò. 
Risoluzione. Il motivo sta nella natura a breve raggio della forza nucleare forte attrattiva e in quella a lungo raggio della
forza elettrica. Quest’ultima agisce infatti fra tutti i protoni del nucleo, la prima soltanto fra i nucleoni che si trovano a
breve distanza fra loro. Al crescere del numero atomico, cioè del numero di protoni del nucleo, l’effetto repulsivo
23
aumenta quindi più fortemente di qullo attrattivo, sicchè per assicurare la coesione del nucleo occorre un numero di
neutroni più che proporzionale a quello dei protoni.

 Calcolate la massa atomica del silicio sapendo che gli isòtopi di questo elemento presenti in
natura sono i seguenti: Si-28, con massa atomica 27,9769 u e abbondanza relativa 92,23%,
Si-29, con massa atomica 28,9765 u e abbondanza relativa 4,67%, Si-30, con massa atomica
29,9738 u e abbondanza relativa 3,10%. Confrontate il vostro risultato con il dato riportato
nella Tavola periodica degli elementi (28,086).
Risoluzione. La massa atomica di un elemento chimico si calcola eseguendo la media pesata delle masse atomiche dei
suoi isòtopi presenti in natura, usando come pesi le abbondanze relative. Si ha pertanto mSi = 0,922327,9769 +
0,046728,9765 + 0,031029,9738 = 28,0855 u.
9. Calcolate il difetto di massa totale del ferro-56 ( figura 8) in unità di massa atomica e la
frazione della massa-energia totale di questo nucleo immagazzinata come energia di legame.
Risoluzione. Dal grafico si deduce che l’energia di legame per nucleone del ferro-56 è di circa 8,7 MeV/nucleone, e
quindi l’energia di legame totale è E ≈ 568,7 MeV = 487 MeV. Pertanto il difetto di massa del nucleo è m ≈ E/c2 =
487∙1061,6∙10-19/(3∙108)2 = 8,66∙10-28 kg = 8,66∙10-28 /1,66∙10-27 u = 0,522 u. La massa totale dei nucleoni del ferro,
calcolata approssimativamente moltiplicando il numero di massa per la massa del protone, è m ≈ 561,007 = 56,4 u. Il
rapporto fra la massa immagazzinata come energia di legame e la massa dei nucleoni è dunque 0,522/56,4 = 0,0093,
cioè circa l’1%. 
10. L’uranio-238 (23892U), capostipite di una delle tre famiglie radioattive naturali, subisce il
decadimento alfa trasformandosi in torio (Th), che a sua volta subisce decadimento beta +,
trasformandosi in protoattinio (Pa). Questo, ancora per decadimento beta + si traforma
nuovamente in un altro isòtopo dell’uranio (che poi decade ulteriormente con una serie di
trasformazioni fino a un isòtopo stabile del piombo). Stabilite la composizione dei primi tre
nuclei della famiglia dell’uranio.
Risoluzione. Il decadimento dell’uranio-238 comporta l’emissione di una particella alfa (42He), e quindi la perdita di 2
protoni e di due neutroni, sicchè il nucleo di torio così prodotto ha numero atomico Z = 92 –2 = 90 e numero di massa
A = 238 – 4 = 234. Il decadimento beta+ del nucleo di torio comporta l’emissione di un positrone e quindi la perdita di
una carica positiva senza variazione del numero di massa (nel processo, un protone si trasforma in un neutrone), sicchè
il nucleo di protoattinio così prodotto ha numero atomico Z = 90 + 1 = 91 e numero di massa A = 234. Il decadimento
beta+ del nucleo di protoattinio comporta l’emissione di un positrone e quindi la perdita di una carica positiva senza
variazione del numero di massa, sicchè il nucleo di uranio così prodotto ha numero atomico Z = 91 + 1 = 92 e numero
di massa A = 234. Le espressioni dei tre nuclei sono pertanto le seguenti: 23490Th, 23491Pa, 23492U.
11. In un campione di carbonio vi sono 6,5∙1010 nuclei di C-14 radioattivo. Calcolate il numero
di decadimenti al minuto, sapendo che il tempo di dimezzamento del C-14 è di 5730 anni.
Risoluzione. Il numero di nuclei che decadono in un intervallo di tempo t si ricava approssimativamente dalla formula
(6): N ≈ Nt, dove N è il numero iniziale di nuclei e  = 0,693/T1/2 , in base alla formula (7). Il numero di
decadimenti al minuto è pertanto: N ≈ 0,693Nt/T1/2 = 0,6936,5∙101060/(537036586400) = 16.
12. Un campione contiene N10 = 1018 nuclei di stronzio-89, con tempo di dimezzamento di 28
anni. Un altro contiene N20 = 1021 nuclei di cesio-137, con tempo di dimezzamento di 2
anni. Calcolate fra quanto tempo i due campioni conterranno lo stesso numero di nuclei
radioattivi.
Risoluzione. Posto T1 = 28 anni e T2 = 2 anni, dalla (7) si ha per lo stronzio 1 = 0,693/(28 anni) =
0,693/(2836586400) = 7,85∙10-10 s-1 e per il 1 = 0,693/(2 anni) = 0,693/(236586400) = 1,10∙10-8 s-1. La legge di
decadimento delle due specie si ottiene applicando la formula (5):
N1  t   N10e1t , N2  t   N20e2t .
Imponendo l’uguaglianza fra il numero di nuclei delle due specie e prendendo i logaritmi si ricava come segue il tempo
tx al quale i due campioni conterranno lo stesso numero di nuclei radioattivi:
ln 1021 1018 
ln  N 20 N10 
6, 76 108
8
tx 


6,
76

10
s

anni  21, 4 anni
2  1
1,1108  7,85 1010
365  86400
13. Misurando l’attività di un campione radioattivo si trova inizialmente che questa diminuisce
rapidamente, ma in seguito assai più lentamente; come se il tempo di dimezzamento variasse
nel tempo. Sapete interpretare l’osservazione?
24
Risoluzione. Assai probabilmente il campione conteneva due diverse specie radioattive, con una maggior quantità di
quella con vita più breve e una minore di quella a vita più lunga. Sicchè inizialmente l’attività era dominata dalla
radioattività della specie più numerosa, che manifestava il suo breve tempo di dimezzamento. Successivamente, quando
il numero di nuclei della specie a vita breve era diminuito a sufficienza, la radioattività era dominata dall’altra specie,
che manifestava il suo lungo tempo di dimezzamento.
14. Carlo, misurando con un contatore Geiger la radioattività naturale di fondo in un ambiente
di casa, registra una sequenza regolare di impulsi con la frequenza di 0,6 impulsi al secondo.
Paola, che partecipa alla misura, sostiene che forse c’è qualche problema e quindi ha poco
senso prendere nota di questo dato. Voi cosa ne pensate?
Risoluzione. La radioattività è un fenomeno statistico, la cui regolarità si manifesta soltanto su intervalli di tempo
abbastanza lunghi da registrare un gran numero di decadimenti. Gli impulsi a frequenza fissa registrati dal Geiger sono
dunque certamente dovuti a qualche disfunzionamento dello strumento, sicchè la misura non ha senso.
15. L’acqua di una falda freatica contiene una percentuale di trizio quattro volte inferiore a
quello della pioggia. Sapendo che il trizio, con tempo di dimezzamento di 12,5 anni, è
prodotto dai raggi cosmici nell’atmosfera, calcolate il tempo medio di rinnovo dell’acqua
della falda.
Risoluzione. Il tempo medio di rinnovo dell’acqua della falda è anche il tempo medio di permanenza dell’acqua nella
falda. E questo è pari a due tempi di dimezzamento, cioè a 25 anni, dato che la percentuale di trizio nell’acqua della
falda è un quarto di quella dell’acqua atmosferica.
16. Eseguendo misure su un campione di carbone proveniente da uno scavo archeologico si
trova che la sua attività è il 90% di quella del carbonio contenuto in un pezzo di legno
tagliato di recente. Calcolate l’antichità del reperto.
Risoluzione. Sapendo che il tempo di dimezzamento del carbonio-14 è di 5370 anni, il tempo necessario perché il suo
contenuto si riduca al 90% si ricava dalla formula (5), nella quale sostituiamo  con T1/2 utilizzando la formula (7):
t tx

ln  0,9  T1/ 2
 816 anni . E quindi il reperto risale a circa 816 anni fa.
0, 693
17. Gli elementi transuranici, con numero atomico maggiore di quello dell’uranio, non sono
presenti in natura in quantità apprezzabili perché sono radioattivi con tempi di
dimezzamento tipicamente piuttosto brevi. E quindi quelli che si fossero trovati nel
materiale che ha costituito inizialmente la Terra sarebbero poi scomparsi. Spiegate perché in
natura si trovano invece quantità apprezzabili di isòtopi di elementi con numero atomico
minore di quello dell’uranio.
Risoluzione. In natura, in particolare nella crosta terrestre, sono presenti numerosi isòtopi radioattivi, alcuni con tempi
di dimezzamento relativamente brevi. Questi nuclìdi appartengono a una delle famiglie radioattive naturali e quindi
sono prodotti continuamente dal decadimento di altri elementi radioattivi, alcuni dei quali con tempi di dimezzamento
estremamente lunghi. 
18. Calcolate di quanto diminuisce ogni secondo la massa del Sole, sapendo che il flusso
dell’energia solare che raggiunge la Terra, misurato appena fuori dell’atmosfera, è di circa
1350 W/m2 e che la distanza media Terra-Sole è di circa 150 milioni di km.
Risoluzione. La potenza P emessa dal Sole uniformemente in tutte le direzioni si ricava come segue dal flusso  = 1350
W/m2 che raggiunge la Terra, a distanza R = 1,5∙1011 m: P = 4R2 = 43,14(1,5∙1011)21350 = 3,8∙1026 W. Questa
potenza proviene dalla trasformazione di massa in energia nel corso delle reazioni di fusione termonucleare che si
sviluppano nel nucleo del Sole. Se l’energia liberata ogni secondo è 3,8∙1026 J, la massa che il Sole perde ogni secondo
è: m = E/c2 = 3,8∙1026/(3∙108) = 4,2∙109 kg.
19. Per ricavare energia dall’elemento ferro, conviene, secondo voi, utilizzarlo in una reazione
di fusione oppure di fissione? Per rispondere esaminate la figura 8.
Risoluzione. Al ferro-56, come mostra la figura 8, corrisponde la massima energia di legame per nucleone. Si conclude
pertanto che sia la fissione di questo nucleo in due nuclei più leggeri sia la fusione di due nuclei di ferro in un un nucleo
più pesante condurrebbero a prodotti con energia per nucleone inferiore a quella del ferro, cioè con massa finale
maggiore di quella iniziale. E quindi né l’una né l’altra delle due reazioni proposte conduce alla liberazione di energia.
25
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