Che cosa resta dello spirito antico

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SABATO 7 AGOSTO 2004
LA REPUBBLICA 35
DIARIO
DI
ALLA VIGILIA DI ATENE 2004
I nostri
giochi sono
esasperati
dagli uomini
record
Ecco cosa
significava
la vittoria e
la gloria nel
mondo greco
Un incontro di
pugilato su un
vaso del VI sec.a.c.
tanno per tradire,
ancora una volta,
lo spirito di Olimpia. E non con il mercimonio (già allora si
vendeva di tutto, incluso il sudore imbottigliato degli atleti spacciato, per magica pozione). Non con il carrozzone di dame, politicanti e fini pensatori
al seguito (anche ai
tempi antichi i sobri filosofi che avremmo
studiato amavano vedere e farsi vedere dagli
spalti). Neppure con
l’eccesso di ideologia,
nazionalismo da podio, religiosità da scongiuro al nastro di partenza (non erano meglio i sacrifici a Zeus di
centinaia di testicoli di
toro o l’affermazione
della superiorità della
razza greca). Il punto è
che a Olimpia, non come ad Atene 2004, ogni gara era
un combattimento, senza esclusione di colpi, ma con l’esclusione garantita di ogni slealtà e corruzione. La sfida era brutale, violenta e metaforica. Alludeva alla
filosofia stoica, esaltava la resistenza non meno della potenza.
Prevedeva un solo vincitore: agli altri, invece
di premi consolatori, la
vergogna. Era un’autentica rappresentazione del conflitto, materiale e sporco: sangue
nell’arena,
come
quando il mestiere delle armi era uno scontro
fra artigiani della violenza. Nell’epoca delle guerre tecnologiche,
presunte asettiche, anche lo
scontro sportivo è stato diluito e la
sfida per la sopravvivenza tramutata nella caccia a un bene immateriale (presumibilmente di lusso): il record.
Il tradimento dello spirito di
Olimpia comincia paradossalmente dal principio di De Coubertin («l’importante non è vincere, ma partecipare»), per quanto di facciata lo si voglia considerare. La rilevanza della vittoria nei
Giochi antichi era assoluta. Non
c’erano medaglie d’argento e di
bronzo per i secondi e i terzi. Non
c’erano primati locali da segnare
per dare un valore a presenze che
la sconfitta marchiava. Sulla lapide di un pugile morto in una di
quelle arene in cui si combatteva
sotto il sole dei pomeriggi d’agosto, senza sosta, round, acqua,
massaggi o consigli, finché uno
solo restava in piedi, fu scritto:
«Aveva pregato Zeus di dargli o la
corona o la morte». Ed era stato
accontentato. La gara era in realtà
una selezione. Il trionfatore era
«the last man standing», il sopravvissuto, ma anche l’eletto, non dal
caso, non dai brogli, ma dal merito. Il concetto ossessivamente
permeava ogni disciplina. Quaranta combattenti entravano nella fangosa arena della lotta libera
e si scambiavano ogni sorta di colpo finché uno solo restava in piedi. Quarantaquattro bighe, tirata
ognuna da quattro cavalli, parti-
S
OLIMPIA
con l’abilità, non con il
denaro», era scritto).
Poi, hanno rivestito
gli atleti, allargato il podio, messo fuori legge i
colpi bassi e tollerato
qualche vittoria comprata. Alla sfida per la
vittoria si è affiancata
quella per il record, che
ha finito per diventare
dominante. Una vittoria olimpica nelle discipline principali conta
meno se non è accompagnata dal record. I
teleschermi hanno in
sovrimpressione, durante le gare di atletica
e nuoto,ì il dato del record mondiale da battere e, perfino, quello
dell’inutile record
olimpico. Prevalentemente contabilizzato
in minuti e secondi il
record deriva dalla
concezione introdotta
dalla rivoluzione industriale per cui il tempo è un valore
e come tale può essere scambiato
(o sottratto: di qui la pena detentiva). Come un qualsiasi prodotto
il record viene acquisito con sforzi (e, talora, sotterfugi), posseduto per un periodo di tempo limitato e poi ceduto ad altri, fatto circolare. Se il record non
passa di mano acquista
tuttavia una dimensione di valore particolare, tiratura limitata.
Anche nell’antica
Olimpia ci fu qualche
caso di record, riportato dagli storici, non
comprovato da appositi albi e federazioni. Si narra che
un tale Phoilos (la grafia del nome
è discussa) avrebbe, nel salto in
lungo, effettuato un volo di 17 metri. Roba da far impallidire il leggendario Bob Beamon di Città del
Messico. Per tre motivi. Primo:
sarebbe atterrato sette metri e
spiccioli più avanti, addirittura
oltre la pedana (rompendosi, nella circostanza, tutte e due le gambe). Secondo: anziché in altura
rarefatta l’avrebbe ottenuto nella
fornace. Terzo: a Olimpia si saltava portando appresso dei pesi. E
qui sta il trucco del record moderno. Poiché, dati i limiti umani, arriverebbe alla soglia di produzione zero, non resta che modificare
le condizioni in cui è realizzato: il
disco del pentatleta pesava il triplo dell’attuale, gli sprinter antichi correvano con l’armatura al
posto del body in microfibra, il
lottatore che si dava la carica macellando e mangiando un toro intero ingurgita qualcosa di molto
meno vistoso e assai più tonificante. Quel baccanale che Tony
Perrotet nel suo libro Naked
Olympics definisce «la Woodstock dell’antichità» è stato sostituito da un gioco televisivo senza
frontiere con un cronometro che
scorre in basso. Alla scadenza
olimpica gli antichi decretavano
tre mesi di tregua dalle dozzine di
guerre in cui erano impegnati e di
rado non li rispettavano. In questo i moderni hanno acquisito più
coerenza: la guerra continua, lo
spettacolo, non è detto.
Che cosa resta dello spirito antico
GABRIELE ROMAGNOLI
vano sulla pista dell’antico ippodromo e la corsa più celebrata (la
racconta Pindaro) fu quella in cui
43 concorrenti (e 172 animali) finirono a gambe all’aria e uno solo
varcò il traguardo. Il confronto,
come ogni selezione, era spietato.
Nel pankration, la specialità più
selvaggia, valeva tutto fuorché
strapparsi gli occhi (ma anche su
quello i giudici talora ne chiudevano uno). Se un combattimento
non trovava un vincitore si andava ai “rigori”: i colpi senza difesa,
uno a testa, finché qualcuno crollava. Ma anche in questo le regole
erano sacre e il concorrente che,
sorteggiato per iniziare, perforò
con le dita lo stomaco dell’avversario e ne estrasse le viscere, abbattendolo, fu squalificato perché si considerò che avesse dato
cinque colpi, uno per dita. La vittoria e la gloria toccarono all’altro, ma non è chiaro se poté goderne. Spettacoli non da signorine, verrebbe da pensare. A maggior ragione considerando che gli
GIULIANO BRIGANTI
OLIMPIA.
MA C’È un punto, forse, dove lo
spirito che animava le antiche
olimpiadi confluisce in quell’atteggiamento intellettuale che è proprio della cultura dell’Occidente e che ha le sue origini ben radicate nel mondo greco. L’agone, il gareggiare, il misurarsi con altri e non
solo sugli stadi, il soffrire per superarli al fine di migliorare se steso, quello che era insomma la virtù dei vincitori di
0limpia, è una manifestazione primaria di quello spirito. È
la scintilla che accende la luce intellettuale dell’Occidente, in quanto luce sostanzialmente diversa da quella
orientale. Huizinga, nel suo bellissimo libro Homo ludens
racconta come uno Scià di Persia visitando l’Inghilterra,
invitato ad assistere a una famosa corsa su non so quale
ippodromo, rifiutò di andarvi adducendo come giustificazione che sapeva già molto bene che ci sono cavalli che
corrono più di altri. Ma quello Scià non era uno snob e
nemmeno un filosofo: ciò che lo portò a distillare quell’affermazione straordinaria era solo la sua acquisita
struttura mentale. Manifestava lo spirito dell’Oriente.
“
“
atleti gareggiavano nudi. Errore,
invece. Le donne erano ammesse
sugli spalti solo se non maritate,
signorine appunto. Per loro, assistere era considerato, come dire,
educativo. Una donna sposata, se
scoperta nelle tribune, era condannata a morte e gettata da una
rocca. La civiltà greca ha avuto
pubblicitari migliori di quella
islamica. Ma lo spettacolo che offriva ogni quattro anni era autentico, uno specchio non deformato di quello che la razza umana era
ed è. Era cruento, volgare, erotico.
Ci ricordava che, nel transito su
questo pianeta, molti assistono,
pochi fanno, pochissimi ce la fanno. Ribadiva la necessità del dolore (“agonia” e “agonismo” hanno
radici comuni). Invitava a prendere il toro per le corna (letteralmente: c’era una specialità che
consisteva nel farlo e saltare oltre), a guardare il rivale negli occhi
e combatterlo con tutti i mezzi dati dalla natura, ma non da altro
(«gareggerai alla pari e prevarrai
DIARIO
36 LA REPUBBLICA
LE TAPPE
PRINCIPALI
OLIMPIA (776 A.C.)
Il nome “Olimpiadi” viene da Olimpia, la
città greca dove nel 776 a. C. si tengono i
primi giochi, istituiti secondo il mito da
Peleo per onorare la memoria del re
Enomao, sconfitto in una corsa di cocchi
TEODOSIO (393 D.C.)
L’imperatore decide la sospensione delle
gare, considerate ormai riti pagani in
contrasto con la religione cattolica. Per
molti secoli di queste feste rimarrà solo il
ricordo tramandato dagli scrittori antichi
SABATO 7 AGOSTO 2004
DE COUBERTIN (1896)
Le Olimpiadi rinascono nel 1896 per opera
del barone parigino Pierre De Coubertin.
Durante il congresso che le istituisce è
costituito anche il Comitato Internazionale
Olimpico (CIO)
QUANDO NACQUERO I GIOCHI E COME SI SVILUPPARONO, DISCIPLINA PER DISCIPLINA
GITA AL TEMPIO DI GIOVE
DOVE LO SPORT È SACRO
GIANNI CLERICI
I LIBRI
JACQUES
ULMANN
Nel mito di
Olimpia,
Armando 2004
GAIA
PICCARDI
Olimpia,
Gallucci 2004
PAUSANIA
Viaggio in
Grecia, Rizzoli
2003
SIMON
REEVE
Un giorno in
settembre.
Monaco 1972
un massacro
alle olimpiadi,
Bompiani
2002
PIERRE DE
COUBERTIN
Memorie
olimpiche,
Mondadori
2003
PINDARO
Olimpiche,
Garzanti 2004
PIERO MEI
MARIO
PESCANTE
La antiche
Olimpiadi,
Crocetti 2003
MARY
POPE
OSBORNE
Olimpiadi
nell’antica
Grecia,
Piemme 2001
ANGELO
OLIVIERI
Le olimpiadi
dei gerarchi,
Nuovi Equilibri
2000
GRAZIA
GOTTI
FEDERICA
IACOBELLI
Correre,
saltare,
lanciare e
leggere. I
giochi olimpici
da Olimpia ad
Atena,
Fabbri 2004
FRANK
LEYS
KAREL
VERLEYEN
I cavalli di
Hraion,
Fabbri 2004
‘‘
,,
V
edo che, nei programmi di
spettabili agenzie turistiche che offrono visite complementari alle Olimpiadi di Atene, figura anche un gita a Olimpia.
E mi pare una deviazione intelligente, anche se, di Olimpia, c’è rimasto poco, e i visitatori dovranno
fare un bello sforzo di immaginazione, o possedere un minimo di
cultura specifica.
A Olimpia io stesso ci andai decisamente impreparato, ma pieno
di speranza. Ci andai per rivolgere
una preghiera a Giove, in
quel che restava
del tempio in cui
Fidia l’aveva raffigurato, con una
statua alta dodici
metri. Arrivavo da
Atene, dove mi
avevano eliminato, al solito, nel primo turno del singolare.
Capivo benissimo che il tennis ancora non esisteva nel
776 a.c., l’anno della
Prima Olimpiade. E,
come aggravante, era
pure uscito nel 1928
dalle Olimpiadi Moderne, quelle volute da
Pierre De Coubertin.
Ma Giove non era certo
meno grande di Allah,
né meno misericordioso di Dio.
Quel che volevo chiedergli, previo
dono sacrificale, era se dovessi
continuare a perdere o cambiare
attività. Alle Olimpiadi dei suoi
tempi, dopotutto, si disputavano
anche competizioni poetiche,
Pindaro era diventato ricco e famoso scrivendo soprattutto di
sport. Io avevo in tasca una lusinghiera proposta del direttore della
Gazzetta dello Sport, Gianni Brera,
e, fallita la professione di campione di tennis, potevo benissimo
tentare quella del poeta, o quantomeno dello scriba di gesta sportive.
Andai dunque al tramonto a
versare del vino, e a bruciare del
lauro dove era sorto il Tempio di
Giove. E attesi che mi giungesse
una risposta, magari grazie un’apparizione nel sonno.
Ma Giove doveva essere impegnato, oppure giustamente offeso
con un cristianuccio, uno della
setta che nel 391 d.c., complice
l’imperatore Teodosio, aveva soppresso i Giochi, con una decisione
non meno politica che incivile:
quando, al contempo, aveva elevato il cristianesimo vincente a religione di stato.
Ero depresso. Stavo accingendomi ad andarmene, non prima di
aver resa nota a Giove tutta la mia
frustrazione di fedele suddito di
Giuliano l’Apostata, quando scorsi il professore. Che fosse un Professore, e di quelli di una volta, lo
capii subito, dagli abiti scuri, la
cravatta, e una sorta di registro che
teneva sottobraccio, insolito in
quel panorama campestre.
Si presentò, infatti, come il Professor Müller, dell’università di
Heidelberg. Disponibilissimo, mi
disse, se non proprio a far da tramite con Zeus, ad offrirmi le informazione che potevano interessare un giovane studente. In italiano, aggiunse, perché, conoscendo
ovviamente latino e greco, scritti e
parlati, non poteva ignorare una
lingua classica come la mia.
Herr Professor cominciò dunque a farmi notare che, dell’Olimpia originaria, non esistevano altro che le rovine. Un’alluvione
RELIGIONE
Le cerimonie religiose connaturate
a quelle atletiche occupavano
una parte importante dei
cinque giorni di Giochi
aveva finito di sommergere l’opera devastatrice di quanti avevano
rubato statue, spezzato marmi, e
addirittura sottratto mattoni. Per
immaginarci la città, aggiunse,
con ampi gesti, quasi a ricostruire
visivamente il passato, si doveva
ricorrere alla descrizione che Pausania volle farne nel 160 d.c., nove
secoli dopo l’inizio delle Olimpiadi.
Nel 776 a.c. — continuò Herr
Müller — i Giochi Olimpici presero a svolgersi lì, perché Olimpia
era già un luogo sacro affermato, e
non per l’inverso. Le cerimonie religiose connaturate a quelle atletiche occupavano una parte importante dei cinque giorni dei Giochi,
la durata che la cerimonia avrebbe
assunta quando le sue strutture
divennero tradizionali, all’inizio
del V secolo: la scadenza quadriennale rappresentava ormai il
calendario ufficiale della società
greca.
Il primo dei cinque giorni era
destinato a molte faccende preliminari, controllo delle qualificazioni, giuramento e simili. Poi iniziavano le gare. Durante la prima
Olimpiade, con tutta probabilità
si era svolta soltanto una corsa,
quella dello “stadio”, e cioè circa
centottantacinque metri. Solo
con molte titubanze questa gara di
sprint venne raddoppiata, e durante la quattordicesima Olimpiade si disputò il “diaulos” un po’
meno dei nostri quattrocento metri. In occasione della quattordicesima Olimpiade (724 a.c.) giunse quello che noi chiamiamo mezzofondo, il “dolicos”, circa venti
stadi, quattromila metri. E si arrivò al 708 a.c. per iniziare la lotta e
il pentatlon, e cioè lancio del disco, del giavellotto, salto in lungo,
più corsa e lotta, che valevano tuttavia anche come discipline individuali.
Questi sport fondamentali rimasero le basi dell’Olimpiade, che
vide in seguito gare juniores, sotto
i diciotto anni, complicatissime
per l’incompletezza delle anagrafi dei tempi. E, molto violenti, il
pugilato e il pancrazio, sorta di
catch con i pugni ricoperti da
cinghie in cuoio,
che finivano per
causare ferite, a
volte mortali.
Nel 500 a.c. fu
tentata anche,
senza successo,
una corsa con bighe tirate da muli,
mentre si affermò,
dal 384, la gara delle
quadrighe.
Dimenticavo —
continuò il Professore — che in quell’occasione fu consentito
di partecipare alle
donne. Non come aurighe, ma proprietarie
di cavalli. E nel 396, si
verificò il primo successo di un cocchio appartenente a Cinisca, sorella del Re di Sparta Agesilao. Le
donne, fin lì, avevano dovuto limitarsi a competere durante feste
speciali tenute in periodi diversi
dai Giochi. Nella stessa Olimpia se
ne disputava una in onore di Era,
sposa di Giove, una gara sui centosessanta metri piani.
Ma, poiché Olimpia era la prima
inter pares di altri tre grandi festeggiamenti religioso-sportivi,
Nemea, Corinto con i Giochi Istmici, e Delfi con i Giochi Pitici, si
videro sempre più spesso gare per
le ragazze, sprint su distanze brevi.
Né purtroppo, dall’iconografia
e dalle informazioni che ci sono
pervenute, pare che le atlete si
presentassero in campo totalmente nude, com’era costume per
i giovanotti: andavano in sottanel-
ANFORA
Sopra, un
discobolo
raffigurato
su un’anfora
del V-IV sec.
a.c. Queste
anfore
contenevano
l’olio donato
agli atleti
vincitori
la, con una spalla e un seno al vento.
Questa, e molte altre informazioni mi diedi il professor Müller,
mentre io iniziavo a pensare che lo
avesse inviato Giove, a suggerirmi
di uscire dai campi per divenire
uno spettatore professionista,
uno scriba. Dopotutto, c’erano
riusciti benissimo Pindaro, Simonide, Bacchilide, che non solo si
divertivano, ma ci campavano.
Abolite come si diceva nel 391
d.c., le Olimpiadi furono riproposte da un idealista francese, Pierre
de Coubertin e ad Atene, nel 1896,
si rividero in campo nove sport,
Atletica, Lotta, Ginnastica, Sollevamento pesi, Tiro a segno, Scherma, Ciclismo, Tennis e Nuoto.
Teodosio doveva rivoltarsi nella
tomba.
PAUSANIA
MEGLIO UN BUON SOLDATO CHE UN ECCELLENTE SPORTIVO
Orsippo vinse a Olimpia le
corse dello stadio correndo
nudo, mentre gli atleti,
secondo un antico costume,
nelle gare correvano cinti
da un perizoma
Viaggio in Grecia,
II secolo
FRIEDRICH NIETZSCHE
Il giovane pensava al bene
della sua città, quando
gareggiava nella corsa, nel
lancio del disco; con la
propria gloria voleva
accrescere quella della città
La filosofia nell’epoca tragica
dei greci, 1870-1873
ECCO PERCHÉ I ROMANI
DISPREZZAVANO GLI ATLETI
MAURIZIO BETTINI
I
Greci andavano pazzi per le gare sportive.
Agli atleti vincitori dedicavano addirittura
statue, come se fossero dei, e la loro effigie
compariva perfino sulle monete. I Greci andavano pazzi per le gare sportive. E i Romani?
«I Romani» scriveva Plutarco nel II secolo d.
C. «pensano che niente abbia nuociuto ai Greci, causando loro schiavitù e infiacchimento
dei costumi, quanto i ginnasi e le palestre. Esse
provocano infatti inerzia e ozio alla città, e perdita di tempo, e amori per i fanciulli; e poi i corpi dei giovani vengono corrotti dalla regola imposta al sonno, alle passeggiate e ai movimenti, così come dalla rigidezza della dieta. Per
questi motivi [i Greci] abbandonarono senza
accorgersene la pratica delle armi e preferirono essere considerati agili atleti e buoni ginnasti piuttosto che eccellenti soldati e cavalieri».
Con queste parole, Plutarco ci mette di fron-
te ad una delle principali diversità che separavano la cultura greca da quella romana: i Greci
amavano lo sport, i Romani lo disprezzavano.
Il filosofo Seneca rincarava se possibile la dose: «bere e sudare è da malati» diceva «non da
sani, e saltellare in continuazione è cosa da lavandai (che lo facevano per ammorbidire i tessuti, calpestandoli), non da uomini liberi». Ma
perché poi i Romani avranno avuto tanta antipatia per lo sport? In un caso del genere, la cosa migliore resta sempre interrogare le parole.
Il nostro termine “ginnastica” deriva direttamente dal greco gumnázein, che significa
«esercitare il corpo». Solo che il verbo gumnázein è a sua volta un derivato dall’aggettivo
gumnós, che significa “nudo”. Per i Greci lo
sport corrispondeva insomma all’atto di denudarsi. Essi lo facevano per rendere più agili i
movimenti, certo, ma soprattutto per esporre
DIARIO
SABATO 7 AGOSTO 2004
LA BANDIERA (1920)
Nel 1920, ad Anversa viene adottata la
bandiera con gli anelli simbolo dei cinque
continenti. Nel 1928, ad Amsterdam è
introdotta la fiaccola olimpica e le donne
vengono finalmente ammesse alle gare
LA REPUBBLICA 37
JESSE OWENS (1936)
A Berlino, Hitler trasforma le Olimpiadi in
uno strumento di propaganda nazista, ma
un atleta americano di colore, Jesse
Owens, riesce a vincere nello stesso
giorno quattro medaglie d’oro
MONACO DI BAVIERA (1972)
Un commando terrorista palestinese
assalta il villaggio olimpico con l’obiettivo
di prendere in ostaggio gli atleti israeliani.
Muoiono alla fine 11 israeliani, 2 poliziotti
tedeschi e 4 palestinesi
PARLA PATRICK LEIGH FERMOR, STRAORDINARIO CONOSCITORE DEL MONDO GRECO
LE GARE VITTORIOSE
DELL’ASTUTO ULISSE
LEONETTA BENTIVOGLIO
GLI AUTORI
LE IMMAGINI
Maurizio Bettini, antichista e romanziere,
insegna all’università
di Siena. Il testo del
Sillabario di Giuliano
Briganti, uno dei più
importanti storici
dell’arte del Novecento scomparso nel
1992, è tratto dal libro
Così splendeva Olimpia, Mondadori. Patrick Leigh Fermour,
grande conoscitore
della storia e della cultura greche, è autore
di Mani, pubblicato
di recente da Adelphi
Le immagini di
questo Diario sono tratte dal libro
Così splendeva
Olimpia. L’arte, gli
eroi e gli dei negli
antichi
giochi
olimpici, pubblicato da Mondadori nel 1985. Scene
di gare olimpiche
sono state ritrovate effigiate su
anfore, vasi, ciotole elleniche che risalgono anche al
VI secolo avanti
cristo
«Lo spirito greco? Inestricabile per densità di influssi culturali: la componente classica,
con il suo amore per le sfide e le
competizioni, ne rappresenta
solo una parte. Vivono al suo interno anche la civiltà complessa
di Bisanzio e la lunga oppressione del dominio turco, al quale i
greci sono riusciti abilmente a
sopravvivere, mantenendo la
loro integrità caratteriale, fatta
d’inventiva, efficienza e coraggio». Così parla lo scrittore inglese Patrick Leigh Fermor, definito dal grande amico
Bruce Chatwin «la persona che conosce la
Grecia meglio di
chiunque altro».
Perfetta incarnazione dell’archetipo del
viaggiatore,
Sir Patrick, che
oggi ha 89 anni, affrontò nel
’33 il suo primo,
straordinario
viaggio a piedi,
raggiungendo Costantinopoli a partire
da Londra. Venerato in
Grecia come una specie di
eroe nazionale, nel ’42 fu paracadutato a Creta, dove organizzò la resistenza travestito da
pastore e arrivò a rapire di persona il generale Kreipe, comandante tedesco dell’isola. Alla fine della guerra, in un nuovo,
esaltante viaggio a piedi, scoprì
l’ultima propaggine del Peloponneso, la regione del Mani:
terra arsa e allucinata, che
avrebbe segnato definitivamente la sua vita (vive tuttora a
Kardamili, in una casa da lui
stesso progettata). Il gentiluomo affidò le cronache di quest’esplorazione a un libro divenuto di culto tra gli appassionati della letteratura di viaggio:
Mani. Viaggi nel Peloponneso,
appena pubblicato in italiano
da Adelphi. In questi giorni, da
vero aristocratico, si prepara a
lasciare la Grecia per non subire
i clamori delle Olimpiadi («odio
la folla»). Ma prima di partire si
‘‘
,,
SPIRITO
Il popolo greco aveva una grande
capacità di improvvisazione, il suo
carattere competitivo rivive negli
eroi che Omero ha cantato
concede a una conversazione
telefonica.
Sir Patrick, potrebbe sintetizzare le caratteristiche di quel
mondo “inestricabile” che è lo
spirito greco?
«È il nucleo del temperamento
di un popolo attivo e costruttivo,
con una grande capacità d’improvvisazione e un talento prodigioso e immutato nei secoli per
la navigazione, e soprattutto animato da uno spirito d’indipendenza che lo ha fatto resistere a
tutte le invasioni. In esso resta
immutato quel forte spirito competitivo, più che mai vivido negli
eroi cantati a Omero, che percorse fin dagli inizi i giochi olimpici:
le gare con i carri, la lotta e il pugilato, il lancio del giavellotto e
del disco, il Pentathlon e le corse
LOTTA
Sopra, in una
ciotola del VI
sec. a.c. è
raffigurata una
scena di lotta.
La vittoria era
dichiarata se
l’avversario
era atterrato
tre volte. Sulla
destra, si
intravede il
giudice di gara
PLATONE
La scultura del VI
secolo avanti cristo
raffigura un atleta che
si cinge la testa con la
benda, segno della
vittoria per
aurighi e cavalieri
liberamente il corpo allo sguardo dei cittadini.
Il fatto è che i Greci avevano una straordinaria
ammirazione per la bellezza del corpo maschile nudo. Ciò detto, forse siamo in grado di
capire perché i Romani avessero tanta antipatia per la pratica atletica.
«Denudarsi fra i propri concittadini è l’inizio della vergogna!», scriveva già il poeta latino
Ennio nel II secolo a. C. Il buon cittadino romano, infatti, si copriva da capo a piedi con la
toga, non mostrava spudoratamente in pubblico le sue membra. E se doveva esercitare il
proprio corpo, prendeva le armi e andava al
Campo Marzio. Questo disprezzo per la nudità, e per chi la pratica, è un filo rosso che percorre tutta la cultura romana. Anche Tacito,
molti secoli dopo Ennio, ci testimonia lo stesso sentimento. Nerone, diceva, ha infangato
l’onorabilità dei più nobili fra i Romani, costringendoli a calcare le scene in occasione dei
giochi intitolati a lui, i Neronia. Dopo di che
continuava così: «cos’altro mancava se non
che si spogliassero nudi per prendere il cesto,
esercitandosi in questo tipo di battaglie invece che nel servizio militare e nelle armi?»
Che orrore, per un romano, spogliarsi nudo
e gareggiare alla maniera dei Greci!
Un vincitore ai
giochi vi procura una
felicità apparente, io faccio
in modo che siate felici
davvero; lui non necessita
del cibo che gli date, io sì
Apologia di Socrate
IV secolo a. C.
JOHAN HUIZINGA
Quando tutta l’Ellade si
riunisce nei grandi giochi
ad Olimpia, sull’Istmo, a
Delfi, presso Nemea, la
gara rimane il principio
vitale della società greca
Homo ludens
1939
di resistenza. L’ottimismo agonistico del popolo greco ha ritrovato di recente il suo splendore
con la vittoria ai campionati europei di calcio».
Nel suo libro Mani lei parla
spesso dell’«ospitalità omerica»
vigente in Grecia.
«È una caratteristica che negli
ultimi decenni ha fatto le spese
del flusso impressionante di turismo. Ma nel viaggio che feci a
piedi alla fine della guerra, mi
colpì come un aspetto tra i più
suggestivi di questa cultura. Tra
le molte cose rimaste immutate dai tempi dell’Odissea, insieme alle
gare d’astuzia del
suo protagonista,
c’era il senso
spiccato dell’accoglienza.
L’arrivo a un
villaggio o a un
cascinale, soprattutto in
una regione remota e montuosa, più protetta dai
cambiamenti, non
era affatto diverso da
quello di Telemaco al
palazzo di Nestore a Pilo o di
Menelao a Sparta, o dello stesso
Odisseo, guidato dalla figlia del
re alla reggia di Alcinoo. Non esiste descrizione migliore del soggiorno di uno straniero nella dimora di un pastore greco di quella di Odisseo travestito quando
entra nella capanna del porcaio
Eumeo a Itaca. La stessa accettazione senza domande, la stessa
attenzione ai bisogni dell’ospite
prima di saperne il nome: la figlia
che gli versa acqua sulle mani e
offre un panno pulito, la presentazione della tavola apparecchiata con vino e cibo, lo scambio di identità e di autobiografie,
il letto preparato nella parte migliore della casa, le preghiere per
trattenerlo, e alla partenza i doni,
sia pure solo una manciata di noci o un mazzetto di basilico».
Quale considera che sia il
punto di massima continuità tra
l’antica Grecia e quella odierna?
«Senza dubbio la pratica religiosa. Da quando uscirono dalle
nebbie della preistoria, forse dominata da una Grande Madre
primordiale, i greci sono stati
sempre politeisti. E il politeismo
tiene la casa aperta: tutti gli dèi
sono benvenuti. Frotte di divinità asiatiche vennero a fare
compagnia a quelle indigene. E
quando apparve Cristo ci fu spazio anche per lui: in suo nome
vennero eretti tempi e statue, come quella che ebbe posto nel sacrario di Alessandro Severo. Ma
non essendo il monoteismo altrettanto accogliente, quando il
cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero i vecchi
dèi vennero espulsi, restando
però forzati a collaborare. Dioniso diventò San Dionigi, e mantiene il patrocinio del vino. Artemide divenne Sant’Artemido, e se
ne invoca l’aiuto per guarire i
bambini malati. Demetra equivale a San Demetrio, patrono
delle messi e della fertilità. Hermes somiglia all’arcangelo Michele: l’elmo cambia forma e le
ali posizione, mentre i serpenti e
le penne del caduceo si trasformano in una spada fiammeggiante. Quanto a Zeus, è stato assorbito da Dio Padre, di cui agli
occhi dei contadini greci ha fortemente influenzato il carattere».
I FILM
OLYMPIA
di Leni
Riefensthal,
1938
Documentario
sulle
Olimpiadi di
Berlino del
1936,
realizzato con
grande
impiego di
mezzi messi a
disposizione
dal regime
nazista
PELLE DI
RAME
di Michael
Curtiz, 1951
La vita di Jim
Thorpe,
l’atleta
pellerossa
protagonista
alle Olimpiadi
di Stoccolma
del 1912
LE OLIMPIADI
DEI MARITI
di Giorgio
Bianchi, 1960
Due giornalisti
approfittano
dell’assenza
delle mogli per
corteggiare
due turiste
straniere
giunte a Roma
in occasione
dei giochi
olimpici
VISIONS
OF EIGHT
di registi vari
(tra cui: Milos
Forman,
Claude
Lelouch,
Arthur Penn,
John
Schlesinger),
1973
Diviso in più
segmenti, è un
documentario
sulle Olimpiadi
di Monaco del
1972
MOMENTI
DI GLORIA
di Hugh
Hudson, 1981
L’amicizia tra
due atleti
britannici,
l’uno cristiano,
l’altro ebreo,
che si
preparano a
partecipare
alle Olimpiadi
del 1924.
Vincitore di
quattro premi
Oscar
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