1 Materiali, tecniche, sistemi costruttivi dell`architettura lagunare

Materiales, técnicas, sistemas constructivos de la arquitectura lagunar; problemas de conservaciòn y de nueva utilizaciòn
Materiali, tecniche, sistemi costruttivi dell’architettura lagunare; problemi di
conservazione e di nuova utilizzazione
Mario Piana
Il sito su cui è sorta Venezia, un intrico di barene, acquitrini, terre appena emergenti
percorse da canali tortuosi, un’area ove era assente la pietra da taglio, il legno a fibra lunga
adatto alla costruzione, l’acqua dolce perfino, indispensabile per il vivere dell’uomo, oltre
che per l’attività edilizia, ha particolarmente influito sui modi edificatori, obbligando le
maestranze a mettere a punto tecniche specifiche, ad applicare avvertenze e procedure
singolari, spesso non riscontrabili negli altri insiemi edilizi sorti nel resto della penisola in
età medievale e moderna. I pesanti condizionamenti del sito, tuttavia, lungi dall’impedire
la formazione di tipi edilizi corrispondenti alle necessità di vita delle popolazioni locali od
ostacolare la crescita, la sedimentazione e la stratificazione edilizia della città e dei
numerosi centri abitati sparsi nell’estuario veneto, hanno condotto gli edifici lagunari ad
assumere una spiccata omogeneità nei caratteri costruttivi, producendo un complesso di
fabbriche nelle quali, più che altrove, appare con immediata evidenza la correlazione tra
comportamento statico e organizzazione funzionale e distributiva, la stretta dipendenza tra
il dato materiale di costruzione e l’elemento formale e rappresentativo.
La Venezia muraria, la città di pietra, laterizio e legno che ancora vive, si è formata e
sedimentata tra due vere e proprie rivoluzioni tecnologiche, tanto radicali quanto
definitive. La rapida scomparsa di un’intera cultura edificatoria avviene nel Novecento,
quando anche in Laguna si impone il sistema del ferro e del calcestruzzo armato. E da
un’altra cesura, altrettanto netta anche se più diluita nel tempo, trae avvio la vicenda
costruttiva urbana. Alle spalle della Venezia muraria sta un organismo già tracciato, un
centro urbano in buona parte assestato nelle sue forme di governo, nella sua organizzazione
sociale, nei suoi rapporti economici, produttivi e commerciali. Si tratta però di una città
fisicamente, matericamente diversa da quella successiva. Un universo ligneo costituiva
l’abitato, punteggiato qua e là da poche, rarefatte architetture laterizie: alcune fabbriche
religiose, poche e sparse case padronali, qualche manufatto o muraglia difensiva. Fino al
Duecento, soprattutto nell’edilizia abitativa, il legno predomina di netto (figura 1). Uno o
due secoli dopo saranno le architetture murarie a prevalere: un cambiamento tanto vasto da
stupire.
Venezia è stata definita città artificiale per eccellenza, un organismo urbano dove, oltre
agli edifici, o alle parti che li compongono, perfino il suolo stesso, in larga parte formato
con continue ricariche e sopralzi di terreno, è stato chiamato a svolgere compiti e funzioni
inusuali. L’intera città, ad esempio, ha dovuto conformarsi in modo tale da supplire alla
mancanza di risorse idriche, dotandosi di un sistema di raccolta, conservazione ed
approvvigionamento delle acque che non trova paragoni, quanto a modi e complessità, nel
resto d’Europa.
Le falde dei tetti, che di norma hanno il compito di difendere dalle piogge l’edificio e i
suoi abitanti, a Venezia funzionavano come grandi superfici di raccolta dell’acqua
potabile. Attraverso le grondaie lapidee l’acqua veniva convogliata al piede della fabbrica
e nei pozzi mediante appositi condotti inseriti negli spessori murari, formati da elementi in
terracotta di forma troncoconica, invetriati all’interno e spesso anche all’esterno per
risparmiare le ossature laterizie da nocivi apporti di umidità (figura 2). In talune
architetture quattrocentesche i condotti verticali di scarico dell’acqua piovana assumono
precise valenze formali: sporgenti dai fili murari e rivestiti di mattoni curvi assumono la
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veste di semicolonne, dotate di capitello lapideo cavo, posto a contatto con le grondaie del
tetto (figura 3).
Le acque raccolte dalle coperture (e anche dai campi, dai cortili, dagli spazi scoperti)
venivano conservate in cisterne sotterranee; manufatti completamente diversi da quelli
realizzati un po’ dappertutto nel bacino del mediterraneo, fin dall’antichità greca e
romana. La condizione del sito impediva la realizzazione di serbatoi murari: qualsiasi
manufatto del genere, data l’inconsistenza dei suoli, si sarebbe fratturato, con la
conseguente dispersione dell’acqua dolce conservata all’interno e con l’ingresso
dell’acqua salmastra. Le cisterne lagunari, dunque, sono piene e dotate di pareti
impermeabili non rigide: si tratta di serbatoi a filtrazione contenuti nel sottosuolo,
realizzati secondo una procedura tecnica che rimarrà uguale fino alla fine del XIX secolo,
quando la nascita dell’acquedotto cittadino renderà desueto ed inutile il sistema. Opera
impegnativa e costosa, la formazione di una cisterna comportava l’asporto preventivo di
grandi quantità di terreno, che richiedeva una estenuante opera di svuotamento per
eliminare le continue infiltrazioni d’acqua (figura 4). Le pareti e il fondo dello scavo
venivano quindi rivestiti con uno strato spesso parecchi decimetri di argilla della migliore
qualità, che costituiva l’involucro impermeabile della cisterna, necessario per intercettare e
separare le acque raccolte da quelle salmastre della falda superficiale, rinvenibili solo a
qualche decimetro al di sotto del suolo calpestabile della città. Realizzata la canna laterizia
centrale, l’intero invaso veniva quindi colmato di sabbia, sigillato con un manto di argilla
per proteggerlo dalla penetrazione diretta delle acque meteoriche e da quelle mareali
d’invasione (le cosiddette acque alte), dotato infine della vera da pozzo, dalla cui bocca
l’acqua veniva attinta. Attraversando caditoie collocate sul perimetro della cisterna,
l’acqua piovana penetrava nella cisterna, passando entro cassoni di sfioramento in
muratura, sul fondo dei quali si depositava la materia solida, periodicamente asportata.
L’acqua, dunque, veniva conservata nella sacca d’arena sotterranea; la lente di sabbia
svolgeva anche il compito di filtrare e depurare ulteriormente il liquido.
Il progressivo infittirsi delle costruzioni obbligherà tra Quattro e Cinquecento a collocare
le cisterne anche all’interno delle abitazioni, trasformando l’intera parte sotterranea delle
abitazioni in deposito d’acqua.
Scrupolose erano le attenzioni poste per garantire piena efficienza alle cisterne pubbliche
(più di un migliaio alla fine del XIX secolo) e private (un numero imprecisato, ma stimato
intorno alle 5-6.000 unità). La formazione, la manutenzione e il rifacimento delle cisterne
pubbliche erano affidate ai Provveditori di Comun, mentre i Provveditori alla Sanità
vigilavano per l’aspetto igienico. Ai Capi contrada, organizzati su base parrocchiale,
spettava il compito di regolare le aperture giornaliere e di formare le squadre di pronto
intervento, che dovevano riempire d’argilla i cassoni dei pozzi pubblici nel caso dei
sopracomuni di marea, tappando gli ingressi delle cisterne per evitare l’inquinamento
quando le acque alte invadevano i campi e le calli. Ad un’apposita Arte (associazione di
mestiere), quella dei barcaioli, spettava il compito di ricaricare le cisterne, non solo nei
periodi di siccità, per soddisfare le continue necessità della popolazione e delle attività
manifatturiere. L’acqua veniva attinta alle foci dei fiumi, trasportata in città e travasata con
l’ausilio di canali lignei mobili che collegavano l’imbarcazione ormeggiata con la vera
della cisterna.
Il principale problema che i costruttori veneziani dovettero affrontare è stato certamente
quello della scadente qualità dei terreni: strati di limo, sabbia, argilla, dotati di scarsissima
resistenza meccanica, incapaci di sostenere carichi significativi.
Per edificare si imponeva dunque un consolidamento del suolo: il sistema di fondazione
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più noto a Venezia, anche se percentualmente presente in quantità ridotta (forse non più
del 10-15% delle intere fondazioni della città) è quello a palificata, applicato, nell’edilizia
civile, solo per il sostegno delle murature prospicienti i rii o in quelle parti della fabbrica
particolarmente sollecitate, in corrispondenza di carichi puntuali trasmessi da pilastri o
colonne (figura 5). Le fondazioni delle restanti murature venivano realizzate o su uno
strato di tavole, o direttamente appoggiate al terreno lagunare. I vari sistemi di fondazione
di solito convivono in una stessa fabbrica; talvolta i singoli setti murari sono dotati di tipi
diversi di fondazione. Tale diversificazione era voluta e ricercata. La conformazione dei
massi fondali veniva calibrata in relazione ai carichi trasmessi dalle varie ossature dello
spiccato murario, al fine di ottenere una uguale omogeneità di cedimento.
Nonostante queste attenzioni, fino agli inizi del XX secolo, le tecniche disponibili non
consentivano di eliminare i cedimenti relativi delle membrature murarie, di entità assoluta
considerevole. Assestamenti dell’ordine di 20-30 centimetri tra le diverse murature
appartenenti ad uno stesso manufatto (che in ogni altro edificio produrrebbero drammatici
dissesti) sono comuni in città e rientrano nei limiti fisiologici di una fabbrica lagunare. Le
generazioni di maestranze che si sono succedute nell’edificazione della città sono state
perciò costrette ad applicare avvertenze tali da consentire alle fabbriche di deformarsi,
senza che questo conducesse alla perdita dell’equilibrio generale.
L’espediente principale applicato a tal fine, onnipresente nelle fabbriche lagunari, è stato
quello del sistematico mancato collegamento murario. Se si escludono le ossature di
perimetro, ben connesse agli angoli, ogni ammorsamento tra setti interni e tra questi e le
murature perimetrali è deliberatamente assente: le murature possono così traslare
liberamente, senza la formazione di pericolose tensioni e conseguenti fratture.
La mancanza delle ammorsature, però, induceva un ulteriore problema, quello
dell’instabilità elastica degli spiccati murari, a Venezia invariabilmente molto esili. Per
risolverlo si applicò un ulteriore espediente costruttivo anch’esso invariabilmente
presente: l’applicazione di tiranti metallici di collegamento tra i solai e le murature (figura
6). Le numerose chiodature congiungenti i tavolati con le travi dei solai e i molteplici
tiranti metallici di unione tra questi e i setti murari sono state capaci di far giocare alle
membrature orizzontali - di solito strutturalmente passive nei confronti dell’organismo
edilizio - un ruolo essenziale per l’equilibrio delle fabbriche (figura 7).
Una attenzione davvero straordinaria è stata posta dalla tradizione costruttiva nello stabilire
legamenti capaci di sopperire, integrare, rafforzare la congiunzione delle parti, realizzati
soprattutto con elementi metallici. Rarefatto e costoso fino alla rivoluzione produttiva
intervenuta nella seconda metà del XVIII secolo, il ferro entra con parsimonia nell’edilizia
italiana ed europea del medioevo; a Venezia, tuttavia, le grandi ricchezze accumulate col
commercio -che non potevano di fatto trovare altro sbocco d’investimento immobiliare se
non entro il ridotto ambito lagunare, per lo meno fino alla conquista della terraferma
veneta- hanno consentito alle generazioni di maestranze che si sono susseguite
nell’edificazione della città di largheggiare con l’uso del metallo, e di superare così
problemi costruttivi difficilmente risolvibili in altro modo.
Lo schema strutturale dell’edificio civile veneziano può essere definito come un telaio
verticale, con piedritti interi a tutt’altezza, collegati a cerniera con le strutture orizzontali
(l’impossibilità di donare stabilità alla base degli spiccati murari poteva consentire solo
collegamenti “isostatici”, definibili come cerniere). La configurazione risultante da un tale
schema strutturale è di per sé labile. Labilità solo ridotta, non ovviata, dalla presenza dei
muri di controventamento interni al perimetro murario: setti aventi sezioni adeguate, e
presenti in numero tale da sopportare quantomeno i carichi di instabilità, distribuiti
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spazialmente in modo da garantire il trasferimento su di essi degli sforzi provocati dalle
piastre verticali (dai muri di telaio cioè, dal perimetro e da quelli interni di spina), tramite
gli orizzontamenti costituiti dai solai, ad essi collegati per mezzo dei tiranti metallici di
costruzione. Con la degenerazione delle membrature, dovuta a vetustà, al frazionamento
colonnare dei piedritti in conseguenza delle differenti traslazioni verticali relative a singole
sezioni di una stessa muratura, alla corrosione e rottura dei tiranti metallici, ad interventi
manomissori impropri, si instaurano sforzi pressoflessionali e di taglio tali da modificare,
profondamente, il gioco strutturale primitivo. Dal momento dell’erezione e per tutta la sua
esistenza qualunque fabbrica -in particolare quelle lagunari, data la cedevolezza dei suoli e
l’aggressività dell’ambiente- vede il proprio corpo modificarsi in continuazione. Ogni
alterazione delle caratteristiche chimiche, fisiche e meccaniche dei materiali, ciascun
assestamento, discontinuità, lesione subita dalle ossature produce una diversa interazione
tra le parti, modifica il rapporto tra le membrature, implica una trasformazione del gioco
statico dell’edificio. Nelle fabbriche dell’estuario veneto acquista allora notevolissima
importanza, ai fini del mantenimento dell’equilibrio complessivo, la compartecipazione
alla primaria funzione statica di elementi considerati abitualmente come accessori, quali i
divisori in legno e intonaco (gli scorzoni), che assumono quasi sempre una funzione sia di
controvento sia di struttura portante verticale, o i pavimenti in battuto (che in unione con i
tavolati di impalcato e con le travi aumentano la rigidità sia in senso orizzontale (come
piastra di trasferimento degli sforzi orizzontali ai controventi), sia in senso verticale
(elasticità sotto carico), diminuendo la freccia elastica dei solai.
Sui solai lignei venivano formati i terrazzi, o battuti alla veneziana. Si tratta di
pavimentazioni di costituzione monolitica e di spessore consistente, che si sono mostrate
così felicemente adatte alle specifiche necessità costruttive degli edifici lagunari da
incarnare la finitura edilizia che, forse più di ogni altra, ha improntato nel corso dei secoli
il volto della casa veneziana e veneta (figura 8).
In effetti, è difficile immaginare un tipo pavimentale che più di questo sia stato capace di
aderire alle necessità del costruire locale. I terrazzi si sono imposti in Laguna e diffusi in
terra veneta grazie ad una specifica caratteristica: la marcata attitudine a sopportare
deformazioni di grado pronunciato, senza subire sconnessioni o fratture evidenti. La loro
derivazione dalle pavimentazioni dell’antichità classica è indubbia. L’affinità tra la tecnica
esecutiva dei battuti veneziani e dei pavimenti descritte nel De archiectura vitruviano è
evidente: medesime le procedure e i materiali impiegati nella costituzione degli strati,
uguale il lavorìo teso a rassodare la materia, identiche perfino le avvertenze poste nella
chiodatura del tavolato, nei solai destinati a sorreggere gli strati pavimentali.
La loro costituzione materiale – piccoli frammenti di laterizio e pietra impastati con sabbia
e calce aerea – e le estenuanti fasi di battitura necessarie alla loro formazione, imprimono
ai terrazzi doti di plasticità e di insensibilità alle variazioni termiche che nessun’altra
pavimentazione possiede (figura 9). Proprietà decisive per un’edilizia sorta sui suoli
cedevoli, destinata immancabilmente a subire forti alterazioni nella complanarità dei solai,
per di più accompagnate da pronunciate flessioni delle travi lignee; qualità che ha
consentito di ricoprire ogni superficie – per quanto vasta – di porteghi, sale, camere e vani,
con crustae rilucenti, omogenee e ininterrotte. In realtà l’elasticità di costituzione e
l’insensibilità alle dilatazioni termiche di tale pavimento è solo apparente: il corpo del
terrazzo non si sottrae alle leggi della materia, ma ne sfrutta al meglio quelle caratteristiche
che gli consentono di assumere un alto grado di adattamento plastico, tale da assecondare
ogni ragionevole deformazione del suolo su cui è adagiato e di assorbire indenne i cicli di
dilatazione termica. Nei battuti entra in gioco la capacità di fessurarsi finemente, di
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separarsi in una miriade di piccoli granuli, liberi a sufficienza di dislocarsi nello strato,
grazie alla scarsa tenacia del legante; capacità impressa, in sostanza, dalle lunghissime fasi
di lavorazione. Nessun altro tipo pavimentale è oggi in grado di riprodurre per intero il
comportamento dei terrazzi. Il legno, o anche il bitume usato nei manti stradali potrebbero
garantire una uguale capacità di adattamento alle deformazioni delle piastre di appoggio,
ma non sarebbero certo in grado di assumere altri compiti che il terrazzo è chiamato a
svolgere. Compiti strutturali, ad esempio: i battuti, grazie al loro consistente spessore e ad
una sufficiente capacità di resistere a compressione, si oppongono, quasi fossero veri e
propri muri orizzontali, alle deformazioni rombiche sul piano, offrendo un contributo
decisivo all’equilibrio d’insieme della fabbrica lagunare.
Il legno, non più presente in maniera totalizzante dopo i secoli XII e XIII, ha tuttavia
conservato un ruolo privilegiato tra i materiali dell’edilizia lagunare; in legno vennero
realizzate le palificate e zattere di fondazione, i solai, molte pareti divisorie interne in
scorzoni, i sistemi di copertura.
I tetti vennero quasi sempre risolti con sistemi strutturali fondati sulla capriata, la tessitura
strutturale che meglio di ogni altra si è dimostrata capace di evitare spinte orizzontali ai
piedritti e di offrire un sicuro concatenamento sommitale al perimetro murario (figura 10).
Solo i tiranti delle capriate, scavalcando i setti intermedi, permisero di assicurare le
contrapposte murature perimetrali; solamente le lunghe catene lignee potevano collegarle
tra loro con efficacia, contrastandone ogni possibile sbandamento o rotazione verso
l’esterno, col vantaggio di risparmiare da un carico ulteriore i muri di spina interni, già
abbondantemente gravati dai solai. L’evoluzione tecnica di tali strutture è molto rapida: nel
XIV secolo appaiono capriate con una conformazione di telaio che verrà ripetuta in tutti i
secoli seguenti, note come capriate composte (figura 11). Si tratta di orditure che, con
qualche rara eccezione a partire dal XVII secolo, possiedono un’organizzazione di telaio
organizzata sulla base di una concezione strutturale diversa da quella allora corrente, ed
oggi dominante. Non si tratta di capriate ‘ad arco’ di tipo isostatico, ma di strutture
triangolari assimilabili a travi reticolari: telai con nodi interni iperstatici, aventi gli
elementi verticali sempre appoggiati alla catena inferiore (definibili propriamente come
colonnelli, non come monaci) e ad essa saldamente connessi mediante braghe (le staffe
metalliche) non ad asola, ma fascianti. In qualche caso, perfino (nei tetti delle grandi
basiliche gotiche degli ordini francescani e domenicani, i Frari e i Ss. Giovanni e Paolo, ad
esempio, o in quello dell’ala palladiana del Convento della Carità), il piede degli elementi
verticali (colonnelli) si incastra con la catena mediante un giunto a tenone e mortasa,
bloccato da cunei in legno o chiodature (figura 12). Quello che alla nostra sensibilità
statica e strutturale appare come un’incongruenza, in realtà può essere probabilmente
giustificato con i vantaggi offerti dai sistemi a nodi iperstatici: un migliore comportamento
in presenza di carichi disassati, e la possibilità di intervento in caso di crisi dovute a
marcescenza dei nodi.
Non solo l’intera edilizia civile, ma anche le fabbriche pubbliche e religiose innalzate nei
secoli XIV e XV, che pure, non fosse altro che per esigenze dimensionali e di
conformazione dei tipi, avrebbero ben potuto scostarsi, quanto a concezione costruttiva,
dalla corrente pratica edilizia, sono concepite sulla base dei criteri in precedenza accennati;
inoltre, nella costante ricerca della massima leggerezza nel costruire, mostrano sempre una
marcata esilità nelle membrature. Molte volte a botte, padiglione o a crociera appaiono
realizzate non in laterizio, ma in legno intonacato, con un’esile intelaiatura capace di
evitare gli altrimenti gravosi carichi e le ancor più pericolose spinte che tali membrature, se
in muratura, avrebbero prodotto (figura 13).
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L’esempio forse più significativo e diffuso di modello organizzativo dell’edilizia abitativa
lagunare è rappresentato dalla casa da stazio, la residenza della nobiltà e della borghesia
mercantile, che si ripete nei secoli sostanzialmente uguale a se stessa, con un portego che
attraversa l’edificio per l’intera lunghezza e che, ai vari piani, collega una, o più
frequentemente due teorie di stanze laterali (figura 14). È proprio la casa da stazio a
subire in età gotica una significativa razionalizzazione, anche per ragioni strutturali e
costruttive; è a partire dal Trecento che inizia l’abbandono della conformazione a T o ad L
del portego, a favore di una forma semplicemente rettangolare, forma che si stabilizzerà
definitivamente solo nella seconda metà del Cinquecento.
Quando le fabbriche cominciarono ad assume altezze maggiori, ed aumentare nel numero
dei piani, la capacità controventante di solai dovette rivelarsi inadeguata. La serie
ininterrotta di aperture presenti sui prospetti delle domus magnae, in mancanza di setti
murari che contrastassero significativamente i possibili sbandamenti sul piano parallelo al
prospetto di colonne o pilastri, assegnava alle porzioni di solaio e di tetto prossime alla
loggia il compito di sopportare sforzi addizionali di irrigidimento, le obbligava ad assorbire
sollecitazioni alla deformazione rombica sul piano orizzontale di non trascurabile entità. La
tendenza ad una progressiva crescita dimensionale delle fabbriche e la moltiplicazione dei
piani indusse al contestuale abbandono del sistema delle finestrature a nastro, segnato da
una accentuata labilità strutturale, a favore di una soluzione che, pur conservando un ampio
loggiato centrale, ne contraeva la polifora, affiancandola con pieni murari di controvento.
L’impotenza di fronte agli assestamenti generalizzati delle fabbriche, l’incapacità di
ottenere quantomeno uniformità di cedimento nelle differenti membrature, hanno dunque
obbligato ad assumere il solo tipo di schema strutturale possibile, in grado di assorbire
senza danni rilevanti gli inevitabili ed accentuati cedimenti differenziati.
Non potendo eliminare le traslazioni relative tra le parti della fabbrica, insomma, fu
giocoforza convivere con esse: a Venezia si impose una concezione edificatoria
assolutamente singolare, che si poneva in plateale contraddizione con uno degli assunti
fondamentali insiti in ogni altra cultura costruttiva - fondata beninteso sulla murazione in
pietra o laterizio - fino allora apparsa: quello della firmitas, della solidità, che assieme alla
commoditas e della venustas della triade rammentata da Vitruvio rappresentavano il
fondamento principe della costruzione.
Un concetto di solidità che, dall’antichità fino ai nostri giorni, ha sempre perseguito la
stabilità dell’intero edificio a partire dalla stabilità del suo masso fondale.
L’affermazione in Laguna di una concezione costruttiva che nella fabbrica perseguiva non
tanto la rigidità, quanto una programmatica deformabilità delle parti, si manifestò
precocemente: le metodiche sconnessioni murarie tra setto e setto, i molteplici legamenti
metallici di unione tra muri e solai, la conformazione a piastra dei solai stessi, appaiono
già applicati senza eccezione nella superstite edilizia civile dei secoli XII e XIII.
La ragione di tanta precocità nella formazione e stabilizzazione delle procedure costruttive,
che non può essere credibilmente attribuita ad un trapianto locale di esperienze altrove
evolute, è forse individuabile nella rapidità estrema con cui le maestranze, proprio perché
operanti in Laguna, hanno potuto valutare la bontà del proprio operato. Non va dimenticato
infatti che le culture edificatorie, fino alla sistematizzazione teorica della scienza delle
costruzioni, hanno sempre proceduto per affinamenti progressivi, fondati sul lento
accumulo di esperienze, empiricamente assunte in base all’osservazione delle
manifestazioni di dissesto o di degrado. Rimedi, dunque, come risposte ai mancamenti
palesati dagli edifici, sempre se visibili, o in qualche modo percepibili. Azioni indotte dalla
constatazione degli effetti, per esperienza diretta, o, più frequentemente, per via mediata,
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attraverso la memoria collettiva dell’arte. In qualunque altra area geografica sarebbe
occorso un lasso di tempo ben maggiore per cogliere l’evoluzione del comportamento di
un manufatto, segnalata da deformazioni sensibili della sua geometria (fuoripiombo o
flessioni delle murature, perdita di complanarità dei solai, ecc.) o dall’apparizione di
lesioni e sistemi fessurativi. Decenni o centinaia d’anni per dedurre improprietà ed errori di
una scelta costruttiva, che a quel punto poteva essere abbandonata, o aggiustata e
modificata nei nuovi manufatti, e che di nuovo richiedeva altrettanto tempo per essere
verificata nella sua efficacia. Ma nel sito lagunare l’assestamento della fabbrica - beninteso
di quella edificata in pietra, legno e laterizio - non poteva che manifestarsi in modo
repentino a causa delle pessime qualità meccaniche dei suoli paludosi; la degenerazione
delle membrature avanzava di pari passo col procedere dell’opera.
Gli artefici della nascita della Venezia muraria, dunque, sono stati in grado di valutare
immediatamente sia la bontà di quanto andavano realizzando sia le correzioni reputate
necessarie. Il pesante svantaggio costituito dalla estrema cedevolezza dei suoli si è
trasformato in beneficio prezioso, creando le condizioni più favorevoli per la rapida messa
a punto di un sistema costruttivo che ha prodotto un complesso di fabbriche di gracilissima
costituzione, ma dotate di una straordinaria capacità di conservazione dell’equilibrio
complessivo.
Una concezione costruttiva di tal genere si radicò nell’area lagunare, ma non senza
contraddizioni.
Tra Quattro e Cinquecento, in parallelo all’affermarsi di un linguaggio architettonico
ispirato al mondo antico, vennero sperimentate nuove tecniche edilizie, in maggioranza
solo ispirate al mondo romano, talvolta direttamente tratte dalle rovine antiche, senza – o
quasi – mediazione, elaborazione, assestamento alcuno. Nelle architetture del rinascimento
e del classicismo appaiono qua e là membrature inconsuete per Venezia: gli architravi
lapidei a conci, ad esempio (figura 15), o le piattabande, lapidee o laterizie (figura16), che
tuttavia non riescono ad affermarsi pienamente, a imporsi come modello costruttivo,
rimanendo di fatto escluse dal bagaglio di procedure tecniche familiari agli artieri, ai proti,
agli architetti locali.
L’adeguarsi, il piegarsi del classicismo architettonico alle esigenze del costruire lagunare
non avvenne pianamente. In particolare la generazione degli architetti provenienti da
Roma a seguito del Sacco tentò, sperimentò altre vie nell'edificare, con l’intento di far
collimare nuovo linguaggio e strutture, incorrendo talvolta in clamorosi inconvenienti. È
nota la vicenda del parziale crollo della volta in muratura della Libreria Marciana,
avvenuta nella notte del 18 dicembre 1545 e della sua forzata ricostruzione in legno.
Jacopo Sansovino, il progettista dell’edificio, era sicuramente un abile tecnico, capace di
virtuosismi statici; ma per un architetto formato a Roma, in continuo e assiduo contato con
le rovine dell’antichità doveva risultare arduo concepire una struttura voltata che non fosse
in muratura, inaccettabile e falsa una riproduzione in legno e intonaco delle sole forme, e
non della sostanza laterizia, di una volta a botte, com’era prudentemente in uso a Venezia.
Nata e sperimentata negli estuari veneti, la cultura costruttiva lagunare ha prodotto un
insieme circoscritto di fabbriche, ricadente in un’area geografica quanto mai ristretta.
Ma gli artifici, gli espedienti, le usanze in fatto di metodo e procedura presenti nell’edilizia
cittadina col trascorrere dei secoli si sono espansi ben oltre la conterminazione lagunare,
superando la costrizione e il limite degli acquitrini dell’estuario. I segni, dissimulati o
manifesti, delle consuetudini edificatorie veneziane si rinvengono sparsi in vaste regioni,
coincidenti quasi con l’estensione del passato dominio territoriale della Repubblica.
Venezia è stata per lungo tempo un fascinoso polo di attrazione, un luogo capace di fornire
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un modello vincente, anche nel campo edilizio, per i territori circostanti. La fortuna e
l’esportazione dei suoi idiomatismi architettonici è stata accompagnata dalla contestuale
riproduzione dei procedimenti costruttivi vigenti in città: la maniera di tessitura dei solai, il
modo di composizione dei telai di copertura, il metodo di formazione dei suoli pavimentali
e dei rivestimenti parietali, la superflua -oltre il sito palustre- tecnologia delle volte leggere
in legno e intonaco, il sistematico scollegamento murario perfino, indispensabile in laguna,
controproducente e dannoso se applicato in condizioni di terreno non cedevole. Dalla
metropoli commerciale, insomma, le inclinazioni, le preferenze di gusto in fatto abitativo si
sono riversate nella terraferma e nelle stazioni d’oltremare, talora prima della loro stessa
conquista, talvolta in luoghi rimasti sempre liberi da ogni forma di protettorato politico e
militare della Serenissima, trascinando con sé per inerzia anche i relativi codici costruttivi,
riproposti senza mediazione alcuna nei luoghi d’innesto, declinati con le abitudini
edificatorie locali o stemperati fino al limite della riconoscibilità.
Quali sono oggi i problemi che una città come Venezia pone, per la conservazione di un
patrimonio edilizio così singolare, ma anche per la sua necessaria trasformazione e
adattamento alle necessità del vivere contemporaneo?
Apparentemente l’edilizia lagunare appare ben protetta, per la presenza di strumenti
pianificatori particolareggiati e di una ‘Legge Speciale’, in vigore dal 1973, contemplante
una nutrita serie di norme che vietano, tra l’altro, lo svuotamento degli edifici, la
demolizione delle strutture murarie portanti interne, che impediscono lo spostamento delle
scale o le variazioni di quota di solai e tetti.
La situazione, però, non è certo felice. Se è convinzione oramai consolidata che l’azione
sul patrimonio architettonico debba sempre più tendere alla conservazione delle fabbriche
nel loro assetto storicamente determinato, alla salvaguardia delle stratificazioni, al
mantenimento di tutte le parti che le compongono, l’atteggiamento che punta al rispetto
dell’esistente, di tutti i molteplici elementi che concorrono a formare il corpo della
fabbrica, soffre di gracilità interna. Attecchito appena, applicato solo in parte negli
interventi che toccano le emergenze monumentali, deve farsi spazio a fatica tra l’inerzia di
categorie professionali nel complesso culturalmente inadeguate e ancora indifferenti, se
non ostili, alle istanze di conservazione e corre il rischio di venire in ogni momento
sopraffatto dai meccanismi della rendita, dalla forza travolgente di un mercato immobiliare
che vede nel recupero del costruito solo un’occasione per trarre ottimi profitti. L’edilizia
abitativa in particolare, sottoposta a controlli di fatto solo formali, a procedure di
approvazione tanto defatiganti e vessatorie quanto inutili ed incapaci di governare le
trasformazioni in atto, è abbandonata alle manomissioni più indebite e devastanti. Troppo
spesso vengono intraprese, nell’indifferenza quasi generale, operazioni scorrette di
consolidamento statico, interventi sopradimensionati di modifica delle strutture, di
sostituzione totale – quasi sempre inutile – degli elementi di finitura edilizia, che
comportano radicali modificazioni del corpo delle fabbriche: una perdita progressiva,
irreparabile, dei caratteri distintivi delle architetture cittadine.
Nuove strade si dovranno dunque percorrere, altri strumenti dovranno essere posti in essere
per perseguire una protezione efficace dell’edilizia storica, che richiedono un mutamento
radicale della cultura urbanistica e del restauro.
Non ci si può illudere di poter tutelare un organismo urbano con normative, come quelle
attuali, tese al mantenimento delle tipologie edilizie. La ‘Variante di Piano del Centro
Storico’ in vigore, ha trasformato l’analisi tipologica delle fabbriche in uno strumento
normativo. Un’indagine di per sé utile e produttiva se impiegata a fini conoscitivi (ma
purtroppo condotta per lo più su mappe catastali assolutamente schematiche e spesso non
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veritiere) è stata trasformata in una camicia di forza nella quale costringere la realtà del
costruito. Il Piano della città è diventato come il letto di Procuste: ai viandanti (leggi
edifici) troppo alti venivano tagliate le estremità, per adattarli alla lunghezza del letto di
pietra, a quelli di bassa statura si dava un tratto di corda, per allungarli alle dimensioni
volute.
Anche i regolamenti edilizi vigenti e le norme della ‘Legge Speciale’, che impongono –
non senza ingenuità – l’uso di ‘materiali tradizionali’ negli interventi di restauro, al
massimo, dettano solo alcune condizioni da assumere nei rifacimenti. Con tali mezzi si può
forse garantire la permanenza delle sole sembianze – oltretutto fortemente depauperate –
dei manufatti architettonici, non certo perseguirne una reale conservazione.
La questione dovrebbe essere affrontata da un altro punto di vista: in fatto di materiali e
tecniche da impiegarsi nel restauro dell’edilizia veneziana (e non solo) non è tanto
questione di tradizione o novità, quanto di compatibilità ed efficacia.
Dell’intero bagaglio tecnico a nostra disposizione nulla deve essere rifiutato in via
pregiudiziale. I materiali, le procedure, i sistemi d’intervento da privilegiare sono quelli
che, minimizzando i danni prodotti all’edificio, permettono di risolvere gli obiettivi di
protezione, di consolidamento, di adeguamento o adattamento all’uso che ci si prefigge. La
ricerca della massima compatibilità possibile tra ciò che si applica e l’esistente – in termini
fisici e chimici (oltre che di carattere visivo, formale) – è fondamentale per attenuare ogni
forma di coazione dannosa, per evitare ogni degrado e dissesto che lo stesso intervento di
restauro può indurre.
L’idea che vi sia una differenza qualitativa tra opere di conservazione e opere di
trasformazione è ancora molto radicata in tutti noi, ma la differenza, a ben vedere, è solo
quantitativa. Qualunque azione, per quanto minuta e di semplice manutenzione, infatti,
altera le parti che investe, qualsiasi consolidamento trasforma, modifica, porta alla
scomparsa di una frazione più o meno estesa dell'edificio, ogni restauro produce comunque
una manomissione, un guasto o un danno ai materiali e alle strutture di beni per loro natura
non riproducibili. Affermo questo non certo per offrire un argomento a sostegno e
giustificazione di chi vuole aver mano libera nel trasformare in ogni modo gli edifici,
quanto perché solo cogliendo il danno intrinseco prodotto dall’intervento di restauro
(danno inevitabile, finalizzato a prolungare la vita e consentire l’uso del manufatto) appare
chiaro come le opere vadano programmate e condotte in base alle effettive necessità in
essere. Ogni attenzione dovrebbe essere dedicata alla ricerca di quei materiali, alla messa a
punto di quelle procedure, all’invenzione di quelle metodologie operative capaci di
aumentare l’efficacia degli interventi e al tempo stesso di minimizzare i danni che il
restauro inevitabilmente trascina con sé; ogni sforzo dovrebbe essere teso a calibrare le
opere all’effettiva entità dei problemi in essere. Discernere tra lavori necessari e superflui,
separare l’opera indispensabile da quella inutilmente aggressiva, ripulire l’intervento da
ogni ridondanza e sovradimensionamento è impresa per nulla scontata, che non può che
fondarsi sulla approfondita conoscenza dei materiali, delle tecniche, degli schemi e modelli
strutturali, degli accorgimenti ed espedienti adottati nell’edificazione e nelle trasformazioni
vissute dalle architetture.
Da molti decenni, oramai, il settore delle costruzioni si sta adeguando, sia pure con un
certo ritardo, alla generale tendenza della produzione di tipo industriale, che sforna
manufatti con una vita media sempre più ridotta. Nell’edilizia oggi prevalgono materiali e
tecniche dal costo relativamente basso, ma anche di limitata, talvolta di limitatissima
durata, spesso altamente incompatibili con le strutture e i materiali dell’edilizia storica. Per
collegarci ad un argomento toccato in precedenza, il costo per la formazione di un
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pavimento in piastrelle di ceramica è tre–quattro volte inferiore a quello di un terrazzo di
calce, ma, se realizzato su solai lignei in continua deformazione elastoplastica e poggianti
su setti murari che subiscono movimenti relativi di entità significativa, anche dopo secoli e
secoli di vita, come avviene di norma nell’edilizia lagunare, possiede anche una durata di
decine di volte inferiore. Il fatto è che in una fabbrica tradizionale in legno, pietra e
laterizio prodotta dalla cultura costruttiva veneziana (e non solo, naturalmente) le
cosiddette finiture edilizie erano concepite per vivere il più a lungo possibile: l’intonaco o
il pavimento, insomma, venivano realizzati per durare, almeno tendenzialmente, quanto il
muro di supporto o il solaio di sostegno. La ragione di tale differenza non va ricercata tanto
nell’uso di materiali di migliore o peggiore qualità, quanto nel diverso modo produttivo; la
bontà e capacità di durata delle parti di una fabbrica antica è in genere direttamente
proporzionale alla quantità di lavoro immesso nell’opera, lavoro che oggi si tende a ridurre
drasticamente, a scapito della durata di quanto si va realizzando.
Se è vero che qualsiasi intervento sull’esistente porta all’alterazione, modifica, scomparsa
di parti di una categoria non riproducibile di beni, uno degli obiettivi fondamentali da
assumere a guida negli interventi sul costruito sarà anche quello della dilatazione della
cadenza nelle operazioni di restauro. Diradare gli interventi, allontanandoli temporalmente
l’uno dall’altro, mediante il ricorso a materiali e tecniche di provata durabilità, di sicura
compatibilità e di ridotta intrusività significa ridurre il danno da restauro e contenere i
costi.
Il miglioramento della qualità degli interventi sul patrimonio costruito potrebbe essere
perseguito utilizzando la leva dei fondi che la Legge Speciale destina a contributi per i
restauri dell’edilizia abitativa. Dopo una prima tornata di contributi distribuiti a pioggia,
senza criteri apparenti, fin dalla metà degli anni ’80 del Novecento l’Amministrazione
comunale ha voluto – lodevolmente – privilegiare le opere tese al recupero delle parti
comuni degli edifici: tetti, intonaci esterni, scale, consolidamenti murari, tutte parti spesso
trascurate dai proprietari e in grave stato manutentivo. A tutt’oggi, peraltro, non è stato
messo in atto alcun incentivo teso ad innalzare la qualità degli interventi. Altri criteri
andrebbero introdotti nella formazione delle graduatorie di attribuzione dei finanziamenti,
per ragioni al tempo stesso di conservazione e di economia. I meccanismi amministrativi
che definiscono i restauri ammessi al contributo dovrebbero comprendere anche parametri
capaci di premiare la conservazione degli elementi della fabbrica, di scoraggiare le
sostituzioni indebite, i rinnovi inutili e di rapido decadimento.
Solo in tale maniera, a mio parere, si potrà evitare che il risanamento dell’edilizia abitativa
veneziana diventi un baratro incolmabile e che in futuro la collettività venga chiamata a
contribuire finanziariamente alla ripetizione sempre più ravvicinata delle stesse operazioni
di risanamento, col non trascurabile vantaggio di limitare le manomissioni dell’esistente e
di migliorare sensibilmente la durata, la qualità media e le valenze conservative delle
operazioni di restauro, condotte su una città e un gruppo di centri urbani lagunari di rara
importanza e qualità.
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Illustrazioni
Figura 1:
Un insediamento lagunare composto esclusivamente da fabbriche lignee.
XVI secolo (Biblioteca Nazionale Marciana, Cod. Lat. XIV, n° 77).
Figura 2:
Elementi in ceramica troncoconici utilizzati nel passato per la formazione
dei condotti verticali di scarico delle acque piovane.
Figura 3:
Venezia, Ca’ d’Oro. La semicolonna e il capitello lapideo, cavi, assieme al
blocco scolpito superiore, anch’esso cavo, contengono il condotto verticale
dell’acqua piovana. Prima metà del XV secolo.
Figura 4:
Rappresentazione schematica di una cisterna veneziana.
Figura 5:
Rappresentazione di una fondazione a palificata (disegno Mario Piana).
Figura 6:
Rappresentazione del sistema di collegamento tra piedritto murario e solaio
ottenuto con catene metalliche (disegno Mario Piana).
Figura 7:
Venezia, ex convento di San Giovanni Laterano. Rilievo di un solaio; sono
visibili le numerose catene metalliche che vincolano il solaio alle murature.
XVII secolo. (disegno Mario Piana).
Figura 8:
Un tratto di un terrazzo a semina marmorea. XVIII secolo.
Figura 9:
Sezione di un terrazzo; lo spessore del frammento è di circa 14 centimetri.
Tardo XV secolo.
Figura 10:
Rilievo del nodo costruttivo tra la sommità muraria e l’orditura del tetto di
una fabbrica lagunare. Prima metà del XVI secolo (disegno Mario Piana).
Figura 11:
Venezia, Palazzo Ducale. Rilievo di una delle capriate soprastanti la Sala del
Maggior Consiglio. Post 1577 (disegno Mario Piana).
Figura 12:
Venezia, basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Dettaglio di una
capriata; nella zona inferiore è visibile il nodo a tenone e mortasa che unisce
il monaco e la catena. Prima metà del XV secolo (disegno Mario Piana).
Figura 13:
Venezia, chiesa di San Giovanni Elemosinario. Rilievo della cupola leggera
in legno e intonaco. Prima metà del XVI secolo (disegno Mario Piana).
Figura 14:
Venezia, Palazzo Loredan. Pianta del piano nobile dell’edificio. XIII secolo.
Figura 15:
Venezia, Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa. Rilievo di un tratto di
loggia con un architrave separato in tre conci. 1560 circa (disegno Mario
Piana).
Figura 16:
Venezia, Convento della Carità. Un tratto di piattabanda laterizia che
costituisce il corpo dell’architrave dorico del peristilio di Andrea Palladio.
1561-62 circa (disegno Mario Piana).
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