GIUSEPPE LIMONE Fenicia, sogno di una stella a Nord-Ovest Edizioni Lepisma 1 4 Prefazione Salvatore Quasimodo sosteneva che i filosofi sono “i nemici capitali della poesia”, naturalmente quando diventano “schedatori fissi del pensiero”. Se invece il pensiero lo spargono armonicamente e lo distillano in immagini e in scatti lirici si ha la grande poesia. Si confrontino Dante, Campanella, Leopardi, Luzi, solo per fare qualche nome. Sono pienamente convinto che il calligrafismo, il descrittivismo, l’annotazione paesaggistica e l’annotazione psicologica sono elementi importanti di un testo, ma se non affondano in una visione della vita e nelle radici profonde dell’essere avremo opere piacevoli, carezzevoli, perfino ammiccanti, ma incapaci di portarci all’esaltazione totale o allo scontro. Non si dimentichi che i primi grandi poeti sono stati i presocratici e che molte fonti della poesia anche contemporanea attingono a Platone e a Plotino, a Seneca e a Montaigne, a Pascal e a Rousseau. Ma questi sono discorsi accennati semplicemente per dire che se si arriva alla poesia dopo lunghi e ponderati studi filosofici è certo che i risultati saranno considerevoli. È il caso di Giuseppe Limone che con Fenicia, sogno di una stella a Nord-Ovest si ripresenta al pubblico dei lettori con la piena consapevolezza che se vuole trovare la complicità del lettore e la sua comprensione deve denudarsi, non nascondersi né dietro l’ombra delle parole né dietro la concettosità né tanto meno dietro la complessità. Il suo deve essere un auto da fe’ senza sospetti, un bilancio che non esclude nulla, che sia a un tempo partita doppia della propria esistenza e del tempo in cui viviamo. Credo che Limone riesca subito a conquistare il lettore, a portarlo dentro le ragioni obiettive della sua confessione, dentro una ontologia del possibile che è infinita, che si apre di continuo come matriosche sempre più piccole e sempre più essenziali. Si osservi che nel corpo vivo del tessuto poetico s’incrociano, facendo risonanza e vertigine in luoghi diversi e molteplici dell’itinerario dell’autore, tre temi lirici in una sola parola evocativa visitata in più chiavi: la Fenicia. La quale si rivela, come in un 5 progressivo dissigillamento, al tempo stesso: la terra antica dei Fenici centro di partenza simbolica di una civiltà mediterranea e marinara, altra ed alta, possibile alternativa sommersa alle tante che si svilupparono di fatto nella storia del mondo; la figlia del poeta, Fenicia, e il tema della resurrezione, incarnato nella celebre figura del mito. Non ci si inganni: i tre motivi sono le tre chiavi musicali di un unico plesso lirico – la catarsi solare del viaggio come rigenerazione del futuro. Anche le citazioni letterarie nascoste sono affluenti a questo fiume. Infatti il libro bisogna leggerlo come un unicum e non come brani sparsi. Limone ne ha progettato fin nei minimi particolari la scansione e lo sviluppo ed è evidente che è dall’insieme che si attende la verifica degli esiti. Per capire comunque la portata del testo è necessario partire dal titolo che si richiama alla Fenice, uno degli uccelli mitici di cui ci hanno dato notizia Plutarco ed Erodoto. Pare sia di origine etiopica, di bellezza eccelsa, longevo, con il potere di consumarsi nella fiamma del fuoco e di rinascere dalle proprie ceneri. Sulla Fenice sono stati scritti molti volumi, soprattutto durante il Medioevo che la considerò simbolo della Resurrezione di Cristo. In tutti i modi possiamo leggere nel suo mito la resurrezione, l’immortalità e la rinascita ciclica o, a partire da Origene, il simbolo della volontà di sopravvivenza, il trionfo della vita sulla morte. La premessa per dire che questo libro in fondo è una morte totale e una altrettanto rinascita totale che Giuseppe Limone compie attraversando “il punto più difficile, / cercando / gli affetti purissimi / e l’innocenza dell’aquila / irredenta”. Così ha inizio la prima lirica, e dunque il poeta si presenta privo di qualsiasi remora, affidandosi alla libertà e alla clemenza del lettore e di se stesso, ricordando, prima a se stesso e poi a noi lettori, quali siano stati gli elementi determinanti che l’hanno accompagnato per lungo tempo e che a un certo punto si sono dissolti. Si rivolge direttamente al Signore, Gli ricorda che ha soccorso “i fiori recisi”, “gli alfabeti / plurali del respiro, / i gigli illesi, / i coriandoli del nome / e dell’onore” per condurLo sul suo stesso piano, per invitarLo a scendere a patti con la sua persona e chiederGli la restituzione delle cose perdute. 6 C’è in questo primo testo la disperazione starei per dire gaudiosa del proprio percorso che deve servire come moneta e credito da offrire al Signore per riavere nelle mani il proprio destino di uomo. Limone non tergiversa, conosce la sua forza interiore, lo slancio con cui ha amato, ha sofferto, ha goduto, e conosce la malinconia dell’addio, della rottura con l’equilibrio e l’armonia del mondo. Un palpito ungarettiano si risolve in scatto campanelliano. Le sofferenze sono un travaglio che deve suscitare l’interesse di Dio. E per farci sapere fino a che punto Limone è stato uomo di fede, soprattutto nella poesia, oltre che nella vita, fa ricorso a un nume tutelare che si chiama Federico Garcia Lorca. Vi fa ricorso addirittura ricalcandone i moduli espressivi (anche se riportati alla propria dimensione e al proprio ritmo), ricorrendo a una dovizia di sinestesie che hanno il bagliore delle lame di Toledo, a cominciare dall’incipit: “Il mio cuore cavalca un puledro / di lucido sole”, fino alla glorificazione di quell’arcobaleno che “è un pianoforte all’aria / per le tue dita / luce”. Un lirismo starei per dire accecante in cui “il pianto rosso dell’estate” diventa a un tempo malinconia fertile e danza irrequieta che prelude a qualcosa di straordinario. La Fenice sa attendere, sa divincolarsi dalle assurdità, dai dolori e trovare l’abbagliante mattino delle nuove albe. Il poeta altro non è che la Fenice, un unico fiato, un unico fine, un’unica attesa da cui salterà fuori la nuova strada. Viene naturalmente da domandarsi se il tu colloquiale a cui si rivolge Limone sia un astratto interlocutore oppure il suo doppio, o il suo amore sempre sullo sfondo e sempre pronto a dissolversi nella nebbia del ricordo. Eppure, anche nella caduta egli non recrimina, non fa la vittima, non si atteggia a giudice, a moralista. Resta il poeta incantato nella speranza fenicia e nel grumo irrisolto del dubbio. “Avrei voluto essere il lampo” spiega l’atteggiamento di tenerezza che ricolma le azioni e i pensieri del poeta che subito dopo si confessa e dichiara di non avere niente da dare all’amata, “se non il mio ultimo respiro… la mia tenerezza invisibile … la mia attesa inutile … questi occhi, / segnati da fuochi e da morsi”. Il “pulcino rannicchiato” a questo punto deve ritrovare le braccia della madre e infatti ricorre a lei, proprio nel giorno dei morti, il due novembre, ma 7 semplicemente per dirle che il pulcino “rannicchiato” è diventato “sgusciato”. Mi rendo conto che sto seguendo un itinerario di lettura che fa sembrare questo libro un piccolo romanzo. In realtà è proprio un romanzo questo avvicendarsi di ricordi, di incontri, di richieste, di attese, di promesse, ed Etna è il punto nodale di un intermezzo vissuto come una rivelazione. Diceva Borges che per capirci meglio, per ritrovare noi stessi a volte basta soffermare lo sguardo sulle cose e rifletterci proiettando il nostro doppio e colloquiando. In qualche modo Limone attua questo principio e ne ricava riflessi abbaglianti che illuminano lo stato d’animo in cui si trova, le atmosfere vissute in un travaglio che comunque sa sempre sfociare in rivoli che sgusciano dalle tenaglie dell’esasperazione e della disperazione. In Limone non c’è lo smarrimento del deserto a cui per esempio ricorsero nella disperazione Marina Cvetaeva e Josif Brodskij, neanche quando descrive, con lucida consapevolezza, “la sforza del cosmo che non passa, / come l’istante che mai si consuma: / come una chiesa vuota / in cui nessuno crede più, / in cui ramarri sonnecchiano annoiati”. Limone intreccia, nella sua confessione, momenti di riflessione e momenti lirici puri, momenti squisitamente narrativi e scavi nel proprio io. Lo fa con naturalezza, incurante degli effetti psicologici, delle onde sonore che produrrà, dello strazio che farà nascere nel lettore. Egli vuole il lettore suo complice autentico e non come un viandante che lo sfiora e perciò non esita a farci assistere a un colloquio col padre – 2 febbraio, per un anniversario. A mio padre – in cui le vite s’intrecciano e in cui appare evidente una visione di mondo tradito. Limone parla addirittura di cilicio e la parola ci fa comprendere che cosa passa nella sua anima lacerata, nel subbuglio del suo essere crocifisso all’altare dell’amore e dell’onore. In Porto invece c’è quasi una nota elegiaca, con accenti civili che spesso entrano ed escono dalla poesia di questo autore così ricco di sorprese, al punto che nella successiva poesia ci parla di Dio che è solo a domandarsi come svegliare i dormienti “domani diversi da come li creò”. Dio non è forse simile a lui nella solitudine? Anche Dio! E qui la universalità della poesia di Limone appare in tutto il suo fulgore, in tutta la sua ampiezza, fino a trovare Lungo un cielo di braci la raffinatezza della contemplazione che 8 invece erompe in scintille infuocate in 27 dicembre, in cui c’è lo sferragliare della decomposizione di un dolore senza riparo, e c’è l’isterilirsi di un magma che deve trovare la sua rapida per uscire senza fare danno. Gli accenti di Limone squillano come spifferi incandescenti, sbandano. Ma alla fine ritrovano una ragione d’essere, seppure contaminata dal tripudiare del male, dalle lacerazioni di un dissesto umano che all’inizio grida e si dibatte. Ma la sua anima stessa è Fenice che rimonta il dissesto e ritrova il sole. Dicesti è più ragionata, più pacata. È lirica che cerca il senso non dal nonsenso, ma ancora una volta dalla meditazione, dal pensiero, dalla rinuncia intesa come riscatto della verità, come promessa che svela il mistero della stella. Questi rapidi accenni che cercano di scandagliare i segreti impollinati nelle parole di Limone sono appena un barbaglio percepito a volo di rondine. Nelle poesie di Limone c’è molto di più, è quel sostrato di filosofia “sfarinata” nei messaggi, diluita in un pulviscolo che irrora di compostezza e di fermezza ogni verso. Ma teorizzare in maniera decisa a prefazione di un libro così sfolgorante di metafore sarebbe un eccesso che inficerebbe la lettura. Se vogliamo trovare supporti di carattere filosofico a questa poesia che gronda umanità e si appella alla discrezione del canto inteso come risorsa per salvare la persona, non sarà difficile trovare riscontri nei tanti testi di Limone. Egli ha studiato a lungo e profondamente in che consiste la centralità dell’uomo, non negli intenti rinascimentali ma in quelli che sono i fermenti dell’anima a cospetto della degradazione e delle rivoluzioni vere e fittizie e ne ha tratto convinzioni che andrebbero valutate alla luce del frastagliamento odierno per misurare quanta parte di irrealtà circola nelle tesi dei finti filosofi e nelle affermazioni dei politici che hanno perduto la meta e sbandano in direzioni insensate. Nella poesia di Limone ci sono le certezze del vivere, c’è l’amore, con e senza la maiuscola, che determina il cammino e lo rende possibile. Tanto è vero che in Piramidi di pietra noi sentiamo il peso e lo spessore del tempo e ne avvertiamo la consistenza feroce, il passo deciso che rende tutto “alti misteri umani prosciugati”. Centrale nel libro comunque Nóstos, il ricordo del futuro in cui il mondo greco e quello contemporaneo acquistano una luminosità inconsueta 9 e si fanno identità di un divenire eterno che detta le leggi dell’essere e del non essere, facendo “tutto presente al tempo di chi guarda”. Una intensità musicale si sprigiona da questo poemetto, una religiosità foscoliana si alza a dilatare il canto e portarlo in una radura incontaminata; e quel “papavero redento” diventa davvero ostia consacrata per una comunione con Dio e con la natura, con ciò che fugge in fretta e si disperde in pulviscolo luminescente. Non è la promessa della redenzione, ma qualcosa di più, il ricordo del non accaduto, il tempo frantumato in estasi, il bisturi che lacera il misterioso palpito di assonanze nascoste nel diluviare delle idee e delle sensazioni, delle emozioni che spingono comunque al futuro e dipingono “il tuo cuore d’ali / e le mie mani bucate dalla felicità”. E come sempre, Limone sa diradare la temperie addensatasi sul sistema della felicità perduta, sulla possibilità diventata nodosa e paludosa. Ed ecco “Venezia sposa”, che si fa specchio del vivere “Forse perché / ha questo nostro medesimo morire”. Gli ultimi tre testi, Fenicia, Andrò. Il sole di Möbius, L’ora della Fenice sono un’apoteosi, un crescendo mozartiano che trascina e specifica gli intenti umani e filosofici dell’autore oramai avviato al viaggio (il libro, o come io l’ho chiamato, il romanzo, è un vero e proprio viaggio intorno a se stesso e dentro se stesso) che si concluderà con il ritorno all’innocenza di fanciullo. Il quadro è chiaro, il poeta andrà “verso ovest / a mare aperto ad ali spiegate / dalle risse dei venti / e non avrò conforto di compagni”. Come potrebbe essere altrimenti? È da sé, da solo che deve trovare, ritrovare le coordinate del proprio essere, “avendo l’illusione che il tramonto / sia la prova dell’alba” e tutto avverrà fuori dalle regole, senza aiuti, senza guida. Come nell’attimo prima della morte ogni cosa apparirà nel cuore e le immagini diventeranno limpide carezze, ogni cosa troverà il suo assetto definitivo. Gli affetti si comporranno in un ricamo perfetto e il sapore della vita rifluirà grazie alla presenza inseparabile dei figli, della donna amata, delle sofferenze diventate calvario superato e medicato dalla poesia. Tutto il libro ha qualcosa di profetico e di immenso; come se dalla carne di Giuseppe Limone si sprigionasse un vento caldo che scorre tra le parole e le rende cose. Non so quanto la lezione di Heidegger sia entrata 10 nella visione estetica di Limone: è certo che egli compie uno sforzo enorme per portare alla sintesi mondi infiniti e mondi che stanno in agguato sullo sfondo delle possibilità. Il poeta è come vinto costantemente dalla bellezza e dall’amore e si avverte che la presenza, per esempio, dei due figli, è come un medicamento salutare per fargli superare le avversità e ridargli vigore. Naturalmente il “romanzo” non si conclude con nessun commento. Tutto resta aperto, come il cielo, come le “rosse Fenici / calate in mare per rigenerare / il perso alfabeto dei respiri, il giorno al sole, / le ceneri e la luce, le radici e le ali, sempre votate a essere / immortali, /a risorgere da sé”. In tempi come i nostri di “povere cose” e quasi mai miracolose, per ricordare Lorenzo Calogero, un libro di questa portata è un atto di fede nella gioia, nell’amore, nel mondo, nonostante la violenza, i lutti e l’indifferenza. Dante Maffia 11 12 Intenzioni di viaggio: Alla piccola Maria Raffaela Caterino mia madre nel cui futuro di stelle sempre furono e saranno i suoi gioielli mai visti e più suoi, Angelo e Fenicia. Ai miei nipoti amatissimi Angelo e Raffaella, luci del mattino. A Orlando, mio fratello di amori e ricordi. E ad Angelo Giuseppe, mio figlio, oro di fanciullo, perché conservi e promuova il suo grande valore e perché ami Fenicia e sua madre come io le ho amate. 13 14 LA MIA STELLA La mia stella nacque a nord-ovest nel punto più difficile, cercando gli affetti purissimi e l’innocenza dell’aquila irredenta. Amai Eurìalo e Niso, l’amicizia intemerata, dare onore all’indole ingenua, soccorrere i fiori recisi, remare i venti dell’anima aperta ai battiti del sole. Signore, renderai alla mia stella nel dolore del passo il fresco del papavero rosso, il tumulto delle more, gli alfabeti plurali del respiro, il viso dei bambini spuntati nel cosmo e nel mio prato, che amai fra le doglie infrangibili del cuore? 15 Restituirai a chi ti vide, Signore, nella gola dell’ovest le rondini, le dolomiti del respiro, le lacrime perse nel cristallo muto del dolore? Restituirai a chi abita il ricordo gli occhi lucenti di stelle che amai, i giorni rossi, le risa d’acqua, i gigli illesi, i coriandoli del nome e dell’onore, l’alito inestinguibile del sole? 16 A FEDERICO GARCIA LORCA Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole. Miagolío di mani vispe imbianca la mattina. (Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole) Gli occhi sono mandorle azzurre filanti in sospensione. (Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole) Acuti seni vivi ti pungono d’argento il desiderio. (Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole) All’alto 17 zenit è una magnolia appena schiusa la tua bocca. (Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole) L’arcobaleno è un pianoforte all’aria per le tue dita, luce. (Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole) Abito la soda tenerezza del tuo corpo, mela compatta. Le mordo il cuore. (Il mio cuore cavalca un puledro di lucido sole) Da sette note nacque tutto il mondo del tuo fiore. 18 Il mio sogno cavalca un puledro ed è lucido sole. Mi è dentro il pianto rosso dell’estate. 19 POETA Offri colori mescendovi un ignoto liquido sole rosso in un creato di meraviglie da un gorgo ignoto che si dà in faville. Tutto si svela e poi rifà quesito. Il poeta è uno strano incantatore. Gocce di fuoco al cuor schizzate foggia e le martella in iridi gemmate rapendo a sé stupiti ammiratori e gioca a dadi con i suoi dolori. 20 AVREI VOLUTO Avrei voluto essere il lampo del tuo riso moro la ricolma malizia moscata del tuo onore. Ma sono solo il furto della lama che lo riluce e aspetta nella speranza del tempo che si cela nella memoria e si fa gatto alle tue notti di luna. 21 NON HO NIENTE DA DARTI Non ho niente da darti, piccola creatura che m’ami, se non il mio ultimo respiro la mia passione inutile il mio residuo verde di fuoco resistíto nel vaso dei mali. Non ho nulla da darti se non il manipolo bardato a cavallo di tutti i tradimenti passati sul mio corpo nudo come uno squadrone della morte. Non ho niente da darti se non la mia tenerezza invisibile in un corpo senza volto, giunto sul limitare degli abissi a dare il cambio al dolore. Non ho niente da darti se non il mio soffio innocente, trasformato nell’orrore di chi vi ha sputato all’unísono tutte le iniquità. Non ho niente da darti, piccola creatura che m’ami, se non la mia attesa inutile del volo in un’aurora d’estate, seguíta dal decreto del sangue. Non ho niente da darti se non questa mano, perché tu la soccorra, 22 piccola creatura che m’ami. Nulla potrò darti se non questo pallido sorriso in cui tu possa soffiare come in una bolla iridescente, che voli. Non ho niente da darti se non questi occhi, segnati da fuochi e da morsi, per restituirmi al tuo nulla, piccola creatura che non esisti e che mi ami nel tuo nulla, in cui scopro di vivere da sempre come un pulcino rannicchiato. 23 2 NOVEMBRE, PER UN ANNIVERSARIO Il vento scuote la luna, madre, questa notte, draga l’urlo del tempo, unghia lo strabuzzo dei vetri, smura ragni indifesi e tu ora tremi di freddo e di paura nella tua tomba come una bolla di nulla appesa alla mia notte, come un grido d’amore senza dita, come un pulcino sgusciato. 24 ETNA Una paura qui rossa c’ingoia. Il fuoco ride nel nero volto fondo una malizia di sarcastica fiamma a questa còlta in flagrante segreto nostra finitezza d’esistere svelata. Ci fu tatuata un dì come una colpa e poi come colpa sepolta. Due eruzioni sorgono in quest’una che scende. È oro sulfureo la notte. 25 RITORNERÀ SETTEMBRE Ritornerà settembre e i pini rossi grideranno aiuto alla sera e tu verrai col tuo passo leggero in un’anima segreta come fiato sottile sopra un vetro che decima ricordi. Non avrai né parole né pianto né rovi d’ansie né mani bianche trafelate dalla sera. Sarà giurato l’onore sulle cose non dette su quelle più antiche e più care e più segrete. Nasceranno sulla neve orme minutissime e leggere in successione muta come di bimbi invisibili correnti una tastiera di perle e notti. E tu riavrai il tuo sorriso deposto sul gioiello che t’apparve in palmo mentre il mare sorgeva alla sua estate 26 in una notte tutta luna meravigliata dalla luce dei tuoi occhi. Sarà un’ora soltanto ma assoluta, immortale, come la forza del cosmo che non passa, come l’istante che mai si consuma: come una chiesa vuota in cui nessuno crede più, in cui ramarri sonnecchiano annoiati, mentre prega solo un silenzio esangue a mani giunte d’erbe e la memoria tutta di pietra di ciò che resta e fu. 27 2 FEBBRAIO, PER UN ANNIVERSARIO. A MIO PADRE A papà Angelo perché ne vivano il nome, l’onore e il sangue i nipoti Partisti per il viaggio più lungo un giorno di febbraio. E mi accade pensarti. Un pensiero che ha quindici anni è già adolescente. Sono nel pozzo d’un sogno a cercare una stella, a lastricare di buio le mie notti, a vedere dal fondo come delimita il cielo il breve giro di luce dell’affaccio. Strappo lacerti di varchi alla mia infanzia per farla uscire e ne soffro come nella storia di Nesso. E ti risento, padre, compagno di strada mentre mi tieni la mano alla festa del santo, soccorrermi, darti 28 pensiero per me e donarmi il bambino rosa giocattolo che faceva pipì d’acqua corrente - era l’infanzia che stavi regalando a te stesso regalandola a me e lo sapevi. Ti telefono oggi, papà, per assaporare la tua voce. Quante volte ho composto il tuo numero nelle ore difficili, padre, dimenticando che sei morto. L’anima ha questi strani mancamenti di tempo, percorsi carsici e io sono qui l’inumana eco che si fa concava al venir della tua voce la bandiera sottovento in attesa. La vita ha verità difficili, padre, come un passaggio a nord-ovest e le gioie dei ricordi sono dolori retràttili 29 come unghiate nel sangue. È incurabile l’anima all’irreparabile zodiaco dei volti bianchi che tranciano le attese nei sogni. Siamo cristalli di ore vive, frastagli di tempi translucidi, ali di farfalla friabili al silenzio del sole. Siamo scalini d’ansia, formicai di memorie e risparmi dell’anima ferita. Lanciniamo di ciò che perdemmo ed è sezione aurea fra l’anima e il vero il nostro dolore. La tua bontà fu inumana, padre, spericolata come la tua dolcezza, visionaria come l’arte e l’amore; non resse il teatrario del mondo e tu ascoltami. Sono il letto vuoto del tuo cuore, il testimone del tuo nome, il procedere dei tuoi possibili recisi e tu sei la mia fame di rose. 30 Il crepaccio del fuoco e dell’anima. L’ansia della stella che non passa. Il labirinto di echi degli addii frantumati da una voce. Il mio cilicio. Il mio canto. Il mio viatico di semi sepolti nel sorgere dei figli. Il mio sogno d’albe e tramonti visitati dal perdono. Il mio tumulto di pace. La mia fame di preghiera. Oltre le nuvole, oltre le stelle, oltre l’abisso del grido, tu. 31 PORTO Non ebbi altro trovarti che perderti. Non ebbi altro perderti che trovarti. Un uomo è un re quando sogna e un mendicante quando pensa, e in nessun supermarket dei sogni ho più ritrovato il tuo viso. Porto nella borsa della spesa i ricordi di ieri, un violino, due popcorn per la caccia e il giardino ove scoprii la tua mano e il coniglino Sisì. A proposito, chi ha vinto in milan-napoli? È il pubblico che fa gol al denaro o viceversa? Meno male che le banche svizzere hanno finanziato la fame del terzomondo aprendo una sottoscrizione fra i drogati. 32 PIANETA Si leva la mitissima notte, abitata dalla speranza dell’alba. Tutti dormono ora sotto la luna e Dio è solo. A domandarsi come rendere invalide tutte le torture e le stragi. A domandarsi, guardando i dormienti, come poterli svegliare domani diversi da come li creò. 33 LUNGO UN CIELO DI BRACI Lungo un cielo di braci che si sfalda in un mosto di fiamme e sangue bruno arriva a fili sfrigola la sera su lamiere di grilli. E ruba in cuore un treno che si sfa. 34 27 DICEMBRE. ERI Eri il mio prisma infinito di stelle. Dove fuggisti? Che male oscuro ci prese? Quale drago improvviso, rompendo il dorsale filo dell’orizzonte ci spense l’apocalisse della luce? Eri il mio prisma infinito di stelle screziato nel sole, la mia piramide di quarzo puro elevata dalle cure dei miei giorni. Dove fuggisti? Stasera un’aurora bambina, braccia al cielo, in uno stizzo di brace franò. Riaprì un’estate di filanti luci liquide di notti sillabata dall’oro dei tuoi occhi. Due bimbi fiorivano in fondo, sommersi, segreti, a braccia aperte, come due stelle di mare. In mente Dei, in attesa di volare. 35 Ascolta. Qui ora nel muto fiordo di questo spacco di casa che fuma davanti al silenzio d’un viso curvo sul grembo del calore un passero verde si fa fuoco, sibila, spara in uno strozzarsi della luce: due voci in due lingue di fiamma improvvise da uno stillicidio di fervori ti prendono alla falda della gola come doppia frana tranciata di rovo rosso lacero che preghi. Fermenta il dolore come un bruco gelatinato dal respiro, sgocciola serpi, sgrammàtica lampi di ricordi, stride. Ha lacrime verdi, accidentate e mute come ardesie scavate dalle stelle, schizzi roventi 36 sulle fattezze immobili del buio che dal buio disegnano la luce. Ha corpo frantumato, cruda l’anima, millenni irrimediati di memorie, bagliori randagi di futuri, avare luci questo buio dolore. O nostra sororal ultima luce, residua Thule, iscritta nell’annaspo di chi vive il resistere sull’ orlo del respiro, argine al tonfo che idròvora dal fondo della gola senz’anima del buio. Solo per chi non ha più speranza fu data la speranza. E l’amore è la penultima risacca che precede l’ignoto e segue il mal di mare: mai non si acquieta a spegnersi nel sale e da ogni dove sempre ritorna nell’esplodere dei guizzi. L’avvento della notte non è la morte del sole e il filo di sorriso d’un bambino non predice il rinascere 37 dell’alba, ma apre sempre al possibile varco del filo d’erba acuto, inconfutabile e immortale. Ci è restato come il giorno più lungo solo l’artigianato del dolore che si fece parola: come un oro illegittimo e segreto, costoso di silenzi e doveroso come l’onore di Árjuna e Sherazade. Simile a sabbia mobile ora sale dal fondo inconsumato una preghiera con la bocca ricolma, strozzata da una fede pallida, implume, costipata. Che Qualcuno ci salvi. Ci aiuti. Rompa col filo d’erba la roccia, col possibile la necessità. Soccorra nel cosmo fratturato dei respiri la carestia degli occhi, la miopia dei giorni, l’angustia rovinosa dei ricordi, l’anoressia della speranza, il buio tempestato di mani, l’insulso dell’inane, 38 il trapianto di fedi impoverite in serie, il silenzio sigillato dell’anima estirpata dal laccio del nemico che l’avvita. Che Qualcuno soccorra l’imperioso irredento, l’incontenibile taciuto, il mare immoto, l’universo di sole risucchiato dallo sghignazzo ingordo dell’assurdo. Che Qualcuno soccorra le residue braccia spalancate a cielo perso a un arcobaleno di bambini dagli occhi verdi e neri, grido pulcino dell’ultimo universo. Sia preghiera per noi. Che Fenicia patria sia promessa di varco a Nord-Ovest, terra che respira alfabeti di navi, rossi orizzonti, angeli per voli di remi, antichissimi ricci di coraggio 39 nautico e porpore di mani nel ricordo celeste del Carmelo, sia mediterranee luci come semi di civiltà, di uomini in bottiglia a cosmi nuovi come frecce in faretre messaggere, semi di sorrisi destinati a scoppiare dal gheriglio di millenni di mare in un’orologeria che dissigilli varchi di fiori in boccio nati da un sogno verde di maestrale. Sia preghiera per noi. Che il nostro mondo minimo dirompa il guscio che lo preme, sia metafora e nido, vertice che scoppia dal profondo e rinasce come la Fenice e respiri, mentre bruci il minuscolo velo che lo tiene in ceppi inespugnati e in un lampo sull’ultima riga del grido più alto arda la nona stella. Che Qualcuno renda fede a chi giace. Lo sottragga all’emorragia dei giorni, alle periferie dei 40 domani, all’inconsulta inermità di chi è vivo. Gli ricordi i perdoni. Gli restituisca l’onore d’esser stato. Riapra il corpo vivo del cosmo. Perdóni a chi ancora esiste l’abisso aperto dell’essere nato. 41 DICESTI Mi dicesti, parlando a te stesso: Non ci sono che due verità – la ruota e la morte. La morte, per farti sapere che fosti, e che, fra tanti, eri solo. Bisognoso di orme trovate e generate, a intreccio alterno in un giro di necessità. La ruota, per farti sapere che eri anche là dove non ti vedevi, svelandoti di essere stolto. Ah! dimenticavo. C’è un’ultima Verità, la terza: la stella. È nascosta e sorge solo a chi ama. Come bianca forma su vetro freddo emerge solo, d’un soffio, a chi le alita, a vivo, evocando la sorpresa figura. Che nasce agli occhi e riscalda non si sa come. 42 E si leva. E a nord-ovest sul rovinare di mille universi luce unica brilla. 43 PIRAMIDI Piramidi di pietra, immani pugni acefali rostrati, rapaci stalammiti a goccia a goccia di sangue di uomini levate, schiene di terremoti al tempo emerse in sassi di spigoli, scoppiate fiaccole morte infisse, sfingi nuove, volumi di precípiti silenzi eccellenti nel tempo, voi alti misteri umani prosciugati in pietra dura, granate da deserti, messaggeri di semi sigillati nell’oceano del cosmo come stelle in bottiglia, navi d’oro affidate nei secoli a pensieri accorrenti stupiti in riva a un tempo che scorre ancora, appollaiate 44 colombe nel deserto a far vedetta a filo d’orizzonte su tempi ancor marziali ove saremo finché sarà di noi guisa e memoria, in voi si posa la pettoruta speranza di salvare a perdita di tempo da una guerra ch’è adesso antica pace anime regali e civiltà. Uomini fummo come loro ed essi come noi pietra saranno. Argina il tempo la memoria a volte e fa nel vostro corpo civiltà. Spesa per chi? Quanti volenterosi voi nanosecondi resisterete al bang del cosmo che trapassa in altra età? 45 VENEZIA Venezia sposa i nati dei colombi al vecchio mare, Atlàntide lenta al Carnevale. Coltiva il fuoco d’un fascino sottile. Forse perché ha questo nostro medesimo morire. 46 NÓSTOS, IL RICORDO DEL FUTURO Non aver pace finché non ci componga una mano oltre i confini della sera fra i tramonti di fuoco e i gigli dell’Eufrate dopo l’Apocalisse del respiro che ci farà diafani e lievi come cristalli di aria libera. E tu non avrai allora che pace polícroma, di vite liberate nelle praterie delle ore irredente, dei possibili e dei gridi di fanciulli. E tutte le nostre vite e le storie e i possibili non nati saranno coriandoli nel sole di viventi come di biblioteche lacerate: tutte le nostre vite frantumate e une come farfalle in sciami, come uccelli prillanti in stormi, 47 a onde, per brani, in geometrie mobili di volo in un tempo ormai spazio multívoco alle rotte del viaggio. E la storia così sarà lago trasparente come cristallo inconsùtile, tutto presente al tempo di chi guarda. E tu nel grande sorriso del mare non avrai più patrie di rimorsi nell’ora alta, al ritorno dei perdoni. E i porti saranno respiri e aquile le notti e incroci d’ali le rondini nel mosto dei ricordi e svanirà nel doppio giro della Tètrade, dopo dieci giorni e dieci notti, nel sole, l’ora nona del dolore. E Balio e Xanto saranno i miei destrieri tornati, mèmori del pianto segreto del divo eroe invincibile, vulnerato dal destino, ed Ettore sarà vittorioso dentro le lacrime 48 fatte belle dalla morte che seminarono venti di rotte e pericoli e patrie e fuochi e mari di lune e mille conati di nuovi possibili futuri. E io, macero e illeso come un papavero redento, poltiglia di memorie, svenerò dal giacimento dei visi sul fondo della notte il sole del tuo riso muto, vivo tornato e presente come il respiro, il tuo cuore d’ali il carminio della tua anima svelata in filari di notti e le mie mani bucate dalla felicità. 49 FENICIA Entro in sala d’attesa e in un alito mi appari. L’aria è brumosa, silenziosa, densa, gravida di fiati. Mi appari come un fulmine sereno. Sei bella, fresca, semplice, elegante, liquida di moti, raccolta nel sorriso d’una luce bruna, che solo io riconosco da un lontano tempo che lungo mi si sgomítola nel cuore. Mi appari e sei piccola ninfa altèra di dolcezze, cara di forme adolescenti e antiche, dagli occhi screziati come un miele di lune e notti accorse in volo da mari che non so. Sei sole azzurro, primavera di lacrime e sorrisi e nell’ora spaccata dall’anima sei l’ape odorosa e sei l’amore, tu 50 la mia sera d’estate, il carminio di una sosta regalata ai deserti, questa piena di verde che le valli incantano confessandosi nel mare, il profumo di aranci in preghiera, viatico alla luna. Tu mi vieni incontro qui, cresciuta bimba ignara di te stessa, Fenicia, pulcina azzurra che vieni ora a tuo padre qui dal futuro a questo tempo presente che ci chiama come un varco di luce, come un gorgo di domani, come un rogo insaziato nell’incrocio a trapezio fra i tempi in un circo di epoche immortale. Oh l’esercizio dell’ora, questo nostro spezzato rimorso, questo colpo verticale sull’anima che trancia la melagrana della sera! Tu vieni incontro a me ignoto presa in un gorgo che ti tiene in palmo cui non resisti come una volta tua madre. Come una volta – 51 il tempo ora ritorna e ci tempesta di silenzi e soli e di ciliegie mature di ricordi e di guizzi di lucciole e di lampi e di tramonti perduti, oh tu ritorni e l’estasi del tempo è un fiume d’oro costellato di estati che sommerso e invisibile sverna nel futuro che irrora tutte le rotte del mondo, le mille e una dita delle notti navigando senza fine a nord ovest all’incrocio degli sforzi che cattura il silenzio delle voci sepolte nelle falde che ogni tempo issano all’altezza dell’anima. E’ oro che dà lacrime al dolore il racconto lunghissimo di Sherazade, piccola mia fata che vieni. E io racconterò miliardi di favole alla morte per tenerti per mano. Vieni, o ignota a te stessa, o pastorella del tempo, o sorridente, o leggera, o senza voce bimba 52 qui rapita al tuo tempo per donarti senza resti ora al mio, altèra di dolcezze, chiacchierina nei momenti d’amore con tuo padre, o tu invocata nel gorgo che in un cesto ti conduce come rondine a me, lucente di ricordi a questo padre che t’indovina e ti avvince ora nell’ora salvata dalle acque o mia Nausicaa. Vieni – e spacchi la melagrana del mio cuore in due fragole arrese, emerse qui dal fendersi scoppiato fra gli scisti dell’anima, alle ascisse dei ricordi, in un grondare di stalattiti sbriciolate in memorie di mille grànuli rossi. Tu vieni a me incontro e mi parli ora d’amore a voce bassa – ma non ti riconosco, Fenicia, leva la tua gàrrula voce come sempre, scarrucolante d’anima, 53 porporina di estri marezzati di scontrosa tenerezza, mai dòma! – Tu sei l’aurora cordiale in un diaspro di lampi, sei il furore d’infrenabili valli verso il mare, la tempesta di fiori bianchi graziati dal silenzio. Ma non sento parola fra noi – troppo tempo ci divide – e parli a me di me come ad un altro, e questi suoni mi cadono nel fondo come sasso nel pozzo quando il fondo è lontano. Tu ora a me parli, che intentissimo ascolto ciò che ascoltandoti non sento: come a un orecchio bassissimo un angelo mi síllabi in segreto traducendo ciò che non sentendolo comprendo. 54 Vieni, Fenicia, ché ora mancavi all’appello di chi ti guarda non visto dal futuro come da specchi unidirezionali. Vedi, bimbina: tempi lontanissimi fra loro intrecciano l’arcobaleno delle mani e il minuto che vive qui, dentro un vecchio quaderno stanco, che non si stanca di aspettare, è connesso col tuo, dal tuo è comandato come un sultano povero, come un ricco giròvago di niente, come un meticcio immortale e mi raggiunge a fil di seta nell’istante luce come il colpo di spada della mano di Artù, che apre la cometa del masso e il suo segreto – a te fu dato il cómpito e l’onore. Avesti la mia intelligenza e i miei occhi, il fosforo segreto che valica non visto lo sterminato argine del buio 55 a volo aperto sapendolo di luce – quello sguardo fu da sempre già tuo. Sono la conchiglia sotterrata che tu ascolti da dentro, dalla scatola nera del futuro. Tu mi leggi dal grembo e mi prosegui come un progetto a memoria, come una via lattea di comete, come un loto risorto ad altro cielo. Siamo rosse Fenici calate in mare per rigenerare il perso alfabeto dei respiri, il giorno al sole, le ceneri e la luce, le radici e le ali, sempre votate a essere immortali, a risorgere da sé. E ora per passi cosmici e brevi in un vortice allacciati cadiamo a raccoglierci in un corpo a due visi, in un glicine di ricordi e parole, in questo circolo di ore che non soffrono il tempo, ora che solo un attimo lungo, questo fuoco, questo giorno visionario e sonnàmbulo, questo tòcco inconsumabile di cuore, questo covo di brace verde, questo rovo 56 di carezze perdute in un punto inconsútile ci vive. Tu vieni a me e io ti riconosco forse non visto ma senza sosta udito. Siamo braccia improvvise che s’aprono a distanza involontarie come ali spuntate. Siamo del tessuto di cui son fatti i sogni, fatti di ciò che ci manca e perciò siamo l’amore. Mai ci perderanno i filari del tempo, i mari d’aria, le stelle dei pensieri. Tu sei l’asse terrestre che a spada mi traversa in un essere nuovo, in un ruotare di giorni, come un fulmine bambino, in un ferirsi immortale ma felice. Tu sei la gioia che non passa, la mia perla da ostrica scoppiata, l’insula in flumine nata, la passione d’ambra e di luce, il complicato alfabeto del sangue, il mio costato, tu sei lo sbriciolarsi dell’anima in pensieri, queste mille parole, 57 questo fiato, il mio nero di fiamma che cammina. Vienimi incontro e prendimi per mano. Forse soffrirai qualche volta anche tu, ma sarà breve il travaglio perché tuo padre ti veglia da lontano e da dentro – come il verde nell’anima del tronco, il suo gorgo, la sua linfa immortale, il respiro di sole alla radice – e sarà solo per renderti felice. 58 ANDRÒ. IL SOLE DI MÖBIUS Ad Angelo e Fenicia Andrò verso ovest a mare aperto ad ali già spiegate dalle risse dei venti e non avrò conforto di compagni. Il sole sarà gelido e gli occhi avrò appiccicosi di solitudini e di notti e sarà vetro il respiro, senza tregua, senza scampo, senza nemmeno il filo di strazio che fa compagnia alla memoria. E sarà monito il lutto dei dolori non compresi e troppo verde l’addio dell’anima esiliata sull’uscio, come una storia raccontata da un prepotente a un ubriaco di fedi indimostrate. Andrò verso ovest senza rifugio e senza guida, avendo l’illusione che il tramonto sia la prova dell’alba. E non avrò né lari né domani, nient’altro che la mia povertà inestinguibile, accesa come un falò votivo a rimorsi senza identità, senza delitti, esposti nella cattedrale del vero 59 come idoli creduti. E il cuore vivrà tagliato da una scure sottile, emostatica, indolore, senza esiti di morte. Andrò verso ovest guardando il sole come un tulipano promesso e creduto contro ogni certezza, come un’illusione comprata al mercato per talismano. Andrò verso ovest per ritornare avanzando là donde mossi, come in un nastro di Moebius, come Ulisse e Colombo, come Vico, come Riemann, come il mitico Alberto, come ogni povero nano destinato a reinventar l’universo alla scala della sua unica carne, volando per interstizi di alfabeti ricomposti in altre babeli di forme per trafori verticali. E sentirò il dio sommerso: - Ritornerai senza mai voltarti. Andando sempre in avanti, nello spazio e nel tempo nell’anima. Ti vedrai dalle spalle, alla fine, raggiungendoti da dietro, tornando là donde partisti. 60 Così dirà il dio. E io incrocerò, al colmo del corso, sempre avanzando, da dietro, sulla via del ritorno Fenicia, mia figlia, la mia fanciulla dagli occhi di luna, stelo forte di stella, dal viso rosso argento dell’anima, nel suo vestito acceso in cui il sole si stempra, ed Angelo, sarà con lei, pensieroso figlio, mio sorso d’aria e mio sposo di fontane smeralde, mio sogno fenicio d’un’alba azzurra e buona, sterminata aquila di mare tempestata di soli verdi. Nasceranno ancora per me come Veneri dal mare le mie due felicità bambine, fiori del Carmelo. Ritornerò donde mossi ritornando senza tornare e tutto sarà contemporaneo al mio cuore – e Itaca sarà il tramonto e l’aurora, e il corallo e la gioia dei fondali, e il nido e la vendemmia dei ricordi, e l’origine del viaggio e l’approdo, e la lacrima della conchiglia e la luna, e nell’incontro improvviso 61 fra i ritornati senza ritorno tutti saremo maturi all’abbraccio senza mai che sappia nessuno chi sia stato a tornare. Tutto sarà contemporaneo al mio cuore e tutte le scale del cosmo e tutti i frattàli e tutti i tempi dell’Ecclesiaste come lupi e agnelli del divenire, come gocce di cosmo, come visi del creato, potranno intrecciarsi in un luogo unico, un punto, potranno dirsi perdono, potranno approdare in un sogno a un arcobaleno di mani. 62 L’ORA DELLA FENICE Fenicia, terra di mezzo, piccola striscia di montagne e fiumi, esile terra regalata al mare, nozze di petali e colori, storia di minimi uomini lontani abbacinati dai luoghi del tramonto, che nell’anello terracqueo del mondo antico, volando da spalti di monti e cedri come farfalle dal Carmelo, traboccarono dal cuore patrio, irrorarono i mari di alfabeti e di mani operose e di porpore e di gioie e di coralli di popoli intrecciati e di ali di remi per sementi di civiltà – Eliòpoli ti vide e gli Enèidi che si sciolsero da te in genti nuove –, da sempre ardi, rossa Fenicia, di amuleti e di rondini a sperimentare i limiti del mondo, la babele delle voci, i volti molteplici di Dio. Sono le doglie del parto 63 di un universo di mezzo rotto in un mondo agglutinato in labirinti di piste della pace e cròtali di morte. A che scala fummo del frattàle? Noi risorgeremo dalle ceneri del cuore come la Fenice. Poi il sole sarà l’incendio delle notti nell’ora tarda e tanti bimbi azzurri accorreranno su nuovissime spiagge come piccole flotte di pensieri e risa d’occhi freschi all’approdo. E voi sarete lì, stelle bambine, come miei figli, come minuscoli Iddìi, per rifiorire a nord-ovest. Come i miei figli, angeli e fiori del Carmelo, lanciati come semi del futuro in messaggi d’aurore all’universo – e io sarò tra voi, rinato, nella tornata mia innocenza di fanciullo 64 ch’ebbe fede nel sole, per gioire a chi ha pace e perdonarci ed elevare il battito del volo e perdonare agl’imperdonati. 65 INDICE 3 Prefazione 13 La mia stella 15 A Federico Garcia Lorca 18 Poeta 19 Avrei voluto 20 Non ho niente da darti 22 2 Novembre, per un anniversario 23 Etna 24 Ritornerà settembre 26 2 febbraio, per un anniversario. A mio padre 30 Porto 31 Pianeta 32 Lungo un cielo di braci 33 27 dicembre. Eri 40 Dicesti 42 Piramidi 44 Venezia 45 Nóstos, il ricordo del futuro 48 Fenicia 57 Andrò. Il sole di Möbius 61 L’ora della fenice 66