UOMO L’ESPRESSO Professione Antropologo IN VIAGGIO A CACCIA DI TRIBU Percorrono tutte le rotte del pianeta. Dalle foreste alle periferie. Dai villaggi alle metropoli. Si muovono tra riti antichissimi e modernità estrema. Sono gli esploratori del presente DI SABINA MINARDI vete intenzione di ritornare? Il vecchio Tanika, accovacciato all’ingresso della sua capanna nel nord del Benin, fissa curioso l’uomo bianco. Chi è costui? Un occidentale che non scatta foto. Non dà mance. Non fa cose utili. Ai suoi occhi la spiegazione è una sola: la minaccia di un nuovo colonialismo. Claude Lévi-Strauss sta per entrare nel suo centesimo anno di vita. Eppure gli stessi addetti ai lavori lo riconoscono: difficile dire chi sia un antropologo. «Individuo tra gli individui», secondo Marc Augé nel libro “Il mestiere dell’antropologo” (Bollati Boringhieri). «Un ladro di culture», per Alberto Salza. «Sarà poi davvero un mestiere?», si domanda Marco Aime. Ma se A 12 la definizione è difficile, lo statuto problematico, la qualifica di scienza discussa, certo è che l’antropologia non è mai stata in voga come oggi. E lo studio dell’uomo evocato nelle riflessioni sul corpo e sull’ambiente, sul turismo e la religione, dai diritti umani alla moda. Lo scenario globale di migrazioni e meticciati fa il resto: scalza la sociologia da chiave di lettura dei fenomeni più attuali. E candida l’antropologia a diventare la bussola più efficace della contemporaneità. Costringendo gli esploratori del presente a fare i pendolari: tra le foreste, in mezzo agli ultimi primitivi, e i bordi delle città, alla scoperta degli ultimi diversi. «È vero, sta diventando un mestiere di moda, quando ho iniziato a insegnare avevo 15 studenti, oggi 300», dice Marco Aime, docente di Antropologia culturale all’Università di Genova, da anni frequentatore del Benin, in Africa: fu lì che il vecchio Tanika lo scambiò per un colonialista. «L’antropologo non ricerca più il buon selvaggio, ma è interessato a cogliere come gli elementi più diversi penetrano nelle culture e vengono rimodellati. Oggi la realtà globale fa i conti con l’occidentalizzazione. Ho visto cammellieri a Timbuctù scaricare montagne di sale e correre in un Internet café a controllare la posta. Rituali vodoo praticati con bevande simili alla gassosa. Famiglie africane riunite intorno alla tv impazzire per l’Ispettore Derrick». “La scienza del rimorso” di Lévi-Strauss, L’espresso Foto: Eyedea - Contrasto (3), J. Bauer - G. Neri Marco Aime Un pastore Samburu, in Kenya. Sotto: una danza tradizionale Samburu. Al centro: giovani donne della stessa tribù. In basso: Claude Lévi-Strauss, padre dell’antropologia, alle soglie dei 100 anni cantiere aperto in una società dove l’incontro con la diversità è continuo, offre gli strumenti di comprensione. A patto di riuscire a stabilire una comunicazione: «Entrare a far parte di una comunità è difficilissimo. Fondamentale è l’appoggio locale: costruiamo le nostre ricerche sulle spalle degli altri, ricercatori, traduttori. È un lavoro fatto anche di molti tentativi a vuoto. Perché le società non sono né meccaniche né razionali. Ma hanno un grado di imprecisione, di tolleranza e di trasgressione alle regole, che creano uno sfasamento tra ciò che la gente dice di fare e quello che effettivamente fa». Aime sta lavorando a una ricerca in Mali sulle associazioni di età: gruppi di individui nati negli stessi anni che si riuniscono in azioni di solidarietà. «In una società gerarchica questo reclutamento, fatto di rituali scherzosi, attenua le tensioni». David Bellatalla «La nostra società può trarre esemplari insegnamenti dai nomadi», dice David Bellatalla, docente di Antropologia culturale alla University of Western Australia a Perth. Partito nel 1992 per realizzare il sogno di un viaggio in Mongolia, da Venezia 1 novembre 2007 a Ulan Bator sulle antiche rotte commerciali, è un grande esperto del paese. «È una società fluida, capace di cogliere la ricchezza della diversità. I nomadi si accolgono, si mescolano, sapendo che si separeranno di nuovo. In un campo, la famiglia del leader si identifica dalla posizione della tenda. I nuovi arrivati si posizionano in base al ruolo dell’antenato comune. Ci sono genealogie remote che resistono in questo modo. Nel 1996 sono arrivato tra gli uomini-ren- na delle montagne della Taiga, ai confini con la Repubblica di Tuva: un gruppo di 186 persone chiamato tsaatan. C’era un’epidemia di brucellosi. Ho allertato gli organismi internazionali. Dopo un anno, nessuno aveva mosso un dito. E la popolazione era allo stremo: la brucellosi si era estesa alle persone. Così è nato il progetto Sos Taiganà. Oggi quel gruppo conta 300 individui». La più grande lezione? «L’ho avuta da un anziano che mi raccontava 13 In senso orario: tende mongole a Bayan-Olgii; tiro con l’arco a Naadam, in Mongolia; una donna nella Valle dell’Orco. In basso: Marino Niola dei suoi antenati, fino a dieci generazioni prima. Ricordava persino i nomi dei cavalli. A un certo punto mi mi ha chiesto dei miei antenati. “Ho una nonna”, gli ho risposto. Allora lui ha ripetuto la domanda. Io ho chiesto di spiegargli che mi era impossibile dirgli di più. “Come pretendi di sapere dove andare se non sai da dove vieni?”, mi ha detto il mongolo. Ho chiuso la Moleskine. E non ho più preso appunti». Foto: Eyedea - Contrasto (3), G. La Malfa - Team / G. Neri Duccio Canestrini In Duccio Canestrini la passione per l’antropologia era scritta nei geni: discendente da un Giovanni Canestrini che nel 1859 tradusse “L’origine delle specie” di Darwin. Ma l’episodio che gli ha svelato la strada è ancora impresso nella mente: «Erano i primi anni Ottanta, mi trovavo a Canaima, in Venezuela. Conversavo con un indio, che mi raccontava di creature soprannaturali. A certo punto arrivò un gruppo di turisti. Il ragazzo entrò nella capanna, si tolse i jeans, indossò un perizoma e si mise in posa con un arco in mano. Tutti scattarono foto, gli diedero delle monete, risalirono sul pullman e se ne andarono. Io assistevo allibito: era una messa in scena di antropologia pura. In quel momento pensai che la vera tribù da studiare era la mia». Nasce così l’interesse di Canestrini per l’homo turisticus: con la mobilità eletta al fatto antropologicamente più interessante della contemporaneità. Poi i progetti a favore delle popolazioni colpite dallo tsunami. Viaggi in Afganistan. E l’attenzione per la maschilità: microritualità contemporanea, dai riti dei masai agli addii al celibato. «Essere messi alla prova è una sensazione bellissima». Esempi estremi? «Ritrovarmi nel golL’espresso 1 novembre 2007 Professione Antropologo L’ESPRESSO UOMO La lezione di Gengis Khan? Trasparenza tra ciò che si dice e ciò che si pensa Gli altri siamo noi DI MARINO NIOLA* I generali vanno a scuola dall’antropologo. La scienza dell’uomo è l’ultima arma dell’esercito americano nella lotta al terrorismo in Afghanistan e in Iraq. Più comprensione degli usi e costumi locali, meno azioni di guerra. È questa la filosofia ispiratrice della nuova strategia della conoscenza che sta già dando i primi risultati. Una diminuzione degli scontri del 60 per cento, dicono al Pentagono. In realtà entrare nella cultura dell’altro, nemico o amico che sia, imparare a mettersi dal suo punto di vista è il più antico antidoto contro il conflitto. Ed è la ragion d’essere dell’antropologia. Che nasce come indagine sulle culture diverse dalla nostra. Su ciò che ci rende eguali in quanto umani e tuttavia diversi in quanto appartenenti a questa o quella cultura. Tutti parenti e tutti differenti. Primitivi e civilizzati. La scienza dell’uomo è figlia primogenita delle esplorazioni geografiche e del colonialismo. Non a caso sono l’Inghilterra, la Francia, l’Olanda i maggiori protagonisti della prima grande stagione dell’antropologia iniziata nell’800. Mentre le potenze coloniali studiano gli altri nei loro domini lontani, paesi come gli Usa e l’Italia la differenza ce l’hanno in casa. Se i mohicani, i sioux, gli apache fanno grande l’antropologia americana, sono le culture popolari, contadine e urbane, l’oggetto di quella italiana. In realtà l’antropologia ha due anime. Da una parte scienza al servizio delle politiche sociali. Dall’altra coscienza critica dell’Occidente, dei vizi e della sua pretesa superiorità. Ora come allora, a fare l’antropologia non è l’oggetto, ma un certo modo di vedere, una sensibilità alla differenza che consente di scoprire negli altri ciò che è più difficile vedere in noi. Uno sguardo da lontano, l’ha definita Claude Lévi-Strauss. Oggi lo scenario è mutato e l’antropologia ne riflette le trasformazioni. I selvaggi sono scomparsi. Eppure le differenze continuano a prodursi, ma all’interno del nostro mondo. Niente più paradisi esotici o inferni tropicali. Oggi gli altri sono fra noi. Abitiamo un pianeta affollato e comunicante, mobile e flessibile. Apparentemente diventiamo tutti uguali. Ma sul piano dei consumi. Perché ogni società interpreta l’occidentalizzazione a suo modo. Così nascono nuove culture ibride, inediti arcipelaghi glocal. Usi e costumi del cittadino globale, miti e riti della postmodernità. Un mondo da scoprire. Il nuovo terreno per gli esploratori del presente. *docente di Antropologia culturale all’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli, esperto di miti e immaginari metropolitani UOMO L’ESPRESSO Professione Antropologo ANCHE IL CANNIBALE HA UNA CULTURA COLLOQUIO CON MARSHALL SAHLINS DI MARINO NIOLA L’antropologia è analisi delle diversità. L’occidentalizzazione del mondo farà svanire l’oggetto stesso della sua indagine? «Trent’anni fa i miei professori dicevano che, venendo meno le differenze tra le culture, manca l’oggetto dell’antropologia. I loro professori lo dicevano a loro volta e fra trent’anni si dirà ancora». Un lamento di corporazione. «In parte. Non si comprende che la trasformazione ha continuità. Le culture cambiano, ma ciascuna in una logica propria». Ogni società ha un suo cammino verso l’occidentalizzazione? «Certo. Pensiamo al Giappone, ma anche a piccole società oceaniche. Paradossalmente la tradizione è proprio un modo per cambiare, per adattarsi. L’innovazione ha una sorta di stabilità: è storica e strutturale». Qual è, allora, il compito dell’antropologia oggi? «Studiare le forme tradizionali in rapporto alle trasformazioni». Lei considera l’antropologia una scienza o un’interpretazione? Mi piazzai alle spalle: il risultato fu una polifonia di narrazioni». Anche questo è un antropologo: «Uno che sceglie dove posizionarsi». Alberto Salza delli di carne da ogni osso. Si dipinge con l’urukum, che dà un rosso vivo. I parenti si graffiano fino a bagnare le ossa del loro stesso sangue. Nel teschio vengono poi collocate piume di arara, che richiamano la condizione del bambino ma anche il pappagallo che si ritiene fondatore della loro cultura. Così la morte viene reinserita in un ciclo che si ricollega alle origini. Il rito dura tre notti e quattro giorni. Durante i quali una persona canta al suono delle maracas. Traendo energia dai borori morti di tutti i tempi». La sfida è ora quella di applicare le tecnologie digitali allo studio dell’uomo. «Sempre più spesso le popolazioni tribali filmano se stesse. Affidargli la telecamera aiuta a penetrare nella loro mentalità. Sette anni fa filmavo un rito. Notai che c’erano degli xavante che facevano lo stesso. Soli su un’isola dove tutti sono ubriachi. O in Micronesia. Da un oracolo inquietante come la Pitia fo di Darien, a Panama, su un isolotto in cui tutti, vecchi e bambini compresi, erano ubriachi. Per giorni avevano bevuto una bevanda ottenuta dal mais fermentato che le vecchie sputavano in un pentolone». Massimo Canevacci «Contro le previsioni di Lévi-Strauss nei suoi “Tristi tropici”, i bororo non sono scomparsi». Massimo Canevacci è docente di Antropologia culturale alla facoltà di Scienze della Sapienza di Roma. Lavora con le popolazioni indigene del Mato Grosso, xavante e guaranì. Il suo ultimo libro “La linea di polvere” (Meltemi) è dedicato a un complesso rituale: il funerale bororo. «Quando una persona muore il cadavere è ricoperto da polvere e foglie. E innaffiato continuamente. Dopo 20 giorni viene esumato. Si pulisce il cranio, si tolgono i bran16 Insegnava all’università, Alberto Salza, a Torino. Ma non ha resistito. E ha cominciato a camminare: chilometri e chilometri in Africa, mescolandosi tra i locali. Tra i boscimani del Botswana ha simulato la vita degli antenati: «Mangiavamo bacche. Carni secche. Erbe. Percorrevamo ogni giorno almeno 20 chilometri a piedi. Alla fine eravamo in ottima salute, e avevamo sviluppato difese altissime. Quell’esperimento dimostrò che in condizioni di vita miserabili non c’è spazio solo per la sopravvivenza, ma anche un ricchissimo tempo sociale». Da 30 anni frequenta la regione del lago Turkana. «Sto lavorando alla pacificazione tra i Samburu del Kenya, tribù antichissima dove si consuma una violenza che ricorda il Rwanda. Situazioni di pericolo? «Solo una volta, era il Natale del 1971, mi trovavo in una zona dell’attuale Benin con mia moglie e amici. Avevamo comprato due gemelli di legno, piccole sculture che avevamo lasciato in macchina. E ci eravamo uniti ai festeggiamenti dei locali. A un certo punto li vediamo imbracciare bastoni e minacciarci, indicando i due gemelli abbandonati, che nella loro tradizione sono antenati da trattare con cura. Sospettavano che li avessimo rubati. Ho sussurrato a mia moglie di fingersi incinta. Così la situazione è cambiata». Salza studia oggi la miseria estrema negli slum delle megalopoli. «Dove l’incertezza è assoluta e la sopravvivenza istantanea. La miseria provoca una speciazione, una derubricazione a un’altra condizione esistenziale. Col tempo porterà anche mutamenti genetici». n «Non una scienza come quelle naturali. In antropologia la relazione ha luogo tra un soggetto e un altro soggetto. Per Lévi-Strauss si va da oggetti singolari verso significati familiari. Esempio: il cannibalismo delle Figi dall’esterno è repellente. Ma se considero che i capi figiani offrono vittime da mangiare a quelli che hanno dato loro donne da sposare, vedo una logica di scambio. Il caso aberrante è ricondotto in un sistema coerente. Si giunge a una comprensione altrimenti impossibile». E si comprende l’altro? «No, perché più conosciamo l’oggetto e più esso si allontana. È la differenza tra le scienze in senso proprio e l’antropologia». A destra: lavoratori del ferro negli slum di Nairobi. Al centro: l’antropologo Duccio Canestrini. Sopra: Marshall Sahlins della Chicago University Foto: B. Cannarsa - G. Neri (2), L. Savino - Contrasto Gli oggetti non sono cose ma rappresentazioni, i cui significati variano da un paese all’altro. A lungo le scienze sociali sono state vittime di un miraggio, che faceva intravedere nello sviluppo del capitalismo, cioè della nostra storia, la fine delle altre culture. Questa mistica del capitalismo globale ha visto l’antropologia assumere il ruolo di buona coscienza lamentosa: ha elaborato un lutto sulla morte delle culture, sulla scomparsa delle differenze, sulla omologazione prodotta dall’Occidente. È la tesi di Marshall Sahlins, professore alla Chicago University, autore di “L’economia dell’età della pietra” (Bompiani), “Cultura e utilità”, (Bompiani), “Isole di storia”, (Einaudi): il più noto antropologo vivente dopo Lévi-Strauss. È come se «l’Occidente avendo materialmente invaso le vite degli altri volesse ora negare loro l’integrità culturale. Riducendo gli altri a noi e noi allo sviluppo: cioè al mercato».