SABATO 7 AGOSTO 2004 LA REPUBBLICA 35 DIARIO DI ALLA VIGILIA DI ATENE 2004 I nostri giochi sono esasperati dagli uomini record Ecco cosa significava la vittoria e la gloria nel mondo greco Un incontro di pugilato su un vaso del VI sec.a.c. tanno per tradire, ancora una volta, lo spirito di Olimpia. E non con il mercimonio (già allora si vendeva di tutto, incluso il sudore imbottigliato degli atleti spacciato, per magica pozione). Non con il carrozzone di dame, politicanti e fini pensatori al seguito (anche ai tempi antichi i sobri filosofi che avremmo studiato amavano vedere e farsi vedere dagli spalti). Neppure con l’eccesso di ideologia, nazionalismo da podio, religiosità da scongiuro al nastro di partenza (non erano meglio i sacrifici a Zeus di centinaia di testicoli di toro o l’affermazione della superiorità della razza greca). Il punto è che a Olimpia, non come ad Atene 2004, ogni gara era un combattimento, senza esclusione di colpi, ma con l’esclusione garantita di ogni slealtà e corruzione. La sfida era brutale, violenta e metaforica. Alludeva alla filosofia stoica, esaltava la resistenza non meno della potenza. Prevedeva un solo vincitore: agli altri, invece di premi consolatori, la vergogna. Era un’autentica rappresentazione del conflitto, materiale e sporco: sangue nell’arena, come quando il mestiere delle armi era uno scontro fra artigiani della violenza. Nell’epoca delle guerre tecnologiche, presunte asettiche, anche lo scontro sportivo è stato diluito e la sfida per la sopravvivenza tramutata nella caccia a un bene immateriale (presumibilmente di lusso): il record. Il tradimento dello spirito di Olimpia comincia paradossalmente dal principio di De Coubertin («l’importante non è vincere, ma partecipare»), per quanto di facciata lo si voglia considerare. La rilevanza della vittoria nei Giochi antichi era assoluta. Non c’erano medaglie d’argento e di bronzo per i secondi e i terzi. Non c’erano primati locali da segnare per dare un valore a presenze che la sconfitta marchiava. Sulla lapide di un pugile morto in una di quelle arene in cui si combatteva sotto il sole dei pomeriggi d’agosto, senza sosta, round, acqua, massaggi o consigli, finché uno solo restava in piedi, fu scritto: «Aveva pregato Zeus di dargli o la corona o la morte». Ed era stato accontentato. La gara era in realtà una selezione. Il trionfatore era «the last man standing», il sopravvissuto, ma anche l’eletto, non dal caso, non dai brogli, ma dal merito. Il concetto ossessivamente permeava ogni disciplina. Quaranta combattenti entravano nella fangosa arena della lotta libera e si scambiavano ogni sorta di colpo finché uno solo restava in piedi. Quarantaquattro bighe, tirata ognuna da quattro cavalli, parti- S OLIMPIA con l’abilità, non con il denaro», era scritto). Poi, hanno rivestito gli atleti, allargato il podio, messo fuori legge i colpi bassi e tollerato qualche vittoria comprata. Alla sfida per la vittoria si è affiancata quella per il record, che ha finito per diventare dominante. Una vittoria olimpica nelle discipline principali conta meno se non è accompagnata dal record. I teleschermi hanno in sovrimpressione, durante le gare di atletica e nuoto,ì il dato del record mondiale da battere e, perfino, quello dell’inutile record olimpico. Prevalentemente contabilizzato in minuti e secondi il record deriva dalla concezione introdotta dalla rivoluzione industriale per cui il tempo è un valore e come tale può essere scambiato (o sottratto: di qui la pena detentiva). Come un qualsiasi prodotto il record viene acquisito con sforzi (e, talora, sotterfugi), posseduto per un periodo di tempo limitato e poi ceduto ad altri, fatto circolare. Se il record non passa di mano acquista tuttavia una dimensione di valore particolare, tiratura limitata. Anche nell’antica Olimpia ci fu qualche caso di record, riportato dagli storici, non comprovato da appositi albi e federazioni. Si narra che un tale Phoilos (la grafia del nome è discussa) avrebbe, nel salto in lungo, effettuato un volo di 17 metri. Roba da far impallidire il leggendario Bob Beamon di Città del Messico. Per tre motivi. Primo: sarebbe atterrato sette metri e spiccioli più avanti, addirittura oltre la pedana (rompendosi, nella circostanza, tutte e due le gambe). Secondo: anziché in altura rarefatta l’avrebbe ottenuto nella fornace. Terzo: a Olimpia si saltava portando appresso dei pesi. E qui sta il trucco del record moderno. Poiché, dati i limiti umani, arriverebbe alla soglia di produzione zero, non resta che modificare le condizioni in cui è realizzato: il disco del pentatleta pesava il triplo dell’attuale, gli sprinter antichi correvano con l’armatura al posto del body in microfibra, il lottatore che si dava la carica macellando e mangiando un toro intero ingurgita qualcosa di molto meno vistoso e assai più tonificante. Quel baccanale che Tony Perrotet nel suo libro Naked Olympics definisce «la Woodstock dell’antichità» è stato sostituito da un gioco televisivo senza frontiere con un cronometro che scorre in basso. Alla scadenza olimpica gli antichi decretavano tre mesi di tregua dalle dozzine di guerre in cui erano impegnati e di rado non li rispettavano. In questo i moderni hanno acquisito più coerenza: la guerra continua, lo spettacolo, non è detto. Che cosa resta dello spirito antico GABRIELE ROMAGNOLI vano sulla pista dell’antico ippodromo e la corsa più celebrata (la racconta Pindaro) fu quella in cui 43 concorrenti (e 172 animali) finirono a gambe all’aria e uno solo varcò il traguardo. Il confronto, come ogni selezione, era spietato. Nel pankration, la specialità più selvaggia, valeva tutto fuorché strapparsi gli occhi (ma anche su quello i giudici talora ne chiudevano uno). Se un combattimento non trovava un vincitore si andava ai “rigori”: i colpi senza difesa, uno a testa, finché qualcuno crollava. Ma anche in questo le regole erano sacre e il concorrente che, sorteggiato per iniziare, perforò con le dita lo stomaco dell’avversario e ne estrasse le viscere, abbattendolo, fu squalificato perché si considerò che avesse dato cinque colpi, uno per dita. La vittoria e la gloria toccarono all’altro, ma non è chiaro se poté goderne. Spettacoli non da signorine, verrebbe da pensare. A maggior ragione considerando che gli GIULIANO BRIGANTI OLIMPIA. MA C’È un punto, forse, dove lo spirito che animava le antiche olimpiadi confluisce in quell’atteggiamento intellettuale che è proprio della cultura dell’Occidente e che ha le sue origini ben radicate nel mondo greco. L’agone, il gareggiare, il misurarsi con altri e non solo sugli stadi, il soffrire per superarli al fine di migliorare se steso, quello che era insomma la virtù dei vincitori di 0limpia, è una manifestazione primaria di quello spirito. È la scintilla che accende la luce intellettuale dell’Occidente, in quanto luce sostanzialmente diversa da quella orientale. Huizinga, nel suo bellissimo libro Homo ludens racconta come uno Scià di Persia visitando l’Inghilterra, invitato ad assistere a una famosa corsa su non so quale ippodromo, rifiutò di andarvi adducendo come giustificazione che sapeva già molto bene che ci sono cavalli che corrono più di altri. Ma quello Scià non era uno snob e nemmeno un filosofo: ciò che lo portò a distillare quell’affermazione straordinaria era solo la sua acquisita struttura mentale. Manifestava lo spirito dell’Oriente. “ “ atleti gareggiavano nudi. Errore, invece. Le donne erano ammesse sugli spalti solo se non maritate, signorine appunto. Per loro, assistere era considerato, come dire, educativo. Una donna sposata, se scoperta nelle tribune, era condannata a morte e gettata da una rocca. La civiltà greca ha avuto pubblicitari migliori di quella islamica. Ma lo spettacolo che offriva ogni quattro anni era autentico, uno specchio non deformato di quello che la razza umana era ed è. Era cruento, volgare, erotico. Ci ricordava che, nel transito su questo pianeta, molti assistono, pochi fanno, pochissimi ce la fanno. Ribadiva la necessità del dolore (“agonia” e “agonismo” hanno radici comuni). Invitava a prendere il toro per le corna (letteralmente: c’era una specialità che consisteva nel farlo e saltare oltre), a guardare il rivale negli occhi e combatterlo con tutti i mezzi dati dalla natura, ma non da altro («gareggerai alla pari e prevarrai DIARIO 36 LA REPUBBLICA LE TAPPE PRINCIPALI OLIMPIA (776 A.C.) Il nome “Olimpiadi” viene da Olimpia, la città greca dove nel 776 a. C. si tengono i primi giochi, istituiti secondo il mito da Peleo per onorare la memoria del re Enomao, sconfitto in una corsa di cocchi TEODOSIO (393 D.C.) L’imperatore decide la sospensione delle gare, considerate ormai riti pagani in contrasto con la religione cattolica. Per molti secoli di queste feste rimarrà solo il ricordo tramandato dagli scrittori antichi SABATO 7 AGOSTO 2004 DE COUBERTIN (1896) Le Olimpiadi rinascono nel 1896 per opera del barone parigino Pierre De Coubertin. Durante il congresso che le istituisce è costituito anche il Comitato Internazionale Olimpico (CIO) QUANDO NACQUERO I GIOCHI E COME SI SVILUPPARONO, DISCIPLINA PER DISCIPLINA GITA AL TEMPIO DI GIOVE DOVE LO SPORT È SACRO GIANNI CLERICI I LIBRI JACQUES ULMANN Nel mito di Olimpia, Armando 2004 GAIA PICCARDI Olimpia, Gallucci 2004 PAUSANIA Viaggio in Grecia, Rizzoli 2003 SIMON REEVE Un giorno in settembre. Monaco 1972 un massacro alle olimpiadi, Bompiani 2002 PIERRE DE COUBERTIN Memorie olimpiche, Mondadori 2003 PINDARO Olimpiche, Garzanti 2004 PIERO MEI MARIO PESCANTE La antiche Olimpiadi, Crocetti 2003 MARY POPE OSBORNE Olimpiadi nell’antica Grecia, Piemme 2001 ANGELO OLIVIERI Le olimpiadi dei gerarchi, Nuovi Equilibri 2000 GRAZIA GOTTI FEDERICA IACOBELLI Correre, saltare, lanciare e leggere. I giochi olimpici da Olimpia ad Atena, Fabbri 2004 FRANK LEYS KAREL VERLEYEN I cavalli di Hraion, Fabbri 2004 ‘‘ ,, V edo che, nei programmi di spettabili agenzie turistiche che offrono visite complementari alle Olimpiadi di Atene, figura anche un gita a Olimpia. E mi pare una deviazione intelligente, anche se, di Olimpia, c’è rimasto poco, e i visitatori dovranno fare un bello sforzo di immaginazione, o possedere un minimo di cultura specifica. A Olimpia io stesso ci andai decisamente impreparato, ma pieno di speranza. Ci andai per rivolgere una preghiera a Giove, in quel che restava del tempio in cui Fidia l’aveva raffigurato, con una statua alta dodici metri. Arrivavo da Atene, dove mi avevano eliminato, al solito, nel primo turno del singolare. Capivo benissimo che il tennis ancora non esisteva nel 776 a.c., l’anno della Prima Olimpiade. E, come aggravante, era pure uscito nel 1928 dalle Olimpiadi Moderne, quelle volute da Pierre De Coubertin. Ma Giove non era certo meno grande di Allah, né meno misericordioso di Dio. Quel che volevo chiedergli, previo dono sacrificale, era se dovessi continuare a perdere o cambiare attività. Alle Olimpiadi dei suoi tempi, dopotutto, si disputavano anche competizioni poetiche, Pindaro era diventato ricco e famoso scrivendo soprattutto di sport. Io avevo in tasca una lusinghiera proposta del direttore della Gazzetta dello Sport, Gianni Brera, e, fallita la professione di campione di tennis, potevo benissimo tentare quella del poeta, o quantomeno dello scriba di gesta sportive. Andai dunque al tramonto a versare del vino, e a bruciare del lauro dove era sorto il Tempio di Giove. E attesi che mi giungesse una risposta, magari grazie un’apparizione nel sonno. Ma Giove doveva essere impegnato, oppure giustamente offeso con un cristianuccio, uno della setta che nel 391 d.c., complice l’imperatore Teodosio, aveva soppresso i Giochi, con una decisione non meno politica che incivile: quando, al contempo, aveva elevato il cristianesimo vincente a religione di stato. Ero depresso. Stavo accingendomi ad andarmene, non prima di aver resa nota a Giove tutta la mia frustrazione di fedele suddito di Giuliano l’Apostata, quando scorsi il professore. Che fosse un Professore, e di quelli di una volta, lo capii subito, dagli abiti scuri, la cravatta, e una sorta di registro che teneva sottobraccio, insolito in quel panorama campestre. Si presentò, infatti, come il Professor Müller, dell’università di Heidelberg. Disponibilissimo, mi disse, se non proprio a far da tramite con Zeus, ad offrirmi le informazione che potevano interessare un giovane studente. In italiano, aggiunse, perché, conoscendo ovviamente latino e greco, scritti e parlati, non poteva ignorare una lingua classica come la mia. Herr Professor cominciò dunque a farmi notare che, dell’Olimpia originaria, non esistevano altro che le rovine. Un’alluvione RELIGIONE Le cerimonie religiose connaturate a quelle atletiche occupavano una parte importante dei cinque giorni di Giochi aveva finito di sommergere l’opera devastatrice di quanti avevano rubato statue, spezzato marmi, e addirittura sottratto mattoni. Per immaginarci la città, aggiunse, con ampi gesti, quasi a ricostruire visivamente il passato, si doveva ricorrere alla descrizione che Pausania volle farne nel 160 d.c., nove secoli dopo l’inizio delle Olimpiadi. Nel 776 a.c. — continuò Herr Müller — i Giochi Olimpici presero a svolgersi lì, perché Olimpia era già un luogo sacro affermato, e non per l’inverso. Le cerimonie religiose connaturate a quelle atletiche occupavano una parte importante dei cinque giorni dei Giochi, la durata che la cerimonia avrebbe assunta quando le sue strutture divennero tradizionali, all’inizio del V secolo: la scadenza quadriennale rappresentava ormai il calendario ufficiale della società greca. Il primo dei cinque giorni era destinato a molte faccende preliminari, controllo delle qualificazioni, giuramento e simili. Poi iniziavano le gare. Durante la prima Olimpiade, con tutta probabilità si era svolta soltanto una corsa, quella dello “stadio”, e cioè circa centottantacinque metri. Solo con molte titubanze questa gara di sprint venne raddoppiata, e durante la quattordicesima Olimpiade si disputò il “diaulos” un po’ meno dei nostri quattrocento metri. In occasione della quattordicesima Olimpiade (724 a.c.) giunse quello che noi chiamiamo mezzofondo, il “dolicos”, circa venti stadi, quattromila metri. E si arrivò al 708 a.c. per iniziare la lotta e il pentatlon, e cioè lancio del disco, del giavellotto, salto in lungo, più corsa e lotta, che valevano tuttavia anche come discipline individuali. Questi sport fondamentali rimasero le basi dell’Olimpiade, che vide in seguito gare juniores, sotto i diciotto anni, complicatissime per l’incompletezza delle anagrafi dei tempi. E, molto violenti, il pugilato e il pancrazio, sorta di catch con i pugni ricoperti da cinghie in cuoio, che finivano per causare ferite, a volte mortali. Nel 500 a.c. fu tentata anche, senza successo, una corsa con bighe tirate da muli, mentre si affermò, dal 384, la gara delle quadrighe. Dimenticavo — continuò il Professore — che in quell’occasione fu consentito di partecipare alle donne. Non come aurighe, ma proprietarie di cavalli. E nel 396, si verificò il primo successo di un cocchio appartenente a Cinisca, sorella del Re di Sparta Agesilao. Le donne, fin lì, avevano dovuto limitarsi a competere durante feste speciali tenute in periodi diversi dai Giochi. Nella stessa Olimpia se ne disputava una in onore di Era, sposa di Giove, una gara sui centosessanta metri piani. Ma, poiché Olimpia era la prima inter pares di altri tre grandi festeggiamenti religioso-sportivi, Nemea, Corinto con i Giochi Istmici, e Delfi con i Giochi Pitici, si videro sempre più spesso gare per le ragazze, sprint su distanze brevi. Né purtroppo, dall’iconografia e dalle informazioni che ci sono pervenute, pare che le atlete si presentassero in campo totalmente nude, com’era costume per i giovanotti: andavano in sottanel- ANFORA Sopra, un discobolo raffigurato su un’anfora del V-IV sec. a.c. Queste anfore contenevano l’olio donato agli atleti vincitori la, con una spalla e un seno al vento. Questa, e molte altre informazioni mi diedi il professor Müller, mentre io iniziavo a pensare che lo avesse inviato Giove, a suggerirmi di uscire dai campi per divenire uno spettatore professionista, uno scriba. Dopotutto, c’erano riusciti benissimo Pindaro, Simonide, Bacchilide, che non solo si divertivano, ma ci campavano. Abolite come si diceva nel 391 d.c., le Olimpiadi furono riproposte da un idealista francese, Pierre de Coubertin e ad Atene, nel 1896, si rividero in campo nove sport, Atletica, Lotta, Ginnastica, Sollevamento pesi, Tiro a segno, Scherma, Ciclismo, Tennis e Nuoto. Teodosio doveva rivoltarsi nella tomba. PAUSANIA MEGLIO UN BUON SOLDATO CHE UN ECCELLENTE SPORTIVO Orsippo vinse a Olimpia le corse dello stadio correndo nudo, mentre gli atleti, secondo un antico costume, nelle gare correvano cinti da un perizoma Viaggio in Grecia, II secolo FRIEDRICH NIETZSCHE Il giovane pensava al bene della sua città, quando gareggiava nella corsa, nel lancio del disco; con la propria gloria voleva accrescere quella della città La filosofia nell’epoca tragica dei greci, 1870-1873 ECCO PERCHÉ I ROMANI DISPREZZAVANO GLI ATLETI MAURIZIO BETTINI I Greci andavano pazzi per le gare sportive. Agli atleti vincitori dedicavano addirittura statue, come se fossero dei, e la loro effigie compariva perfino sulle monete. I Greci andavano pazzi per le gare sportive. E i Romani? «I Romani» scriveva Plutarco nel II secolo d. C. «pensano che niente abbia nuociuto ai Greci, causando loro schiavitù e infiacchimento dei costumi, quanto i ginnasi e le palestre. Esse provocano infatti inerzia e ozio alla città, e perdita di tempo, e amori per i fanciulli; e poi i corpi dei giovani vengono corrotti dalla regola imposta al sonno, alle passeggiate e ai movimenti, così come dalla rigidezza della dieta. Per questi motivi [i Greci] abbandonarono senza accorgersene la pratica delle armi e preferirono essere considerati agili atleti e buoni ginnasti piuttosto che eccellenti soldati e cavalieri». Con queste parole, Plutarco ci mette di fron- te ad una delle principali diversità che separavano la cultura greca da quella romana: i Greci amavano lo sport, i Romani lo disprezzavano. Il filosofo Seneca rincarava se possibile la dose: «bere e sudare è da malati» diceva «non da sani, e saltellare in continuazione è cosa da lavandai (che lo facevano per ammorbidire i tessuti, calpestandoli), non da uomini liberi». Ma perché poi i Romani avranno avuto tanta antipatia per lo sport? In un caso del genere, la cosa migliore resta sempre interrogare le parole. Il nostro termine “ginnastica” deriva direttamente dal greco gumnázein, che significa «esercitare il corpo». Solo che il verbo gumnázein è a sua volta un derivato dall’aggettivo gumnós, che significa “nudo”. Per i Greci lo sport corrispondeva insomma all’atto di denudarsi. Essi lo facevano per rendere più agili i movimenti, certo, ma soprattutto per esporre DIARIO SABATO 7 AGOSTO 2004 LA BANDIERA (1920) Nel 1920, ad Anversa viene adottata la bandiera con gli anelli simbolo dei cinque continenti. Nel 1928, ad Amsterdam è introdotta la fiaccola olimpica e le donne vengono finalmente ammesse alle gare LA REPUBBLICA 37 JESSE OWENS (1936) A Berlino, Hitler trasforma le Olimpiadi in uno strumento di propaganda nazista, ma un atleta americano di colore, Jesse Owens, riesce a vincere nello stesso giorno quattro medaglie d’oro MONACO DI BAVIERA (1972) Un commando terrorista palestinese assalta il villaggio olimpico con l’obiettivo di prendere in ostaggio gli atleti israeliani. Muoiono alla fine 11 israeliani, 2 poliziotti tedeschi e 4 palestinesi PARLA PATRICK LEIGH FERMOR, STRAORDINARIO CONOSCITORE DEL MONDO GRECO LE GARE VITTORIOSE DELL’ASTUTO ULISSE LEONETTA BENTIVOGLIO GLI AUTORI LE IMMAGINI Maurizio Bettini, antichista e romanziere, insegna all’università di Siena. Il testo del Sillabario di Giuliano Briganti, uno dei più importanti storici dell’arte del Novecento scomparso nel 1992, è tratto dal libro Così splendeva Olimpia, Mondadori. Patrick Leigh Fermour, grande conoscitore della storia e della cultura greche, è autore di Mani, pubblicato di recente da Adelphi Le immagini di questo Diario sono tratte dal libro Così splendeva Olimpia. L’arte, gli eroi e gli dei negli antichi giochi olimpici, pubblicato da Mondadori nel 1985. Scene di gare olimpiche sono state ritrovate effigiate su anfore, vasi, ciotole elleniche che risalgono anche al VI secolo avanti cristo «Lo spirito greco? Inestricabile per densità di influssi culturali: la componente classica, con il suo amore per le sfide e le competizioni, ne rappresenta solo una parte. Vivono al suo interno anche la civiltà complessa di Bisanzio e la lunga oppressione del dominio turco, al quale i greci sono riusciti abilmente a sopravvivere, mantenendo la loro integrità caratteriale, fatta d’inventiva, efficienza e coraggio». Così parla lo scrittore inglese Patrick Leigh Fermor, definito dal grande amico Bruce Chatwin «la persona che conosce la Grecia meglio di chiunque altro». Perfetta incarnazione dell’archetipo del viaggiatore, Sir Patrick, che oggi ha 89 anni, affrontò nel ’33 il suo primo, straordinario viaggio a piedi, raggiungendo Costantinopoli a partire da Londra. Venerato in Grecia come una specie di eroe nazionale, nel ’42 fu paracadutato a Creta, dove organizzò la resistenza travestito da pastore e arrivò a rapire di persona il generale Kreipe, comandante tedesco dell’isola. Alla fine della guerra, in un nuovo, esaltante viaggio a piedi, scoprì l’ultima propaggine del Peloponneso, la regione del Mani: terra arsa e allucinata, che avrebbe segnato definitivamente la sua vita (vive tuttora a Kardamili, in una casa da lui stesso progettata). Il gentiluomo affidò le cronache di quest’esplorazione a un libro divenuto di culto tra gli appassionati della letteratura di viaggio: Mani. Viaggi nel Peloponneso, appena pubblicato in italiano da Adelphi. In questi giorni, da vero aristocratico, si prepara a lasciare la Grecia per non subire i clamori delle Olimpiadi («odio la folla»). Ma prima di partire si ‘‘ ,, SPIRITO Il popolo greco aveva una grande capacità di improvvisazione, il suo carattere competitivo rivive negli eroi che Omero ha cantato concede a una conversazione telefonica. Sir Patrick, potrebbe sintetizzare le caratteristiche di quel mondo “inestricabile” che è lo spirito greco? «È il nucleo del temperamento di un popolo attivo e costruttivo, con una grande capacità d’improvvisazione e un talento prodigioso e immutato nei secoli per la navigazione, e soprattutto animato da uno spirito d’indipendenza che lo ha fatto resistere a tutte le invasioni. In esso resta immutato quel forte spirito competitivo, più che mai vivido negli eroi cantati a Omero, che percorse fin dagli inizi i giochi olimpici: le gare con i carri, la lotta e il pugilato, il lancio del giavellotto e del disco, il Pentathlon e le corse LOTTA Sopra, in una ciotola del VI sec. a.c. è raffigurata una scena di lotta. La vittoria era dichiarata se l’avversario era atterrato tre volte. Sulla destra, si intravede il giudice di gara PLATONE La scultura del VI secolo avanti cristo raffigura un atleta che si cinge la testa con la benda, segno della vittoria per aurighi e cavalieri liberamente il corpo allo sguardo dei cittadini. Il fatto è che i Greci avevano una straordinaria ammirazione per la bellezza del corpo maschile nudo. Ciò detto, forse siamo in grado di capire perché i Romani avessero tanta antipatia per la pratica atletica. «Denudarsi fra i propri concittadini è l’inizio della vergogna!», scriveva già il poeta latino Ennio nel II secolo a. C. Il buon cittadino romano, infatti, si copriva da capo a piedi con la toga, non mostrava spudoratamente in pubblico le sue membra. E se doveva esercitare il proprio corpo, prendeva le armi e andava al Campo Marzio. Questo disprezzo per la nudità, e per chi la pratica, è un filo rosso che percorre tutta la cultura romana. Anche Tacito, molti secoli dopo Ennio, ci testimonia lo stesso sentimento. Nerone, diceva, ha infangato l’onorabilità dei più nobili fra i Romani, costringendoli a calcare le scene in occasione dei giochi intitolati a lui, i Neronia. Dopo di che continuava così: «cos’altro mancava se non che si spogliassero nudi per prendere il cesto, esercitandosi in questo tipo di battaglie invece che nel servizio militare e nelle armi?» Che orrore, per un romano, spogliarsi nudo e gareggiare alla maniera dei Greci! Un vincitore ai giochi vi procura una felicità apparente, io faccio in modo che siate felici davvero; lui non necessita del cibo che gli date, io sì Apologia di Socrate IV secolo a. C. JOHAN HUIZINGA Quando tutta l’Ellade si riunisce nei grandi giochi ad Olimpia, sull’Istmo, a Delfi, presso Nemea, la gara rimane il principio vitale della società greca Homo ludens 1939 di resistenza. L’ottimismo agonistico del popolo greco ha ritrovato di recente il suo splendore con la vittoria ai campionati europei di calcio». Nel suo libro Mani lei parla spesso dell’«ospitalità omerica» vigente in Grecia. «È una caratteristica che negli ultimi decenni ha fatto le spese del flusso impressionante di turismo. Ma nel viaggio che feci a piedi alla fine della guerra, mi colpì come un aspetto tra i più suggestivi di questa cultura. Tra le molte cose rimaste immutate dai tempi dell’Odissea, insieme alle gare d’astuzia del suo protagonista, c’era il senso spiccato dell’accoglienza. L’arrivo a un villaggio o a un cascinale, soprattutto in una regione remota e montuosa, più protetta dai cambiamenti, non era affatto diverso da quello di Telemaco al palazzo di Nestore a Pilo o di Menelao a Sparta, o dello stesso Odisseo, guidato dalla figlia del re alla reggia di Alcinoo. Non esiste descrizione migliore del soggiorno di uno straniero nella dimora di un pastore greco di quella di Odisseo travestito quando entra nella capanna del porcaio Eumeo a Itaca. La stessa accettazione senza domande, la stessa attenzione ai bisogni dell’ospite prima di saperne il nome: la figlia che gli versa acqua sulle mani e offre un panno pulito, la presentazione della tavola apparecchiata con vino e cibo, lo scambio di identità e di autobiografie, il letto preparato nella parte migliore della casa, le preghiere per trattenerlo, e alla partenza i doni, sia pure solo una manciata di noci o un mazzetto di basilico». Quale considera che sia il punto di massima continuità tra l’antica Grecia e quella odierna? «Senza dubbio la pratica religiosa. Da quando uscirono dalle nebbie della preistoria, forse dominata da una Grande Madre primordiale, i greci sono stati sempre politeisti. E il politeismo tiene la casa aperta: tutti gli dèi sono benvenuti. Frotte di divinità asiatiche vennero a fare compagnia a quelle indigene. E quando apparve Cristo ci fu spazio anche per lui: in suo nome vennero eretti tempi e statue, come quella che ebbe posto nel sacrario di Alessandro Severo. Ma non essendo il monoteismo altrettanto accogliente, quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero i vecchi dèi vennero espulsi, restando però forzati a collaborare. Dioniso diventò San Dionigi, e mantiene il patrocinio del vino. Artemide divenne Sant’Artemido, e se ne invoca l’aiuto per guarire i bambini malati. Demetra equivale a San Demetrio, patrono delle messi e della fertilità. Hermes somiglia all’arcangelo Michele: l’elmo cambia forma e le ali posizione, mentre i serpenti e le penne del caduceo si trasformano in una spada fiammeggiante. Quanto a Zeus, è stato assorbito da Dio Padre, di cui agli occhi dei contadini greci ha fortemente influenzato il carattere». I FILM OLYMPIA di Leni Riefensthal, 1938 Documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, realizzato con grande impiego di mezzi messi a disposizione dal regime nazista PELLE DI RAME di Michael Curtiz, 1951 La vita di Jim Thorpe, l’atleta pellerossa protagonista alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 LE OLIMPIADI DEI MARITI di Giorgio Bianchi, 1960 Due giornalisti approfittano dell’assenza delle mogli per corteggiare due turiste straniere giunte a Roma in occasione dei giochi olimpici VISIONS OF EIGHT di registi vari (tra cui: Milos Forman, Claude Lelouch, Arthur Penn, John Schlesinger), 1973 Diviso in più segmenti, è un documentario sulle Olimpiadi di Monaco del 1972 MOMENTI DI GLORIA di Hugh Hudson, 1981 L’amicizia tra due atleti britannici, l’uno cristiano, l’altro ebreo, che si preparano a partecipare alle Olimpiadi del 1924. Vincitore di quattro premi Oscar